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Ultimo Aggiornamento: 06/08/2012 17:50
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06/08/2012 16:38

I successori di Erode: Archelao – Antipa - Filippo

§ 13. Morto Erode, bisognava eseguire l'ultimo dei suoi tre testamenti, che aveva provveduto alla successione dinastica nella maniera seguente Archelao, figlio di Erode e della samaritana Malthake, era designato come erede al trono con dominio diretto sulla Giudea, Samaria e Idumea; l'altro figlio Antipa, fratello di Archelao anche per parte di madre, era designato come tetrarca della Galilea e Perea; infine Filippo, figlio di Erode e della gerosolimitana Cleopatra, era designato come tetrarca delle regioni settentrionali, la Traconi­tide, Gaulanitide, Batanea, Hauranitide (e Iturea). Ma questo testamento non poteva essere eseguito senza l'approva­zione di Augusto; d'altra parte, alla sua esecuzione si opponevano varie persone, e in primo luogo Antipa, che nel precedente testamento era stato designato, non già tetrarca, ma addirittura erede al trono: inoltre si opponevano anche molti autorevoli Giudei, che erano stanchi delle vessazioni del morto Erode e ne prevedevano delle peggiori dai successori suoi consanguinei, e perciò avrebbero preferito passare sotto il diretto governo di Roma. Per perorare la propria causa, partirono alla volta di Roma dappri­ma Archelao e poco dopo anche il suo rivale fratello Antipa: ambe­due, ma specialmente il primo, si ripromettevano di ottenere da Augusto l'investitura e di ritornare dalla lontana Roma con l'effet­tivo potere regale. A questo curioso viaggio per accaparrami un regno sembra alludere la nota parabola evangelica. (Luca, 19, 12 segg.). Ma i Giudei avversi in genere alla dinastia erodiana non rimasero inoperosi; sedate che furono dalle truppe romane alcune rivolte scoppiate a Gerusalemme, inviarono anch'es­si a Roma una delegazione di cinquanta membri, per chiedere che la monarchia erodiana fosse destituita e che i suoi territori fossero incorporati alla provincia della Siria, onde poter vivere tranquilla­mente secondo le tradizionali costumanze giudaiche sotto la pro­tezione di Roma. Anche a questa delegazione ostile sembra alludere la parabola evangelica (ivi, 19, 14) (§ 499). Fra tanti contendenti, l'accorto Augusto prese una decisione che sembrò andare contro il vantaggio diretto di Roma, pur mirando a conciliare i desideri dei principi rivali. Respinse egli senz'altro la richiesta dei cinquanta delegati giudei, che proponevano l'annes­sone all'Impero. Ad Archelao conferi il governo dei territori asse­gnatigli dal padre, senza però attribuirgli l'ambito titolo di re: per allora lo nominò soltanto etnarca, facendogli sperare di proclamarlo re più tardi se avesse dato buona prova di sé. Agli altri due eredi testamentari, Antipa e Filippo, concesse i rispettivi territori asse­gnati nel testamento col titolo di tetrarca. Tutto ciò avvenne nell'anno stesso della morte di Erode, 4 av. Cr. I peggio trattati nella decisione di Augusto furono dunque i delegati giudei, mentre essi chiedevano precisamente l'ampliamento dell'Impero. Ma Augusto era un uomo politico che sapeva prevedere ed attendere. Egli confermò in sostanza il testamento di Erode, respin­gendo la richiesta dei delegati, perché con i tre successori del suo defunto servitore egli voleva fare un esperimento: o essi si sareb­bero mostrati abili governanti e soprattutto obbedienti verso Roma come il loro padre, ed allora Augusto avrebbe continuato ad im­perare praticamente in Palestina come prima; oppure avrebbero tenuto un contegno diverso, ed allora l'arbitro di Roma si sarebbe sbarazzato di loro accogliendo generosamente la richiesta dei Giudei d'essere incorporati all'Impero.

§14. Gli avvenimenti successivi mostrarono che Augusto aveva visto giusto e aveva preso una decisione sagace. Archelao resse poco alla prova: col suo governo, crudele e tirannico, invece di ottenere l'aspet­tato titolo di re, ottenne la destituzione totale. Nel 6 dopo Cr. una nuova delegazione, composta questa volta di Giudei e Samaritani insieme, andò a Roma ad accusare l'etnarca presso l'imperatore. Au­gusto fece venire l'accusato per udirne le ragioni; ma, non soddi­sfatto di esse, applicò semplicemente il suo antico progetto, invian­do Archelao in esilio a Vienna nelle Gallie e annettendo all'Impero i territori di lui.

§ 15. Il tetrarca Antipa, ossia Erode Antipa, si resse più a lungo, ma per fare anch'esso la fine del fratello Archelao; quando salì al potere, nel 4 av. Cr., poteva avere un diciassette anni, e si mantenne in ca­rica fino al 40 dopo Cr. Era stato educato probabilmente a Roma, e dei figli di Erode fu quello che rispecchiò meglio il carattere del padre quanto a imperiosità ed amore al fasto, senza però averne l'operosità e l'energia fattiva. Verso l'imperatore usò, come suo pa­dre, l'adulazione di dedicare a lui o a suoi familiari le varie costru­zioni che andava innalzando nei propri territori: nella Perea meridionale, di fronte a Gerico, ricostrui totalmente una vecchia città a cui dette il nome della moglie di Augusto, Livia (che più tardi fu chia­mata anche Giulia, come la Città); in Galilea costrui di sana pianta un'altra città sulla riva occidentale del lago di Gennesareth, e dal no­me del nuovo imperatore la chiamò Tiberiade; anche Sefforis in Ga­lilea, vicina a Nazareth, fu da lui rafforzata ed abbellita, e ne ricevet­te un nome ufficiale che ricòrdava l'imperatore romano, forse quello di Cesarea divenuto poi Diocesarea. Ma, con Augusto, Antipa dovette incontrare poca fortuna; ne incontrò invece molta con Tiberio, giacché avendo capito dov'era il lato debole del nuovo imperatore, sospettoso e ombroso, sembra che si mettesse a fare la spia presso di lui a danno dei magistrati romani d'Oriente, mandando da laggiù informazioni: naturalmente la spia era odiata dai magistrati (§ § 26, 583), ma al delatore stava più a cuore il Tiberio lontano che questo o quel magistrato vicino. La cosa poté continuare finché continuò Tiberio, ma la fine di costui segnò naturalmente anche la fine di Antipa.

§ 16. Chi veramente scavò la fossa ad Antipa fu una donna, la famosa Erodiade. Poco prima dell'anno 28 Antipa fece un viaggio a Roma, probabilmente attiratovi dal suo ufficio d'informatore segre­to, e ivi fu ospitato da un suo fratello, per parte di padre soltanto, che da Flavio Giuseppe è chiamato Erode, mentre è chiamato Filip­po in Marco, 6, 17; questo Erode Filippo, che menava a Roma vita privata, aveva in moglie Erodiade la quale gli era anche nipote, essendo figlia di quell'Aristobulo figlio di Erode il Grande ch'era stato ucciso dal padre. La donna era ambiziosissima, e non riusciva a rassegnarsi a quella vita privata che menava a fianco a suo marito Erode Filippo; l'arrivo dell'ospite Antipa confermò un precedente progetto, perché l'autorevole fiduciario di Tiberio si era già mostra­to molto tenero per la donna. Veramente gli ostacoli per una sta­bile unione erano parecchi e gravi: in primo luogo l'ospite non era più un giovincello, giacché doveva essere sulla cinquantina, e inoltre aveva per legittima moglie la figlia di Areta IV re degli arabi Naba­tei; eppoi la donna era maritata - bene o male secondo la legge giudaica - con un suo zio, e nessuna interpretazione cavillosa le avrebbe permesso di passare ad un altro zio, vivente ancora il primo marito. Ma la passione da parte di lui e l'ambizione da parte di lei superarono tutti gli ostacoli: si promisero che egli ritornato nei suoi territori avrebbe ripudiato sua moglie, e che ella avrebbe abbandonato il vecchio marito a Roma per convolare presso il nuo­vo che l'aspettava assiso sul trono. Ma la legittima moglie di Antipa ebbe notizia in Palestina di quanto si era confermato a Roma; perciò, onde evitare l'umiliazione di un ripudio, si fece inviare da suo marito con un pretesto nella suntuosa fortezza di Macheronte, si­tuata sui confini tra il territorio di suo marito e quello di suo padre, e da lì fuggì presso il padre. Rimosso questo ostacolo, Erodiade venne da Roma presso Antipa trascinandosi appresso la figlia che aveva avuto dal suo primo marito, certa Salome, una ragazzetta di pochi anni ma che a Roma aveva imparato a ballare assai bene.

§ 17. Compiuto il misfatto, il re Areta non pensò che a vendicare l'oltraggio fatto alla propria figlia, mentre i sudditi di Antipa non fecero che mormorare sdegnati per la sfacciata violazione delle leg­gi nazionali e religiose: ma, sebbene cordiali e diffuse, le mormora­zioni erano soltanto segrete, perché nessuno ardiva affrontare diret­tamente la tracotanza del monarca e specialmente il geloso furore della sua adultera e incestuosa concubina. Una sola persona ebbe questo ardimento, e fu Giovanni il Battista, che godeva d'altissima autorità presso il popolo (Antichità giud., XVIII, 116 segg.) e anche d'una certa venerazione superstiziosa da parte d'Antipa. Giovanni fu messo in prigione a Macheronte: questo provvedimento fu cau­sato sia dalla sua franca riprovazione dello scandalo di corte, come apprendiamo dai vangeli, sia dalla sua autorità popolare che aveva destato sospetti in corte, come apprendiamo da Flavio Giuseppe; ma non è escluso che una spinta venisse anche da parte dei gelosi Farisei (§ 292). Giovanni rimase in prigione parecchi mesi, circa una decina. Questa prolungata permanenza non poteva esser gradita ad Erodiade, che avrebbe voluto disfarsi subito dell'austero e inflessibile censore: ma Antipa, avendolo ormai in catene, non era propenso a macchiarsi del suo sangue, sia per quel timore reverenziale ch'egli personal­mente ne aveva, sia per paura che il popolo insorgesse alla notizia che quell'uomo venerato era stato ucciso cosi ingiustamente e vigliaccamente. Ma Erodiade spiava l'occasione per ottenere il suo desiderio: l'occasione venne, la ballerina sua figlia le ottenne la testa mozzata del prigioniero, e quando l'incestuosa e adultera madre poté afferrare e palpeggiare quella testa si giudicò vendicata e vittorio­sa (§355). E invece cominciava la sua disfatta, giacché anche il re Areta spia­va l'occasione per vendicarsi. Nel 36 una contestazione di frontiere fra i due monarchi portò alla guerra, e Antipa rimase totalmente sconfitto. Allora il burbanzoso tetrarca supplicò umilmente il lon­tano Tiberio che l'aiutasse, e l'imperatore ch'era molto sensibile verso la sua spia di Galilea ordinò al legato di Siria, Vitellio, di muovere contro Areta e di mandare a Roma o l'audace arabo incatenato vivo. oppure la testa di lui morto (Antichità giud., XVIII, 115). Ma Areta non era Giovanni, né Vitellio era disposto a far la parte già fatta dalla figlia ballerina. Vitellio, che aveva vecchi rancori contro Antipa per le sue delazioni a Roma, si mosse a malincuore cercando tutti i pretesti per mandare la spedizione per le lunghe; la fortuna poi l'aiutò, perché quando giunse con l'esercito a Gerusa­lemme gli pervenne la notizia che Tiberio era morto (16 marzo del 37). Naturalmente la spedizione finì lì, Areta non fu disturbato, e la sconfitta di Antipa rimase invendicata.

§ 18. Il tracollo definitivo del tetrarca avvenne due anni dopo, e fu causato direttamente da Erodiade. La smaniosa donna s’arrovellò d'invidia quando, nel 38, si presentò in Palestina suo fratello Erode Agrippa I: costui, che fino a pochi mesi prima era stato un avven­turiero carico di debiti ed esperto anche di catene romane, aveva fatto a Roma una sbalorditiva fortuna con l'elezione del suo amico Caio Caligola, che oltre a colmarlo di favori d'ogni sorta l'aveva anche creato re, assegnandogli territori che confinavano a setten­trione con quelli di Antipa; e adesso il potente amico del nuovo imperatore veniva a prender possesso dei suoi dominii. Al vederlo salito a tanta altezza, Erodiade ripensò che il suo Antipa dopo tanti anni di servile operosità in pro della lontana Roma si trovava an­cora nella bassezza d'un semplice tetrarca, ed era tanto poco apprez­zato che i suoi nemici potevano sconfiggerlo senza che Roma ve­nisse in suo aiuto: indubbiamente, per far fortuna come Agrippa, bisognava come lui presentarsi nella capitale dell'Impero e là inge­gnarsi e sbrigare personalmente. Convintasi di ciò, la fremente donna tanto insistette presso il riluttante Antipa che lo indusse a recarsi a Roma, per ottenervi il titolo di re e altri eventuali favori. Accompagnato da Erodiade, Antipa si presentò a Caligola in Baia. Ma Agrippa, sospettoso dei due viaggiatori, li aveva fatti seguire da un suo liberto che recava lettere, a quanto pare calunniose, contro Antipa. Trovandosi inaspettatamente di fronte ad un'accusa di tra­dimento, invece che alla sperata proclamazione a re, Antipa non sep­pe dare chiare spiegazioni; perciò Caligola lo giudicò colpevole, lo destitui ed inviò in esilio a Lione nelle Gallie, ed assegnò i territori della sua tetrarchia all'accusatore Agrippa. Erodiade, che con la sua ambizione aveva causato questa rovina, segui spontaneamente nell'esilio lo spodestato tetrarca, sebbene Caligola avesse lasciato a lei come sorella dell'amico Agrippa, ampia libertà e il pieno godimento dei suoi beni. Ciò avvenne fra gli anni 30 e 40 dopo Cr.
§ 19. Il terzo degli eredi diretti di Erode il Grande, cioè il tetrarca Filippo, non figura direttamente nella storia di Gesu'. Governò i suoi territori fino alla sua morte, avvenuta nel 34 dopo Cr., e pare che fosse un principe equanime e d'indole tranquilla: ma ad un certo tempo dovette rammollirsi alquanto di cervello, perché nella sua maturità d'anni sposò la ballerina figlia di Erodiade, cioè Salome, che gli era pronepote ed aveva almeno trent'anni meno di lui. A Panion, presso le sorgenti del Giordano, egli ricostruì totalmente la precedente città e in onore di Augusto la chiamò Cesarea: ma co­munemente fu chiamata Cesarea di Filippo, per distinguerla dalla Cesarea sul mare edificata da Erode il Grande. L'antico nome di Panion (oggi Banias) proveniva da una grotta consacrata al dio Pan presso le sorgenti; ma alla ricostruzione totale della città un magnifico tempio marmoreo dedicato ad Augusto sorse presso la grotta, e troneggiando sulla cima d'una maestosa roccia era il pri­mo oggetto che attirasse lo sguardo di chi si avvicinava alla cit­tà (§396). Sulla riva settentrionale del lago di Gennesareth, poco ad oriente dallo sbocco del Giordano nel lago, Filippo ricostrui totalmente an­che la borgata di Bethsaida, e la chiamò Giulia in onore della fi­glia di Augusto.


I procuratori romani: Ponzio Pilato

§ 20. Quando l'etnarca Archelao fu deposto ed esiliato, Augusto annesse all'Impero i territori a lui sottoposti, cioè la Giudea, Samaria e Idumea: in tal modo egli appagò allora, che si era presentata l'oc­casione buona, il desiderio di quella delegazione di Giudei che dieci anni prima era venuta appositamente a Roma a chiedergli l'annes­sione della Palestina all'Impero (§ 13). Quando una regione passava sotto la diretta amministrazione di Roma, veniva eretta in provincia oppure veniva unita ad una delle province già esistenti. Nel 27 av. Cr. Augusto aveva spartito fra sé e il Senato le province: quelle di frontiera e meno sicure, presidiate da forti guarnigioni, le aveva tenute per sé; mentre quelle interne, tranquille e debolmente presidiate, le aveva lasciate al Senato. Di qui la divisione in province senatorie ed imperiali. Le senatorie era­no governate, come in antico, da proconsoli (legati pro consule) eletti di solito annualmente; per quelle imperiali, invece, fungeva da proconsole comune a tutte Augusto stesso, il quale però le governava inviandovi i suoi legati Augusti pro praetore designati da lui. Il legatus di provincia apparteneva sempre all'ordine dei se­nàtori. Ma in alcune province che esigevano particolare delicatezza di governo (ad esempio l'Egitto) Augusto spediva, non un legatus, ma un praefectus: così' pure in altre regioni annesse recentemente all'Impero, e che offrivano speciali difficoltà, era spedito un pro­curator il quale però apparteneva all'ordine dei cavalieri. Veramen­te la carica di procurator fu dapprima di natura finan­ziaria, ed esisteva anche nelle province senatorie; ma in pratica, specialmente dopo Augusto, il titolo di procurator sostitui' quello di praefectus nelle regioni recentemente annesse (salvo che in Egitto). I territori lasciati da Archelao furono annessi alla sovrastante pro­vincia della Siria, la quale era imperiale e fra le più importanti a causa della sua posizione geografica. Tuttavia non fu una annessione piena e totale, ma piuttosto una subordinazione di poteri; nei nuo­vi territori, cioè, fu inviato un procurator dell'ordine dei cavalieri, che doveva esserne il governatore diretto e ordinario; egli tuttavia era invigilato nel suo ufficio dal legatus della provincia di Siria, il quale aveva pure facoltà nei casi più gravi d'intervenire nei terriori del procurator. La notoria difficoltà di governare i Giudei aveva indotto il prudente Augusto a questa subordinazione di poteri, in maniera che la giurisdizione ordinaria del procuratore fosse coadiu­vata ed eventualmente rettificata dalla giurisdizione superiore del vicino legato.

§ 21. Il procuratore romano della Giudea risiedeva abitualmente a Cesarea marittima, la città recentemente Costruita con suntuosità da Erode il Grande, l'unica fornita di porto e giustamente chiamata da Tacito “capitale della Giudea” sotto l'aspetto politico; tuttavia spesso il procuratore si trasferiva a Gerusalemme, capitale religiosa e nazionale, specialmente in occasione di feste (ad es. la Pasqua), trovandosi ivi in miglior centro di vigilanza. Tanto a Ce­sarea quanto a Gerusalemme, i due rispettivi palazzi di Erode servivano da praetorium, com'era chiamata la residenza del procuratore: ma in Gerusalemme egli si serviva per il disbrigo di affari anche della potentissima e comoda fortezza Antonia, che sovrastava al Tem­pio (§ 49). Nell'Antonia aveva anche il proprio quartiere la guar­nigione militare di Gerusalemme. Quale comandante militare della regione, il procuratore aveva alle sue dipendenze non legioni romane, ch'erano composte di cives romani e stazionavano nella provincia della Siria, bensi' truppe au­siliarie reclutate di solito fra Samaritani, Siri e Greci, godendo i Giudei dell'antico privilegio di esenzione dal servizio miltare. Que­ste truppe erano di solito divise in “coorti” per la fanteria3 e in “ali” per la cavalleria. Le truppe della Giudea, a quanto sembra, erano costituite da cinque “coorti” e da una “ala”, raggiungendo complessivamente la forza di poco più di tremila uomini: una coorte era di stanza permanente a Gerusalemme. Quale capo amministrativo, il procuratore presiedeva alla esazione delle imposte e gabelle varie. Le imposte, di natura o fondiaria o personale o di reddito, erano dovute dalla regione in quanto tribu­taria di Augusto e perciò finivano nel fiscus o cassa imperiale (men­tre le imposte delle province senatorie finivano nell'aerarium o cassa del Senato): nel riscuotere queste imposte il procuratore si serviva di agenti statali, coadiuvati tuttavia dalle autorità locali. Le gabelle poi comprendevano diritti diversi, quali dazi, pedaggi, affitti di luo­ghi pubblici, mercati e altri; la loro riscossione, come nel resto dell'Impero, era data in appalto a ricchi imprenditori i pubbcani che pagavano al procuratore una certa somma, di cui si rifacevano con la riscossione di una determinata partita di ga­belle: gli impiegati dipendenti da questi appaltatori generali erano gli exactores o portitores. E’ superfluo dire quanto fossero odiati dal popolo tutti costoro, sia publicani sia exactores, e quanti soprusi ed estonsioni avvenissero, specialmente se gli appaltatori subaffittavano il loro appalto come spesso accadeva: tutto il peso di questo complicato bagarinaggio finiva col gravare sul contribuente.

§ 22. Quale amministratore della giustizia il procuratore aveva il suo tribunale, in cui esercitava il ius gladii con potestà di pronunziare sentenze capitali; chi godeva della cittadinanza romana poteva appellare dal suo tribunale a quello dell'imperatore a Roma, mentre per gli altri non esisteva appello. Ma per i casi ordinari continua­rono ad esistere e a funzionare liberamente in Giudea i tribunali lò­cali della nazione, e in primo luogo quello del Sinedrio a Gerusa­lemme (§ 57 segg.): esso aveva conservato anche autorità legislativa, sia in materia religiosa sia parzialmente in quella civile e tributaria, che si estendeva ai membri della nazione. Tuttavia al Sinedrio era stata tolta la potestà di pronunziare sentenze capitali (§ 59). In sostanza, sotto i procuratori, l'antico ordinamento nazionale del giudaismo era stato conservato. Il vero capo della nazione restava sempre il sommo sacerdote: in realtà la sua elezione e deposizione spettavano al procuratore e al legato di Siria, ma costoro procede­vano ad esse accordandosi con le più autorevoli famiglie sacerdotali, finché dall'anno 50 in poi rinunziarono anche a questi diritti ceden­doli ai principi della dinastia erodiana. A fianco al sommo sacerdote, dopo l'annessione all'Impero, stette il procuratore quale sorvegliante politico e rappresentante del fisco imperiale. Nel campo religioso le autorità romane, conforme alla loro antica tradizione, seguirono costantemente la norma del rispetto assoluto, non solo alle autorevoli istituzioni della nazione, ma spesso anche a pregiudizi e stravaganze; alcune volte, è vero, questa norma ebbe eccezioni più o meno gravi per colpa di singoli magistrati, ma presto queste imprudenze furono sconfessate con atti opposti. Si cercò an­che di associarsi in certi casi alle costumanze tradizionali, per mo­strare verso di esse non soltanto rispetto ma anche simpatia; ad esempio, giunsero più volte dalla famiglia imperiale di Roma offerte per il Tempio di Gerusalemme, e Augusto stesso volle che vi fossero sacrificati ogni giorno un bove e due agnelli per Cesare e per il popolo romano (cfr. Guerra giud., IT, 197) sostenendone la spesa - a quanto sembra - l'imperatore stesso (cfr. Filone, Lega. ad Caium, 23, 40).

§ 23. Molti furono i privilegi mantenuti o concessi da Roma alla nazione giudaica, anche sotto il regime dei procuratori. Per riguardo al riposo del sabbato i Giudei erano esenti dal servizio militare e non potevano essere citati in giudizio in quel giorno. Per riguardo alla norma giuridica che proibiva qualsiasi raffigurazione di esseri animati viventi, i soldati romani che entravano di presidio a Geru­salemme avevano ordine di non portare con sé i vessilli su cui era effigiato l'imperatore; per lo stesso motivo le monete romane co­niate in Giudea - le quali erano soltanto di bronzo - non avevano l'effigie dell'imperatore, ma solo il suo nome con simboli ammessi dal giudaismo: vi circolavano tuttavia anche monete d'oro e d'ar­gento che recavano la riprovata immagine, ma perché erano state coniate fuori della Giudea (§ 514). Tanto meno fu imposto nella Giudea il culto per la persona del­l'imperatore, che pure nelle altre province dell'Impero era un atto fondamentale d'ordinario governo: la sola eccezione a questo pri­vilegio fu tentata da Caligola nel 40, allorché lo squilibrato impera­tore si mise in testa di avere una propria statua eretta dentro il Tempio di Gerusalemme, ma il tentativo non riuscì per la fermezza. dei Giudei e per la prudenza di Petronio legato di Siria. In conclusione, la Giudea governata da procuratori romani non si trovò affatto in condizioni peggiori della Giudea governata da Erode il Grande o anche da taluni dei precedenti Asmonei. Naturalmen­te molto dipendeva dal senno e dalla rettitudine dei singoli procu­ratori: e qui in verità le deficienze furono numerose e gravi special­mente negli ultimi anni avanti alla guerra e alla catastrofe dell'anno 70, allorché a governare un popolo sempre più intollerante e far­neticante erano inviati procuratori sempre più venali e brutali.

§ 24. Dai primi procuratori della Giudea sappiamo poco o nulla che abbia diretta relazione con Gesù. Il primo fu Coponio che entrò in carica nell'anno 6 dopo Cr., cioè appena deposto Archelao; giunto sul luogo, egli insieme col legato di Siria, Sulpicio Quirinio, esegui' il censimento (§ 183 segg.) della regione nuovamente annessa, giacché secondo i principii romani soltanto un regolare censimento delle persone e dei beni poteva fornire la base della futura amministra­zione nonostante gravi difficoltà, il censimento fu portato a termi­ne. Coponio rimase in carica tre anni (6-9), e altrettanto i suoi suc­cessori Marco Ambivio (o Ambibulo) (9-12) e Annio Rufo (12-15), che fu l'ultimo eletto da Augusto. Il primo eletto da Tiberio fu Valerio Grato (15-26). Costui da prin­cipio ebbe difficoltà a trovare un sommo sacerdote con cui andasse d'accordo, giacché depose subito quello trovato in carica, cioè Anano (Anna), e in quattro anni gli dette quattro successori, cioè Ismaele, Eleazaro, Simone e Giuseppe detto Qajapha (Caifa): con quest'ul­timo pare che andasse d'accordo. A Valerio Grato successe Ponzio Pilato nell'anno 26.

§ 25. Di Pilato parlano, oltre ai vangeli, anche Filone (Legat. ad Caium, 38) e Flavio Giuseppe, e da tutte e tre le fonti il minimo che risulti è che Pilato era uno scontroso e un ostinato; ma il re Erode Agrippa I, che ne sapeva parecchie cose per esperienza per­sonale, lo dipinge anche come venale, violento, rapinatore, anga­riatore e tirannico nel suo governo (in Filone, ivi). Forse queste ac­cuse addotte dal re giudeo sono esagerate; ad ogni modo è certo che Pilato, come procuratore, dette cattiva prova nell'interesse stes­so di Roma. Per i suoi governati egli ebbe un cordiale disprezzo, non fece nulla per guadagnarsene l'animo, cercando piuttosto ogni occasione per stuzzicarli ed offenderli, e non soltanto li odiava, ma sentiva anche un prepotente bisogno di mostrare loro questo suo odio. Se fosse dipeso da lui, li avrebbe mandati volentieri tutti a la­vorare negli ergastula e ad metalla; ma c'era di mezzo l'imperatore di Roma, e anche il legato di Siria che sorvegliava e riferiva all'im­peratore, e perciò il cavaliere Ponzio Pilato doveva frenarsi e im­porre dei limiti agli sfoghi del suo astio. Tuttavia anche questo ti­more servile ebbe il suo contrapposto; infatti già nel 19 dopo Cr. Tiberio, avendo scacciato i Giudei da Roma, sembrava essere en­trato in un periodo d'ostilità contro il giudaismo in genere, e pro­prio durante questo periodo Pilato era stato inviato a governare la Giudea: egli quindi, specialmente nei primi anni, poté stimare che la sua avversione contro i pnopri governati ricopiasse con opportuna cortigianeria gli esempi che venivano dall'Italia.

§ 26. Probabilmente fin dal principio del suo procuratorato, egli, accoppiando i due sentimenti di cortigianeria verso l'imperatore e di disprezzo verso i Giudei, dette ordine ai soldati che da Cesarea salivano a presidiare Gerusalemme di entrarvi portando con sé, per la prima volta, i vessilli con l'effigie dell'imperatore; tuttavia, astu­tamente, fece introdurre i vessilli di notte, per non suscitare resi­stenze e per metter la città davanti al fatto compiuto. Il giorno appresso, costernati da tanta profanazione, molti Giudei corsero a Cesarea e per cinque giorni e cinque notti di seguito rimasero a supplicare il procuratore di rimuovere i vessilli dalla città santa. Pilato non cedette; anzi al sesto giorno, seccato dall'insistenza, li fece circondare in pubblica udienza dalle sue truppe, minacciando di ucciderli se non tornavano subito alle loro case. Ma qui, quei ma­gnifici tradizionalisti, vinsero il cinico romano; quando si videro circondati dai soldati, essi si prostesero a terra, si denudarono il collo, e si dichiararono pronti a farsi scannare piuttosto che rinunciare ai propri principii. Pilato, che non si aspettava tanto, cedette e fece ri­muovere i vessilli. Più tardi ci fu la questione dell'acquedotto. Per portar acqua a Ge­rusalemme, che ne aveva molto bisogno anche per i servizi del Tem­pio, Pilato decise la costruzione di un acquedotto che convogliasse le acque delle ampie riserve situate a sud-est di Beth-lehem (le cosiddette “vasche di Salomone” odierne), e a pagare tale lavoro destinò alcuni fondi del tesoro del Tempio. Questo impiego del de­naro sacro provocò dimostrazioni e tumulti da parte dei Giudei. Pilato allora fece sparpagliare fra i tumultuanti molti suoi soldati tra­vestiti da Giudei; al momento stabilito i travestiti estrassero i ran­delli che tenevano nascosti e si dettero a malmenare la folla, la­sciando sul terreno parecchi morti e feriti. In seguito il litigioso procuratore ripeté un tentativo analogo a quello dei vessilli militari, facendo appendere al palazzo di Erode in Geru­salemme certi scudi dorati recanti il nome dell'imperatore. Si è pen­sato che questo nuovo tentativo - di cui abbiamo notizia solo da Filone - possa essere uno sdoppiamento del precedente fatto dei vessilli: ma il dubbio non sembra fondato, sia per il carattere punti­glioso di Pilato, sia perché questo nuovo tentativo dovette avvenire molto più tardi dell'altro. Questa volta una delegazione inviata a Pilato, di cui facevano parte anche quattro figli di Erode il Grande, non ottenne la desiderata rimozione degli scudi; allora i Giudei si rivolsero a Tiberio stesso, e l'imperatore spedi l'ordine di trasportare i contrastati scudi nel tempio d'Augusto a Cesarea. Questa arrendevolezza di Tiberio induce a credere che il fatto sia accaduto dopo la morte di Seiano (31 dopo Cr.), ch'era stato onnipotente ministro di Tiberio e gran nemico dei Giudei. Del tutto occasionale è la notizia di fonte evangelica (Luca, 13, 1) secondo cui Pilato fece uccidere certi Galilei - che perciò erano sud­diti di Erode Antipa - mentre offrivano sacrifizi nel Tempio di Ge­rusalemme; ma non abbiamo particolari su questo fatto Possiamo invece sospettare che l'ostilità fra Pilato e Antipa, attestata dalla fonte evangelica (Luca, 23, 12), avesse come parziale motivo questa strage di sudditi di Antipa; ma un altro motivo fu, probabilmente, la parte di spia che Antipa faceva presso Tiberio a carico dei ma­gistrati romani (§ 15).
§ 27. Alla fine Pilato fù vittima del suo modo di governare. Nel 35 un falso profeta, che aveva acquistato gran nome in Samaria, promise ai suoi seguaci di mostrare gli arredi sacri dei tempi di Mosè che si credevano nascosti nel monte Garizim, vicino a Samaria. Ma, il giorno fissato, Pilato fece occupare dai soldati la sommità del mon­te: egli infatti voleva impedire l'assembramento, non tanto perché desse importanza alla vana promessa del falso profeta, quanto per­ché sapeva che i Samaritani erano stanchi delle oppressioni del procuratore e sospettava in essi propositi di rivolta. Formatosi ugual­mente un numeroso assembramento, i soldati lo assalirono: molti Samaritani rimasero uccisi, molti furono fatti prigionieri, e i più insigni di costoro furono poi messi a morte da Pilato. Di questa ir­ragionevole strage la comunità dei Samaritani presentò formale ac­cusa contro Pilato presso Vitellio, ch'era legato di Siria e munito di pieni poteri in Oriente; l'accusa fu accolta con premura, perché i Samaritani erano noti per la loro fedeltà a Roma, e Vitellio senz'al­tro destituì Pilato e l'inviò a Roma a rispondere del suo operato davanti all'imperatore. Era lo scorcio dell'anno 36. Quando Pilato giunse a Roma, trovò che Tiberio era morto (16 mar­zo del 37). In che maniera finisse il condannatore di Gesù, non è noto alla vera storia: è invece noto alla leggenda, che gli attribui mirabili avventure in questo e nell'altro mondo, e lo destinò tal­volta al fondo dell'inferno e talvolta invece al paradiso come vero santo.
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