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Ultimo Aggiornamento: 06/08/2012 17:50
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06/08/2012 17:09

§ 210. Il libretto del Weiss aveva prodotto grande impressione sui dotti; tuttavia il seme da lui gettato non germogliò propriamente che alcuni anni piu' tardi, forse perché mancò a bella prima il co­raggio per trarre le ultime conseguenze da siffatta ipotesi: essa in realtà, se cancellava totalmente l'oleografia di un Gesù spiritualista moraleggiante dipinta dalla Scuola liberale, la sostituiva con il ri­tratto di un autentico esaltato o, come allora si disse per eufemi­smo, di un “illuminato”. Ma, nello stesso anno che apparve il già visto studio del Wrede, usci uno Schizzo della vita di Gesu', in cui l'autore, A. Schweitzer. partendo da una ricerca sul segreto di Gesù circa la propria mes­sianità e la sua futura passione, in parte contraddiceva ai risultati ottenuti dal Wrede, e in parte li sviluppava ed integrava. L'idea fondamentale dello Schizzo fu ripresa e ampliata largamente dal­lo stesso Schweitzer, nel 1906, con una storia delle ricerche sulla vita di Gesù, intitolata Dal Reimarus al Wrede, riapparsa in una nuova edizione nel 1913; ivi l'autore, dopo aver fatto un'acuta ed erudita disamina dei precedenti sistemi, propugna in pieno il si­stema escatologico. Mentre il Weiss aveva ritrovato l'idea escatologica soltanto nella dottrina di Gesù, lo Schweitzer la ritrova anche come principio ani­matore di tutta la sua vita e condotta; ciò spiega, secondo Schweit­zer, la doppia figura contrastante di Gesù che il Wrede aveva scorto in Marco, e che corrisponderebbe al Gesù predicatore escatologico e al Gesù attore escatologico. Gesù attore escatologico (che corri­sponderebbe al Gesù “soprannaturale” di Marco) è convinto della propria messianità, ma da principio vuole velarla di “segreto” perché, secondo una diffusa opinione, l'atteso Messia doveva com­piere la sua carriera terrena ignoto e spregiato: perciò anche egli predica ricorrendo a parabole, per manifestare la verità ma senza poter essere ben compreso. Tuttavia il Regno tarda a venire, non essendo comparso neppure quando Gesù invia gli Apostoli in mis­sione nelle città d'Israele (Matteo, 10, 23); allora Gesù si convince che la suprema “prova” richiesta da Dio prima dell'avvento del Regno è, non già estesa a tutto il popolo, ma riservata a lui solo, e in tale persuasione s'avvia a Gerusalemme per affrontarvi la mor­te, sicuro che essa apporterà la salvezza provocando la venuta del Regno. Davanti ai suoi ultimi giudici, infatti, Gesù svela apertamente il segreto, affermando di essere il Messia, e per questo è condannato a morte. La sostanza di questa teoria, già nel 1903, era difesa così decisamente da uno studioso, appartenente allora al campo cattolico, da esser presentata come conditio sine qua non per affermare l'esisten­za storica di Gesù “Se e' certo che, tutto ciò che nel Vangelo espri­me o suppone l'imminenza del giudizio di Dio, non risalga al Sal­vatore, quasi tutta la tradizione sinottica dovrà essere abbandonata. La predicazione del Cristo, nei tre primi Vangeli, non e' altro che un avvertimento a prepararsi al giudizio universale che sta per com­piersi e al Regno che sta per venire... Il Vangelo non era il Van­gelo, non era “la buona novella", se non perché annunziava questo avvenimento. Io vado anche oltre, ed aflermo senza paura che Gesu' non e' stato condannato a morte se non per questo motivo. Se egli non avesse predetto che il regno della carità, Pilato non ci avrebbe trovato un grave inconveniente. Ma l'idea del regno mes­sianico, per quanto fosse spiritualizzata nel Vangelo di Gesu', non lasciava d'implicare in un avvenire prossimo una rivoluzione gene­rale delle cose umane e la regalità del Messia. Togliete dal Vangelo l'idea del grande avvenimento e quella del Cristo-Re, e io vi sfido a provare l'esistenza storica del Salvatore, giacchè avre­te tolto ogni senso storico alla sua vita e alla sua morte” (A. Loisy, Autour d'un petit livre, pagg. 69-70). Questa teoria, sviluppata pienamente nell'accordo tra la dottrina e l'azione di Gesù (“escatologismo conseguente”), sconvolse le po­sizioni tenute fino allora dai critici, e moltissimi l'accettarono come la vera risoluzione finalmente raggiunta nel problema di Gesù. Nella lenta e conservatrice Inghilterra essa incontrò una inaspettata ca­lorosa simpatia. Nei paesi cattolici fu largamente diffusa dalla cor­rente modernista, presso cui ebbe cordiali accoglienze. Il Loisy, prin­cipale rappresentante di questa corrente, pur non accettando la teo­ria in tutte le sue parti (e di ciò gli fece un appunto lo Schweit­zer), ne prese moltissimi elementi, soprattutto riguardo alla dottrina di Gesù, e li contrappose alle conclusioni dell'Harnack col suo ce­lebre libretto su L'evangile et l'Eglise (1902) difeso col successivo Autour d'un petit livre (1903); gli stessi elementi applicò poi egli metodicamente nei suoi commentari al IV vangelo (1903), a cui ne­gava ogni valore storico, e ai vangeli sinottici (1907-1908), tutte opere diffuse nei paesi latini molto più che in quelli tedeschi.

§ 211. Passato il primo momento di entusiasmo, cominciarono an­che le critiche riguardo alla nuova teoria. La prima critica fu sul metodo con cui la nuova teoria trattava le fonti evangeliche, e che - sebbene diretto da norme diverse - rassomigliava moltissimo al metodo già applicato dalla Scuola liberale. I liberali avevano sorvolato in maniera sbrigativa su tutto ciò che i vangeli riferivano, non solo circa i miracoli di Gesù, ma anche circa le sue affermazioni di messianità, di soprannaturalità, di figlio­lanza divina, ecc.: tutto ciò doveva essere o interpretato in senso blando ed evanescente, oppure sfrondato senz'altro e gettato via, come frascame aggiunto attorno alla figura del Gesù storico dalla posteriore elaborazione cristiana. Ora, gli escatologisti facevano al­trettanto, con la sola differenza che sfrondavano e gettavano via come frascame quasi tutto ciò che i liberali avevano conservato, e conservavano invece gelosamente il frascame dei liberali. La strada era la stessa, sebbene battuta in senso inverso. E in realtà i vangeli, se attribuiscono a Gesù la predicazione dell'imminente regno di Dio, gli attribuiscono nello stesso tempo e sul­lo stesso piano il proposito di fondare una precisa religione, di co­stituire una stabile società visibile, di mettere a capo di essa persone da lui stesso scelte, di prescrivere ad essa riti religiosi ben definiti e da osservarsi scrupolosamente in futuro, di fornirla di un codice morale ben distinto da ogni altro e del tutto nuovo, di aver curato la formazione di discepoli con la precisa mira di propagare illimi­tatamente questa sua società, insomma di aver fatto queste e molte altre cose che presuppongono inevitabilmente una stabilità duratura della sua società visibile. Ora, è evidente che una persona la quale aspetti - come il Gesù degli escatologisti - di giorno in giorno e di ora in ora la frantumazione del mondo intero, non ha né tempo nè voglia di spingere lo sguardo tanto nel futuro, al punto di preoccu­parsi di ciò che avverrà nelle future generazioni e di fondare per esse una società: nè quelle generazioni nè quella società potranno giam­mai esistere, perché domani il mondo andrà in pezzi. Questa elementare considerazione fu ammessa francamente anche dagli escatologisti; i quali perciò, coerentemente ai loro principii, tolsero di mezzo la difficoltà sfrondando e gettando via tutte le affermazioni evangeliche in questione: nulla vi sarebbe in esse che possa realmente riportarsi al Gesù storico, ma tutte sarebbero crea­zioni del cristianesimo primitivo attribuite falsamente a lui. Nè que­sto sfrondamento si limitò ad aforismi e a detti isolati, attribuiti a Gesù: c'erano di mezzo, infatti, anche le parabole a cui Gesù ri­correva spessissimo nella sua predicazione, e che in maniera più o meno esplicita svelano l'idea di una stabilità duratura preannun­ziata da Gesù riguardo alle sue istituzioni; perciò anche le parabole evangeliche furono sottoposte, specialmente da parte del liberale radicale Jiìlicher seguito dal Loisy (§ 360, nota seconda) a un me­todico lavoro di disarticolazione che, dopo avere distaccato in esse il nucleo originario attribuibile a Gesù, ne rigettò i suddetti prean­nunzi di stabilità come aggiunte intrecciatevi dalla successiva tradizione. In conclusione anche gli escatologisti, come i liberali, “estraevano” dai vangeli una loro particolare figura di Gesù, ripudiando tutti quei lineamenti ch'erano offerti si dai vangeli, ma che non s'addicevano a quella figura. Ora, quale garanzia assicurava che questa selezione degli escatologisti fosse meno arbitraria e meno soggettiva di quella dei liberali?

§ 212. A questa preliminare critica dì metodo s'aggiunse subito l'altra anche più grave, dell'argomentazione storica. Giacché il fulcro della teoria escatologica erano le idee apocalittiche predominanti ai tempi di Gesù, queste idee divennero oggetto di nuovi e più accu­rati studi; si ricercò se veramente il giudaismo dei tempi di Gesù fosse tutto sconvolto dall'attesa dell'imminente fine del mondo e di una palingenesi totale: se queste idee, testimoniate qua e là da Apocrifi ch'erano stati addotti, rappresentassero uno stato d'animo assai diffuso e predominante, ovvero fossero patrimonio di una mi­noranza numerica e morale: se, a fianco a queste idee, che potevano essere di estrema sinistra, non ve ne fossero altre da assegnarsi al centro o alla destra. Gli escatologisti si erano limitati, nelle loro ricerche, agli Apocrifi apocalittici (§ 84 segg.), trascurando quasi del tutto l'immensa tradizione rabbinica, i cui primi dati risalgono più in su dell'Era Cri­stiana o le sono contemporanei: e tale incompiutezza d'indagine po­teva essere assai dannosa, tanto più che nuovi raffronti avevano messo in luce sempre più chiara quanto il metodo didattico di Gesù fosse somigliante a quello dei rabbini suoi contemporanei. Per conoscere quindi il pensiero di costoro s'investigò a fondo il gran mare degli scritti rabbinici, e in queste ricerche ogni altro lavoro fu superato dal voluminosissimo commento al Nuovo Testamento di Billerbeck che illustra i singoli passi neotestamentari con tutti i relativi testi del Talmud, dei Midrashlm e degli altri scritti rabbinici, aggiungendovi tratta­zioni a parte su argomenti più importanti: il quale commento in­contrò accoglienze freddissime e quasi ostili dagli escatologisti, per ragioni ben comprensibili. Ora, da questi contributi nuovi risultò che la teoria escatologica aveva troppo semplificato e troppo generalizzato. E’ vero che in al­cuni Apocrifi, ad esempio nell'Assunzione di Mose' di circa l'anno 10 dopo Cr., si identifica regno di Dio, messianismo ed escatologia, attendendosi da un momento all'altro la loro violenta attuazione in mezzo alla catastrofe mondiale, ma queste visioni costituivano il patrimonio e il conforto di persone religiosamente sfiduciate e po­liticamente disperate, che non scorgevano via d'uscita dalle condi­zioni tristissime del giudaismo contemporaneo se non in una distru­zione totale seguita dalla palingenesi. Senonché, già il carattere cosi' radicale di siffatte opinioni indurrebbe a supporre che esse non potevano rappresentare l'opinione predominante e comune; la quale difatti è rispecchiata sia in altri Apocrifi, sia specialmente nelle sentenze del Talmud e dei Midrashim. I più, cioè, ritenevano che il mondo o “secolo” presente, tutto malvagità e miseria, doveva essere realmente sostituito da uno futuro di giustizia e felicità, chia­mato in ebraico il “secolo veniente”; ma questo secolo futuro non era l'epoca del Messia, come già si era creduto nel passato Israele e come continuavano tuttora a credere i messianisti politici più accesi, bensì era il regno della retribuzione individuale dopo morte, il glorioso regno celestiale, in cui sarebbero stati accolti i fedeli Israeliti dopo la resurrezione e il giudizio universale. Fra i due “secoli” contrastanti, il presente e il futuro, faceva in qualche modo da ponte di passaggio l'epoca del Messia, la quale sarebbe stata di trionfo e di gloria per tutto Israele. Ad ogni modo questo trionfo messianico era del tutto distinto dal “secolo” fu­turo, ed apparteneva rigorosamente al “secolo” presente, in cui avrebbe costituito una particolare èra, quella dei “giorni del Mes­sia”. Riguardo alla durata di questa èra esistevano opinioni di­verse, da quella di Rabbi Aqiba che la restringeva a 40 anni, fino a quella di Rabbi Abbahu che la prolungava a 7000 anni, mentre l'opinione più comune stava per 2000 anni: ma l'èra messianica costituiva sempre un periodo ch'era strettamente storico, non già eterno, ch'era strettamente terreno, non già ultraterreno, sebbene per gli Israeliti che vi fossero pervenuti quell'èra costituiva una specie di deviazione dal presente “secolo” malvagio e un preludio al futuro “secolo” beato.

§ 213. Se pertanto si confrontava questa concezione messianica dei rabbini, ch'era predominante ai tempi di Gesù, con quanto i van­geli riferiscono circa la predicazione di Gesù, si trovava, non già una somiglianza nell'insegnamento morale-religioso, bensì una cor­rispondenza nella ripartizione dei tempi. Anche Gesù contrappose il “secolo” presente di malvagità al “secolo” futuro di gloria, in cui gli eletti prenderanno parte dopo la resurrezione al regno cele­stiale preparato loro dal Padre; tuttavia dal “secolo” futuro egli distingue nettamente l'èra del Messia, la quale appartiene al “secolo” presente, si svolgerà su questo mondo, e vi continuerà per un periodo storico indeterminato: ma, benché indeterminato, questo periodo sarà certamente lungo, giacché per conservare stabilmente la sua società messianica Gesù impartisce le già rilevate norme d'indefinita scadenza. Nè diversa risulta l'opinione della plebe che, in un momento solen­ne della operosità messianica di Gesù, lo acclama pubblicamente al suo ingresso in Gerusalerrirne: “Osanna! Benedetto il Veniente in nome del Signore! Benedetto il veniente regno del nostro padre David! Osanna negli eccelsi! “ (Marco, 11, 9-10). Da queste accla­mazioni appare evidente che quella plebe attendeva da Gesù anche un regno politico (cfr. Giovanni, 6, 15) - e in ciò era ben lontana dal pensiero di Gesù - tuttavia si trattava sempre di un regno visibile, terreno, del “secolo” presente, non già di un regno invisibile, celestiale, del “secolo” futuro. E senza dubbio que­sta opinione della plebe era in armonia con quella degli Scribi e dei Farisei, suoi autorevoli maestri, non già con quella degli estremisti apocalittici e degli Zeloti (§ 83), che disperati del “secolo” presente aspettavano la palingenesi nella calata taumaturgica del “secolo” celestiale. Queste e molte contestazioni, mosse sulla base di documenti storici ai seguaci della teoria escatologica, provocarono repliche e discussioni numerose, e smorzarono alquanto il primo entusiasmo con cui la teoria era stata accolta: ad ogni modo, ancora oggi, essa è la predominante, e nuove ipotesi organiche per sostituirla non sono state prospettate.

§ 214. Ma nel frattempo si delineava fra gli studiosi una nuova corrente, la quale, più che concentrarsi sulla vita e l'insegnamento di Gesù stesso, faceva oggetto delle sue ricerche il cristianesimo primitivo e specialmente S. Paolo. Oramai era assodato - contro le affermazioni dell'antico luteranesimo - che tutto ciò che noi sappiamo circa i fatti di Gesù ci è pervenuto attraverso la tradizione della Chiesa primitiva, e che le stesse fonti scritte evangeliche non sono altro che documenti di quella tradizione (§ 112); sembrò quindi necessario investigare co­me fosse formato quel mondo spirituale che ci ha trasmesso i van­geli, quali fossero in esso gli elementi originali e quali gli importati dal di fuori, quanto di ciò che sembrava tipicamente cristiano potesse eventualmente essere una infiltrazione nella Palestina di con­cetti non palestinesi. Col proposito di tali ricerche la nuova corren­te non intendeva ritornare ai metodi della Scuola di Tubinga (§ 200 segg.); quella, infatti, si era racchiusa nel mondo del cristianesimo primitivo, studiandone i presunti contrasti interni ma ignorando del tutto le influenze provenienti su di esso dall'esterno: adesso invece si mirava precisamente a rintracciare queste influenze, istituendo una metodica comparazione fra il cristianesimo primitivo e le altre religioni, contemporanee o anteriori ad esso, anche se nate fuori della Palestina. Erano i criteri del metodo della Storia comparata delle religioni. In realtà, influenze esterne sul cristianesimo primitivo erano già state affermate in precedenza, ma di solito limitatamente a taluni concetti e terrnini della filosofia greca; adesso, invece, si ricercarono influenze anche delle regioni ellenistiche, specialmente di culti mi­sterici, e più remotamente influenze di religioni orientali: infatti, il sincretismo religioso che imperò nell'ellenismo anteriore e contem­poraneo al cristianesimo e che aveva assimilato concetti svariatissimi di provenienza orientale, poteva far sospettare che avesse introdotto taluni dei suoi concetti nel cristianesimo nascente, influendo su esso o direttamente, oppure mediante il tardivo giudaismo della Diaspo­ra o anche della Palestina. Parecchi furono i campi investigati, che fruttarono conoscenze vera­mente nuove: fra i numerosi studi apparsi basti qui accennare a quelli di Fr. Cumont sulla Religione di Mitra (1896, 1900) e sulle Religioni orientali nell' Impero romano (1906); a quelli di R. Reit­zenstein sull'Ermetismo (1904), sulle Religioni misteriche ellenistiche (1910), sul Mistero di redenzione iranico (1921); agli studi sul Man­deismo di W. Brandt (1889, 1893, 1910, 1912,1915), di M. Lidz­harski (1900, 1905, 1915), di L. Tondelli (1928); agli studi Sullo Gnosticismo di W. Bousset (1907), di E. De Faye (1913), di F. C. Burkitt (1932). Ma assai più limitate, spesso incerte o anche del tutto arbitrarie, furono le conclusioni dedotte dal confronto di que­ste religioni orientali col cristianesimo: non fu evitato, cioè, lo spon­taneo pericolo di affermare una identità di sostanza dove era sol­tanto una vaga corrispondenza di forma, e l'altro pericolo crono­logico anche più grave di prendere per una dipendenza del cristia­nesimo ciò che era una dipendenza dal cristianesimo. Quest'ultimo caso è avvenuto nei riguardi del Mandeismo, che a bella prima taluni studiosi troppo affrettatamente giudicarono essere una fonte della teologia del iv vangelo: oggi, raffreddati i primi fervori, si ritiene comunemente che la strana setta dei Mandei èstata largamente influenzata dal cristianesimo, e non viceversa §171).

§ 215. Ma l'argomento preferito, per gli studiosi di Storia delle religioni comparate, è stato S. Paolo, considerato praticamente co­me il vero fondatore del cristianesimo o almeno come il costruttore della sua impalcatura concettuale. Questa costruzione avrebbe ben pochi elementi originali, mentre molti altri sarebbero stati desunti da varie religioni orientali ed applicati con leggieri adattamenti al Gesù idealizzato, ossia al Cristo, e alla dottrina attribuita a lui: tali sarebbero il concetto di Cristo “uomo dal cielo” (I Corinti, 15, 47), che sarebbe desunto dal mito orientale dell'”Uomo primigenio”, molti concetti misterici specialmente riguardo al battesimo e all'Eucaristia, e altri sulla grazia e lo Spirito. In sostanza si ricercava, a proposito di S. Paolo, ciò che si potrebbe chiamare un “cristianesimo precristiano”, ossia anteriore a Gesù. A questa corrente si oppose nettamente, fra altri, lo Schweitzer (§210), che in una nuova Storia delle ricerche su S. Paolo (1911) e più tardi in uno studio sulla Mistica dell'apostolo (1930), rimase fermo alla sua teoria escatologica, applicata anche a S. Paolo, e davanti all'alternativa di una dipendenza del pensiero cristiano dal giudaismo o dall'ellenismo, parteggiò risolutamente per la prima. Al contrario il Loisy, in uno studio sui Misteri pagani e il mistero cristiano (1919), ammetteva una larga influenza delle religioni mi­steriche ellenistiche sul cristianesimo da S. Paolo in poi. In realtà lo Schweitzer, sul terreno pratico, aveva avuto lo sguardo più acuto del Loisy egli cioè aveva preveduto che il metodo sto­rico-comparativo, ingolfandosi nella ricerca del “cristianesimo pre­cristiano”, avrebbe finito per negare l'esistenza storica di Gesù. Ed ebbe ragione, giacché gli sviluppi inevitabili di una logica rigorosa prevalsero anche questa volta. Come già Bruno Bauer, portando alle ultime conseguenze i principii dello Strauss e della Scuola di Tubinga, aveva finito per negare la storicità di Gesù (§ 202); cosi pure questa volta da taluni principii del metodo storico-compara­tivo, ma soprattutto dai postulati filosofici in onore dal Reimarus in poi, si dedusse che Gesù non è mai esistito.

§ 216. Veramente i nuovi negatori facevano la figura di dilettanti e d'intrusi in mezzo agli specialisti, giacché non presentavano la commendatizia di qualche nuova esegesi che salvasse - come voleva la corrente - l'uomo Gesù, dopo averlo “purificato” da ogni ele­mento divino: al contrario, questi enfants terribles si facevano avanti a sostenere la tesi opposta, e invece di salvare l'uomo Gesù volevano salvare il “dio” Cristo, preferendo un “dio” hegeliano a un uomo storico. Tuttavia, una commendatizia la presentavano anch'essi, e molto autorevole, perché fornita loro dagli stessi escatologisti. Ve­demmo sopra, infatti, come il Loisy, rivolgendosi a chi negava che Gesù era in una fremente attesa della fine del mondo, sfidasse il negatore a provare l'esistenza storica di Gesù (§ 210): ebbene, que­sta sfida fu accettata alla lettera, e siccome i nuovi arrivati non erano rimasti affatto convinti dalle prove che gli escatologisti ave­vano addotte per dimostrare quella fremente attesa di Gesù, cosi essi negarono che Gesù fosse esistito. Quale escatologista avrebbe potuto accusarli di non essere logici? Già sullo scorcio del secolo XIX alcuni olandesi, quali A. Pierson, A. Loman e qualche altro, si erano messi sulla via della negazione dell'esistenza storica di Gesù, ma senza ottenere apprezzabili risul­tati. Altrettanto avvenne al tedesco A. Kalthoff (1902), che si ri­chiamò ai principii di Bruno Bauer. In Inghilterra J. M. Robertson, con parecchie pubblicazioni dal 1900 in poi, sosteneva che Gesù era oggetto d'un vecchio culto del popolo ebraico e da identificarsi con un mito impermeato sull'antico Giosuè. Un americano, W. B. Smith, che tuttavia scrisse in tedesco, pubblicò nel 1906 un'opera dal titolo significativo Il Gesu' precristiano, con cui andava alla ricerca del culto di un Gesù anche fuori del popolo ebraico; nello stesso anno P. Jensen, assiriologo eminente, in un'opera voluminosa trovava che la figura di Gesù, come già quelle di Mosè e di altri personaggi dell'Antico Testamento, era un semplice episodio della vasta epopea mitica del babilonese Gilgamesh. Finalmente, dal 1909 in poi, il tedesco A. Drews dapprima pubblicò due grossi volumi intitolati Il mito di Cristo, e poi con altri scritti e con una fer­vorosa attività oratoria tentò di ridurre a sistema e di divulgare la negazione della storicità di Gesù: nel suo sistema erano messe largamente a profitto le idee sia del Robertson (Gesu = Giosue') sia dello Smith (influenza di concetti pagani). La meschinità, quasi frivola, di siffatte ricostruzioni storiche non meritava la confutazione di specialisti; tuttavia l'attività irruente del Drews suscitò sdegnosa stizza ed animose polemiche. Dal punto di vista dell'argomentazione storica queste polemiche apparivano ingiustificate, come sarebbero ingiustificate le polemiche contro chi negasse la storicità di Giulio Cesare o di Socrate: a tali negatori si risponderebbe degnamente solo col silenzio. Ma nel caso del Drews e dei suoi colleghi c'erano di mezzo i principii filosofici, ch'essi con­dividevano pienamente con i loro avversari. Il gruppo del Drews obiettava agli avversari in sostanza così: Voi negate che Gesù sia stato Dio ed abbia operato miracoli, ed avete perfettamente ragione; ma non vedete voi che il Dio Gesù è atte­stato nelle fonti neotestamentarie con una precisione e nettezza che è certamente non minore, e fonse maggiore, di quella per l'uomo Gesù? Non vedete che le due figure, del Dio e dell'uomo, sono con­nesse fra loro cosi intimamente da non potersi scindere a vicenda? Le due figure, storicamente, sono illuminate dalla stessa luce docu­mentana: quindi, se voi accettate l'uomo Gesù, non potete più respingere - soltanto in forza di postulati filosofici - il Dio Gesù. Del resto l'esperienza è in nostro favore, giacché i tentativi fatti dal Reimarus in poi, per salvare l'uomo Gesù abbandonando il Dio Ge­sù, sono tutti falliti, evidentemente perché battevano una strada sba­gliata; noi perciò battiamo la strada inversa, abbandonando l'uomo Gesù, o meglio assegnando egualmente l'uomo e il Dio alla sfera dell'irreale. E, facendo ciò, noi siamo in accordo con la storia ben più di voi: voi, infatti, siete costretti ad ammettere la mostruosa assur­dità che dei rigidi monoteisti - quali S. Paolo e i primi cristiani pro­venienti dal giudaismo - adorassero come un essere soprannaturale e divino un uomo morto pochi anni prima e già conosciuto personal­mente da molti di loro; noi invece esigiamo un semplice processo di incarnazione ideale, affermando che quei primi cristiani velarono di esistenza terrena una loro idea religiosa, com'è avvenuto altre volte nella storia delle religioni. Il ragionamento, come argomento ad hominem, era di una logica perfetta. Di qui la sdegnosa stizza e le polemiche degli avversari, che non gradivano di apparire illogici e inconseguenti.

§ 217. Durante queste polemiche, dopo la prima guerra mondiale, si è delineato riguardo alla critica delle fonti evangeliche un nuovo in­dirizzo, che ha preso il nome di Metodo della storia delle forme (formgeschich tliche Methode). I seguaci di questo metodo, in gran maggioranza tedeschi (K. S. Schmidt, 1919; M. Dibelius, 1919 segg.; R. Bultman, 1921 segg.; M. Albertz, 1921; G. Bertram, 1922 segg; ecc.), si propongono direttamente soltanto uno scopo critico-letterario, cioè di indagare la formazione e la trasmissione dei primi racconti relativi a Gesù, avanti ancora che fossero messi in iscritto: a tale scopo essi sottopongono ad analisi le “forme”, ossia i tipi letterari, che rimasero incorpo­rate in quei racconti e ch'erano d'indole religiosa popolare (ed esem­pio, la “novella” l'« apoftegma », il “paradigrna”, ecc.). Essi, infatti, ammettono che il materiale dei vangeli, prima d'essere scrit­to, fece parte della catechesi ecclesiastica (§ 112) e fu in stretta rela­zione col culto cristiano, e perciò ebbe una vita ed uno svolgimento suoi propri; come pure riconoscono che il Gesù presentato dalla più antica tradizione cristiana è già un essere soprannaturale e oggetto di adorazione religiosa. Direttamente, quindi, essi non si occupano della biografia di Gesù, ma solo dei suoi preliminari, cioè del mate­riale evangelico relativo a questa biografia: tuttavia gli sconfinamen­ti dal campo strettamente critico-letterario a quello costruttivo-biografico sono inevitabili e significativi. Se ne intravede perciò come risultato una teoria che ha molte analogie con quella dello Strauss (§ 199); la realtà storica di Gesù è di solito ammessa, ma le narra­zioni evangeliche a suo riguardo sono stimate una elaborazione della primitiva comunità cristiana; questa elaborazione è, non già mitica come per lo Strauss, ma d'indole religiosa popolare, ed ha conser­vato qua e là alcuni elementi d'oggettività storica, benché oggi sia praticamente assai difficile estrarre con precisione questi elementi per impiegarli in una biografia di Gesù. Questo scetticismo, del resto, non è una prerogativa del Metodo sto­nco-formale, ma si diffonde sempre più anche tra i seguaci di altre correnti. Né contro di esso rappresenta una seria eccezione il solito R. Eisler (§§ 181, 189) che in una grossa pubblicazione dal titolo greco Gesu' re che non ha regnato (2 voli., 1929-1930) presenta con ogni sicurezza e precisione un Gesù rivoluzionario, insorto a mano armata e messo regolarmente a morte dai Romani; e che suc­cessivamente, in uno studio su L'enigma del quarto Vangelo (1938), traccia una biografia non meno minuziosa di Giovanni l'evan­gelista. Dai dotti di ogni tendenza ambedue le pubblicazioni sono state giudicate romanzesche, soprattutto nella loro parte costruttiva; e su tale giudizio non c'è nulla da eccèpire. Oggi, pertanto, il campo è diviso praticamente fra la scuola escatologica, quella storico-comparativa e quella mitologica, mentre a tutte e tre indifferentemente possono appartenere coloro che applicano il Metodo della storia delle forme alcuni ritardatari della scuola li­berale attirano scarsa attenzione. La scuola storico-comparativa ha progressivamente abbandonato talune ipotesi su cui da principio aveva riposto molta fiducia, come quella accennata sopra (§ 214) riguar­do al Mandeismo. La teoria mitologica, invece, ha avuto un vigoroso sostenitore nel francese Couchoud, che ha preso a partito so­prattutto gli escatologisti.

§ 218. Nel suo nervoso libretto su Il mistero di Gesu' (1924) egli s'indirizza spesso al principale escatologista, il Loisy, a cui professa gratitudine per tutto ciò che ha imparato ma di cui trova ingiusti­ficato l'attaccamento all'esistenza storica di Gesù. Alla tesi del Loisy, secondo cui il cristianesimo è sorto dalla deificazione dell'uomo Ge­sù, il Couchoud propone fra altre queste difficoltà: « In molte regio­ni dell'impero era cosa fattibile deificare un uomo privato. Ma per lo meno in una nazione la cosa era impossibile, cioe' presso i Giudei. Essi adoravano Jahve', l'unico Dio, il Dio trascendente, indicibile, di cui non si delineava l'effigie, di cui non si pronunziava il nome, ch'era separato da abissi di abissi da ogni creatura. Associare a Jahve’ un uomo di qualunque genere, sarebbe stato il sacrilegio e l'abo­minazione suprema. I Giudei onoravano l'imperatore, ma si facevano tagliare a pezzi piuttosto che confessare solo a fior di labbra che l'imperatore era un Dio; e si sarebbero fatti egualmente tagliare a pezzi, se fossero stati obbligati a dire ciò dello stesso Mose'. E il pri­mo cristiano di cui udiamo la voce, un Ebreo figlio d'Ebrei (cioè S. Paolo), associerebbe un uomo a Jahve' nella maniera piu' naturale? Ecco il miracolo contro cui io ricalcitro”. - « Sarebbe stato frivolo opporsi all'apoteosi dell'imperatore fino ad affrontare il martirio, per poi sostituirla con l'apoteosi di uno dei suoi sudditi ». - «Proprio di un artigiano come lui Paolo ha detto: Chiunque invocherà il suo no­me sarà salvo,' ovvero: Ogni ginocchio si piegherà davanti a lui, quando la Scrittura dice ciò di Dio? Questo costruttore di baracche (tale era S. Paolo per mestiere) ha forse attribuito a un altro fale­gname ambulante l'opera dei sei giorni, la creazione della luce e del­le acque, del sole e della luna, degli animali e dell'uomo, dei Troni, delle Dominazioni, dei Principati e delle Potestà degli Angeli e di Satana? Ha forse confuso un uomo con Jahve'?”. E’ dunque inam­missibile, per ragioni storiche, che il Cristo del cristianesimo sia l'uo­mo Gesù deificato. Sarà, allora, vero Dio e vero uomo nello stesso tempo? Anche ciò è inammissibile, ma non per ragioni storiche, ben­sì filosofiche: il concetto, infatti, di uomo-Dio “e' un concetto pre kantiano, esso e' entrato egualmente in grandi spiriti, come S. Agostino, S. Tommaso, Pascal, ma oggi e' inammissibile... Si e' prodotta una lenta evoluzione dell'intendimento, e io suppongo che Kant c'en­tri per qualche cosa”. (Che Kant c'entri, e più ancora Hegel, è indubitato; ma era pre-kantiano anche Celso, il quale - come vedem­mo (§195) - faceva lo stesso identico ragionamento del Couchoud). Non resta dunque che ricorrere all'ipotesi perfettamente contraria a quella del Loisy; e infatti il Couchoud l'accetta, concludendo che “Gesu' non e' un uomo progressivamente divinizzato, ma un Dio pro­gressivamente umanizzato”.

§ 219. All'attacco del Couchoud il Loisy ha risposto, occasionalmen­te, in maniera secca e sdegnosa. dichiarando fra l'altro che “noi non abbiamo mai preso sul tragico le speculazioni dei mitologi”. Ma che l'attacco avesse in realtà qualche elemento tragico, è appar­so dalle ultime pubblicazioni del Loisy, quella su La nascita del cristianesimo (1933) rincalzata dalle Osservazioni sulla letteratura epistolare del Nuovo Testamento (1935). In questi scritti egli ac­centua sempre più il suo scetticismo storico circa la biografia di Ge­sù, e passa a giustificare questo scetticismo con una critica sempre più radicale delle lettere di S. Paolo. Lo scetticismo è espresso in questi termini: « Rassegniamoci a sapere soltanto che, nel tempo in cui Ponzio Pilato era procuratore della Giudea, forse nell'anno 28 o 29 della nostra era, forse un anno o due prima, un profeta si levò in Galilea, nella regione di Cafarnao. Si chiamava Gesu'... Questo Gesu' era della piu' umile origine. Non e' probabile che il nome di suo Padre, Giuseppe, e quello di sua Ma­dre, Maria, siano stati inventati dalla tradizione. Alcuni fratelli, ch'egli aveva, hanno goduto di un'autorità piu' o meno considerevole nella prima comunità. Senza dubbio era nato in qualche borgo o villaggio ove fu visto da principio insegnare”. Si noterà come queste parole siano molto simili a quelle che già udimmo sullo stesso argo­mento dal Renan (§ 206), sebbene costui poi non si attenesse in pratica al suo scetticismo: il Loisy, invece, ci si attiene. Del resto questo Gesù non avrebbe avuto neppure il tempo d'espli­care una vasta operosità, giacché la sua predicazione in Galilea “non e' potuta durare a lungo; sarà fare una misura abbondante, prolun­garla per qualche mese”: dopo di che, avvenne il viaggio a Geru­salemme e la morte. Ma anche cosi assottigliata, questa figura di Gesù ha sempre contro di sé - come faceva rilevare il Couchoud - la testimonianza di S. Paolo, che a neppure vent'anni di distanza dalla morte di Gesù fa di quest'uomo un essere divino, autore della redenzione umana, della grazia universale, dell'Eucarestia e dei cristiani misteri di salvezza; quindi, o è falsa la figura del Gesù delinea­ta dal Loisy, o è falsa la testimonianza di S. Paolo. Il Loisy ha scelto, naturalmente, la seconda alternativa. Nel passato egli aveva ammesso l'autenticità sostanziale delle lettere di S. Paolo, assegnandole al periodo tra gli anni 50 e 61; ma adesso, per sfuggire alla suddetta obiezione, mantiene tale assegnazione solo di nome, mentre in realtà la abbandona, giacché scomponendo le singole lettere in una gran quantità di frammenti ne attribuisce an­cora a S. Paolo solo una minima parte, e al contrario dichiara inter­polati i frammenti più ampi e soprattutto più impaccianti per la sua teoria, attribuendoli a una “gnosi mistica” della fine del secolo I. Dopo lunghi tentennamenti, anche il fastidioso passo in cui S. Paolo attribuisce a Gesù l'istituzione dell'Eucarestia (I Corinti, 11) è di­chiarato falso e interpolato (§ 548).

§ 220. In questo nuovo radicalismo applicato a S. Paolo il Loisy ha avuto un predecessore, Henri Delafosse. Sotto questo appellativo, che è uno dei vari pseudonimi di Joseph Turmei, costui ha pubblicato in una collana edita dal Couchoud (il riavvicinamento dei due Stu­diosi è significativo) alcuni volumetti (1926 segg.) in cui egualmente anatomizza le lettere di S. Paolo, conservando all'apostolo brevi trat­ti ed attribuendo quasi tutto il resto a Marcione, che avrebbe scritto verso l'anno 150. Opera analoga ha fatto il Turmei, ancora sotto lo pseudonimo di Delafosse, per le lettere d'Ignazio d'Antiochia (1927) dichiarate d'ogine marcionita, e per quella di Policarpo dichiarata interpolata. Le conclusioni del Turmel, salvo l'attribuzione a Mar­cione, sono state condivise e largamente impiegate dal Loisy. Ma, se il Loisy ha avuto in ciò un predecessore, non pare che abbia avuto dei seguaci: gli stessi suoi antichi discepoli si sono rifiutati di seguirlo nel suo nuovo radicalismo. In Italia è stato scritto: “Parlia­moci chiaro. Alfredo Loisy ha segnato un'orma incancellabile nella critica religiosa del secolo ventesimo con la sua critica dei Sinottici, condizionata sopra tutto dallo sforzo di isolare l'apporto paolino nel­la tradizione evangelica, quella di Marco innanzi tutto. Se ora il Paolo storico, il Paolo delle lettere, evapora nelle nostre mani e si perde nelle nebbie della speculazione gnostica del secondo secolo, la critica dei Vangeli (a cui i papiri stanno imponendo limiti cronolo­gici sempre piu' circoscritti) (esattissimo: cfr. § 160) e' da rifare: e sa­rebbe da rifare, caso mai, in maggior conformità alla tradizione ortodossa. Bel risultato, invero, di tante scomuniche!” (E. Buonainti, in Religio, gennaio 1936, pag. 67). Altrettanto è avvenuto in Francia, ove M. Gognei e Ch. Guignebert hanno respinto le ultime conclusioni del Loisy, sebbene ambedue ac­cettino la teoria escatologica e siano debitori a lui di molte cose. Il Goguel ha pubblicato una Vita di Gesu' (1932), a cui ha tenuto dietro uno studio su La fede nella resurrezione di Gesu' nel cri­stianesimo primitivo (1933): nella biografia predomina l'idea esca­tologica, pur riscontrandovisi qualche lineamento proveniente dalla Scuola liberale; nello studio successivo, negata la realtà storica della resurrezione, si tenta spiegare come sia sorta la fede in essa. Il Gui­gnebert ha pubblicato un Gesu' (1933) in cui, quasi sempre, segue passo passo il Loisy dell'antica maniera, e si mostra ben più radi­cale del Goguel. Ma anche questa volta torna la questione già accennata a proposito di Bruno Bauer e dei recenti mitologi: si tratta ciòè di sapere se dal punto di vista della coerenza critica e della dialettica conseguenzia­ria non già della documentazione storica - il Loisy maestro si tro­vi in regola molto più dei suoi riluttanti discepoli. La logica infatti ha le sue ferree leggi, che spingono fino alle ultime conseguenze quan­do si sono stabiliti taluni principii. Quando perciò si è stabilito che dai vangeli deve risultare un Gesù visionario escatologico, e a tale scopo si sono frantumati i Sinottici e si sono gettati via la massima parte dei loro frammenti insieme con l'intero IV vangelo: quando in questo lavoro sono stati perfettamente d'accordo maestro e disce­poli; quando infine il maestro s'avvede che il lavoro già fatto non serve a nulla se non si estende anche all'irriducibile S. Paolo tradi­zionale, ed estende perciò il lavoro anche a S. Paolo; allora ogni per­sona che ragioni troverà che, dal punto di vista della coerenza, il maestro va rettamente per la strada che si è tracciata, mentre i di­scepoli riluttanti sono illogici, perché si fermano a mezza strada per un ingiustificato conservatorismo.

§ 221. Ma si può fare anche un'altra questione, e chiedere se lo stesso Loisy sia veramente giunto alle ultime conseguenze dei suoi principii. Nella sua lunga operosità scientifica si rileva chiaramente una continua accentuazione di radicalismo, per cui egli ha succes­sivamente sconfessato opinioni meno demolitrici dapprima profes­sate. Ad ogni modo più radicali di lui sono oggi i mitologi colleghi del Couchoud, dalle cui negazioni egli aborre Certamente tra Couchoud che nega l'esistenza storica di Gesù, e il Loisy che l'affer­ma, c'è un abisso. Ma l'abisso sembra più teoretico che pratico. A che si riduce, in pratica, il Gesù storico del Loisy? A un giovane Galileo visionario, che ha predicato per due o tre mesi, e che infine è stato giustiziato a Gerusalemme. Altro non si sa (§ 219). E’ un'om­bra, un semplice fantasma, che un tenue soffio farebbe svanire; il Loisy però non vuoi dare quel soffio, e ricorre all'espediente di polve­rizzare le lettere di S. Paolo, piuttosto che fare svanire il fantasma. Il ricorso è coerente, ma da disperati; e appunto per questo evidente carattere di disperazione non è stato né sarà imitato. Non sarebbe dunque più agevole, e soprattutto più logico, dare quel decisivo sof­fio e fare svanire quell'ombra di Gesù storico, come ha fatto il Cou­choud? vero che il Loisy, e dietro lui il fedele Guignebert, ha più volte risposto al Couchoud che l'ipotesi ha il torto “di non spiegare l'ori­gine del cristianesimo”. Ma il Couchoud può sempre replicare chie­dendo se l'ombra del Gesù storico, mantenuta dal Loisy, spieghi davvero l'origine del cristianesimo, o almeno la spieghi meglio dell'idea religiosa velata di storicità che il Couchoud preferisce; può inoltre insistere affermando che, quand'anche l'origine del cristiane­simo non fosse spiegata nell'ipotesi che Gesù non sia esistito, ciò tutt'al più sarebbe un altro fra i molti casi in cui la storia deve ri­correre alla sapiente ars nesciendi: ma che, ad ogni modo, sarebbe evitata la mostruosa assurdità storica di presentare rigidi monoteisti giudei che adorano a masse un uomo morto poco prima e da essi ben conosciuto (§ § 216, 218). Il dramma spirituale dei razionalisti che si rifiutano di seguire il Couchoud, consiste in questo. Essi af­fermano che l'esistenza storica di Gesù non può essere richiamata in dubbio, garantita qual è da testimonianze gravissime, numerose, so­lenni: se si respingessero queste testimonianze, si dovrebbero respin­gere a maggior ragione le testimonianze riguardo all'esistenza sto­rica di Socrate, Alessandro Magno, Annibale, Mani, Maometto, Car­lo Magno, e d'infiniti altri personaggi, cosicché tutta la storia cadreb­be. Senonché le identiche testimonianze, gravissime, numerose, solen­ni, mentre garantiscono l'esistenza storica di Gesù, attestano anche le sue qualità soprannaturali e la sua potenza taumaturgica: perciò, come si conclude da quelle testimonianze che Gesù è veramente esi­stito, così' bisognerebbe concludere ch'egli era un essere soprannatu­rale e che operò miracoli. Ma questa conclusione è per i razionalisti impossibile a priori, e di qui il loro dramma: essi devono dimostrare a posteriori che le testimonianze in favore del Gesù soprannaturale e taumaturgo non hanno alcun valore, mentre essi stessi le giudicano autorevolissime in favore del Gesù storico. Il metodo seguito per raggiungere questa dimostrazione a posteriori è come oramai sappiamo - quello della selezione dei testi: i testi irriducibilmente « soprannaturali » sono scartati perché privi di va­lore storico; gli altri, meno irriducibili, sono sottoposti al processo della dolce sollecitazione cara al Renan (§ 207), e cosi sono ricon­dotti al livello puramente naturale e riacquistano valore storico. Ma questo metodo, per quanto sia comodo agli scopi aprioristici di chi lo applica, è troppo puerile, e puerile specialmente per la sua arbi­trarietà. Proprio I'Harnack, cioè un razionalista insigne, previde che alla critica dei vangeli sarebbe avvenuto come a quel fanciullo che tolse via ad una ad una tutte le foglie di un bulbo, giudicandole nella sua mente puerile ingombranti o accessorie al bulbo stesso, ed aspettandosi di ritrovare nell'interno un nocciuolo: e invece, gettata via l'ultima foglia, restò con nulla in mano. Gli avvenimenti successivi hanno mostrato che la previsione dell'Har­nack era giustissima, giacché i critici che sfrondavano i testi più o meno abbondantemente sono stati seguiti dai critici che li hanno rasi al suolo indistintamente. Nulla, infatti, è più logico della logica stessa, quando sia applicata rigorosamente.

§ 222. Una conclusione appare evidentissima, a chi riassuma risultati delle molteplici esperienze fatte dal Reimarus fino ad oggi, ed è che quando si comincia a cancellare una parte della figura del Gesù storico qual è presentata dai vangeli, o si ottiene una figura storicamente assurda che ben presto è abbandonata, oppure si finisce col cancellarla del tutto. I lineamenti del Gesù dei vangeli sono tan­to riconnessi e collegati fra loro, che si richiamano necessariamente a vicenda; quindi, o si lasciano come sono, oppure si cancellano fino all'ultimo. E appare evidentissima anche un'altra conclusione, in relazione di­retta con la precedente: ed è che l'accettare tale quale la figura del Gesù dei vangeli, oppure il cancellarla in parte o tutta, è una conclu­sione dettata soprattutto da criteri filosofici non già storici. La linea di divisione, la vera cresta di displuvio, che separa i due campi è un criterio filosofico, cioè la « possibilità » del fatto soprannaturale e del miracolo fisico: tutti gli altri criteri storici, in confronto con questo filosofico, sono di gran lunga meno importanti per uno studioso che già si sia schierato nell'uno o nell'altro dei due campi. Previa « pos­sibilità » nel campo di destra; previa « impossibilità » nel campo di sinistra: ecco il vero spirito che animerà le successive investigazioni storico-documentarie in ambedue i campi, e ne suggerirà le conclu­sioni. Gli accampati di sinistra accetteranno volta per volta qualun­que soluzione del problema storico di Gesù, da quella del Reima­rus fino a quella dei mitologi, pur di non ammettere quella « possibilità » che per essi è un'assurdità maggiore di qualunque assurda soluzione. Gli accampati di destra avranno il compito di assicurarsi caso per caso che la previa « possibilità » sia diventata « realtà », e di schiarirne l'inquadramento nei contemporanei fatti storici; ma, per il resto, non incontrano ostacoli molto gravi. Questa condizione degli accampati di destra è rilevata da un accam­pato dell'estrema sinistra, cioè dal Couchoud, con le seguenti parole: «Quanto piu' ci ripenso, tanto piu' mi convinco che il Gesu' storico non e' pienamente accettabile se non dai credenti e non capito bene se non da loro ». - «I credenti hanno la chiave di questi antichi testi. Essi li leggono senza fatica, ne penetrano il vero senso; potran­no desiderare la spiegazione di un dato particolare, ma difficoltà ra­dicali non ne incontrano. Per essi non esiste un enigma di Gesu'. L'ostacolo in cui io urto, di sapere come mai Paolo avrebbe adorato un Giudeo suo contemporaneo elargendo gli gli attributi di Jahve' (cfr. § 218), non esiste. Paolo ha trattato Gesu' da Dio, perché Gesu' e' veramente Dio. I credenti sono nella luce ». – “Nel campo dell'e­segesi la loro posizione e' invidiabile. Essi ricevono di fronte e accet­tano nel loro senso pieno quei documenti che i critici prendono di sbieco e nei quali tentano di fare una rischiosa selezione”.

§ 223. Su questo punto esiste poi una controversia delicata. Dagli accampati di sinistra partono spesso all'indirizzo degli accampati di destra voci disdegnose, che li accusano di essere sotto la tirannia del dogma e di non godere di quella libertà scientifica di cui si gode nel campo di sinistra. Bisogna distinguere. In primo luogo, quando un dato principio è sta­to liberamente e coscientemente accettato, si potrà parlare di salda adesione ma non di tirannia. Eppoi, vi sono dogmi e dogmi: vero dogma è quello religioso; ma vi sono anche assiomi filosofici che val­gono per “dogmi” laici, riscotendo adesioni così tenaci da non invidiare praticamente nulla ai dogmi religiosi. Ora, sarebbe puerile o insincero negare che il campo di sinistra abbia i suoi “dogmi” laici, rappresentati da quegli assiomi filosofici che guidano le sue ricerche e dettano le sue conclusioni ben più dei documenti storici. Questa constatazione non è ammessa né spesso né volentieri dagli accampati di sinistra; ma la loro ben comprensibile ritrosia ha avuto talune felici eccezioni, fra cui la seguente: « Se il problema (cristolo­gico) che ha appassionato ed assorbito per secoli i pensatori cristiani e' oggi proposto di nuovo, ciò avviene molto meno perché la storia ne e' meglio conosciuta, che non in conseguenza del rinnovamento integrale che é avvenuto e prosegue nella filosofia moderna” (A. Loisy, Autour d'un petit livre, pagg. 128-129). Ecco una confessione tanto sincera quanto preziosa. Cosicché le voci disdegnose della sinistra verso la destra non sono punto giustificate, e posson benissimo esser ritorte dalla destra verso la sinistra con ragioni per lo meno di ugual peso; tanto più che, in pratica, se vi sono state diserzioni da sinistra verso destra, ve ne sono state anche da destra verso sinistra. Né si vorrà seriamente soste­nere che l'abbandono del “dogma” laico è cosa sempre facile ed agevole, e che non avviene altrettanto nel campo opposto: in realtà l'esperienza dimostra che per attaccamento al “dogma” laico si affronta volentieri anche una specie di “martirio” laico, quale èquello di accettare la ridicolaggine suprema della teoria di un Pau­lus o l'assurdità suprema della teoria di un Couchoud. Affrontare simili ridicolaggini e assurdità, non è quasi un “martirio” laico? Nei due campi si parlano in realtà due lingue diverse, chiamate rispettivamente “naturalismo” e “soprannaturalismo”. Il campo di sinistra, che parla il “naturalismo”, non comprende nè desidera comprendere l'altra lingua; il campo di destra, che parla il “sopran­naturalismo”, comprende benissimo l'altra lingua, soltanto afferma ch'è una lingua straniera nel paese chiamato Vangelo e quindi il visitatore di questo paese non riuscirà ivi né a capire nè a farsi ca­pire con questa sola lingua. Avviene perciò che gli accampati di sinistra disdegnano per princi­pio tutto ciò che dicono quei di destra, come gente che parli una lin­gua barbara. La miglior prova ne è che l'accennata opera del radi­cale Schweitzer, la quale tratta estesamente delle ricerche sulla bio­grafia di Gesù (§ 210), non s'occupa quasi affatto di pubblicazioni del campo di destra. Al contrario, gli accampati di destra s'interessano molto delle pub blicazioni dell'accampamento di sinistra, perché (oltre il resto) vi riscontrano altrettanti fallimenti delle varie teorie naturalistiche, co­me di discorsi fatti da persone che parlino tutte le lingue tranne la giusta, e che perciò hanno ridotto il loro accampamento a una spe­cie di torre di Babele. Quest'ultimo paragone potrà sembrare qui inopportuno per la sua indelicatezza: ma in tal caso la responsabi­lità ricade su chi lo ha impiegato per la prima volta, cioè precisamen­te su un altissimo gerarca dell'accampamento di sinistra, il Loisy, il quale ha potuto esprimere il seguente giudizio: “Si e' assai tentati di pensare che la teologia contemporanea - fatta eccezione per i cattolici romani per i quali l'ortodossia tradizionale ha sempre forza di legge - e' una vera torre di Babele, ove la confusione delle idee e' anche piu' grande della diversità delle lingue”(in The Hibbert Journal, vni-3, aprile 1910, pag. 486). Se queste parole vogliono essere un bilancio dei risultati ottenuti, gli accampati di destra le ascolteranno volentieri come confessione di un fallimento.
§ 224. I risultati pratici ottenuti nel campo di sinistra, che è il solo di cui ci siamo occupati, sono quelli fin qui esposti. E’ avvenuto cioè che quasi ogni nuova generazione, dal Reimarus fino ad oggi, ha gri­dato al trionfo credendo di aver finalmente raggiunto la definitiva e vera soluzione del problema di Gesù; senonché, immancabilmente, la successiva generazione ha ripudiato la decantata soluzione e ne ha cercata un'altra. Vi sono, è vero, alcuni punti messi al sicuro dopo tante ricerche; ma si tratta di punti secondari, sui quali consente volentieri anche il campo di destra mentre la vera questione prin­cipale, cioè il problema in se stesso di Gesù, è ancora là in attesa di una risposta. L'ultima soluzione proposta trionfalmente è stata quella degli escatologisti; ma da quando essa fu proclamata è già passata quasi una generazione quindi, se ancora vige la legge del secolo scorso, non dovrebbe tardare il suo ripudio totale. E in realtà, i preannunzi di questo ripudio già si scorgono, e numerosi; non si scorgono invece i segni di una parusia, che apporti la sostituzione. Né sarà facile congegnare una nuova e ben delineata teoria storica, essendo già state esplorate abbastanza le varie zone dentro e fuori l'antico giudaismo. Rimane, è vero, la possibilità di scoperte inatte­se, che portino alla luce documenti importanti; ma anche qui le pre­visioni non sono rosee, giacché i papiri scoperti in questi ultimi an­ni, mentre mostrano un viso benigno ed amorevole verso i vangeli antichi e compatti della tradizione, mostrano invece una grinta singolarmente arcigna e scontrosa verso i vangeli tardivi e interpolati degli escatologisti (§160). Se dunque il passato insegna qualcosa ri­guardo al futuro, è prevedibile nel campo di sinistra un accentuato radicalismo riguardo alle fonti - nonostante le attestazioni paleogra­fiche dei documenti - e un più sfiduciato scetticismo riguardo alla ricostruzione della biografia di Gesù. Nel campo di sinistra, insomma, il Gesù storico sembra destinato ine­sorabilmente alla tomba. Su un angolo di essa i mitologi, o i loro successori, scriveranno NEMO; gli escatologisti o i loro successori rifiuteranno questa iscrizione come grave offesa alla storia, e in un altro angolo scriveranno IGNOTUS; ma poi gli uni e gli altri si aiuteranno a vicenda a rotolare la pietra all'ingresso della tomba, vi apporranno di comune accordo i sigilli, e davanti alla porta chiu­sa si sdraieranno insieme a far la guardia.
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