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Ultimo Aggiornamento: 06/08/2012 17:50
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06/08/2012 17:26

ALL'INIZIO DELLA VITA PUBBLICA FINO ALLA PRIMA PASQUA

Giovanni il Battista e il battesimo di Gesù


§ 265. La narrazione di Luca è stata fin qui ripartita parallela­mente fra Giovanni il Battista e Gesù; l'evangelista ha terminato lasciandoli ambedue ragazzi, l'uno nel deserto e l'altro a Nazareth, e si è congedato da loro col dire sia dell'uno che dell'altro che cre­scevano e s'afforzavano (§ § 237, 260). Trascorso questo trentennio di penombra, Giovanni compare in pub­blico e poco dopo gli tiene dietro Gesù, quasi per riprodurre la breve distanza di tempo che ha separato le loro nascite; precur­sore o battistrada è stato preannunziato Giovanni, e tale deve egli essere molto più per l'operosità pubblica che per la silenziosa na­scita. Con la comparsa di Giovanni cominciava l'argomento ordinario del­la primitiva catechesi cristiana (§ 113); perciò in questo nuovo periodo della narrazione s'affiancano a Luca tutti gli altri evangelisti, compresi il brevissimo Marco e il non sinottico Giovanni. Nella sua lunga permanenza in luoghi deserti Giovanni aveva menato vita solitaria ed austera; se egli comparve in pubblico vestito di peli di camello con una cintura di pelle intorno ai suoi fianchi, e mangiando locuste e miele selvatico (Marco, 1, 6), questo tenore di vita era certamente quello da lui già seguito nei suoi lunghi anni di solitudine. Del resto, cibo e vestito di quel genere erano abituali a chi menava allora vita eremitica per un principio ascetico, come ancora oggi i beduini palestinesi intessono ordinariamente i loro mantelli di peli di cammello e in mancanza di meglio mangiano lo­custe, mettendole talvolta anche in serbo dopo averle seccate. Circa 25 anni dopo la comparsa di Giovanni, Flavio Giuseppe per un ideale ascetico rimase tre anni presso un solitario di nome Bano o Banno, il quale viveva nel deserto, servendosi di vestimento (for­nito) da alberi e nutrendosi di cibarie nate spontaneamente (Vita, 11). Eremiti di questo genere non dovevano essere molto rari, spe­cialmente nella solitudine ad oriente di Gerusalemme e lungo il Giordano; nulla tuttavia c'induce a ritenere che fossero affiliati agli Esseni, ché anzi la vita cenobitica ch'era di prescrizione per gli Es­seni (§ 44) escluderebbe di per se stessa la vita eremitica di questi solitari. Quando giunse l'anno decimoquinto di Tiberio (§175), la parola di Dio fu su Giovanni figlio di Zacharia nel deserto (Luca, 3, 2). Comincia la sua missione di preparare la strada all'imminente Mes­sia, ed egli inizia questa missione proclamando: Pentitevi, poiché si e' avvicinato il regno dei cieli! (Marco, 3, 2). Dopo questo an­nunzio generico, egli scende al particolare: in primo luogo esige da coloro che accorrono a lui due riti, cioè una lavanda materiale e inoltre l'aperta confessione dei peccati commessi; in secondo luo­go, scorgendo fra coloro che accorrono molti Farisei e Sadducei, li accoglie con queste parole: Razza di vipere! Chi vi ha insegnato a sfuggire all'ira imminente? Fate, dunque, frutto degno della penitenza! E non crediate di dire dentro di voi:”Per padre abbiamo Abramo”; giacché vi dico che iddio può da queste pietre suscitare figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi: dun­que, ogni albero che non fa frutto e' tagliato via e gettato nel fuoco (Matteo, 3, 7-10).

§ 266. Predicatori di tipo messianico ce ne furono molti, prima e dopo Giovanni, ma tutti d'altra indole. Subito dopo la morte di Erode il Grande si erano fatti avanti dap­prima in Perea un Simone, che aveva dato fuoco alla reggia di Gerico e si era proclamato re; poi in Giudea un pastore di nome Athronges, che aveva impiantato un regolare governo; quindi in Galilea un Giuda figlio d'Ezechia, che si era impadronito per prima cosa del deposito d'armi a Sefforis; in seguito venne Giuda il Ga­lileo, che iniziò la corrente degli Zeloti (§ 43); più tardi ancora vennero Teuda, e il predicatore egiziano, e gli altri accennati da Flavio Giuseppe, e certamente anche altri più numerosi sebbene non menzionati distintamente. Ma costoro seguivano altri metodi: tutti indistintamente afferma­vano che i figli d'Abramo erano il primo popolo della terra, e per assicurar loro l'effettiva supremazia politica mettevano mano alle armi; molti si presentavano come re effettivi; altri asserivano di far miracoli, o almeno li promettevano; qualcuno faceva man bassa sulle proprietà altrui ed esponeva la vita altrui, ben di rado la propria: assolutamente nessuno pensava a rendere i suoi seguaci moralmente migliori. Giovanni batteva la strada precisamente opposta. Affermava che figli d'Abramo potevano saltar su anche dalle pietre; non promet­teva dominii e supremazie; non toccava né invocava armi; non s'occupava di politica; non faceva miracoli; era povero e nudo: ma in compenso tutta la sua predicazione si riassumeva in un ammonimento morale: E’ imminente il regno di Dio, perciò cambiate maniera di pensare! Infatti, la prima parola del suo proclama, Pentitevi!... significava appunto questo: Cambiate maniera di pensare! In greco è cambiate di mente; in ebraico si usava il verbo shub, che si­gnifica ritornare addietro da una falsa strada per rimettersi su quel­la buona: ma in ambedue le lingue il significato concettuale è il medesimo, quello di operare una trasformazione totale nell'interno dell'uomo. Ora, poiché un profondo sentimento interno si manifesta sponta­neamente anche all'esterno, e un atto materiale esterno può essere una raffigurazione dimostrativa dell'atto spirituale interno: perciò Giovanni, a coloro che “cambiavano maniera di pensare”, richiedeva come manifestazione esterna di questo cambiamento che confessassero i peccati commessi, e come raffigurazione dimostrativa che ricevessero una lavanda materiale.

§ 267. Già in altre religioni antiche il pubblico riconoscimento del­le proprie colpe e l'abluzione corporale facevano parte di riti spe­ciali, per la semplice ragione che il primo corrisponde ad una na­turale inclinazione dell'animo umano allorché comprenda d'aver agi­to male, e la seconda è il simbolo più spontaneo e più facile della mondezza spirituale. Lo stesso giudaismo praticava i due riti in varie occasioni: ad esempio, nel giorno dell'Espiazione o Kippur (§77), il sommo sa­cerdote li praticava ambedue insieme, giacché confessava le colpe di tutto il popolo (Levitico, 16, 21) e compiva su di sé una par­ticolare abluzione (IVI, 16, 24). Giovanni, dunque, non usciva dal gran quadro del giudaismo; ma la sua novità consisteva in questo, che i suoi due riti erano chiesti come preparazione al regno di Dio da lui annunziato ormai come imminente. Era dunque un regno che mirava soprattutto allo spirito come ap­punto vi miravano quei due riti, e un regno che differiva total­mente da quelli annunziati dagli altri predicatori messianici. Co­storo badavano soltanto a denaro, ad armi, ad angeli che calassero dal cielo con le spade in pugno a sbaragliare i Romani, a dominio politico d'Israele sui pagani, e a simili cose molto facili e molto vecchie; al contrario, il regno annunziato da Giovanni era molto difficile e molto nuovo. Se non era del tutto nuovo l'insegnamento di Giovanni, ciò avveniva perché esso si ricollegava direttamente con l'antico insegnamento degli autentici profeti d'Israele; già essi avevano insistito molto più sulle opere di giustizia che sulle cerimonie liturgiche (Isaia, 1, e segg.), molto più sulla circoncisione del cuore e dell'udito che su quella della carne (Geremia, 4, 4; 6, 10), inoltrandosi molto più sulla strada dello spirito che su quella delle formalità rituali: e precisamente su quella strada dello spirito, troppo abbandonata dal giudaismo contemporaneo, adesso s'inoltrava nuovamente Giovanni. Gli antichi vessilli d'Israele, i profeti, erano scomparsi da molto tempo; già da qualche secolo era risonato il lamento: I nostri vessilli più non vediamo; non c'è piu' profeta, non c'è fra noi chi sappia alcunché Salmo 74 ebr., 9 Adesso si levava su Giovanni, come ultimo e conclusivo profeta. Dirà infatti più tardi Gesù: La legge e i Profeti, fino a Giovanni; da allora del regno d'iddio si dà la buona novella (Luca, 16, 16).

§ 268. Alla predicazione di Giovanni accorsero moltissimi dalla Giu­dea e da Gerusalemme; anche Flavio Giuseppe conferma la grande autorità ch'egli acquistò sulle folle (Antichità giud., XVIII, 116-119). I suoi discepoli diretti e stabili menavano vita assai austera (Luca, 5, 33), ma verso l'altra gente che accorreva egli si mostrava molto condiscendente e remissivo: né ai pubblicani né ai soldati impo­neva d'abbandonare il loro mestiere, ma si limitava a comandare ai primi di non commettere estorsioni e ai secondi di non commet­tere violenze. Questo atteggiamento cosi mite d'un uomo così austero spiacque a quei Farisei e Sadducei che accorsero insieme con la folla, e che perciò s'attirarono da Giovanni la non mite invettiva riportata sopra (§ 265); ma alla loro volta essi, specialmente i Fa­risei e gli Scribi, si vendicarono più tardi richiamando in dubbio o negando apertamente la legittimità della missione di Giovanni (Luca, 7, 29-30; cfr. 20, 1-8). Nonostante questi ostacoli, la corrente iniziata da Giovanni fu lentissima. Molti discepoli di Giovanni seguirono più tardi Gesù, e di costoro conosciamo nominatamente Andrea e Pietro, Giacomo e Giovanni; altri invece rimasero attaccati alla persona del precur­sore, più che allo spirito del suo insegnamento, e si mantennero appartati sulla soglia del cristianesimo anche dopo la morte di Gio­vanni e di Gesù (cfr. Atti, 18, 25; 19, 34): non mancarono poi ma­nifestazioni di gelosia da parte di taluni discepoli di Giovanni verso Gesù, mentre ambedue erano ancora in vita (Giovanni, 3, 26).

§ 269. Giovanni s'intratteneva per lo più lungo il Giordano, in quel tratto di fiume ch'è più accessibile a chi venga da Gerusalem­me, cioè poco sopra al suo sbocco nel Mar Morto ivi era comodità di praticare la cerimonia dell'abluzione nell'acqua del fiume. Tut­tavia alcune volte si trasferiva altrove5 probabilmente quando per abbondanti piogge le rive del fiume erano sdriicciolevoli e fangose o la corrente era pericolosa; sceglieva allora altri luoghi forniti d'ac­qua, di cui sono nominati occasionalmente due, Bethania di là dal Giordano che era appunto un'ampia e tranquilla insenatura fatta dal fiume (§ 162), e Amon presso Salim che è stato riconosciuto in un luogo 12 chilometri a sud di Beisan (Scitopoli) fin dal IV se­colo (Eusebio, Onomasticon, pag. 40). Frattanto le folle che accorrevano a Giovanni crescevano, e tra loro aveva anche cominciato a circolar la domanda se non fosse proprio egli il Messia tanto atteso: la profonda differenza morale tra lui e gli altri banditori del regno messianico aveva impressionato tutti. Ma Giovanni tagliò corto a quella dubbiosa speranza con una dichiarazione ben netta e precisa. No, egli non era il grande ven­turo; egli praticava l'immersione - il greco “battesimo” - soltanto in acqua, ma dietro a lui sarebbe venuto uno ben più potente di lui che avrebbe praticato l'immersione in Spirito santo e fuoco. Que­sto venturo sarebbe stato anche un vagliatore: col ventilabro alla mano avrebbe egli mondato la sua aia, separando e raccogliendo il grano nel suo granaio, e gettando invece la pula nel fuoco. Parole rivoluzionarie, queste, all'orecchio degli Scribi e dei Farisei. L'aia, evidentemente, era l'eletta nazione d'Israele; ma chi era il grano e chi la pula? Se il buon grano erano i discepoli dei rab­bini osservanti delle “tradizioni” e la pula erano tutti gli altri, s'andava d'accordo con Giovanni; ma quel singolare predicatore dava ben poche garanzie di pensare così, non foss'altro per la be­nignità stessa con cui trattava i pubblicani e i soldati, che invece dovevano essere respinti come appartenenti al sozzo e impuro “popolo della terra” (§ 40). Basta: non rimaneva che aspettare quel grande venturo preannun­ziato da Giovanni, e frattanto vigilare su questo suo precursore.

§ 270. Un giorno, insieme con la folla, si presentò anche Gesù; veniva da Nazareth, certamente insieme con altri Galilei perché an­che in Galilea si doveva esser diffusa la fama di Giovanni e l'en­tusiasmo per lui. Era mescolato fra gli altri penitenti, uno fra i tanti: nessuno lo conosceva, neppure Giovanni suo parente. Più tardi, riferendosi a questo giorno del primo incontro, Giovanni atte­stò di Gesù: Io non lo conoscevo; ma Chi m'inviò a battezzare in acqua, Colui mi disse:”Su chi tu veda lo Spirito discendente e fermantesi su lui, egli è il battezzante in Spirito santo” (Giovanni, 1, 33). Questa ignoranza per la persona di Gesù non sorprenderà chi abbia presenti le vicende di Giovanni: già da ragazzo egli si era allon­tanato dalla casa paterna per darsi al deserto (§ 237), e nulla ci dice ch'egli sia rientrato talvolta tra i suoi familiari nel ventennio circa di sua solitudine. Nel frattempo i suoi già vecchi genitori do­vevano esser morti ambedue, ma ambedue e specialmente la ma­dre gli erano spiritualrnente presenti anche nella solitudine. Per qual ragione, del resto, si era egli ritirato nel deserto, se non per le straordinarie cose che gli avevano narrate della sua nascita i geni­tori e specialmente la madre? Egli era un uomo che aveva avuto fede, e viveva totalmente della sua fede. Perciò anche non si era curato di conoscere materialmente quel mi­sterioso figlio di Maria nato sei mesi dopo di lui; lo conosceva frat­tanto spiritualmente, e per il resto aveva fede che a suo tempo Iddio glielo avrebbe fatto conoscere anche materialmente. Ma un certo presentimento l'aveva; quando scorse Gesù tra la folla che si pre­parava al battesimo, la voce dello Spirito e anche quella del sangue gli fecero divinare, in quell'uno fra i tanti, il Messia e il suo pa­rente, sebbene ancora non avesse visto su lui il segno prestabilito (Matteo, 3, 14-15). Vinta la prudente riluttanza di Giovanni, Gesù fu da lui battezzato, e allora la divinazione si tramutò in certezza. Avvenne infatti il segno di riconoscimento. Gesù in apparenza di penitente, ma senza confessare alcun peccato, era sceso in acqua: ed ecco che quando ne risalì, s'aprì’ il cielo al di sopra, lo Spirito in forma di colomba discese su lui e si udì dall'alto una voce: Tu sei il figlio mio diletto; in te mi compiae qui (Marco, 1, 11). La manifestazione celeste fa ripensare all'altra sulla grotta di Beth­lehem (§ 247): il Messia là iniziava la sua vita fisica, qua il suo ministero; là è dato un annunzio a pecorai, qua è dato un segno al precursore innocente e un annunzio a peccatori pentiti. Ma, come avvenne per l'annunzio di Beth-lehem, anche questo delle rive del Giordano ebbe un'efficacia assai limitata quanto al tempo e quan­to al numero dei destinatari. Pochi mesi appresso, due discepoli di Giovanni verranno inviati dal loro stesso maestro a domandare a Gesù se egli era proprio l'atteso Messia (§ 339).


Il deserto e le tentazioni


§ 271. Compiendo su di sé il rito del suo precursore, Gesù si ri­collegava all'operosità di lui ed iniziava la propria. Ma ogni grande impresa è preceduta da una preparazione prossima, oltre a quella remota, e Gesù accettò anche questa comune norma e premise al suo ministero pubblico un periodo di preparazione. Il periodo durò quaranta giorni. Quaranta, infatti, è un numero tipico nell'Antico Testamento, e riferito a giorni o ad anni ricorre in molti casi biblici: i più analoghi al nostro sono quello di Mosè, che stette sul monte Sinai alla presenza di Jahvè 40 giorni e 40 notti: pane non mangiò e acqua non bevve (Esodo, 34, 28), e l'altro di Elia che dopo aver mangiato il cibo apportatogli dall'angelo camminò per la forza di quel cibo 40 giorni e 40 notti fino in Horeb, monte di Dio (i [III] Re, 19, 8). Di Gesù è narrato che, dopo il suo battesimo, fu condotto su nel deserto dallo Spirito per essere tentato dal diavolo; e avendo digiunato 40 giorni e 40 notti, dopo ebbe fame (Matteo, 4, 1-2). Non è da pensare che questo di Gesù fosse l'ordina­rio digiuno giudaico rinnovato per 40 giorni di seguito: il digiuno giudaico obbligava fino al tramonto del sole, ma al calar della sera si prendeva cibo (come ancor oggi presso i musulmani nel Ramadan), mentre il digiuno di Gesù è ininterrotto per 40 giorni e 40 notti, ap­punto come quelli di Mosè e di Elia. E’ evidente che il fatto è presen­tato come assolutamente soprannaturale. Inoltre, l'informatore dal quale la catechesi primitiva ha saputo il fatto non può essere stato altri che Gesù. In quei 40 giorni infatti egli rimase senza alcun te­stimonio; era con le fiere come dice Marco (1, 13), il quale riassume in poche parole questo periodo quadragesimale esposto più ampia­mente dagli altri due Sinottici. Perciò la scarsezza di precisione, e soprattutto il carattere sopran­naturale dei singoli episodi, rendono questa quadragesima arduissi­ma a spiegarsi, molto più di altre pagine evangeliche su cui oggi tanto si discute; ma le pagine oggi tanto discusse passeranno certamente in seconda linea quando un certo spiritualismo - foss'anche non cristiano - avrà sostituito il greve positivismo imperante oggi sugli studiosi, al contrario la quadragesima del deserto rimarrà per qualunque tempo e per qualunque mentalità un libro chiuso di cui è dato leggere in tralice solo poche parole. Tuttavia il titolo del libro, ossia il suo contenuto generico, è ben leggibile; e fu esattamente decifrato appunto dalla catechesi primi­tiva, la quale ammoni: Non abbiamo un sommo sacerdote inca­pace di compatire alle infermità nostre, bensì uno tentato in tutte le cose a somiglianza (nostra), senza peccato (Ebrei, 4, 15; cfr. 2, 17-18). In altre parole per la catechesi primitiva il significato, ge­nerico ma genuino, della quadragesima nel deserto fu che Gesù permise di esser tentato per compiere la somiglianza con i suoi seguaci, esposti egualmente a tentazione, e per dare ad essi un e­sempio e un conforto nelle loro infermità: la quale interpretazione, oltre tutto il resto, corrisponde ad una ben fondata norma psi­cologica. Questo, il titolo del chiuso libro come fu letto dai primi diffusori della buona novella: la lettura dei suoi tre capitoli fu lasciata alle possibilità e all'abilità dei singoli.

§ 272. Il luogo ove Gesù passò questa quadragesima è, secondo una tradizione attestata nel secolo VII ma risalente forse al IV, il monte chiamato oggi dagli Arabi “della Quarantena” (Gebel Qarantal) e la cui cima ai tempi dei Maccabei era chiamata Duq (« osserva­torio »); quella cima, su cui stava il fortilizio ove fu assassinato Si­mone, ultimo dei Maccabei, s'eleva circa 500 metri sulla vallata del Giordano, e tutto il monte chiude verso occidente questa val­lata sovrastante a Gerico; il luogo è sempre stato più o meno de­serto, e solo dal secolo V le grotte che s'aprono numerose lungo le pendici del monte servirono da stabile dimora a monaci bizantini. Se dunque Gesù fu battezzato nel Giordano circa all'altezza di Ge­rico - com'è probabile (§ 269) - il cammino dal luogo di batte­simo a quello del ritiro fu di pochi chilometri. Quoties inter homines fui, minor homo redii, esclamerà a Roma alcuni anni più tardi un filosofo la cui pratica non s'accordava con la teoria. Gesù, alla vigilia di entrare fra gli uomini, sta lontano totalmente da essi per 40 giorni, quasi per fare ampia provvista di quella umanità di cui gli uomini erano privi e ch'egli avrebbe diffuso tra loro. Le condizioni straordinarie, anche fisicamente, in cui Gesù passò quei 40 giorni sembrano potersi intravedere dalle parole dei due evangelisti, secondo le quali egli ebbe fame dopo quei giorni (Mat­teo, 4, 2) ossia finiti che furono quelli (Luca, 4, 2). In precedenza, dunque, non sentì egli lo stimolo della fame? Passò egli forse la quadragesima in condizioni di estasi così alta ed astratta, che i pro­cedimenti organici della vita fisica erano quasi sospesi? Sono domande, queste, a cui lo storico non ha elementi da rispondere, e lascerà liberamente il campo, più che al teologo, al mistico.

§ 273. Avvertita la fame dopo i 40 giorni, si presenta a lui il ten­tatore, chiamato soltanto Satana (§ 78) da Marco, soltanto diavolo da Luca, con ambedue i termini nella narrazione di Matteo. La riassuntiva narrazione di Marco non specifica le singole tentazioni, come del resto non fa alcun accenno neppure al digiuno; negli altri due Sinottici le tentazioni sono tre, ma enumerate secondo una serie differente: la serie seguita da Matteo sembra preferibile. Il tentatore gli disse: Se figlio sei d'Iddio, di' che questi sassi diven­tino pani! - Ma egli rispondendo disse: Sta scritto “Non di pane solo vivrà l'uomo, ma d'ogni parola uscente per la bocca di Dio” (Matteo, 4, 3-4). Il passo citato sta in Deuteronomio, 8, 3, e la citazione è fatta da Matteo conforme al greco dei Settanta; ma Gesù citò certamente conforme all'originale ebraico, il quale suona “Non di pane solo vive l'uomo; ma di tutto ciò che esce dalla bocca di Jahve' vive l'uomo”. Queste ultime parole si riferiscono alla man­na, menzionata ivi poco prima, ch'era stata prodotta per ordine della bocca di Jahve' onde nutrire gli Ebrei nel deserto. Il tentatore aveva sfidato Gesù ad impiegare il potere taumaturgi­co, ch'egli aveva come figlio di Dio, per ottenere uno scopo rag­giungibile con mezzi non taumaturgici; Gesù risponde che il pane necessario può essere ottenuto, oltreché per i soliti mezzi umani, anche per predisposizione divina come nel caso della manna, sen­za impiegare sconsideratamente poteri taumaturgici per istigazione altrui. La mira del tentatore, che aveva voluto esplorare se Gesù fosse ed avesse coscienza d'esser figlio di Dio, era fallita; la sua isti­gazione ad operare un miracolo superfluo era rimasta inefficace; la cura del sostentamento materiale, a cui il tentatore aveva subor­dinato il potere taumaturgico, era invece subordinata da Gesù alla provvidenza di Dio.

§ 274. La seconda tentazione, come anche la terza, si svolgono in una sfera tutta sovrumana. Allora il diavolo lo prende seco (conducendolo) nella santa città e lo collocò sopra il pinnacolo del tempio, e gli dice: Se figlio sei d'iddio, gettati giu'; sta scritto infatti “Agli angeli di lui darà ordine riguardo a te, e sulle mani ti solleveranno affinché mai tu urti contro un sasso il piede tuo”. Disse a lui Gesu': Sta scritto pur anche “Non tenterai il Signore, il Dio tuo” (Matteo, 4, 5-7). La città santa, com'è chiamata ancor oggi dagli Arabi (el Quds), è Gerusalemme, nominata esplicitamente nel parallelo Luca; il pinnacolo del tempio - non del santuario - era l'angolo dove il ”portico di Salomone” si congiungeva col “portico regio” (§ 48), che sovrastava altissi­mo alla valle del Cedron. Il diavolo invita dunque Gesù ad una prova messianica: se egli è il figlio di Dio, ne sarà una splendida dimostrazione davanti al po­polo affollato negli atrii del Tempio quella di gettarsi nel vuoto, giacché gli angeli accorreranno a sostenere il lanciato Messia, si che tocchi terra dolcemente come foglia staccatasi da un albero e che cali cullata da un venticello. Sotto l'aspetto storico si riscontra che l'opinione del diavolo non era solitaria, bensì condivisa da molti Giudei contemporanei. Un ventennio più tardi, sotto il procuratore Antonio Felice (anni 52-60), i taumaturghi messianici pullùlarono come fungaia e ne fu uccisa dai Romani una gran moltitudine; cosi dice Flavio Giuseppe (Guer­ra giud., Il, 259 segg.), il quale ricorda in particolare che un falso profeta egiziano, raccolti migliaia di seguaci sul Monte degli Olivi, aveva promesso che di là sarebbe entrato nella sottostante Gerusa­lemme sbaragliando i Romani, certo in virtù di qualche strabiliante aiuto celestiale. In sostanza, l'egiziano seguiva il consiglio dato dal diavolo a Gesu', con la sola differenza che il gran giuoco di presti­gio messianico sarebbe avvenuto nel lato orientale della valle del Cedron, invece che sul lato occidentale dov'era il pinnacolo del Tempio. Come aveva fatto Gesù nella tentazione precedente, anche il dia­volo questa volta cita la Scrittura, cioè il Salmo 91 (ebr.), 11-12. Ma, come osserva ironicamente S. Girolamo, il diavolo qui si di­mostra cattivo esegeta, perché il Salmo promette la protezione di­vina a chi si comporti da pio ed osservante, non già a chi provochi arrogantemente Dio. La nuova citazione di Gesù, presa dal Deute­ronomio, 6, 16, rettifica il contorcimento scritturistico del diavolo. In che maniera avvennero questa tentazione e quella seguente, in maniera reale ed oggettiva o soltanto in suggestione e visione sog­gettiva? Dal Medioevo si cominciò a credere che tutto avvenisse in visione, perché si giudicò indegno del Cristo che fosse trasportato dal diavolo qua o là e rimanesse anche limitatamente in potere di lui. Gli antichi Padri, tuttavia, non trovarono in ciò alcuna difficoltà, e interpretarono comunemente i fatti come reali ed oggettivi. Con i Padri, inoltre, sembra che abbia pensato anche Luca, allor­ché chiudendo il racconto di tutte e tre le tentazioni accenna vela­tamente ai fatti della passione di Gesù come a nuovi assalti del diavolo (§ 276): e la passione fu costituita indubbiamente da fatti reali ed oggettivi.

§ 275. Nuovamente il diavolo lo prende seco (conducendolo) in un monte elevato assai, e gli mostra tutti i regni del mondo e la loro gloria, e gli disse: Queste cose ti darò tutte quante, se caduto (ai miei piedi) mi adori! - Allora gli dice Gesu': Vattene, Satana! Sta scritto infatti”(Il) Signore il Dio tuo adorerai, e a lui solo ren­derai culto” (Matteo, 4, 8-10). A questa relazione Luca (4, 5-8) aggiunge alcuni particolari: cioè, che la visione di tutti i regni del mondo avvenne in un punto di tempo o come diremmo noi “in un batter d'occhio”; inoltre, che il diavolo mo­strando la possanza dei regni e la loro gloria dichiarò perché a me e' stata concessa e a chi voglio la do. In quest'ultima dichiarazione il padre della menzogna mentiva forse meno dell'ordinario; ad ogni modo il millantato credito era evidente, poiché nella sacra Scrit­tura era stato affermato molte volte che tutti i regni della terra appartenevano, non già al diavolo, ma a Jahvè Dio d'Israele (Isaia, 37, 16; 11 Cronache, 20, 6; ecc.) e insieme al suo Messia (Daniele, 2, 44; Salmo 72 ebr., 8-11; ecc.). E’ notevole però che in questa terza tentazione, narrata come seconda da Luca, il diavolo non ripete la proposizione condizionale di sfida se figlio sei d'iddio, con cui aveva cominciato le altre due volte; si era egli forse convinto del contra­rio, ovvero in quest'ultimo e più violento assalto giudicò inutile quella formula dubitativa? Non ne sappiamo nulla, come nulla sappiamo del monte elevato assai su cui avvenne la visione dei regni e che da Luca non è neppur ricordato; pensare al Tabor o al Nebo, come fecero alcuni commentatori del passato, è da inesperti della Palestina perché quei due monti sono d'altezza modesta - il Tabor di 562 metri sul Me­diterraneo, e il Nebo di 835 metri - e chi è salito su quelle due cime sa benissimo che il panorama non s'estende neppure a tutta la Palestina; ma anche se fosse stato il Monte Bianco o un altro anche più elevato non si sarebbero certamente scorti tutti i regni del mondo per visione naturale. Fu dunque una visione, avvenuta si in cima all'ignoto monte, ma ottenuta con mezzi preternaturali a noi ignoti. Al tentato, il diavolo richiede l'omaggio che si usava con i monar­chi della terra e col Dio del cielo, quello di prostrarsi a terra adorando: è l'atto di chi si ritiene moralmente più basso dell'adorato, e ne accetta la superiorità su di sé. Alla proposta Gesù risponde citando la Scrittura, cioè Deuteronomio, 6, 13, che giace nel con­testo da cui è tolta la prima parte dello Shemac (§ 66); tuttavia il passo citato suona nell'originale ebraico alquanto diversamente da come è allegato nei due Sinottici, cioè Jahvè Dio tuo temerai, e lui servirai, sebbene il senso dell'allegazione evangelica sia implicito nell'originale ebraico.

§ 276. Tutte e tre le tentazioni mostrano una chiara relazione con l'ufficio messianico di Gesù, al quale contrastano. La prima lo vor­rebbe indurre ad un messianismo comodo ed agiato; la seconda, ad un messianismo raccomandato a vuote esibizioni taumaturgiche; la terza, ad un messianismo che si esaurisca nella gloria politica. Come Gesù ha superato adesso queste tre tentazioni, così nella sua operosità successiva continuerà a contraddire ai principii su cui esse si fondano. Dopo la terza tentazione Matteo aggiunge che il diavolo, quasi per eseguire il comando di Gesù “Vattene, Satana!”, effettivamente si partì da lui, ed ecco che gli angeli si fecero dap presso e ministra­vano a lui (Matteo, 4, 11). Luca non accenna agli angeli, ma offre una particolarità riguardo alla partenza del diavolo, il quale si allontanò da Lui fino a tempo (opportuno) (Luca, 4, 13). Non c'è da ingannarsi su questo tempo (opportuno): è la futura passione di Gesù, allorché egli esclamerà rivolto alla turba di Giuda questa e' l'ora vostra e la potestà della tenebra (Luca, 22, 53), e al­lorché Satana entrerà nell'interno di Giuda (ivi, 3) e vaglierà gli Apostoli come grano (ivi, 31). In quell'occasione Gesù dirà agli Apostoli di pregare per non entrare in tentazione (ivi, 40), ed egli stesso entrato nella suprema angoscia pregherà più intensamente (ivi, 44); ora appunto in quell'occasione Luca, che non ha ricordato gli angeli ministranti a lui dopo le tre tentazioni, parlerà dell'angelo disceso dal cielo per confortarlo (ivi, 43). La passione dunque, nel pensiero di Luca, fu il tempo (opportuno) riservatosi da Satana per muovere il più violento e l'ultimo assalto.

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