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Innamoriamoci della Sacra Scrittura! Essa ha per Autore Dio che, con la potenza dello Spirito Santo solo, è resa comprensibile (cf. Dei Verbum 12) attraverso coloro che Dio ha chiamato nella Chiesa Cattolica, nella Comunione dei Santi. Predisponi tutto perché lo Spirito scenda (invoca il Veni, Creator Spiritus!) in te e con la sua forza, tolga il velo dai tuoi occhi e dal tuo cuore affinché tu possa, con umiltà, ascoltare e vedere il Signore (Salmo 119,18 e 2 Corinzi 3,12-16). È lo Spirito che dà vita, mentre la lettera da sola, e da soli interpretata, uccide! Questo forum è CONSACRATO ALLO SPIRITO SANTO e sottolineamo che questo spazio non pretende essere la Voce della Chiesa, ma che a Lei si affida, tutto il materiale ivi contenuto è da noi minuziosamente studiato perchè rientri integralmente nell'insegnamento della nostra Santa Madre Chiesa pertanto, se si dovessero riscontrare testi, libri o citazioni, non in sintonia con la Dottrina della Chiesa, fateci una segnalazione e provvederemo alle eventuali correzioni o chiarimenti!
 
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IL MIO CUORE CERCA IL TUO VOLTO

Ultimo Aggiornamento: 13/10/2009 08:30
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13/10/2009 08:30

La Preghiera Teologale


Incontrare Dio o trovare se stesso?

Qualche anno fa ho cercato di parlarti della preghiera del cuore. Era soltanto un’introduzione ad un soggetto vastissimo, troppo vasto forse, perché è molto semplice e noi abbiamo sempre difficoltà ad identificare e a formulare le cose semplici. Oggi vorrei parlarti della preghiera teologale, che in realtà è un altro modo d’avvicinare la preghiera del cuore.

Che significa questa formula: preghiera teologale? Essa vuole evocare un orientamento del cuore che si appoggia sulle tre virtù teologali: la fede, la speranza e l’amore. Suppongo che ciò rappresenti per te qualcosa di abbastanza preciso: sono, in sintesi, le capacità che Dio ci dona, per grazia, di poterlo raggiungere, Lui direttamente. Mentre le altre virtù, le virtù morali, riguardano i mezzi che ci aiutano a camminare verso Dio.

Ritroviamo qui un orientamento essenziale della preghiera del cuore. Essa mira direttamente al cuore di Dio. E’ il mio cuore profondo che è alla ricerca di un incontro diretto con Dio. Non soltanto un incontro affettivo, sotto forma di una specie di esperienza della tenerezza divina che si fa percepire ai miei più profondi e segreti bisogni di gustare ad un livello umano la bontà di Dio. Non tanto questo, ma una possibilità che mi è offerta dal Padre: è Lui che viene a me e, al di là di tutti i mezzi o degli intermediari, vi è incontro perché Egli lo vuole e me ne dona la possibilità.

Ma a questo punto mi chiedo se non avrai voglia di interrompermi subito ponendomi la domanda: «Perché insistere tanto su quel che sembra un’evidenza? Pregare è cercar Dio, è tendere all’incontro più immediato possibile tra Lui e me nell’amore».

Mi pare, appunto, che troppo spesso, anziché pregare in questo modo, sprechiamo il nostro tempo e le nostre energie in attività alle quali, forse, restano soltanto le apparenze della preghiera.

Non è più Dio, ma è l’io di ognuno che diviene il centro d’interesse del suo agire. Ne facciamo tutti l’esperienza, ma forse senza trarne sempre le conseguenze che ciò dovrebbe comportare. Permettimi, a titolo illustrativo, di raccontarti una storia vissuta.

Nell’evoluzione della mia preghiera mi è capitata un’avventura. So che parecchi altri hanno fatto un’esperienza analoga, ma penso che sia utile dirne qualcosa talmente essa mi ha colpito ed ha orientato poi tutto il seguito della mia esistenza.

Ero allora adolescente; un giorno, apparentemente per caso, mi capita in mano un volume delle opere di Teresa d’Avila e, senza pensarci, mi metto a leggerlo. Non so quanto tempo durò la lettura, ma sono certo che in seguito, per anni, non ho più letto una pagina della grande santa Teresa. Ma questa lettura ha trasformato la mia esistenza. Essa aveva in qualche modo fatto zampillare istantaneamente una sorgente nel fondo del mio cuore, una sorgente di cui avrei avuto difficoltà a descrivere il contenuto. Ma della quale sapevo tuttavia che stabiliva tra il mio cuore e Dio un legame infinitamente profondo e vero.

Questa sorgente era sufficientemente abbondante per invadere tutta la mia vita ed è essa che mi ha condotto nella mia cella di certosino dove poi rispondeva a tutti i miei bisogni, sia quelli della solitudine che quelli della liturgia. Potevo, senza nemmeno pormi domande, sempre ritornare alla mia sorgente senza mai esserne deluso.

Tuttavia un giorno si profilò, poi s’affermò un dubbio. Questa sorgente: cosa mi dava? Rispondeva davvero al desiderio ultimo del mio cuore? In altre parole, era Dio che incontravo in essa? Oppure - e qui la domanda mi faceva soffrire - in fin dei conti non era me stesso che trovavo, anche se attraverso ciò mi giungeva il riflesso di Dio che mi seduceva da anni? La cosa divenne sempre più chiara: questa sorgente non era Dio mentre era di Lui solo che avevo sete.

Dovevo dunque abbandonare la mia cara sorgente; se fosse stato possibile l’avrei prosciugata, l’avrei ostruita perché la sentivo ormai come un ostacolo: essa prendeva nel mio cuore il posto di Dio. E fu allora che scoprii la necessità di trovare il mezzo, la disposizione del cuore con la quale avrei aperto la porta direttamente a Colui che invano vi bussava da così tanto tempo perché nella mia preghiera mi occupavo anzitutto di me stesso.

Mi sono soffermato su questo episodio per fare un esempio di quel che mi pare essere uno degli inevitabili tranelli della solitudine; col pretesto di cercar Dio si finisce, in modo molto pio, per trovare se stessi e farne la propria felicità. Come sfuggire a questo trabocchetto?

Ciò che frappone ostacoli alla preghiera

Mi balza spesso agli occhi un’altra difficoltà, sia nella mia vita personale che nell’esistenza religiosa di quelli che mi circondano. Anche se le relazioni che abbiamo con chi ci è vicino sono cordiali, sarebbe difficile affermare che siamo sempre pronti a stabilire con loro dei veri rapporti di intimità.

Se è così con il fratello che vedo, come immaginare che lo stesso fenomeno non si verifichi anche con Dio che non vedo? Se vi è davvero un campo in cui il sacramento del fratello è efficace, questo campo è quello dell’incontro autentico con il Signore diletto.

Il vantaggio del sacramento del fratello è che si situa ad un livello in cui ci è difficile negare un certo numero di evidenze, che sfuggono facilmente quando nel nostro cuore cerchiamo di preparare le vie dell’Altissimo.

Che mi dice, dunque, l’esperienza dell’incontro con il mio fratello? Sono abbastanza accogliente per lasciarlo penetrare nel mio profondo? Oppure, non sono bardato di difese, di corazze, di rifiuti? Queste fortezze interiori fanno parte della mia fisionomia segreta; esse fanno quindi necessariamente la loro parte nella preghiera e frappongono ostacoli all’approccio del Signore in cer­ca del cammino che conduce al santuario intimo del mio cuore.

Se guardo ora al tentativo di andare incontro al mio fratello, nel senso opposto, cioè quando sono io che mi sforzo di andare verso di lui, riesco meglio? Non credo. Penso, ad esempio, a tutte le forme di aggressività che istintivamente metto in atto di fronte ad ogni altro: troppo spesso adotto un atteggiamento estraneo al rispetto, all’attenzione delicata ed amante che egli avrebbe il diritto di attendersi da me. Forse è ancora una forma di paura di lui o di me, ma il fatto si è che questi riflessi entrano in gioco nelle mie relazioni con il mio fratello... e con il Signore.

Chiedo scusa di dilungarmi in queste considerazioni che forse ti parranno fastidiose o scoraggianti, ma Gesù stesso ci dà questo consiglio: «Prima di mettersi a costruire una torre bisogna anzitutto sedersi e fare i propri conti per timore di impegnarsi in un’impresa che supera le nostre forze ed essere costretti a lasciare l’opera a metà» (cfr. Lc 14.28). Nel caso presente è la stessa cosa. Non sarebbe un brutto scherzo parlare di costruire la torre dell’incontro intimo con Dio senza nemmeno preoccuparsi di sapere se abbiamo un terreno libero per porvi le fondamenta? E’ inutile mirare ad un incontro vero di me stesso con il Padre, nella libertà dei figli di Dio se in partenza non prendo coscienza che sono saldamente vincolato in molte maniere e che liberarmene rappresenterà un compito considerevole che, in fin dei conti, soltanto il Signore potrà pienamente realizzare.

Offrire la nostra povertà

Ho davvero l’impressione di non essere per Dio un partner molto attraente. Ma è questa la risposta che Egli attende da me? Dio ha inviato suo figlio per incontrarmi, me, come sono, nella realtà di quel che vivo oggi. Fin da questo punto bisogna cercare di avere una visuale di fede sulla situazione.

Il progetto di Dio è quello di en­trare in comunione con degli esseri senza macchia, senza difetto, senza debolezza? Oppure non ci dice pro­prio il contrario? Il Padre ha inviato suo Figlio per prenderci sulle sue spalle, perduti e feriti come siamo, e ricondurci all’ovile dove vi è una gioia immensa nel vedere i peccatori acco­gliere Gesù nel loro cuore.

Ci avviciniamo così, poco a po­co, a quel che costituisce la preghiera teologale: l’incontro nel mio essere reale, di oggi, con Dio che viene a me, non per respingermi, né per condan­narmi, ma per far di me suo figlio, na­to da lui nella fede: «A coloro che cre­dono nel suo Nome, ha dato il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1. 12).

Il tre volte santo non pone come condizione al nostro incontro che io sia perfetto, che io abbia da offrirgli nel mio passato delle opere di valore, né che io sia capace nel futuro di render­gli dei servizi. Tutto questo non lo inte­ressa. Non pone alcuna condizione.

L’unico elemento indispensabi­le perché la nascita possa avvenire è che io abbia fede nel suo amore e che desideri sinceramente essere trasfor­mato. Se posso offrirgli una traccia di questa fede, tutto è possibile!

E’ semplice. E’infinitamente semplice. Ed è forse questo che rende la cosa così difficile per me. E’ un po’ come per Naaman il siro. Era disposto a sottomettersi a tutti i tipi di esigenze difficili e non accettava nemmeno l’idea che Dio potesse guarirlo se si fosse bagnato semplicemente nel Gior­dano fidandosi della parola di Eliseo.

Mi piacerebbe molto di più dire a me stesso che la qualità del mio in­contro con Dio è opera mia. Sarebbero le mie qualità, le mie virtù a far piacere a Dio e l’attirerebbero nel mio cuore. Sarebbe grazie ai miei sforzi che diverrei santo ai miei occhi e agli occhi dell’Altissimo.

Non è questo il programma che ci sedurrebbe, anche se costoso ed esi­gente? Invece il programma proposto da Dio ci sconcerta a tal punto che esitiamo indefinitamente, prima di lan­ciarci e, se incominciamo con un pas­so timido, abbiamo l’impressione di mancare di serietà nel nostro deside­rio di piacere a Dio.

Eppure, non è questo il senso della prima delle Beatitudini? Beati i poveri in spirito, perché di essi è il re­gno dei cieli (Mt 5.3). Quale Regno, se non quello che chiediamo mille e mille volte nel Padre Nostro? Padre, sia santificato il tuo Nome; venga il tuo regno. Il Regno che ci è proposto è di poter glorificare il Nome del Padre; e di potergli dire che è davvero nostro Padre perché ci genera come suoi fi­gli. Ma bisogna essere poveri. E noi abbiamo paura.

Noi tutti siamo esposti alla ten­tazione del giovane che si ritirò tutto triste, perché aveva grandi ricchezze. Ed anche se tutte le nostre ricchezze sono in moneta falsa, ci rassicura l’averle, perché abbiamo paura di es­sere poveri in spirito, radicalmente nel più profondo di noi stessi.

Ecco, forse, l’ostacolo princi­pale che ci dissuade dall’impegnarci sul serio nella preghiera del cuore. E’ al disopra delle nostre forze, pare, presentarci davanti a Dio senza avere da offrirgli null’altro che la nostra povertà, una povertà della quale abbia­mo paura: quella delle nostre ferite, quella della nostra radicale indigenza spirituale, quella della nostra incapa­cità a varcare, con le sole nostre for­ze, la distanza che ci separa dalla san­tità di Dio.

La Fede, apertura verso Dio

Ecco, dunque, il cammino di cui voglio parlarti, perché mi pare corrispondere a quel che il Signore ci chiede: tendere verso un incontro tra lui, tal quale Egli è realmente, e me, tal quale sono in piena verità.

Prima domanda: come raggiun­gere Dio tal quale è? Quando si parla di lui, è spesso più facile rispondere in modo negativo che positivo. E’ più fa­cile dire quel che non è Dio che dire ciò che egli è. Semplificando un po’ le cose, ammettiamo persino che, in realtà, sia impossibile sapere davvero chi egli è.

Con le nostre facoltà naturali non disponiamo di alcun mezzo per entrare direttamente in contatto con lui. In tal caso la causa sarebbe persa in anticipo? No, perché l’Onnipoten­te, da sempre, desidera incontrarci, impegnandosi lui stesso completamen­te in questa ricerca.

Io non posso raggiungerlo con i miei soli mezzi. Ma lui può, quando lo vuole, superare l’infinita distanza che ci separa. «La vera luce illumina ogni uomo» (Gv 1.9) dice san Giovanni... In fondo al cuore di ogni uomo brilla questa fiamma che gli chiede: «tu mi vuoi?». E la risposta in generale è quella di san Giovanni: «Egli è venuto tra i suoi (da te, da me), ma i suoi non l’hanno accolto» (Gv 1.11). Allora il Padre della vigna ha inviato i suoi servi, i profeti, che i vignaioli hanno assassinato. Infine ha inviato il proprio Figlio. Ed è lui che, ancor oggi, bussa alla porta del tuo cuore.

Gesù, se oso esprimermi cosi, non è che questo: Colui che è stato in­viato dal Padre. E’ una delle idee principali che dominano la preghiera sacerdotale (Gv 17): «Hanno creduto che tu mi hai mandato». E, dal mo­mento in cui Gesù ha fatto accettare ai suoi discepoli la certezza che egli è l’inviato del Padre, egli ha portato a termine la sua missione. Ritorna pres­so il Padre. Ormai tra noi e lui s’è sta­bilita un’apertura permanente.

Quale è questa apertura permanente che penetra a tal punto i cieli e ci permette di raggiungere questo Dio inaccessibile? E’ la fede. Essa non vede il volto del Padre, ma nel volto di Gesù, la fede dei discepoli ha visto il Padre. E, in maniera analoga, nella parola degli apostoli che ci giunge an­cor oggi, ci arriva la testimonianza di Gesù: «Non prego soltanto per essi, miei discepoli immediati, ma per co­loro che, per la loro parola, crede­ranno in me. Che essi siano uno, i miei apostoli e coloro che crederanno per essi, come il Padre e io siamo uno» (cf. Gv 17.20‑21).

La nostra fede è il frutto della preghiera di Gesù. La fede è questa convinzione del cuore, la cui radice è in Dio stesso; è questa persuasione, che Dio viene a noi, adesso, attraverso suo figlio, attraverso la sua parola, la sua Chiesa, i suoi sacramenti, nello Spirito che ci è definitivamente donato.

Qui sta il punto decisivo: solo la fede ci permette di accogliere davvero Dio stesso che viene a noi. Essa non illu­mina la nostra intelligenza su di lui: rimaniamo nelle tenebre, ma vi siamo in tutta sicurezza, perché abbiamo scoper­to un qualcosa che è al di là delle luci dell’intelligenza: l’Amore del Padre che essa non saprebbe cogliere, ma di cui scopre la verità in questa stabilità che le dà la fede.

Nella fede che trasforma il tuo cuore, tu puoi dunque accogliere Dio stesso presente in te con il suo Spirito: «L’amore di Dio è diffuso nel nostro cuore per mezzo dello Spirito che Dio ci ha dato» (Rm 5.5). Hai qui il mezzo vero, efficace per raggiungere Dio, nella persona del Padre, quella del Fi­glio e dello Spirito, nella loro tenerez­za, nella loro fedeltà, nella loro mise­ricordia per te e per ogni creatura.

Come nasce la fede,
 nel nostro cuore?

Forse hai presentito finora una specie di esitazione da parte mia ri­guardo al modo in cui la fede si impianta e cresce nel nostro cuore. E’ vero, si tratta di un punto delicato e non vorrei affogarlo in lunghe spiega­zioni teoriche. Per finire ho detto a me stesso che la cosa più sicura era semplicemente quella di vedere Gesù all’opera nel Vangelo; i racconti di Pasqua ce ne danno, appunto, due esempi notevoli.

Maria Maddalena e i discepoli di Emmaus, in contesti apparente­mente molto differenti, sono giunti al­la fede in Gesù risuscitato per itinera­ri spirituali talmente vicini gli uni agli altri che mi sembrano poter essere ac­colti come una descrizione simbolica dell’itinerario verso la fede totale che tutti siamo destinati a percorrere se vogliamo essere fedeli alla chiamata che ci ha condotti nel deserto.

Ecco i discepoli mentre cammi­nano mestamente sulla strada che li conduce, quella sera, da Gerusalemme a Emmaus. Essi parlano, discutono pur continuando a camminare, ma il loro cuore è triste, immerso nelle tenebre, oppresso dallo scoraggiamento. La loro vita era stata illuminata fino a quel momento dalla predicazione di Gesù, ma costui è morto, proprio morto. Da che parte si volgeranno ora?

Ed ecco che Gesù capita di nuovo al loro fianco. Non lo riconoscono, ma senza rumore, sin dalle prime parole, egli prende di nuovo posto nel loro cuore che una nuova fiamma sta rendendo tutto ardente. Poi, improvvisamente, nel momento in cui il misterioso estraneo si mette a spezzare il pane, guizza il lampo. E’ lui! E già egli è scomparso, ma nel loro cuore brilla la fede, una fede che mai più si spegnerà.

Qualcosa di analogo capita anche a Maria Maddalena. Desolata di non poter almeno recuperare il corpo del Crocifisso, si lamenta davanti all’entrata del sepolcro. Anche lei sembra aver perso la fede autentica in Gesù vivente; una sola preoccupazione l’assilla: hanno rubato il suo corpo; se potrà ritrovarlo andrà a prenderlo poiché, ai suoi occhi, è tutto quel che resta del Signore tanto amato.

Ad un tratto egli è lì, ma lei non lo riconosce. Avrà almeno cercato di guardarlo bene in volto, persa com’era nei suoi ricordi e nel suo progetto di ritrovare il corpo? Sarà stata in grado di supporre che questo estraneo poteva essere lui? Ma basta una parola: «Maria» perché si sprigioni la luce. Ha un bel respingerla, mandarla lontano da sé, nulla potrà più strap­pare la certezza che si è impossessata del cuore della Maddalena.

E’ a questo punto che il Vangelo di cui abbiamo parlato ci rivela il segreto che permette alla fede di nascere nel nostro cuore. Essa ci è data da Ge­sù stesso che di sua iniziativa viene quasi di nascosto, senza farsi ricono­scere, a tenerci compagnia, ad accen­dere un fuoco in noi, sino all’istante in cui scopriamo che è proprio Lui che è qui. Egli si è rivelato sotto una nuo­va luce. Al di là della morte, egli è qui, ben vivo, risorto nel nostro cuore.

Abbiamo appena avuto il tem­po di renderci conto di questa mera­viglia che egli è già scomparso, ma rimane la luce che egli ha acceso nel no­stro cuore, la luce della fede, puro dono gratuito sgorgato dalla sua pre­senza misteriosa e capace di affronta­re la prova del tempo, delle tenebre, delle contraddizioni.

La fede è questa luce scaturita dal Risorto che brilla in noi e illumina tutto quel che tocchiamo per coinvolgerlo nel mistero della risurrezione al di là delle tenebre mortali delle quali, prima, eravamo prigionieri.

Tuttavia la fede non pervade mai d’un sol tratto tutte le profondità della nostra anima. La fede, in qualche modo, penetra per ondate succes­sive nelle zone rimaste ancora nelle te­nebre e ogni volta è più o meno lo stes­so scenario che si svolge. Un giorno scopriamo che la nostra vita di pre­ghiera sembra impegnata su una via senza uscita. Sì: i mezzi di cui disponiamo sono insufficienti per andare più in là; lo scoraggiamento, l’incertezza ci invadono. Soltanto Gesù potrà tirarci fuori da questo buco. Dal momento in cui questa certezza comincia a spuntare nel nostro cuore è il segno che egli è venuto a raggiungerci sulla strada e «che ci interpreta in tut­te le Scritture quel che si riferisce a lui» (Lc 24.27).

Misteriosamente il Signore in­stilla la fede nel nostro cuore; quando egli sparisce è perché le tenebre hanno lasciato il posto alla pace, ad una luce discreta ma forte, che non nasce dalla logica dei nostri ragionamenti, ma che è un dono gratuito dello Spiri­to, più solido e più puro di tutte le sicurezze umane.

Come cresce la fede
            nel nostro cuore?

La luce della fede, dunque, ti fa sin da oggi entrare nella vita eterna e soltanto essa può farlo. Tutto il resto rimane al di qua di ciò che Dio ci offre dal giorno in cui Gesù è risorto. Tutte le altre luci dell’intelligenza, tutte le altre esperienze spirituali sulle quali ci piacerebbe talvolta appoggiarci, so­no rispettabili, degne di stima, ma, in fin dei conti, sono sorgente di vita soltanto nella misura in cui sono portatrici di fede.

La fede ci è stata data da Dio sin dal Battesimo, ma è un dono che egli moltiplica in noi nella misura del no­stro desiderio di riceverlo, nella misu­ra della nostra volontà di farlo frutti­ficare. Se lasciamo la nostra fede inat­tiva per ignoranza o per negligenza, essa si arrugginisce, si sclerotizza mentre noi sperperiamo le nostre for­ze in esercizi spirituali che ci piaccio­no di più, ma senza portarci frutto.

Se vuoi vivere la fede, è neces­sario che tu sviluppi quella che lo Spi­rito Santo ha già posto in te: Dio s’aspetta che tu gli chieda, con insi­stenza e con perseveranza, un aumen­to della tua fede. E’ una preghiera di cui puoi essere certo che Dio vuol sempre esaudire più di ogni altra pre­ghiera, perché desidera infinitamente più di te vederti progredire sulle stra­de della vita eterna.

Questo non impedisce che, so­prattutto agli inizi, tu abbia l’impres­sione che il Signore non si affretti a far progredire la tua fede. Questo prova che la tua era ancora ben debo­le e che bisogna, anzitutto, darle delle radici nascoste prima che lo stelo in­cominci a svilupparsi. Non ti scoraggiare, dunque, se le tue preghiere sembrano vane; certamente non lo so­no. Metti in opera la fede di cui sei già portatore credendo fermamente che il Padre tuo dei cieli ti ha già esaudito.

Allora potrai incominciare a vi­vere man mano sempre più nella fede. Nella liturgia, durante i tempi di ora­zione, nel lavoro, il tuo cuore si met­terà più facilmente a contatto col Signore se tu ricevi da lui l’amore oscuro, spesso poco gratificante, ma quanto divino, l’amore che egli ti do­na se gli offri la tua fede e non delle belle idee o i giochi della tua sensibi­lità.

Non ho trucchi da insegnarti. Bisogna chiedere a Dio, nella fede vi­va, che sia lui stesso a insegnarti a pregare. E’ lui che occuperà il tuo cuore, la tua attenzione, anche se tu non hai una immagine precisa sulla quale fissarti. E’ vivo il Signore alla presenza del quale tu stai.

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