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Ultimo Aggiornamento: 06/08/2012 17:50
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06/08/2012 17:08

§ 203. Dopo lo Strauss e la Scuola di Tubinga, che rappresenta­rono indirizzi veramente nuovi negli studi sulla vita di Gesù e sul cristianesimo primitivo, la critica protestante entrò in un lungo pe­riodo che fu in parte di assestamento e in parte di compromesso. Diradatasi alquanto la tempesta suscitata dalle due scuole, l'orto­dossia protestante diffidò per principio d'ogni teoria delineata con originalità nuova, perché le recenti esperienze dirnostravano che siffatte teorie frantumavano le basi stesse della fede protestante, poggiata unicamente sulla parola di Dio scritta. D'altra parte i teo­logi protestanti non erano certo disposti a retrocedere sulle antiche posizioni luterane, riducendosi a considerare il Nuovo Testamento semplicemente come un libro ispirato da Dio e come il primo dei libri teologici; queste antiche posizioni, più che per opera di un Reimarus, di un Paulus, di uno Strauss e dei Tubinghiani, erano state minate e rese praticamente insostenibili per opera dell'Illumi­nismo, di un Kant, di un Hegel e delle altre correnti filosofiche for­matesi nella patria di Lutero. Si aggiunga che, proprio col declino della Scuola di Tubinga, la critica delle origini dei vangeli entrava in un nuovo periodo. Il IV vangelo, sebbene non proprio teoricamente, almeno praticamente era tuttora scartato come fonte storica, come già avevano fatto lo Strauss e la Scuola di Tubinga; ma a differenza di costoro, che mettevano come ultimo della serie cronologica dei Sinottici Marco, si cominciò invece a mettere questo brevissimo fra i Sinottici pro­prio in cima alla serie dei tre (come già vedemmo aver fatto anche il Bauer), per farlo servire insieme con i Logia di Papia quale fonte agli altri due (§ 148). Molti critici poi supposero l'esistenza di un Proto-Marco, che sarebbe stato una forma più antica dell'odierno Marco; qualcuno suppose pure, ma senza incontrar favore, l'esi­stenza di un Proto-Luca, e anche di un Proto-­Giovanni. Ora, questa nuova visione dell'origine letteraria dei Sinottici portò insieme a rialzare di molto le rispettive date: non si parlò più, come avevano fatto lo Strauss e la Scuola di Tubinga, di secolo II inoltrato quale epoca dei vangeli, ma si risali complessivamente al secolo I e per taluni scritti si giunse fino all'anno 60 dopo Cristo. Stabilito ciò, la critica protestante aveva una solida base per rico­struire la biografia storica di Gesù senza troppo urtarsi con l'orto­dossia luterana. Col rialzo cronologico dei Sinottici, le teorie dello Strauss e del Baur rovinavano in pieno (come del resto i rispettivi autori avevano ipoteticamente concesso); le tre o quattro decine d'anni, che andavano dalla morte di Gesù ai primi scritti confluiti nei Sinottici, erano certamente un periodo troppo angusto per permettere tutto quel lavorio di “miti” e di “tendenze” ch'era fon­damentale nelle due teorie. Infine il nuovo studio minuzioso delle caratteristiche di ciascun Sinottico permetteva di affermare ch'essi dipendono in gran parte da testimoni diretti degli avvenimenti nar­rati, e che pur mostrando ciascuno scopi e coloriti diversi - non lasciano scorgere tutto quel complesso di contrastanti “tendenze” ch'erano state attribuite ad essi; e anche queste conclusioni di cri­tica interna rassodavano la nuova base messa a disposizione della critica protestante per una biografia storica di Gesù. Senonché queste conclusioni erano un'arma a doppio taglio: indub­biamente esse erano gradite all'ortodossia protestante, ma non ac­crescevano forse grandemente le difficoltà di una interpretazione “razionale” dei vangeli? Confessata o no, la principale mira comune a tutte le teorie elabo­rate dal Reimarus in poi - anche lasciando da parte gli antichi Celso e Porfirio - era stata quella di spogliare di ogni elemento soprannaturale e miracoloso il contenuto dei vangeli; adesso invece quel contenuto riceveva dalle ultime conclusioni della critica un nuovo credito, sia per l'antichità sia per l'obiettività degli informatori, e il nuovo credito faceva da baluardo protettivo del soprannaturale. Né è da supporre che, verso questo soprannaturale, i teo­logi protestanti del paese di Kant e di Hegel fossero in genere me­glio disposti dopo il fallimento delle varie teorie dal Reimarus fino alla Scuola di Tubinga: vi furono in realtà dei dotti non ostili al soprannaturale, ma i loro scritti esercitavano influenza più sui fe­deli e sui pastori protestanti che non sugli studiosi e sulle università, mentre la maggioranza cercò il compromesso fra i risultati della critica riavvicinatasi alla tradizione e il dogmatismo laico della filo-sofia imperante. Ne risultò un indirizzo teologico-storico che si esplicò in numerosi tentativi, differenti a seconda delle disposizioni individuali, e che fu designato collettivamente col termine politico allora in voga di Scuola liberale.

§ 204. La Scuola liberale mostra le caratteristiche dei periodi di transizione e degli stati di compromesso. Rinunzia alle posizioni nette e precise di un Reimarus o di un Paulus pur accettandone praticamente varie conclusioni, ma aborrisce anche dalla logicità conseguenziaria di un Bruno Bauer pur ammettendone molti prin­cipii; sfugge di solito a fondamentali dichiarazioni preliminari, ma poi le lascia intravedere applicate tacitamente; messa di fronte a questioni decisive costituite dalla spiegazione di determinati fatti, preferisce aggirarle, non pronunciandosi sul fatto in sé e dilungandosi invece sulle opinioni che del fatto si ebbero nell'antichità; col proiettare idee e sentimenti moderni sullo sfondo dei tempi antichi dice molte cose di cui uno storico non sente affatto bisogno, mentre poi non dice altre cose nettamente affermate dai riaccreditati documenti storici, trovandole in contrasto con idee e sentimenti mo­derni; non è certo l'erudizione la dote che manchi alla Scuola libe­rale, ma si può domandare se non le manchi la dote della fran­chezza. Il protestante radicale Scbweitzer, storico di questi studi, deplorava nel 1904 che la teologia contemporanea non fosse “to­talmente sincera” (ganz ehrlich) (Von Reimarus zu Wrede, pag. 249). Le biografie di Gesu', e specialmente gli studi critici sui vangeli, che videro la luce durante questo periodo furono in gran numero e di graduazione diversa. Dalla destra conservatrice rappresentata dallo Zahn e in parte da Bemardo Weiss, si passa al centro in cui emerge H. J. Holtzmann, per finire sempre più verso la sinistra radicale con lo Schenkel, il Beyschlag, il Weizsàcker, il Wellhausen, ecc. La figura di Gesù, quale è tratteggiata o in biografie o in vari studi di critica letteraria, è messa in luce soprattutto sotto l'aspetto psicologico, come quella d'un maestro che avrebbe inse­gnato niente più che una nuova dottrina morale tutta fondata sul sentimento della paternità di Dio: il regno di Dio annunziato da Gesù avrebbe avuto un senso puramente spirituale interno, o tutt'al più un vago senso escatologico difficilmente precisabile; le afferma­zioni di Gesù sulla propria qualità di Messia sono volentieri, dai meno conservatori, attenuate o anche eliminate; l'appellativo di “figlio dell'uomo” è spesso interpretato come designazione dell'u­manità astratta, o anche come indicazione personale di colui stesso che parla; l'altro appellativo di “figlio di Dio” non può avere che un senso morale, in corrispondenza al concetto della paternità uni­versale di Dio; sulle qualità soprannaturali attribuitesi da Gesù, come pure sui miracoli fisici attribuitigli dai vangeli, si sorvola li­beramente. Queste sono pur con numerose e anche notevoli differenze indi­viduali - le idee seguite più comunemente dai protestanti liberali; sui quali però il non sospetto Renan dà il seguente giudizio (rife­rito a due soli di essi, ma facilmente estensibile agli altri): “Am­mettono, certamente, un Gesu' storico e reale; ma il loro Gesu' sto­rico non e' né un messia, né un profeta, né un Giudeo. Non si sa che cosa abbia egli voluto: non si capiscono né la sua vita né la sua morte. Il loro Gesu' e' un eroe a suo modo, un essere impalpa­bile, intangibile. La pura storia non conosce esseri di tal fatta”.

§ 205. Nella Scuola liberale spetta il seggio più eminente ad A. von Harnack (1851-1930) per le sue moltissime pubblicazioni sia sul Nuo­vo Testamento sia sul resto della letteratura cristiana antica, delle quali buona parte ha un valore permanente. Quanto al Nuovo Testamento egli sostenne che i Logia, da cui dipenderebbero i van­geli di Matteo e di Luca, sono opera dell'apostolo Matteo e com­posti verso l'anno 50 o anche prima; di poco posterione sarebbe il vangelo di Marco; il vangelo di Luca, come pure gli Atti degli Apostoli, furono scritti dal medico Luca, discepolo di Paolo, non dopo l'anno 63; il IV vangelo è opera di Giovanni il Presbitero (§ 158), che avrebbe in esso seguito la tradizione di Giovanni l'apostolo.Nel suo divulgatissimo libro su L'essenza del cristianesimo (1900) l'Harnack riassunse riguardo alla vita e alla dottrina di Gesù le sue opinioni, che concordavano in gran parte con quelle della Scuo­la liberale; al centro della dottrina di Gesù sarebbe stata l'idea del­la rivelazione di Dio come padre, da cui si sarebbe sviluppata in Gesù la coscienza di esser Figlio di Dio, e quindi Messia; ma “come egli sia giunto alla coscienza della sua forza, e a quella del dovere e del compito ch'erano conseguenza di quella sua forza, e' il suo segreto che nessuna psicologia può spiegare”. I miracoli di Gesù furono distribuiti dall'Harnack in cinque categorie, per poter esser man mano eliminati con procedimenti che ricordano in parte quelli del Paulus e in parte quelli dello Strauss: cioè 1) miracoli che sono ingrandimenti di fatti naturali; - 2) miracoli dovuti a una proiezione nel concreto o di precetti o di parabole o di processi psicologi vari; - 3) miracoli immaginati come avveramento di pro­fezie dell'Antico Testamento; - 4) miracoli ottenuti dalla forza spirituale di Gesù; - 5) miracoli estranei alle precedenti categorie e la cui spiegazione è irraggiungibile. Ad ogni modo la vera dottrina religiosa di Gesù, del tutto spoglia di dogmi, si mantenne pura e genuina solo durante l'epoca apostolica; più tardi essa entrò sotto la diretta influenza del pensiero filosofico ellenistico, e di qui sorsero i dogmi e le supercostruzioni speculative.

§ 206. Non appartiene alla Scuola liberale, anzi le si professa av­verso, un autore che ebbe risonanza larghissima nel mondo latino cattolico ma piuttosto ristretta in quello tedesco protestante, cioè E. Renan (1823-1892). La sua famosa Vita di Gesu', che faceva parte di una Storia delle origini del cristianesimo, apparve nel 1863; la 13° edizione, apparsa nel 1867 con talune modificazioni, rimase definitiva per le innumerevoli edizioni e traduzioni successive. Nella questione delle fonti il Renan era relativamente conservatore: Marco rappresenta “il tipo primitivo della tradizione sinottica e il testo piu' autorizzato”, dipendente dalla predicazione di Pietro, seb­bene la redazione odierna non corrisponda precisamente alla forma originale; Matteo è costituito dai Logia autentici dell'apostolo Mat­teo, ai quali poi è stata aggiunta una raccolta di notizie biografiche su Gesù; il III vangelo e gli Atti sono di Luca, che avrebbe scritto dopo la distruzione di Gerusalemme dell'anno 70. Nella questione del IV vangelo il Renan, staccandosi dalla critica tedesca, modificò le sue idee: nella 1a edizione lo attribuì all'apostolo Giovanni, al­meno quanto alla sostanza, mentre nella 3° edizione ne fece autore un discepolo di Giovanni, tuttavia in ambedue i casi attribui particolare valore storico a questo vangelo (in perfetto contrasto con la critica tedesca), pur considerandone non autentici i discorsi. Ma, nonostante questa critica relativamente moderata, i risultati pratici raggiunti dal Renan sono negativi, anche più di quelli della Scuola liberale e quasi quanto quelli dello Strauss. Di Gesù, infatti, noi non sappiamo con certezza se non “che e' esistito. Che era di Nazareth in Galilea. Che predicò con incanto, e lasciò nella me­moria dei suoi discepoli aforismi che vi s'impressero profondamen­te. I due principali dei suoi discepoli furono Cefa e Giovanni figlio di Zebedeo. Suscitò l'odio dei Giudei ortodossi, che riuscirono a farlo mettere a morte da Ponzio Pilato, allora procuratore della Giudea. Fu crocifisso fuori della porta della città. Si credette poco dopo che fosse risuscitato... Fuori di questo il dubbio e' permesso”. Questo dubbio, inoltre, si estende a domande così fondamentali co­me le seguenti: “Si considerò egli Messia?... S'immaginò di far miracoli? Gliene furono attribuiti quand'era vivo?... Quale fu il suo carattere morale?...”. Questo scetticismo programmatico non impedì tuttavia al Renan di scrivere una biografia abbastanza voluminosa, traendone il ma­teriale da varie parti. Contrariamente alle biografie tedesche, che erano ricostruzioni fatte in biblioteca da chi non aveva visto nè luoghi né costumi, il Renan scrisse la sua durante la missione archeologica che diresse in Fenicia negli anni 1860-1861, e che gli dette occasione di visitare anche la Palestina. In questa visita la storia evangelica, “che da lontano sembra vagare tra le nubi d'un mondo irreale, prese talmente corpo e solidità che mi stupirono. Il sorpren­dente accordo fra testi e luoghi, la meravigliosa armonia fra l'ideale evangelico e il paesaggio che gli fa da cornice, furono per me una rivelazione. Ebbi davanti agli occhi un quinto Vangelo...”. In realtà, a questo “quinto Vangelo” il Renan ricorse molto poco per ciò che riguarda la geografia storica e tanto meno l'archeologia (che, del resto, ai suoi tempi erano appena agli inizi), e quando vi ricorse per queste materie non si salvò da gravi abbagli; ad ogni modo chi ha visitato la Palestina dopo di lui, cioè dopo che vi sono stati compiuti molti ed importanti scavi, e l'ha visitata più a lungo di lui e con più agio e comodità che ai tempi di lui, vi ha certo ritrovato parecchie cose, ma non già un “quinto Vangelo”, almeno se la fantasia del successivo visitatore era calma e tranquilla. Ma gli è che il Renan visitò il paese di Gesù più come artista che come storico, prendendo come dati oggettivi quelle ch'erano semplici proie­zioni soggettive: cosicché quando egli esclamava: “Per compren­dere ciò bisogna essere stato in Oriente!“, ricorreva in realtà a un argomento che ai suoi tempi era incontrollabile per la massima par­te degli studiosi, mentre quasi sempre era un'importazione ideale da lui fatta nell'Oriente.

§ 207. Del resto, il metodo con cui egli trattò il suo “quinto Van­gelo” è analogo a quello con cui trattò gli altri quattro. Dal momento che i dati sicuri della biografia di Gesù erano quei pochis­simi testé elencati, non rimaneva che ricorrere alla ricostruzione psicologica: la quale infatti fornì al suo libro molto altro materiale, e materiale ben appropriato al carattere di cui il Renan aveva ri­vestito il suo biografato. In realtà, “chi vorrebbe fare di Gesu' un sapiente, chi un filosofo, chi un patriota, chi un uomo di bontà, chi un moralista, chi un santo. Egli non fu nulla di tutto questo. Fu un incantatore”. Questo “incantatore”, tuttavia, ha fondato una religione, anzi non una ma la religione: “Gesu' ha fondato la religione nell'umanità, come Socrate vi ha fondato la filosofia... Gesu' ha fon­dato la religione assoluta, non escludendo niente, non determinando niente, salvo il sentimento”; se poi scendiamo più al particolare, troviamo che « un culto puro, una religione senza sacerdoti e senza pratiche esteriori, poggiata tutta sui sentimenti del cuore, sull'imitazione di Dio, sul rapporto immediato della coscienza col Padre celeste, erano le conseguenze di tali principii”, quelli cioè predi­cati da Gesù. Come ognuno vede, ci ritroviamo in sostanza davanti alla figura di Gesù tracciata da quella Scuola liberale che il Re­nan riprovava; qualche decennio più tardi l'Harnack presenterà un Gesù ben poco differente da questo (§ 205). Concordano anche, in gran parte, le idee attribuite a Gesù circa il suo stesso essere e circa i punti fondamentali della sua missione. “Gesu' non espresse mai l'idea sacrilega ch'egli fosse Dio... “. - .... Egli e' figlio di Dio: ma tutti gli uomini sono o possono divenire tali in gradi diversi. Tutti ogni giorno devono chiamar Dio loro padre... Il titolo di "Figlio di Dio", o semplicemente di "Figlio", diventò per Gesu' un titolo analogo a "Figlio dell'uomo" e, come questo, sinonimo di Messia”. “Titolo da lui preferito era quello di "Figlio dell'uomo"; titolo di umile apparenza, ma in rapporto con le speranze messianiche. Tale e' il nome con cui indicava se stesso: onde in bocca sua "Figlio dell'uomo" era sinonimo di "Io", che gli ripugnava d'usare”. Quanto all'elemento soprannaturale e miracoloso dei vangeli, il Re­nan fin dal principio fa una netta dichiarazione di metodo: chi studia, cioè, questi documenti, “non deve preoccuparsi né di edi­ficare né di scandalizzare, né di difendere i dogmi né di abbatter­li”; tuttavia, poco dopo questa dichiarazione, egli stabilisce il se­guente assioma a cui attribuisce tutta la fermezza di un dogma lai­co: “che i Vangeli siano in parte leggendari e' cosa evidente, per­che' sono pieni di miracoli e di soprannaturale”. D'altra parte egli afferma che “si mancherebbe al buon metodo storico se, badando troppo alle nostre ripugnanze..., volessimo sopprimere i fatti che agli occhi dei contemporanei apparvero più cospicui”, cioè mira­colosi; è anzi regolare che ad un innovatore religioso come Gesù si attribuissero miracoli, tanto che “il massimo miracolo sarebbe stato ch'egli non ne avesse fatti”. Ad ogni modo il Gesù del Renan, co­stretto dalle circostanze, “non divenne taumaturgo che assai tardi, e molto a malincuore”; “ ... si può ben credere che la reputazione di taumaturgo non l'avesse, ma gli venisse imposta: se egli non resistette molto ad accoglierla, nulla fece però per aiutarla”. Venendo però alla conclusione pratica, tutti i miracoli sono elimi­nati, ricorrendo volta per volta ai precedenti metodi o dello Strauss, o del Paulus, e talvolta del Reimarus, che il Renan applica ser­vendosi anche della sua norma che “e' necessario sollecitare dolce­mente i testi”. In primo luogo “su cento racconti soprannaturali ve ne sono ottanta nati interamente dall'immaginazione popolare”; gli altri venti casi, che rimangono, sono eliminati facendo appello di solito alla mitezza di Gesù, che valeva da eccellente farmaco, giacché “la presenza di un uomo superiore che tratti dolcemente il malato, e lo assicuri della guarigione con qualche segno sensibile, e' spesso un rimedio decisivo”. All'efficacia di questo farmaco ven­gono sottratti, naturalmente, casi come quello della resurrezione di Lazzaro; per spiegare questo caso, si propongono insieme l'ipotesi di una sincope passeggera e quella del trucco da parte delle sorelle di Lazzaro, e più tardi vi si aggiunge l'ipotesi di un malinteso (§ 493). Insomma, anche nella questione dei miracoli evangelici, il Renan era vicino alla riprovata Scuola liberale ben più di quanto egli cre­desse. L'incomparabile venustà dello stile letterario assicurò alla “Vita” del Renan una diffusione mondiale, che le massicce e asmatiche “Vite” tedesche non raggiunsero neppur lontanamente; tuttavia la dotta Germania, che prima del 1870 era apparsa al Renan come “un tempio, in cui tutto e' puro, elevato, morale, bello e commo­vente”, fu piuttosto ingrata verso questo suo ammiratore d'oltre Reno, non prendendo affatto sul serio il capolavoro di lui e segui­tando invece tranquillamente per la sua strada.

§ 208. Un efficace attacco contro la dominante Scuola liberale fu mosso nel 1901 da W. Wrede col suo studio sul Segreto messianico nei vangeli. Base delle costruzioni di quella Scuola era specialmente il vangelo di Marco, ritenuto più antico e primitivo, e quindi più fedele nel delineare il vero Gesù storico; il quale avrebbe predicato una reli­gione tutta interna e personale, senza però preoccuparsi - come vorrebbero specialmente gli altri vangeli di fondare una stabile società esterna, senza attendere un regno di Dio visibile, e tanto meno attribuirsi un'origine soprannaturale. Senonché il Wrede mo­strò che il Gesù delineato in Marco, se è storico sotto certi aspetti, sotto altri non è meno “soprannaturale” di quello dei restanti van­geli, ed è egualmente incaricato di una missione divina e con piena coscienza della sua messianità fin dal principio; perciò il Wrede suppose che, in Marco stesso, alla figura del Gesù storico sia già stata sovrapposta quella del Gesù dogmatico, e il collegamento del­le due figure contrastanti sia stato ottenuto mediante l'artificio del “segreto”, che Gesù avrebbe serbato per un certo tempo sulla sua qualità di Messia. Ora, questo parziale ritorno alle conclusioni negative di Bruno Bauer minava quel tanto di base oggettiva che la Scuola liberale aveva ancora lasciato alla storicità di Gesù, ed a cui essa teneva moltis­simo; ma tanto più difficile era a detta Scuola difendersi dal nuovo assalto, in quanto la coerenza logica non era certo la dote di cui difettasse lo studio del Wrede (come non ne avevano difettato quelli del Bauer), il quale in sostanza partiva dagli stessi principii filo­sofici ed applicava gli stessi metodi critici della Scuola liberale.

§ 209. Ma quando apparve lo studio del Wrede già si era delineata e prendeva sempre più forza un'altra corrente, che doveva finire col mettere alle strette la Scuola liberale. Nel 1892 Giovanni Weiss, figlio del liberale conservatore Bernardo (§ 204), aveva pubblicato un breve studio circa La predica di Gesu' sul Regno di Dio (riapparso molto ampliato nel 1900), in cui dava il massimo rilievo ad un elemento che, nelle precedenti ricerche sulla biografia di Gesù e sul cristianesimo primitivo, era stato toccato solo incidentalmente e superficialmente, cioè l'elemen­to escatologico. In realtà, di escatologia giudaica si erano occupati a parte già l'Hilgenfeld (1857), il Colani (1864), il Weiffenbach (1873), il Volkmar (1882), il Baldensperger (1888, 1892, 1903), e tutti, salvo il primo, si erano posti il problema delle relazioni fra l'insegnamento di Gesù e l'apocalittica contemporanea, risolvendolo in vari modi; Giovanni Weiss, ritornandovi sopra, lo spiegò consi­derando come quintessenza della dottrina di Gesù le idee escatologiche contenute nell'apocalittica giudaica dei suoi tempi (§ 84 segg.). Il Gesù storico, diceva in sostanza il Weiss, non era stato già quel pastore protestante, illuminato dall'illuminismo e nutrito di filosofia kantiana, quale l'aveva dipinto la Scuola liberale egli era stato figlio dei suoi tempi, ne aveva condiviso concetti e speranze, e ne aveva anche preso in prestito espressioni sbocciate da quelle spe­ranze. Ora, ai tempi di Gesù, il mondo giudaico attendeva spasmo­dicamente un grandioso intervento di Dio che distruggesse d'un colpo l'impero del male stabilitosi sulla terra e lo sostituisse con un'epoca di giustizia, di pace e di felicità. Questo era il “Regno di Dio” da attuarsi per mezzo del “Figlio dell'uomo”, il cui con­cetto, già adombrato nel canonico libro di Daniele, è sempre più sviluppato nei successivi libri apocrifi d'indole apocalittica: questo stesso Regno, in sostanza, sarebbe stato anche l'oggetto della predicazione di Gesù. Ma siffatto “Regno di Dio” Gesù non avrebbe potuto, né voluto, fondare: egli lo avrebbe solo annunziato come imminente, quale subitanea palingenesi grandiosa. Tuttavia, allor­ché egli vide respinto il suo annunzio dai Giudei contemporanei, si sarebbe convinto che la sua morte avrebbe affrettato l'avvento del Regno, che essa sarebbe stata per lui il ponte di passaggio per entrare nella gloria messianica, che quindi egli stesso come “Figlio dell'uomo” e come Messia sarebbe tornato sulle nuvole del cielo per giudicare gli empi e i giusti, e ad inaugurare il regno eterno di questi ultimi. Pervaso da questa aspettativa e tutto vibrante per essa, Gesù avreh­be anche predicato una dottrina morale; ma fu una morale prov­visoria, interamente subordinata all'imminente palingenesi e che si potrebbe rassomigliare al regolamento momentaneo, improntato lì per lì, per gente rimasta su una nave che affondi o dentro un pa­lazzo che bruci: secondo Gesù, infatti, affondava e bruciava il mon­do intero. La vera morale. stabile, giammai predicata da Gesù, doveva essere quella del futuro Regno.
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