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Ultimo Aggiornamento: 06/08/2012 17:50
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06/08/2012 16:39

Sadducei, Farisei, Scribi e altri gruppi giudaici

§ 28. Ai tempi di Gesù i Saduducei e i Farisei formavano, dentro il popolo giudaico, i suoi due principali raggruppamenti. I quali però non erano delle “sette” nel senso rigoroso della parola, perché non erano staccati dalla compagine morale della nazione; neppure erano confraternite religiose come gli Esseni (§ 44), quantunque i loro prin­cipii fondamentali fossero religiosi; e nemmeno mostravano quale prima nota caratteristica un dato atteggiamento politico come gli Erodiani (§ 45), sebbene avessero grande importanza anche nel cam­po politico e sociale. Erano invece due correnti o tendenze che par­tivano ambedue da principii solenni nella nazione giudaica, pur es­sendo fra loro in assoluto contrasto. Esaminandole contemporaneamente, il loro stesso contrasto giova a definirle con precisione. Si crede di solito che i Farisei rappresentassero la corrente conser­vatrice, e i Sadducei quella liberale e innovatrice: ciò potrà esser vero nel campo pratico, ma in quello giuridico-religioso la designa­zione dovrebb'essere inversa, perché i Sadducei dal loro punto di vi­sta si presentavano quali conservatori del vero patrimonio morale dei giudaismo, e respingevano come innovazioni le dottrine particolari ai Farisei. Le due correnti, infatti, sorsero dal diverso atteggiamento che i vari ceti della nazione presero di fronte all'ellenismo, quando questo venne in urto col giudaismo, cioè dall'epoca dei Maccabei (16 av. Cr.) in poi.

§ 29. L'insurrezione dei Maccabei, diretta contro la politica elleniz­zatrice dei monarchi Seleucidi, fu sostenuta specialmente da quei po­polani di basso ceto, cordialmente avversi a istituzioni straniere, che si chiamarono gli Asidei “pii”; al contrario, in seno alla nazione stessa, si mostrarono favorevoli all'ellenismo parec­chi altri Giudei ch'erano rimasti abbarbagliati dallo splendore di quel­la civiltà straniera, ed appartenevano specialmente a classi sacerdotali e facoltose. Rimasta però vincitrice l'insurrezione nazionale-religiosa, gli aristocratici fautori dell'ellenismo entro la nazione giudaica scom­parvero o tacquero. Tuttavia poco dopo, stabilitasi la dinastia nazio­nale degli Asmonei discendenti dai Maccabei, le due correnti ricomparvero apertamente, sebbene con provenienza alquanto mutata; avvenne, cioè, che proprio quei sovrani Asmonei che dovevano il loro trono ai popolani Asidei, si mettessero in contrasto con questi, e si appoggiassero invece sulle classi sacerdotali ed aristocratiche. La ragione del mutamento è chiara. L'ellenismo premeva dall'esterno cosi gravemente sullo Stato giudaico ricostituito, che i governanti Asmonei non potevano praticamente evitare ogni relazione politica con esso, né impedire numerose infiltrazioni di quella civiltà pagana nei loro territori; senonché quelle relazioni e infiltrazioni parvero sconfitte politiche e soprattutto apostasie religiose agli Asidei, che perciò si alienarono man mano dai già favoriti Asmonei e divennero ad essi ostili. Passando all'opposizione, essi si chiamarono i “Separati”: in ebrai­co Peruhzm, in aramaico Perishajja, donde Farisei. I loro avversari, in maggioranza di stirpe sacerdotale, si chiamarono Sadducei, dal nome di Sadoq antico capostipite d'un insigne casato sacerdotale.

§ 30. Ma da chi, o da che cosa, i Farisei si consideravano “sepa­rati”? Il criterio della loro separazione era soprattutto nazionale-religioso, e solo conseguentemente civile e politico: essi si tenevano separati da tutto ciò che non era giudaico e che per tal ragione era anche irreligioso ed impuro, giacché giudaismo, religione e purità legale erano concetti che praticamente non si potevano staccare l'uno dall'altro. Ma qui sorgeva il contrasto, anche dottrinale, con i Sadducei: qual era la vera norma fondamentale del giudaismo? quale il supremo e inappellabile statuto che doveva governare la nazione eletta? A questa domanda i Sadducei rispondevano che era la Torah, cioè la “Legge” per eccellenza, la “Legge scritta” consegnata da Mosè alla nazione come statuto fondamentale e unico. I Farisei invece rispondevano che la Torah, la “Legge scritta”, era soltanto una parte, e neppure la principale, dello statuto nazionale-religioso: in­sieme con essa, e più ampia di essa, esisteva la “Legge orale”, co­stituita dagl'innumerevoli precetti della “tradizione”. Questa Legge orale era costituita da un materiale immenso: essa comprendeva, oltre ad elementi narrativi e di altro genere, anche tutto un elaborato sistema di precetti pratici, che si estendeva alle più svariate azioni della vita civile e religiosa, e andava perciò dalle complicate norme per i sacrifizi del culto fino alla lavanda delle stoviglie prima dei pasti, dalla minuziosa procedura dei pubblici tribunali fino a decidere se era lecito o no mangiare un frutto caduto spontaneamente dall'albero durante il riposo del sab­bato. Tutta questa congerie di credenze e di costumanze tradizio­nali non aveva quasi mai un vero collegamento con la Torah scritta; ma i Farisei scoprivano spesso siffatto collegamento sottoponendo a un'esegesi arbitraria il testo della Torah: e anche quando non ri­correvano a tale metodo, si richiamavano al loro principio fondamentale che Dio aveva dato a Mosè sul Sinai la Torah scritta con­tenente solo 613 precetti, e inoltre la Legge orale molto più ampia ma non meno obbligatoria.

§ 31. Anzi, anche più obbligatoria. Troviamo infatti che con l'an­dar del tempo, man mano che i dottori della Legge o Scribi ela­boravano sistematicamente l'immenso materiale della tradizione, que­sto veniva ad assumere un'importanza pratica, se non teoretica, mag­giore della Torah scritta. Nel Talmud, che è in sostanza la tradizione codificata, sono contenute sentenze corne queste: Maggior forza hanno le parole degli Scribi che le parole della Torah; perciò anche è peggior cosa andar contro alle parole degli Scribi che alle parole della Torah (Sanhedrin, XI, 3); infatti le parole della Torah conten­gono cose proibite e cose permesse; precetti leggieri e precetti gravi: ma le parole degli Scribi sono tutte gravi (Berakoth pai., i, 3 b). E’ chiaro che, stabilito questo principio fondamentale, i Farisei erano in regola, e potevano legiferare quanto volevano estraendo ogni de­cisione dalla loro Legge orale. Ma appunto questo principio era re­spinto dai Sadducei, i quali non riconoscevano altro che la Legge scritta, la Torah, non accettando punto la Legge orale e la “tradi­zione” dei Farisei. Codeste cose - dicevano i Sadducei - erano tutte innovazioni, tutte deformazioni dell'antico e semplice spirito ebrai­co; essi, i Sadducei, erano i fedeli custodi di quello spirito, i veri “conservatori”, e perciò si opponevano agli arbitrari e interessati sofismi messi fuori da quei modernisti di Farisei. La risposta dei Sadducei era abile senza dubbio; tanto più che con quella parvenza di conservatorismo si evitavano legalmente i carichi pesanti (Matteo, 23, 4) imposti dai Farisei, e si lasciava una porta aperta per intendersi con l'ellenismo e la civiltà greco-romana. Perciò i Sadducei si appoggiarono sui ceti della nobiltà e di governo, che necessariamente dovevano mantenere relazioni con la civiltà straniera; i Farisei al contrario si appoggiarono sulla plebe, avversa a tutto ciò ch'era forestiero ed invece attaccatissima a quelle costu­manze tradizionali da cui i Farisei estraevano la loro Legge orale. Di qui anche il paradosso per cui i Sadducei erano giuridicamente conservatori ma praticamente lassisti; i Farisei invece apparivano come innovatori riguardo alla Torah scritta, mentre la loro inno­vazione voleva essere una salvaguardia e una protezione dell'an­tico.

§ 32. Le due correnti di Farisei e di Sadducei compaiono per la prima volta, già ben definite e in contrasto, al tempo del primo degli Asmonei, Giovanni Ircano (134-104 av. Cr.), ch'era anche figlio di Simone ultimo dei Maccabei: benché tale, egli era già in aperta ostilità con i Farisei. L'ostilità divenne furibonda sotto Alessandro Janneo (103-76 av. Cr.), e fra monarca e Farisei si ebbe una guerra di sei anni che fece cinquantamila vittime (Antichità giud., XIII, 376). Al contrario sotto il regno di Alessandra Salome (76-67 av. Cr.) i Farisei ebbero il loro periodo d'oro, poiché la regina lasciò fare ogni cosa ai Farisei, e comandò che anche il popolo obbedisse a loro...; ella quindi aveva il nome di regina, ma i Farisei avevano il potere (ivi, 408). Seguirono, naturalmente, le intemperanze della vittoria: gli sconfitti Sadducei, che avevano avuto fino allora la maggioranza nel consiglio del gran Sinedrio, vi rimasero per allora in minoranza esigua; gli antichi avversari dei Farisei o furono messi a morte o presero la via dell'esilio; si arrivò al punto che l'intero paese stava quieto, fatta eccezione dei Farisei (ivi, 410). Appunto da questo tem­po in poi il giudaismo fu sempre improntato dalle dottrine fari­saiche. Una certa reazione da parte dei Sadducei si ebbe sotto Aristobulo Il, per cui essi parteggiavano, mentre per il suo rivale fratello Ircano Il parteggiavano i Farisei: ma in seguito la massa del popolo divenne dominio quasi assoluto dei Farisei, i quali contavano taluni se­guaci anche fra i bassi ceti sacerdotali; cosicché, negli ultimi tempi prima del 70, i Sadducei restrinsero la loro autorità al Tempio ed alle grandi famiglie sacerdotali o facoltose accentrate attorno ad esso.

§ 33. Con la catastrofe dell'anno 70 i Sadducei scomparvero dalla storia, e naturalmente il giudaismo posteriore, dominato totalmente dai Farisei, conservò un pessimo ricordo dei Sadducei. Ecco come, sul finire del secolo I dopo Cr., si giudicavano i grandi casati sa­cerdotali che negli ultimi tempi prima della catastrofe erano stati più famosi: Guai a me dal casato di Boeto, guai a me dal loro scudiscio! Guai a me dal casato di Cantharos, guai a me dal loro calamo! Guai a me dal casato di Anna, guai a me dal loro sibilo! Guai a me dal casato d'Jsmael pglio di Fiabi, guai a me dal loro pugno! Sommi sacerdoti sono essi, tesorieri i loro figli; magistrati del Tempio i loro suoceri, i loro servi vengono con mazze a randellarci! E questo documento (Tosefta Menahoth, XIII, 21; non è solitario nei testi rabbinici: inoltre violenze e rapine compiute dall'alto sacerdozio a danno del clero inferiore sono ricordate anche da Flavio Giuseppe (Antichità giud., XX, 179-181).

§ 34. Quanto alle dottrine delle due correnti, ecco come si esprime il loro più antico storico, Flavio Giuseppe: (I Farisei) hanno fama d'interpretare con accuratezza le leggi e dirigono la setta principale; attribuiscono ogni cosa al Destino e a Dio, (ri­tenendo che) l'operare giustamente o no dipende in massima parte dall'uomo, ma il Destino coopera in ciascuna (azione); ogni anima e incorruttibile, ma soltanto quelle dei malvagi sono punite con un castigo eterno. I Sadducei invece, che sono il secondo gruppo, sopprimono assolutamente il Destino, e pongono Dio fuori (della possibilità) di fare alcunché di male o (anche solo) di scorgerlo; essi dicono che e' in potere dell'uomo la scelta del bene e del male, e che secondo la decisione di ciascuno avviene la sopravvivenza dell'anima, come pure la punizione e i premi giu' nell'Ade. I Farisei sono affezionati fra loro, e promuovono il buon accordo con la co­munità; i Sadducei invece sono piuttosto rudi per abitudine anche tra loro, e nelle relazioni con i (loro) simili sono scortesi come con gli stranieri. Si vedono chiaramente, in questi due sistemi di dottrine, le conseguenze del criterio principale che divideva i Sadducei dai Farisei. I primi accettavano la sola Legge scritta: e poiché in essa non tro­vavano chiaramente formulata una dottrina sulla resurrezione o sull'oltretomba, negavano questi punti; secondo Atti, 23, 8, essi non ammettevano neanche l'esistenza degli angeli e degli spiriti. Quanto al Destino che i Sadducei negavano secondo Flavio Giuseppe, è da vedersi piuttosto la Provvidenza o la Grazia divina. In sostanza, i Sadducei filosoficamente si rassomigliavano agli Epi­curei e teologicamente ai Pelagiani. Nel campo pratico la rudezza, attribuita loro dallo storico, doveva essere effetto della loro arro­ganza aristocratica; ma ci si dice pure che essi, nei giudizi forensi, erano rigorosissimi a differenza dei Farisei che inclinavano alla mitezza.

§ 35. I Farisei estraevano dalla “tradizione” le dottrine respinte dai Sadducei; e poiché lo studio della Legge, specialmente di quella orale, era il dovere più stretto e l'occupazione più nobile per ogni Giudeo, essi si dedicavano totalmente a questo studio. Fu detto, fra l'altro, che è maggiore lo studio della Torah che la costruzione del Tempio, anzi che è maggiore della venerazione per il padre e per la madre (ivi), e che l'uomo non deve ritrarsi dalla casa di studio (della Legge) e allontanarsi dalle parole della Torah neppure all'ora della morte; inoltre la To­rah e' maggiore del sacerdozio e della regalità, perché la regalità esige 30 requisiti, il sacerdozio 24, mentre la Torah si acquista con 48, e segue l'enumerazione dei 48 requisiti. Né è da credere che queste norme rimanessero lettera morta per­ché moltissimi sono gli esempi di Farisei che consacrarono tutta la loro vita allo studio della Legge trascurando ogni altra occupazione, salvo forse l'esercizio di un mestiere manuale per poche ore al gior­no, tanto per procurarsi da vivere. Cotesti studiosi della Legge erano consci della loro grandezza: la Legge infatti era l'armamentario da cui doveva estrarsi ogni norma per la vita pubblica e privata, religiosa e civile; quindi essi, custodi di quell'armamentario, erano dappiù del sacerdozio e della regalità. In una nazione ove la massa del popolo accettava pienamente l'idea teocratica, siffatto ragiona­mento era perfetto; e perciò i Farisei sentivano che la loro forza poggiava, non sulle classi aristocratiche o dell'alto sacerdozio o della corte, bensì' sulla massa del popolo.

§ 36. Lo studio farisaico della Legge verteva su tre argomenti prin­cipali, che erano il riposo del sabbato (§ 70), il pagamento delle decime e la purità rituale (§ 72): ma, oltre a questi, moltissimi altri argomenti formavano oggetto di lunghe investigazioni. Il metodo di studio si basava in primo luogo sulla conoscenza delle sentenze già emanate dalla tradizione, e secondariamente sull'applicazione estensiva e sull'ulteriore sviluppo di esse. Il contenuto del Talmud, che fissò in iscritto ciò che per secoli avevano trasmesso a memona i dottori della Legge, non è in massima parte che una raccolta di tali sentenze (§ 87). Era evidente, in siffatto metodo, il pericolo del formalismo e della casistica, infarciti di sottigliezze ma privi di spirito; e nel pericolo si cadde in massima parte. Chi si trasferisca nell'ambiente storico d'allora, non rimarrà tanto meravigliato di trovare un trattato del Talmud intitolato dai Nidi degli uccelli, e un altro dai Vasi, e un altro dai Picciuoli delle frutta, e altri ancora da argomenti meno decorosi e puliti (§ 72); si domanderà piuttosto su quale impalca­tura spirituale poggiava tutto questo immenso scenario giuridico che sembrerebbe campato in aria. L'impalcatura, in realtà, esisteva: era costituita dal sedimento che nell'animo della nazione aveva depositato la predicazione degli an­tichi profeti, tutta di altissima moralità e di intima religiosità, la quale nei secoli passati era risonata fra il popolo ed anche allora era riecheggiata dalle Scritture sacre lette nelle sinagoghe. Ma trop­po poco si badava allora al valore spirituale di quella predicazione, e invece troppi gingillamenti si facevano attorno alla materialità della sua applicazione. Il profluvio dell'ispirazione divina finiva nel­la morta gora della casistica umana: alla sorgente d'acque vive si preferivano cisterne screpolate che non serbano acqua, come già aveva detto Geremia (2, 13), il quale però aveva anche gridato il rimprovero (8, 8): Come potete dire: “Sapienti noi siamo, e la Torah di Jahve' con noi? Ecco, invero, a menzogna l'ha ridotta lo stilo menzognero degli scribi!

§ 37. Sarebbe falso ed ingiusto dire che tutta l'elaborazione della Legge compiuta dai Farisei fosse menzogna: ma moltissimo ciar­pame era certamente. In un mare di futilità e di pedanterie erano contenute vere perle preziose, che rappresentavano l'eredità dello spirituale insegnamento profetico: ma troppa sproporzione correva tra l'ampiezza del mare e la scarsità delle perle, tra lo smisurato scenario giuridico e l'esigua impalcatura spirituale, cosicché l'utile restava affogato fra tanto disutile. Ad esempio, sentenza senza dub bio sublime è quella attribuita al celebre Hillel, anteriore a Gesù di pochi anni, il quale ad un pagano, che gli aveva chiesto d'insegnargli tutta la Legge nel breve tempo che fosse riuscito a reggersi su un piede solo, rispose: Ciò che non desideri per te, non fare al prossimo tuo. Questa e' tutta la Legge; il Testo e' solo commento. Va' e impara (Shabbath, 31 a). Ma sta di fatto che il commento, qui collocato giustamente in seconda linea, in pratica passava in prima linea, e faceva dimenticare la Legge stessa. Peggio ancora: talvolta il commento contraddiceva alla Legge. E’ noto che Gesù in un determinato caso rimproverò ai Farisei: Trasgredite il precetto d'iddio per la tradizione vostra (Matteo, 15, 3, 6; Marco, 7, 9 estendendosi poi dal caso singolo all’abitudine generale, aggiunse: E cose simili di tal genere fate molte (Marco, 7, 13). Le prove di queste trasgressioni si tro­verebbero facilmente negli antichi scritti rabbinici; ma è importan­te rilevare come, appunto riguardo allo studio della Legge, fu sen­tenziato: Un pagano che si occupa dello studio della Torah e' degno di morte, ciò che non era né nella lettera né nel­lo spirito della Legge, ma solo nella gelosia nazionalistica dei Farisei considerata come elemento di “tradizione”.

§ 38. Anche riguardo alla condotta pratica dei Farisei non si po­trebbe dare un giudizio valevole per tutti. Oltre a maestri veramen­te insigni, quali Hillel, Gamaliel il Vecchio (cfr. Atti, 5, 34 segg.) che fu maestro di S. Paolo (ivi, 22, 3), e altri, non erano pochi gli onesti ed i sinceri anche fra le persone oscure. Anche da parte cristiana troviamo Gesù in relazioni amichevoli con Farisei, quali Simone, Nicodemo, Giuseppe di Arimatea; perfino S. Paolo, mentre proclama l'abolizione della Legge ebraica, si afferma Ebreo da Ebrei, secondo la Legge Fariseo (Filipp., 3, 5). Tuttavia le invettive più severe di Gesù sono dirette appunto contro i Farisei, non già contro i Sadducei, come appunto nei Farisei egli trovò gli oppositori più tenaci alla sua missione. Il cap. 23 di Matteo è tutto una formale accusa di Gesù contro i Farisei, con allegazione di fatti ben precisi (§ 518). Ma se ciò non sorprende da parte di Gesù, è storicamente impor­tante trovare che accuse simili sono rivolte ai Farisei anche da parte rabbinica. Il Talmud enumera sette tipi diversi di Fariseo che denomina con i precisi termini seguenti il «Fariseo-Sichem », ossia chi è Fariseo per vantaggi materiali (allude al fatto di Sichem, narrato in Genesi, 34); il « Fariseo-niqpi», cioè quatto-quatto, che con la maniera stentata di camminare fa mostra affettata di umiltà; il «Fariseo-salasso », che si procura frequenti emorragie battendo la testa contro i muri, per non guardare donne; il « Fariseo-pestello », che cammina tutto curvo nella persona da sembrare un pestello nel mortaio; il “fariseo-qual-è-il-mio-dovere-perch’io-lo-faccia?”, cioè colui che non già si esibisce pronto a compiere tutti i suoi doveri, bensi afferma di non poterne compiere altri essendo già occupatissimo; il «Fariseo-per-amore», che opera per amore interessato del­la mercede, non già per devozione verso Dio; il «Fariseo-per-timo­re», che opera per timor di Dio, ossia per vero sentimento religioso (Sotah, 22 b, Bar.). Dei sette tipi, dunque, solamente l'ultimo merita lode, e certamente ogni tipo era rappresentato da numerosi indi­vidui. Questo elenco tuttavia, per quanto sarcastico, non è violento. Invece già verso il 10 dopo Cr., cioè prima ancora che Gesù pronun­ziasse le sue invettive contro i Farisei, poté essere scritto da un anonimo Fariseo il seguente passo, la cui violenza non è certo inferiore a quella usata da Gesù: Sorgeranno su essi (sugli Israeliti) uomini perversi ed empi, che si proclameranno giusti. Essi ecciteranno lo sdegno dei loro amici perché saranno uomini menzogneri, viventi solo per piacere a se stessi, camuffati in tutte le guise, banchettanti volentieri ad ogni ora del giorno e tracannando con la gola... ai poveri (?) divorando i beni, asserendo d'agire per compassione... re­pellenti, litigiosi, ingannatori, nascondendosi per non lasciarsi cono­scere, empi, colmi di delitto e d'iniquità, ripetenti da mane a sera: “ Vogliamo aver gozzoviglie ed opulenza, mangiare e bere... ed at­teggiarci a principi!”. Le mani e i cuori loro tratteranno cose impure, la bocca loro proferirà cose superbe, eppure diranno: “Non mi toccare, ché tu mi rendi impuro!“. Assai probabilmente il disilluso Fariseo che dipinge questo quadro impiega tinte più scure del giusto; ma l'amarezza d'animo, che gli fa scegliere queste tinte, doveva ben essere stata cagionata da fatti reali. Ad ogni modo le invettive di Gesù si riferivano alla condotta pratica dei Farisei più che alle loro dottrine, almeno considerate ge­nericamente; sono chiare in tal senso le sue parole: Sulla cattedra di Mose si sedettero gli Scribi ed i Farisei. Perciò, tutte quante le cose che vi dicano, fate ed osservate, ma conforme alle opere loro non fate (Matteo, 23, 2-3).

§ 39. Quanto alla numerosità dei Farisei, da un passo di Flavio Giuseppe (Antichità giud., XIII, 383) sembra risultare che si aggi­rassero sugli 8000 ai tempi del re Alessandro Janneo: circa un se­colo più tardi, sotto Erode il Grande, si parla di piu' che 6000 (ivi, XVII, 42) che dovrebbero essere tutti i Fatisei d'allora. Ma probabilmente queste cifre non sono esatte, come spesso avviene in Flavio Giuseppe, e dovranno essere alquanto aumentate. Provenienti dalle varie classi sociali, e in piccola parte anche da quella sacerdotale meno alta, i Farisei erano stretti fra loro con vincoli ben saldi, che miravano al grande scopo di osservare la purità legale e mantenersi “separati” (§ 29) dall'impuro. Tra loro si chiamavano haberim, cioè etimologicamente “collegati”, e l'associazione era una haberuth ossia “colleganza”. I membri dell'associazione, poveri o ricchi che fossero, dovevano essere di un rigore minuziosissimo nell'osservare i tre gruppi principali di precetti, cioè il riposo del sabbato, le nor­me di purità legale e le leggi del culto (decime, ecc.): chi poi aveva anche una cultura sufficiente per discutere su questioni legali, era un hakam, cioè un “dotto”, mentre chi non l'aveva era un privato qualsiasi.

§ 40. Tutti gli altri Giudei, che non appartenevano alla ”colleganza” dei Farisei, erano chiamati da costoro il “popolo della ter­ra”. Il termine era dispregiativo, ma anche più di­spregiativo era il contegno tenuto dai Farisei verso questi loro con­nazionali. Anche qui le testimonianze, da parte tanto cristiana quanto giu­daica, sono concordi. In Giovanni, 7, 49, i Farisei esclamano: Que­sta folla, che non conosce la Legge, sono maledetti; ove la folla designa i non Farisei, cioè il “popolo della terra”, il quale non conosce la Legge ed è tutto di maledetti. I documenti giudaici, Poi, confermano questa maledizione. E’ sentenza appunto del grande Hiilel che nessun tanghero teme il peccato, e il popolo della terra non e' pio: ove tanghero è sinonimo di chi appartenga al popolo della terra. Quindi un vero Fariseo non doveva avere alcun contatto col “popolo della terra”, bensi mostrarsi fariseo cioè “separato” nei riguardi di esso. Per questa ragione un rabbino sentenziava: Partecipare ad un'assemblea del popolo della terra produce la morte (ivi, III, 10); il celebre Giuda il Santo si rammaricava: Ahime'! Ho dato del pane a uno del po­polo della terra! e Rabbi Eleazar prescriveva: E’lecito trafiggere uno del popolo della terra anche nel giorno del Kippur che cadesse di sabbato. In molti altri passi è proibito al Fariseo di vendere frutta a uno del “popolo della ter­ra”, di dargli ospitalità o riceverne, di contrarre parentela matri­moniale con lui, e simili (Demai, Il, 3; ecc.). E’ superfluo dire che, agli occhi dei Farisei, poteva essere “tanghero” e “popolo della terra” anche un Giudeo aristocratico e facoltoso, o un membro dell'alto sacerdozio: il criterio per giudicarlo era la pratica e la conoscenza della Legge secondo i principii farisei, e l'appartenenza alla eletta casta dei “separati”. Solo raramente a siffatto disprezzo di casta si rispondeva da parte degli estranei col disprezzo e con l'ostilità. Il popolino, specialmente nelle città e soprattutto le donne, stavano cordialmente per i Fa­risei tanta potenza hanno sulla folla, che pure se dicano alcunché contro il re o contro il sommo sacerdote sono immediatamente cre­duti (Antichità giud., XIII, 288). Siffatta base democratica era la vera forza di cotesti aristocratici dottrinali.

§ 41. Resta da esaminare il preciso concetto di Scriba, e le sue relazioni con quello di Fariseo. I vangeli accomunano spessissimo Scribi e Farisei, e giustamente sotto l'aspetto della realtà contem­peranea; ma in teoria non tutti gli Scribi erano Farisei, come in pratica non ogni Fariseo era Scriba perché poteva non averne la scienza necessaria, ossia non essere un hakam (§ 39). Il concetto di Scriba era quello di essere per eccellenza l'uomo del­la Legge, astraendo dalla sua condizione sacerdotale o laica e dai suoi principii sadducei o farisei; ma in pratica, ai tempi di Gesù, solo pochissimi Scribi erano di condizione sacerdotale e di principii sadducei, mentre la stragrande maggioranza era costituita da laici di principii farisei. Di qui il pratico pareggiamento di Scribi e Fa­risei presso i vangeli. Quando nell'esilio di Babilonia il popolo giudaico si trovò privato di tutti i suoi beni materiali e morali salvo che della Legge (Torah), già allora - prima cioè che esistessero le due correnti di Sadducei e Farisei - vi furono uomini che consacrarono tutta l'operosità e la vita loro all'unico bene superstite, alla Legge, onde conservarlo con ogni cura, trasmetterlo con tutta esattezza, investigarlo ed appli­carlo con la più scrupolosa indagine. Un uomo siffatto fu per ec­cellenza l'uomo del libro (sepher), non soltanto perché ne era il dligentissimo scriba, ma soprattutto perché ne era nel più ampio senso il maestro. Egli fu dun­que il legista e a lui fu riserbato il ti­tolo onorifico di Rab, Rabbi (« grande », mio grande »). Grandissima era l'autorità dello Scriba già verso il 200 av. Cr., come appare anche dal lirico encomio che ne fa il Siracida (Ecclesiastico, capp. 38-39); ma più tardi essa crebbe ancora, fino a diventare un vero trono di gloria contrapposto al trono del sacerdozio. Ai tempi di Gesù, infatti, il sacerdozio aveva bensi conservato il suo ufficio liturgico e il suo grado gerarchico nella costituzione teocratica del giudaismo, tuttavia esso aveva perduto quasi ogni efficacia sulla formazione spirituale delle masse il vero « padre spirituale » del popolo, il suo catechista, la sua guida morale, non era più il sa­cerdote ma lo Scriba. Man mano che il sacerdozio si era disinteressato della Legge, il laicato lo aveva sostituito nella direzione spi­rituale del giudaismo; mano mano che il sacerdozio si era imme­desimato con la corrente sadducea, il laicato legista era diventato sempre più fariseo: cosicché a un certo tempo l'azione del sacer­dozio rimase circoscritta alla liturgia del Tempio e ai maneggi della politica, mentre lo Scriba laico s'assise quale maestro nelle scuole della Legge, predicò quale rappresentante di Mosè nelle sinagoghe, s'aggirò quale modello di santità nelle vie e nelle case della vene­rabonda plebe. Scriba poteva divenire qualunque discendente d'Abramo, ma la via per toccare la mèta era lunga. Spesso si cominciava fin dalla puerizia a percorrerla, istruendosi - come fece S. Paolo (Atti, 22, 3) – “ai piedi” di qualche autorevole maestro (che insegnava seduto, mentre i discepoli si accoccolavano ai suoi piedi). Difficilmente un discepolo aveva percorso tutta la sua via ed era in grado a sua volta d'insegnare, prima che fosse in età di quaranta anni e in tutto questo tempo egli, quasi sempre povero, aveva esercitato un mestiere manuale per vivere (§ 167). Ma quando l'amore per la conoscenza della Legge era entrato nel cuore di uno di questi uo­mini, non si badava a privazioni d'ogni genere, a veglie diuturne, a tirocini laboriosi, a esercitazioni mnemoniche estenuanti, pur di possedere la Legge. Il possessore di questo tesoro era più ricco d'ogni ricchissimo, più glorioso d'un re e d'un sommo sacerdote, come già vedemmo a proposito dei Farisei (§ 35).

§ 42. Della corrente dei Farisei, secondo ogni verosimiglianza, sono derivazioni le correnti degli Zeloti e dei Sicari. Flavio Giuseppe, troppo incline a ravvicinare il mondo giudaico a quello greco-romano, presenta la corrente degli Zeloti come una quarta filosofia (Antichità giud., XVIII, 9), dopo le tre degli Esseni, Farisei e Sadducei; ma in realtà gli Zeloti, oltre a non rappresentare una filosofia, non formavano neppure una quarta corrente, perché erano sostanzialmente Farisei. Lo stesso Flavio Giuseppe afferma poco appresso che gli Zeloti in tutto il resto s'accordano con l'opi­nione dei Farisei, solo che hanno un ardentissimo amore per la li­bertà e ammettono come unico capo e signore Dio; non badano punto a subire le morti piu' straordinarie e punizioni di parenti e d'amici, pur di non riconoscere come signore alcun uomo (ivi, 23). E’ evidente in questo atteggiamento l'adesione al principio nazio­nale-teocratico, ch'era essenziale nel fariseismo: ma la divergenza avveniva nella pratica, perché i Farisei comuni non applicavano quel principio nel campo politico, mentre gli Zeloti ve l'applicavano con rigore fino alle ultime conseguenze. E perciò si chiamarono “Zeloti”, ossia zelanti applicatori della Legge nazionale-religiosa. Il termine era stato impiegato già da Mat­tatia, padre dei Maccabei, il quale in punto di morte aveva racco­mandato ai suoi figli: “E ora, figli, siate gli zelanti della Torah e date le vostre vite per l'alleanza dei nostri padri” (i Macc., 2, 50). Infatti i cinque figli del morente finirono tutti uccisi per la causa nazionale-religiosa; e proprio dalla vittoria di questa causa uscirono gli Asidei, dai quali discesero i Farisei (§ 29). Ora, gli Zeloti ri­presero in pieno il programma del padre dei Maccabei: vollero essere Farisei integralisti in ogni campo, anche in quello politico.

§ 43. E in realtà fu un' occasione politica che fece sorgere gli Ze­lotL Quando nell'anno 6 dopo Cr., Sulpicio Quirinio iniziò il cen­simento della Giudea testé annessa all'Impero romano (§ 24), il popolo vide nel censimento la prova tangibile che la nazione eletta dai Dio Jahvè era sottoposta sacrilegamente al dominio di impuri stranieri; tuttavia la gran massa, persuasa anche da insigni sacer­doti, si sottomise e si lasciò censire, e altrettanto fece la maggior parte dei Farisei. Resistette invece un certo Giuda di Gamala, detto il Galileo, che, unitosi con un autorevole Fariseo di nome Sadduc, indusse i paesani a ribellione insultandoli se... avessero tollerato, dopo Dio, padroni mortali. La rivolta fu do­mata dai Romani, e una trentina d'anni appresso il Fariseo Gama­liel la ricordava ancora come un episodio celebre (Atti, 5, 37). Tuttavia, con questa prima sconfitta, gli Zeloti non cedettero. Di­spersi ed occulti davanti alle autorità romane, essi mantennero sem­pre vivo lo spirito d'implacabile avversione politica contro gli stra­nieri, che poi divampò apertamente nella rivolta finale. Con ciò essi si distinsero sempre più dai Farisei comuni, che di fronte ai Romani si mostravano passivi e cedevoli. Più tardi, anzi, gli Zeloti fecero un ulteriore passo sulla via della ribellione operosa. Quando l'esperienza dimostrò che ogni sollevazione in massa non aveva al­cuna probabilità di prevalere Contro i Romani, i dissimulati Zeloti ricorsero alle congiure contro individui isolati e ai colpi di mano contro luoghi determinati, per toglier di mezzo i singoli domina­tori se non l'intero dominio straniero, rimanendo essi stessi nell'om­bra. In tali imprese l'arma più adoperata era il corto pugnale che i Romani chiamavano sica: perciò questi Zeloti si chiamarono “Sicari”. Se dunque gli Zeloti furono i Farisei intransigenti anche nel campo politico, i Sicari alla loro volta possono considerarsi come le squadre volanti, le avanguardie d'assalto, mandate avanti dagli Zeloti. Supponendo al centro la massa del giudaismo comune, alla sua destra stavano schierati sempre più in là dapprima i tradizionalisti Farisei, poi gl'intransigenti Zeloti, infine gli aggressivi Sicari. Ma Zeloti e Sicari, che furono i principali responsabili dell'insurrezione degli anni 66-70, ne furono anche le vittime, perché scomparvero quando i Romani debellarono gli ultimi focolai della rivolta e specialmente la fortezza di Masada, la cui tragica fine è narrata con somma precisione archeologica da Flavio Giuseppe. Invece i Farisei, loro padri spirituali, superarono la grande prova: il giudaismo superstite, riordinato secondo i principii del­le scuole rabbiniche, fu genuina opera loro, e tale è rimasto fino ad oggi. Fra i discepoli di Gesù, l'apostolo Simone è chiamato lo Zelota (Luca, 6, 15; Atti, I, 13) o anche il Cananeo (Matteo, 10, 4; Marco, 3, 18). Questo secondo termine non proviene dal nome degli antichi abitatori della Palestina, i Cananei, bensi è la forma ara­maica, qan'ana; e significa “zelante” ossia Zelota. I Sicari, nel Nuovo Testamento, sono menzionati solo inci­dentalmente in Atti, 21, 38.

§ 44. Sia nel Nuovo sia nell'Antico Testamento non sono mai nominati gli Esseni, di cui parla a lungo Flavio Giuseppe oltre a Filone, a Plinio ed altri. Gli Esseni formavano una vera associazione religiosa, ch'esisteva già verso la me­tà del secolo II av. Cr. in vari luoghi della Palestina, ma col suo centro principale nell'oasi di Engaddi sulla sponda occidentale del Mar Morto. Erano in tutto circa 4000. Le regole principali di questa associazione, molto simile agli ordini monastici del cristianesimo, erano le seguenti. Per esservi ammessi bisognava fare un noviziato di un anno, alla fine del quale si rice­veva un battesimo; seguivano altri due anni di probandato, dopo dei quali avveniva l'affiliazione definitiva mediante solenni giuramenti. Tra gli affiliati e i novizi esisteva gran differenza quanto a di­gnità e a purità legale, tantoché se un novizio toccava per caso un affi­liato, costui contraeva una certa impurità da cui doveva mondarsi. I beni materiali erano posseduti in comunismo perfetto ed amministrati da ufficiali eletti a tale scopo; tutti lavoravano, specialmente nell'agricoltura, e i proventi andavano nel fondo comune. Erano proibite la mercatura, la fabbricazione d'armi, la schiavitù. Il celi­bato era lo stato normale: il solo Flavio Giuseppe dà notizia di un particolare gruppo di Esseni che contraevano matrimonio sotto condizioni speciali, ma il fatto non è ben certo, e ad ogni modo non sarà stato che una limitata ecce­zione alla norma comune: secondo Plinio gli Esseni sono una gens... in qua meno nascitur (in Natur. hist., v, 17). Questa mancanza di procreazione faceva si che accettassero a scopo di proselitismo an­che fanciulli, come probabili candidati all'associazione. La gionnata era divisa fra il lavoro e la preghiera. Di prima mat­tina una preghiera comune era rivolta al Sole. I pasti, consumati in comune, avevano un carattere di cerimonià sacra, perché erano primi in luogo speciale, dopo aver praticato particolari abluzioni e indossato abiti sacri, ed erano preceduti e seguiti da particolari preghiere anche i cibi, semplicissimi, erano preparati da sacerdoti secondo regole speciali In tutta la giornata si osservava abituale silenzio. Il rispetto per il riposo del sabbato era di un rigore singolare: tanto che per questo rispetto, come pure per un accresciuto riguardo alla purità legale, in detto giorno non si soddisfaceva alle necessità cor­porali maggiori (§ 70). Per Mosè si aveva somma venerazione e chi ne bestemmiava il nome era punito di morte. Di sabbato si leggeva in comune la Legge di lui, e se ne facevano spiegazioni; ma oltre ai libri di Mosè l'associazione usava altri libri segreti, ch'e­rano studiati egualmente di sabbato. D'altra parte non tutte le pre­scrizioni di Mosè erano praticate, perché al Tempio di Gerusalem­me gli Esseni inviavano offerte di vario genere, ma non sacrifizi cruenti d'animali. Salvo il giuramento per l'affiliazione ogni sorta di giuramento era rigorosamente proibita; ci si dice infatti Ogni loro detto ha piìi forza d'un giuramento; ma dal giurare si astengono considerandolo peggiore dello spergiuro, giacché dicono che risulta già condannato colui che non e creduto senza un appello a Dio; probabile che nelle consuetudini degli Esseni e nelle loro dottrine, il cui fondo principale proveniva certamente dal patrimonio ebrai­co, si fossero infiltrati elementi stranieri: tali ad esempio la dot­trina loro attribuita della preesistenza delle anime, ignota all'ebrai­smo, e la pratica del celibato giammai tenuto in onore presso gli Ebrei. Ma la precisa provenienza di questi elementi non ebraici rimane dubbia, nonostante le molte congetture che si sono fatte in proposito. Sembra che gli Esseni esercitassero un influenza scarsissima sul re­stante del giudaismo contemporaneo, dal quale erano segregati an­che materialmente da tante norme di vita pratica. Essi dovevano apparire come un hortus con clusus, che si ammirava volentieri ma ri­manendone al di fuori; tuttavia, oltre a coloro che entravano sta­bilmente nell'associazione, v'erano taluni che ne seguivano solo per qualche tempo il tenore di vita mossi da un vago desiderio ascetico, come narra d'aver fatto nella prima giovinezza Flavio Giuseppe (Vita, 10-12). Di questioni politiche gli Esseni ordinariamente non si occupavano, mostrandosi ossequenti verso le autorità costituite. Tuttavia nella grande rivolta contro Roma, alcuni di essi si lasciarono vincere dal­l'entusiasmo e presero le armi: un Giovanni Esseno è ricordato con funzioni di comando tra i Giudei insorti (Guerra giud., II, 567; III, 11,19). Dai vincitori Romani essi ebbero a soffrire gravissimi tormen­ti (ivi, ri, 152-153), ma non per questo violarono i giuramenti della loro associazione. Dopo questo tempo scompaiono del tutto dalla storia.
§ 45. Nei vangeli sono nominati anche gli “Erodiani” (Marco, 3, 6; 12, 13; Matteo, 22, 16). Questi tuttavia non costituivano un vero e proprio partito politico, e tanto meno un'associazione o una corrente religiosa; piuttosto dovevano essere Giudei che apertamen­te sostenevano la dinastia degli Erodi in genere e particolarmente il suo più autorevole rappresentante d'allora, ch'era il tetrarca Erode Antipa (§ 15 segg.), seppure non erano proprio gente di sua corte. Numerosi non potevano essere, e neppur godere di gran credito sul popolo.
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