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06/08/2012 17:11 | |
LA VITA PRIVATA
«Toto orbe in pace composito»
§ 225. Gli ultimi anni avanti l'Era Volgare l'Impero romano, ossia l'orbis terrarum, fu in pace. Nell'anno 15 av. Cr. Tiberio e Druso, figliastri di Augusto, avevano sottomesso la Rezia, la Vindelicia e il Norico, fra le Alpi e il Danubio; nel 13 i Dalmati e i Pannoni erano stati ridotti all'obbedienza mediante una spedizione iniziata da Agrippa, genero d'Augusto, e terminata da Tiberio; dal 12 in poi Druso aveva diretto le operazioni guerresche contro i Germani, stabilendo saldamente il dominio di Roma lungo il Reno. Dall'anno 8 av. Cr. comincia un periodo di pace, che non sarà più turbata se non dopo l'Era Volgare con le nuove sollevazioni dei Germani, Dalmati e Pannoni, culminate con la disfatta di Quintilio Varo a Teutoburgo (9 d. Cr.). A Roma, l'Ara Pacis Augustae era stata inaugurata già nel gennaio del 9 av. Cr.; il tempio di Giano, che era stato chiuso due sole volte da Augusto, fu da lui chiuso per la terza volta appunto nell'8 av. Cr., essendo toto orbe in pace composito, come proclama ogni anno la Chiesa in occasione della nascita di Gesù. Augusto, autore di questa pax romana, aveva raggiunto la vetta della sua piramide di gloria, trovandosi in quel periodo per cui non avrebbe dovuto mai morire.
Si disse infatti di Augusto che, per il bene di Roma, avrebbe dovuto o non mai nascere o non mai morire: il periodo anteriore al suo dominio assoluto sarebbe quello per cui non avrebbe dovuto mai nascere, e il periodo in cui egli rimase unico padrone del mondo sarebbe quello per cui non avrebbe dovuto morire. E a tale padrone del mondo, appunto in questo secondo periodo, erano riserbati onori fino allora sconosciuti nell'Impero: gli si dedicavano templi e città intere, era proclamato di stirpe non già umana ma divina, egli era il nuovo Giove, era il Giove Salvatore, era l'astro che sorge sul mondo. Non risulta invece che, fra tanti eccelsi titoli, fosse dato ad Augusto quello di principe di pace, che pure non era da lui immeritato nel suo secondo periodo. Ma sette secoli prima un profeta ebreo aveva ben impiegato questo titolo, e insieme con altri che ricordano quelli d'Augusto lo aveva attribuito, precisamente come ultimo e conclusivo titolo, al futuro Messia: è nato un pargolo, ci fu largito un figlio: fu posto l'impero sull'omero suo. Suo nome sarà “Ammirabile”, “Consigliere”, “Dio”, “Forte”, “Padre sempiterno”, “Principe di pace”. Isaia, 9, 5. E’ vero che in ebraico l'espressione “principe di pace” ha un significato più ampio del latino princeps pacis, perché in ebraico “pace” (shalom) designa il “benessere”, la “felicità” perfetta; tuttavia il futuro Messia, essendo stato previsto come “principe”, non avrebbe mancato di apportare nel suo regno, insieme con la “felicità”, anche la pax nel senso latino di esclusione della guerra, giacché ov'è guerra non è pax e tanto meno “felicità”.
L'annunzio a Zacharia
§ 226. Si era pertanto in tempo di pace, sotto l'imperatore Augusto, ai giorni di Erode re della Giudea (Luca, 1, 5), e correva l'anno 747 di Roma (7 av. Cr.). Viveva allora un sacerdote del Tempio di Gerusalemme, di nome Zacharia, ch'era ammogliato con una donna di stirpe sacerdotale di nome Elisabetta, ed abitava nella “regione montagnosa” di Giuda (Giudea); la città ov'egli dimorava è innominata, ma una tradizione risalente fin verso il secolo V la identifica con l'odierna Ain-Karim (S. Giovanni in Montana), a circa 7 chilometri a sud-ovest di Gerusalemme. I due coniugi erano avanzati in età ambedue, e non avevano ricevuto la prima e più gioconda benedizione di un focolare ebraico, cioè la figliolanza: nella loro solitudine s'attristavano, e consci di aver sempre menato una vita tutta dedicata ai grandi principii della religiosità ebraica si chiedevano perché mai Dio li avesse lasciati privi di quella consolazione. Ora, essendo giunto il turno dì servizio al Tempio per la classe a cui apparteneva Zacharia, che era l'ottava classe presieduta da Abia (§ 54), egli dalla sua dimora rurale si trasferì a Gerusalemme; essendosi poi fatta l'assegnazione dei singoli uffici per mezzo delle sorti, a Zacharia toccò l'onorevole incarico di offrire l'incenso sull'altare dei profumi, il che avveniva due volte il giorno nel sacrifizio mattutino e in quello vespertino. L'altare dei profumi era collocato nel “santo” (§ 47) ove potevano entrare soltanto i sacerdoti, mentre i laici restavano fuori seguendo da lontano con lo sguardo le cerimonie del sacerdote che entrava e usciva dal “santuario”. Entrato pertanto Zacharia, tutta la moltitudine del popolo stava pregando al di fuori all'ora dell'incenso; ma apparve a lui un angelo del Signore, stante ritto a destra dell'altare dell'incenso. E si turbò Zacharia al vederlo, e timore cadde su lui.
Ma l'angelo gli disse: Non temere, Zacharia, perché la tua preghiera fu esaudita, e tua moglie Elisabetta ti partorirà un figlio, e tu gli metterai nome Giovanni (Luca, 1, 10-13). Per gli Ebrei più che per gli altri popoli il nomen era un omen, un presagio: nel nostro caso Giovanni, significava Jahve' (Dio d'Israele) fu misericordioso. L'angelo infatti prosegui assicurando lo sbigottito Zacharia che, per quella nascita, il padre e molti altri godrebbero: il fanciullo sarebbe un grande al cospetto di Dio, si asterrebbe dal vino e da ogni bevanda inebriante, sarebbe ripieno di Spirito santo ancor nel seno di sua madre, richiamerebbe molti Israeliti al loro Dio, anzi sarebbe un precursore che con lo spirito e la possanza di Elia incederebbe avanti a Dio stesso per preparare al Signore una degna accoglienza da parte del popolo ben disposto.
§ 227. L'annunzio dell'angelo oltrepassava tutte le previsioni umane. Dal vino e dalle bevande inebrianti si astenevano coloro che facevano voto di “nazireato”, ma di solito era un voto temporaneo e non perpetuo: lo Spirito santo secondo le Scritture sacre aveva riempito alcuni profeti o altri personaggi in occasioni speciali, ma del solo Geremia si leggeva ch'era stato destinato da Dio a un'alta missione già nel seno di sua madre; un precursore dell'atteso Messia era stato predetto anticamente dal profeta Malachia (Mal., 3, 1; 4, 5-6) e tutti ritenevano che questo battistrada spirituale sarebbe stato il profeta Elia già salito al cielo su un carro di fuoco, ma il celestiale profeta non avrebbe potuto rinascere quale figlio di Zacharia né trasfondere in altri il suo spirito e la sua possanza. Per queste considerazioni al primo sbigottimento successe in Zacharia una differente sospensione d'animo. E Zacharia disse all'angelo: A che (segno) conoscerò (vero) questo? Io infatti sono anziano e mia moglie è avanzata nei suoi giorni. - E l'angelo rispondendo gli disse: lo sono Gabriele che sto alla presenza d'Iddio (§ 78), e fui inviato per parlarti e dirti questa buona novella. Ecco però che sarai muto e non potrai parlare fino al giorno che avverranno queste cose, perché non credesti alle mie parole che si adempiranno a tempo loro (Luca, 1, 18-20). La punizione, se pur fu tale, serviva da nuova prova della straordinaria promessa; come già negli antichi tempi Abramo, Mosè, e altri personaggi avevano chiesto e ricevuto da Dio qualche “segno” a conferma di promesse divine, così Zacharia ne aveva chiesto uno e lo riceveva di tal genere sulla propria persona che fosse anche una purificazione spirituale. I tempi nuovi, già da antico promessi ad Israele, cominciavano; e il loro annunzio era stato dato inaspettatamente, ma durante la liturgia perenne d'Israele e in un periodo di pace per il mondo intero. Frattanto il popolo fuori del “santuario” attendeva che uscisse il sacerdote, per intonare l'inno che accompagnava il sacrificio da compiersi sull'altare degli olocausti, e si meravigliava dello straordinario indugio. Finalmente Zacharia ricomparve sulla soglia, ma non pronunziò la solita benedizione sul popolo né poteva parlare a quelli, e conobbero che aveva contemplato una visione nel santuario; egli poi faceva dei gesti, e rimase muto (Luca, 1, 22). La mutolezza di Zacharia probabilmente impedì che il popolo risapesse il preciso oggetto della visione e le promesse comunicate al veggente; si parlò genericamente d'apparizione, come doveva parlarsene spesso in quel tempo o a ragione o a torto. Terminata la settimana di servizio al Tempio, il muto Zacharia ritornò alla sua città. Poco dopo sua moglie Elisabetta divenne gravida, e si tenne nascosta per cinque mesi, dicendo: Cosi il Signore ha agito con me ai giorni in cui volse lo sguardo a toglier via l'obbrobrio mio di tra gli uomini (Luca, 1, 24-25).
L'obbrobrio era la sterilità deprecatissima dagli Ebrei; e ciò è sufficiente a dimostrare che il riserbo in cui si tenne Elisabetta nei primi cinque mesi non era per nascondere la gravidanza, che l'avrebbe invece onorata presso la gente, bensì per ragioni più alte; al sesto mese, infatti, la sua condizione sarà rivelata a un'altra donna a cui servirà da prova di disegni divini. I quali intanto si venivano attuando senza alcuno strepitìo, fra il riserbo di Elisabetta e la mutolezza di Zacharia. A questo episodio l'evangelista Luca, che vuoi procedere con ordinamento (§§ 114, 140) e predilige le narrazioni abbinate, soggiunge immediatamente un altro episodio che ha parecchi tratti somiglianti al precedente, ma nello stesso tempo segna un grande progresso nell'attuazione dei disegni divini: all'annunzio e concepimento del precursore segue l'annunzio e il concepimento dello stesso Messia Gesù.
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