La speranza,
fiducia nell’Amore di Dio
Se permetti alla fede di svilupparsi nel tuo cuore, in modo del tutto naturale sarai condotto a scoprire all’opera in te la speranza. Essa era già attiva sin dall’inizio, nella misura in cui la tua fede si fonda sulla certezza che sei amato dal Signore. Questa certezza è già un aspetto della speranza, a partire dal momento in cui non si tratta più soltanto di entrare nella realtà del mondo divino, ma di percepire chiaramente come, anche tu, tu esisti per Dio. Tu hai valore ai suoi occhi. Egli è pronto a donare universi interi per te solo.
E’ proprio qui il punto di partenza della speranza: sapere che Dio ti ama, proprio te, in modo unico. Nessuno potrà prendere il tuo posto nel suo cuore. Ha dato suo Figlio per te e te lo dona ancora ogni giorno nella celebrazione eucaristica. Forte di questa certezza, puoi chiedere al Padre tuo, senza posa e senza esitare, dal momento che tu preghi nel nome di Gesù. Sarai certamente ascoltato e i frutti della tua preghiera saranno sempre migliori di quel che ti aspettavi.
Vi è un altro aspetto della speranza che mette spesso alla prova la nostra povera insicurezza umana. Dal momento in cui so che Dio mi ama in modo unico e, di conseguenza, si è incaricato lui stesso della mia esistenza, tutto è differente. Mi fa intraprendere itinerari sconosciuti nei quali non dipendo più che dalla sua luce, dalla sua forza, dal suo amore. Mi chiede allora, nel senso più banale della parola, di fidarmi di lui, spesso nell’ oscurità, nell’incertezza. ma in ultimo, nella pace... se non fuggo dalla sua mano e dal suo cuore.
«Beati i pacifici, perché saranno chiamati fig1i di Dio». Al di là di tutte le inquietudini che vengono da te stesso o dagli altri, il Padre ti chiede di aiutarlo a far regnare la pace nel tuo cuore per l’unica ragione ‑ più di tutte le ragioni umane ‑ che ti ama e che incessantemente, veglia su di te. Quante tempeste vuol così quietare nel tuo cuore, se tu ascolti il suo invito a fidarti di lui! E, allora, sarai chiamato figlio di Dio... e lo sarai realmente (cf. Gv 3.1).
Questa speranza è valida non soltanto per te solo, ma per tutti quelli che ami: se tu intercedi per loro, tu ti identifichi con i loro bisogni... ma anche con la realtà dell’amore che essi risvegliano nel cuore di Dio. Sei esaudito nella misura della fiducia che hai in questo duplice amore del Signore per te e per colui che tu ami.
Proprio come la fede, la speranza non è una capacità naturale del tuo cuore. Essa è proprio tua, ma è un dono gratuito; è in te sin dal Battesimo ed ha bisogno di crescere, di divenire operante sotto l’azione dello Spirito Santo e grazie alle occasioni che cogli di allenarla, di renderla docile perché mantenga te stesso disponibile e attento nella mano del Signore.
Ma non dimenticare che, per arrivare là, devi esercitarla, devi farla lavorare coraggiosamente. In cambio, quale gioia sapere ‑ nella fede ‑ che il Signore trova lui stesso la sua felicità in te!
I tre registri dell’Amore
Resta l’ultima delle virtù teologali, la più grande, dice san Paolo: la carità, l’amore. Essa gioca su tre registri: l’amore del Signore, l’amore dell’altro, l’amore di te. Questi tre amori non sono identici, ma spuntano dalla stessa radice: tutti e tre sono ad immagine dell’amore eterno che unisce il Padre e il Figlio nello Spirito. E’ esattamente lo stesso Spirito che ci è stato dato in modo stabile dalla Pentecoste e che ci permette di amare come amano il Padre e Gesù.
Questo amore divino ha, certo, dei punti in comune con l’amore umano che, lui stesso è nei nostri cuori un riflesso di Dio poiché Dio è amore: ogni amore vero, quali ne siano i suoi limiti, ci rimanda a Dio anche se spesso in modo vago.
Ma l’amore divino che ci interessa qui, più ancora della fede e la speranza, è un dono nuovo, scaturito direttamente dal cuore di Dio. Non è una tecnica, anche se dobbiamo imparare, passo passo, a farla entrare nel vissuto della nostra vita. Non è una tecnica, è lo slancio stesso che fa le Persone divine: ci è donato in partecipazione, perché possiamo vivere a loro immagine.
La realtà dell’amore in te si riconosce dalla qualità dello sguardo che puoi posare su di una persona: se sei incapace di condannarla, di non rispettarla, di non ammirarla; tu sei povertà completa davanti a lei, non tenendo per te niente di quel che tu puoi dare. Nello stesso tempo aspiri ad avere una pienezza analoga da parte sua, non come un diritto che puoi pretendere, ma come un compimento del tuo amore.
L’amore teologale non va confuso con i grandi slanci appassionati che destano delle ondate impreviste nel fondo del nostro cuore o della nostra sensibilità. Queste cose non si oppongono necessariamente all’amore vero, ma si situano ad un altro livello.
La carità vera non passa, né in questo mondo, né nell’altro. Le grandi passioni sono come le onde del mare, violente, potenti a volte, ma mutevoli, che possono lasciar posto alla calma assoluta.
L’esperienza pare mostrare che l’ amore più difficile da svilupparsi nel nostro cuore, soprattutto agli inizi, è l’amore di noi stessi. Non ha nulla a che vedere con l’egoismo, l’amor proprio, il ripiegamento su di sé. E’ un dono dell’Altissimo che viene dal fatto che siamo suoi figli: qualunque siano le miserie che possiamo conoscere di noi stessi, in un certo senso esse non contano accanto a questa divinizzazione. Questa non può che risvegliare in noi ammirazione, gioia, rispetto, amore, nella luce e nella trasparenza. Non trascurare mai questo amore di te; se fosse troppo manchevole, tutta la comunione con Dio ne soffrirebbe.
E’ tutto il discorso dopo la Cena, è tutta la prima lettera di san Giovanni che bisogna 1eggere quando si vuol ascoltare cosa ci dice il cuore di Dio sull’amore degli altri. Hai l’occasione di praticarlo incessantemente nella vita corrente, ma devi svilupparlo, approfondirlo senza posa nella preghiera, aprendo sempre più il tuo cuore a quello del Padre e di Gesù.
Quanto all’amore di Dio, esso è il solo scopo di queste pagine. Meta di cui abbiamo ricevuto la caparra sin dall’inizio della vita spirituale, ma di cui non possiamo raggiungere la pienezza prima della Parusia, quando, corpo e anima, nella comunione di tutti i santi, vedremo Dio che si dona a noi e saremo capaci di accoglierlo.
Consegnarci a Colui che ci ama
Dopo aver evocato brevemente il volto delle tre virtù teologali, vorrei dirti una parola su quel che mi pare essere un tratto assolutamente distintivo della preghiera teologale. All’inizio di queste pagine, ti dicevo che essa ha per scopo il raggiungimento di Dio, di Lui direttamente. E’ questo che vorrei precisare in modo più rigoroso.
La preghiera teologale ci mette in relazione personale con Qualcuno e non con qualche cosa: è incontro vero tra te e il Padre, o suo Figlio, o il loro Spirito. Non è più attraverso la mediazione di idee ‑ anche sublimi ‑ o di contemplazioni intellettuali del mistero, che tu li raggiungi.
La parola di Gesù, che fonda la nostra fede, sfocia direttamente nel suo cuore, senza nessun intermediario, come pure nel Padre o nel Consolatore, nella semplicità dell’unità divina.
Hai notato come, lungo tutto il Vangelo di san Giovanni, il rimprovero che Gesù rivolge incessantemente ai «Giudei», a loro che non possono o non vogliono credere, è sempre lo stesso? Sono incapaci o si rendono incapaci di accoglierlo, Lui. Sentono le stesse parole dei discepoli; sono testimoni degli stessi segni; sono eredi delle stesse promesse, ma rimangono lontani da Gesù; non entrano in contatto con lui. Non fanno che proiettare su di lui i loro ragionamenti e le loro teorie anziché vedere Lui stesso e lasciarsi illuminare sino in fondo al cuore.
Non credono. Vogliono mantenere una distanza tra le idee delle quali si sentono proprietari e la realtà del dono di Dio che li obbligherebbe a spogliarsi di tutto e ad aprire il loro cuore alla persona del Figlio.
E’ un po’ quel che viviamo, anche noi, nella misura in cui, alla maniera dei «Giudei», ci aggrappiamo a tutte le cose create che ci rassicurano, anziché consegnarci alla persona divina che non ha nient’altro da donarci che se stessa. La preghiera teologale non è forse proprio questo dono di noi stessi, senza limiti né restrizioni, a Colui che ci ama?
La preghiera del pubblicano
(cf. Lc 18.10)
Sento il bisogno di fermarmi qui a lungo, perché essa è davvero una preghiera teologale. Mira a Dio e a lui solo: «Signore, abbi pietà del peccatore che sono», a differenza della preghiera in cui il fariseo mette in mostra con compiacenza la propria persona. E’ una preghiera che piace a Dio. Gesù stesso ce ne dà la garanzia. E’ una preghiera che ci riguarda tutti, perché tutti non abbiamo altro da dire che implorare la Misericordia divina per il nostro stato di peccatori.
E’ molto importante riconoscere che mai il nostro peccato ci proibisce di presentarci davanti al Padre delle misericordie. Al contrario! Soltanto lui può aver pietà e, nel mistero della sua Tenerezza e della sua Potenza, può fare in modo che siamo giustificati, gradevoli, accolti con benevolenza, perché abbiamo creduto che egli era compassionevole e pieno di misericordia. Insisto su questo punto perché mi sembra che costituisca davvero il nocciolo della preghiera teologale dei poveri eredi di Adamo che siamo noi.
Certe tradizioni spirituali falsate, una «educazione cristiana» meschina, fanno sì che nella stragrande maggioranza dei casi il peccatore sia intimamente convinto che agli occhi di Dio egli non ha più il diritto di esistere; il meglio che si può fare è fuggire, fuggire il più lontano possibile dal vendicatore implacabile dei Cieli.
Quale caricatura dell’Evangelo! «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché il mondo sia salvato e non condannato...» (cf. Gv 3.16‑17).
Si potrebbero moltiplicare le citazioni del Vangelo e delle Epistole a questo riguardo. Il peccato è diventato il rivelatore dell’infinita profondità dell’amore del Padre per i suoi figli.
Abbiamo tutti una vocazione di pubblicani perché tutti siamo dei peccatori, chiamati all’intimità con Dio. Egli non ci dice: «Va’ prima a purificarti e dopo ti presenterai a me». Al contrario, se riconosciamo la verità della nostra povertà e se ci rivolgiamo alla sua Misericordia, egli ci chiama: «Vieni che io ti purifico. Vieni a rallegrare il mio cuore e tutto il cielo».
Il paradosso dell’amore divino è talmente forte che non mi sembra eccessivo il dire che la preghiera del Pubblicano è la sola forma di preghiera teologale normale per noi. Mai possiamo presentarci davanti a Dio senza portare nel nostro cuore degli ostacoli: peccati, tracce lasciate dal peccato, ostacoli involontari, ma molto reali, a compiere l’opera di Dio nelle nostre vite, ecc. Tutti e sempre ci presentiamo davanti al Padre nostro alla maniera del figliol prodigo, sicuri che ci prenderà tra le braccia prima che abbiamo incominciato il nostro discorso di spiegazioni.
Ci sarebbe molto da dire in questa linea sulla preghiera di guarigione, la preghiera di questi innumerevoli peccatori, infermi, ammalati dei quali il Vangelo ci racconta la purificazione grazie alla presenza di Gesù, a una parola della sua bocca, a un suo semplice gesto. E questo è sempre vero.
Chi racconterà queste guarigioni immediate o progressive di anime ferite, di cuori prigionieri, di sensibilità rivoltate che, nel segreto di una preghiera rivolta direttamente a Gesù, si sono visti guarire, risuscitare nella misura in cui hanno creduto in lui, hanno avuto fiducia, hanno cercato di amarlo?
Si tratta, in tal caso, davvero di una preghiera teologale. Si opera un incontro con il Figlio di Dio e avviene uno scambio: «Prende su di sé le nostre infermità» (cf. Mt 8.17), mentre la vita divina si mette a brillare nei nostri cuori; non è soltanto una consolazione quella che ci dà, è la sua stessa vita della quale ci fa partecipi.
Non è forse una preghiera di pubblicano la preghiera di Gesù che, da secoli, gli esicasti ripetono incessantemente? Il testo stesso è parzialmente preso dalla formula che Gesù mette sulla bocca del pubblicano: «Gesù, figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore».
Generazioni di monaci non hanno avuto altra preghiera interiore ed essa li ha condotti all’intimità silenziosa con Dio, nel fondo della loro povertà.
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E’ «il tuo volto che cerco, Signore. Signore, non nascondermi il tuo volto» (Sl 26.8‑9). Questo versetto del salmo, tra molti altri, lascia ben presentire il profondo desiderio del Signore che anima tanti cuori. Trovano il mezzo per riuscire nella loro ricerca? Non sono forse troppi coloro che si perdono per strada oppure, stanchi per l’insuccesso del loro tentativo, si seggono, scoraggiati, sul ciglio della strada?
Mi chiedo se questi cercatori di Dio alla deriva sono sufficientemente aiutati. Conoscere questo dovrebbe essere una ferita per il nostro cuore. Il Padre misericordiosissimo si degni di ascoltare la nostra preghiera per loro.
Per concludere, devo confessare l’imprudenza che ho commesso iniziando queste pagine, il cui soggetto supera infinitamente la mia competenza. Grazie di perdonarmela. Amen.
INDICE
PREFAZIONE
LA PREGHIERA DEL CUORE
LA PREGHIERA TEOLOGALE