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Ultimo Aggiornamento: 06/08/2012 17:50
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06/08/2012 17:29

Giovanni declinante e Gesù ascendente

§ 277. Nel frattempo Giovanni il Battista continuava il suo ministero, e tanto più continuavano a vigilarlo i potentati di Gerusalemme (§ 269). Ma, insomma, chi era quel solitario indipendente, nè Fariseo nè Sadduceo, nè Zelota nè romanofilo, nè Esseno nè Erodiano, che amministrava un battesimo non incluso nel cerimoniale giudaico e predicava un “cambiamento di mente” (§ 266) non contemplato dalla casuistica degli Scribi? Pazienza poi se fosse rimasto solitario nel suo deserto, tutt'al più con un gramo codazzo di discepoli appresso; costui invece si trascinava appresso le folle, e correvano a lui da Gerusalemme e dalla Giudea non meno che dalla lontana Galilea. Indubbiamente quell'uomo era una forza morale di prim'ordine, e coloro che in Gerusalemme tenevano in mano le briglie del giudaismo non potevano lasciarlo ancora sbrigliato. O con loro, o contro di loro. Dichiarasse una buona volta apertamente chi era e che cosa voleva! Per sapere questo si ricorse, naturalmente, a una commissione. Sic­come poi lo scopo interessava più o meno tutti, così si scelse una commissione mista in cui entrarono sia sacerdoti e Leviti, cioè in maggioranza Sadducei, sia autentici Farisei, e tutti insieme da Gerusalemme si recarono a Bethania d'oltre il Giordano (§ 269), ove in quel tempo s'intratteneva Giovanni. La commissione si presenta, non come accusatrice, ma solo come investigatrice; essa rappresenta i maggiorenti e i benpensanti del giudaismo che hanno diritto di sapere, quindi domanda a Giovanni: Tu chi sei? (Giovanni, 1, 19).
Circa quattro secoli e mezzo prima, dai maggiorenti e benpensanti di Atene era stata rivolta l'identica domanda a Socrate: Tu, insom­ma, chi sei? (Arriano, Epitteto, III, 1, 22). Ma la domanda dei Ge­rosolimitani, pur nella sua imprecisione, mirava ad uno scopo ben preciso; poiché le grandi folle che accorrevano a Giovanni si chie­devano sempre più insistentemente se egli fosse il Messia, la coni-missione voleva investigare che cosa pensasse su ciò Giovanni stesso. Ma Giovanni confessò e non negò, e confessò: Io non sono il Cristo (Messia) (Giovanni, I, 20). Quelli replicarono: Sei Elia, che tutti aspettano come precursore del Messia? Sei il profeta, quello pari a Mosè che dovrà apparire ai tempi messianici? - A ogni domanda Giovanni risponde: No! - Ma dunque chi sei, insistono i commis­sari, perché dovremo pur riportare una risposta a Gerusalemme! - Io sono la voce di chi grida nel deserto: “Raddrizzate la via del Signore”, come dice il profeta Isaia (Isaia, 40, 3). La risposta non soddisfece i commissari, specialmente i Farisei. Perciò questi replicarono: Ma allora, se tu non sei nè il Cristo nè Elia né il profeta, perché battezzi? - E allora Giovanni ripeté a loro l'annunzio già dato alle folle: egli battezzava in acqua ma in mezzo a loro stava uno ch'essi non conoscevano, che veniva dopo di lui, e del quale egli non era degno di sciogliere il legaccio dei calzari.

§ 278 Il giorno appresso a questo incontro, avendo finito la sua quadragesima, Gesù venne di nuovo a Giovanni presso il fiume. Giovanni lo scorse tra la folla e additandolo ai propri discepoli esclamò: Guarda! L'agnello d'Iddio, quello che toglie il peccato del mondo! Questi e' colui del quale io dissi “Dopo di me viene un uomo che avanti a me è stato (promosso), perché prima di me era”; e dopo aver alluso all'apparizione avvenuta al battesimo di Gesù, concluse: E io ho veduto e ho attestato che questi e' il figlio d'iddio (Giov., 1, 29... 34). La metafora di Giovanni, che chiamava Gesù l'agnello d'iddio, fa­ceva insieme tornare alla mente degli uditori giudei i veri agnelli che erano sacrificati nel Tempio di Gerusalemme ogni giorno, e soprattutto alla Pasqua: a qualche uditore più versato nelle scritture poteva anche ricordare che, in esse, il futuro Messia era stato contemplato come un agnello portato a scannare per i delitti altrui (Isala, 53, 7 e 4), e che pure altri profeti vi erano stati rassomigliati a quel mite animale destinato ordinariamente a vittima (Geremia, 11, 19) Il collegamento fra i due concetti di agnello-vittima e di figlio di Dio sarà sfuggito probabilmente a quasi tutti gli uditori, ma a Giovanni doveva stare molto a cuore, tanto che vi ritornò sopra il giorno appresso. Il giorno seguente (questa precisione cronologica è dell'accurato evangelista non sinottico: (Giov., 1, 35; cfr. § 163), mentre Giovanni s'intratteneva con due soli discepoli, vide nuovamente Gesù che pas­sava lì presso, e additandolo esclamò ancora: Guarda! L'agnello d'Iddio! I due discepoli, colpiti dalla frase e dalla sua insistenza, discostatisi da Giovanni si misero a seguire Gesù che si allontanava. Scortili Gesù, domandò loro: Che cercate? - Quelli risposero: Rabbi, ove dimori? - E Gesù a loro: Venite e vedrete. - S'accompa­gnarono infatti con lui alla sua dimora, la quale a causa della molta gente accorsa a Giovanni poteva essere una di quelle capanne per guardiani di campi usate ancora oggi nella vallata di Gerico. Erano circa le quattro del pomeriggio.
I due discepoli di Giovanni ri­masero cosi dominati dalla potenza dello sconosciuto Rabbi, che s'intrattennero con lui il resto di quel giorno e certo anche la notte seguente. I due erano scesi giù dalla Galilea: uno era Andrea, fratello di Simone Pietro: l'altro è innominato, ma ciò basta in questa narrazione a farlo riconoscere come se fosse anch'egli nominato. E’ l’evangelista Giovanni, il testimone che può narrare questi fatti con tanta pre­cisione di giorni e di ore; è l'adolescente neppur ventenne destinato a diventare il discepolo che Gesu' amava (§ 155), e che in quel pri­mo giorno in cui incontrò Gesù avrebbe potuto scrivere nel libro di sua vita, con veracità ben più alta che l'Alighieri il giorno che incontrò Beatrice, Incipit vita nova. Dopo quella prima permanenza con Gesù, il fervido Andrea volle accomunare nella propria letizia suo fratello Simone. Rintracciatolo, gli dice: Sai? Abbiamo trovato il Messia! - Lo accompagna quindi a Gesù. Gesù lo guarda, e poi gli dice: Tu sei Simone figlio di Giovanni; tu però ti chiamerai Kepha. - In aramaico kepha significa “roccia”, ma come nome personale non appare usato nell'Antico Testamento e neppure ai tempi di Gesù; a sentirsi rivolgere quelle inaspettate parole è molto probabile che Simone non ne capisse nulla, o tutt'al più giudicasse che l'ignoto Rabbi con la sua mente correva appresso a idee tutte sue personali (§ 397).


In Galilea

§ 279. Nel giorno ancora seguente, come ci dice l'evangelista testi­mone dei fatti, Gesù volle ritornare in Galilea; il congiungimento spirituale fra la sua missione e quella del precursore era compiuto, e nulla più lo riteneva per ora in Giudea. Questo primo ritorno in Galilea non è ricordato dai Sinottici; i quali parlano soltanto del secondo ritorno, quello avvenuto dopo l'imprigionamento del pre­cursore (§ 298). L'evangelista Giovanni, come al solito, supplisce alla loro omissione; non si trattiene però a descrivere il viaggio (mentre descriverà il viaggio del secondo ritorno omesso dagli altri; § 293), e passa a parlare di Gesù già tornato in Galilea. Ivi perciò avven­nero i fatti successivi. Insieme con Gesù dovettero tornare in Galilea i tre discepoli ch'e­rano passati a lui dalla sequela del precursore, e ch'erano di Beth­saida sui confini della Galilea (§ 19), cioè i due fratelli Andrea e Simone Pietro e l'innominato Giovanni. Giunti lassù, i tre fervorosi non mancarono certamente di raccontare a familiari ed amici quan­to sapevano sul conto di Gesù e di additarlo con entusiasmo in Bethsaida, che pare fosse la prima sosta dopo il viaggio. Fra queste accoglienze Gesù incontra uno del paese, certo Filippo, e gli dice: Viemmi appresso! - Non si trattava di una sequela di poche ore, ma abituale, e Filippo che già doveva essere entusiasmato dai rac­conti dei tre compaesani accettò con fervore.
Anzi, a sua volta, cominciò a parlare ad altri dell'ammirato Rabbi; ma qui invece incontrò una gelida accoglienza. Trovatosi con un suo amico, Nathanael, gli confidò tutto vibrante di gioia: Sai? Ab­biamo trovato colui di cui parlano Mosè e i Profeti! lì Gesù figlio di Giuseppe, quello di: Nazareth! - Nathanael doveva essere un uomo molto calmo e posato; per di più era di Cana (Giovanni, 21, 2) vi­cina a Nazareth, e quindi conosceva bene la patria del decantato Rabbi. A sentire che costui veniva fuori da quel miserabile ammasso di tuguri, rispose spregiosamente: Da Nazareth ci può esser qual­cosa di buono? (§ 228). La sfiduciante risposta non raffreddò il fervore di Filippo, che ri­corse alle prove di fatto. Vieni e vedi! replicò egli; e Nathanael - come già Giulio Cesare - venne, vide, ma invece di vincere rimase vinto.

§ 280. Appena Gesù scorse il diffidente che si avvicinava esclamò: Guarda! Uno davvero Israelita, in cui non e' inganno! (§ 251). La lode era certamente meritata, e una prova ne può essere la diffi­denza stessa mostrata da Nathanael al primo annunzio ch'era stato trovato il Messia; fra tanti esaltati o ciarlatani che andavano in giro additando in sé o in altri il Messia, un Israelita sincero aveva ogni diritto di diffidare. Perciò l'Israelita richiese: Donde mi conosci? - Rispose Gesu' e gli disse: Prima che Filippo ti chiamasse, mentre eri sotto il fico, ti vidi! (Giovanni, 1, 48). Era una vecchia tradizione in Palestina di avere vicino alla propria casetta un denso albero di fico, per passare sotto quell'ombra ore riposate e serene (cfr. I [III] Re, 4, 25; Michea, 4, 4; Zacharia, 3,10); ai tempi di Gesù i rabbini vi s'intrattenevano volentieri per studiare indisturbati la Legge. Se dunque Gesù dice qui a Nathanael di averlo scorto sotto l'ombroso ritiro, non annunzia una scoperta ma­terialmente straordinaria; ma la sorpresa dovette essere straordina­ria spiritualmente, in quanto cioè i pensieri che Nathanael rivolgeva in mente là in quel suo ritiro dovevano avere qualche relazione con l'imminente incontro. Pensava egli forse al vero Messia, avendo udito le strane voci che correvano in paese a proposito di Gesù testé giunto? Domandava egli in cuor suo a Dio un “segno” in proposito, come lo aveva domandato Zacharia (§ 227)? Non siamo in grado di rispondere con precisione; tuttavia è chiaro che Natha­nael trovò perfettamente vera la parola rivoltagli: Gesù l'aveva ve­ramente visto nell'interno dei suoi pensieri, più che nella situazione della sua persona.
Il retto Israelita rimase sgomento, e l'uomo calmo e posato fu in­vaso a un tratto da fervore: Rabbi, tu sei il figlio d'iddio! Tu sei re d'israele! Nathanael dunque concordava adesso con Filippo nel riconoscere Gesù come Messia. Era un generoso, ma forse anche troppo. Gesù infatti gli rispose: Perché ti dissi che ti vidi sotto il fico, credi? Cose maggiori di queste vedrai; volgendosi poi anche a Filippo e forse ad altri presenti continuò: in verità, in verità vi dico, vedrete il cielo aperto e gli angeli d'iddio ascendenti e discen­denti sul figlio dell'uomo! L'allusione si riferisce al sogno di Gia­cobbe (Israele), che vide gli angeli ascendere e discendere lungo la misteriosa scala (Genesi, 28, 12); analoga a quella scala che colle­gava la terra col cielo, sarà la missione di Gesù della quale saranno testimoni quei suoi primi discepoli, discendenti da Giacobbe e dav­vero israeliti. Questo Nathanael non è mai nominato dai Sinottici, ma solo da Giovanni; al contrario i Sinottici nominano fra gli Apostoli un Bar­tolomeo, che non è mai nominato da Giovanni. lì molto probabile che, come avveniva spesso a quei tempi, la stessa persona avesse i due nomi di Nathanael e di Bartolomeo, tanto più che nelle liste degli Apostoli Bartolomeo è nominato di solito insieme con Filippo, cioè proprio l'amico di Nathanael.

Le nozze di Cana

§ 281. Il colloquio con Nathanael è un nuovo punto di partenza per la cronologia dell'evangelista Giovanni; egli fa sapere che il terzo giorno dopo quel colloquio si fecero nozze in Gana della Ga­lilea, ed era la madre di Gesu' colà; e fu invitato anche Gesu', e i suoi discepoli, alle nozze (Giov., 2, 1-2). Poiché, come abbiamo visto, Nathanael era appunto di Cana, è verosimile che egli stesso abbia invitato Gesù e i suoi discepoli Andrea, Pietro, Giovanni e Filippo alle nozze, le quali saranno state di qualche parente o amico di Nathanael stesso; tuttavia dalle parole di Giovanni sembra risultare chiaramente che era la madre di Gesu' colà anche prima dell'arrivo del figlio, e ciò induce a congetturare che pure tra Maria e uno degli sposi esistesse qualche legame: come parente o amica, ella si sarà recata là qualche giorno prima per aiutare le donne di casa nei preparativi, specialmente della sposa, ch'erano lunghi. Non han­no invece alcuna verosimiglianza certi almanaccamenti tardivi che vedono nello sposo o Nathanael stesso, l'evangelista Giovanni, o altri. La Cana visitata comunemente oggi in Palestina è Kefr Kenna, che seguendo la strada maestra sta circa a 10 chilometri a nord-est di Nazareth sul percorso verso Tiberiade e Cafarnao, mentre ai tempi di Gesù la distanza fra questa Cana e Nazareth era 3 o 4 chilometri più breve. Ma anticamente esisteva un'altra Cana ridotta oggi a un campo di ruderi, Kirbet Qana, a 14 chilometri a nord di Nazareth. Si disputa fra gli archeologi quale di questi due luo­ghi sia la Cana del IV vangelo; in favore di ambedue i luoghi esi­stono ragioni non spregevoli, sebbene non decisive, e le stesse rela­zioni scritte degli antichi visitatori sono applicate in favore dell'uno o dell'altro. La questione dunque è tuttora incerta, e d'altra parte non è cosa indispensabile risolverla. Le nozze di Cana furono i nissu’in del cerimoniale giudaico (§ 231). La festa che li accompagnava era certamente la più solenne di tutta la vita per la gente di basso e medio grado sociale, e poteva du­rare anche più giorni. La sposa usciva dalle mani delle parenti e delle amiche tutta ag­ghindata pomposamente, con una corona in testa, imbellettata in viso, con gli occhi splendenti di collirio, con i capelli e le unghie dipinti, carica di collane, braccialetti e altri monili per lo più falsi o presi in prestito. Lo sposo, incoronato anch'esso e circondato da­gli “amici dello sposo”, andava sul far della sera a rilevare la sposa dalla casa di lei, per condurla alla propria; la sposa io atten­deva circondata dalle sue amiche, munite di lampade ed acclamanti al giunger dello sposo. Dalla casa della sposa a quella dello sposo si procedeva in corteo, a cui prendeva parte tutto il paese, con luminarie, suoni, canti, danze e grida festose. Tanta era l'autorità morale di siffatti cortei, che perfino i rabbini interrompevano le lezioni nelle scuole della Legge ed uscivano con i loro discepoli a festeggiare gli sposi. A casa dello sposo si teneva il pranzo, con canti e discorsi augurali, i quali talvolta non erano immuni da allusioni ardite, specialmente quando il pranzo era inoltrato e la comitiva era tutta più o meno brilla. Si beveva infatti senza parsimonia, si tracannava cordialmente, es­sendone tanto rara l'occasione per gente che tutto l'anno faceva vita grama e stentata. E si bevevano vini speciali, messi in serbo da gran tempo e custoditi appunto per quella festa; ancora oggi si possono scorgere in un oscuro angolo di qualche casa araba file di misteriose giarre, e il padrone di casa dirà con compunzione grave che non devono toccarsi perché è vino per nozze. Del resto nelle sacre Scritture ebraiche si leggeva che il vino letifica il cuore dell'uomo, e quella gente voleva obbedire alle Scritture almeno nella letizia nuziale.

§ 282. A tale festa così cordiale, così umana anche nelle sue debolezze, volle partecipare Gesù, come certamente pure Maria avrà con­tribuito al pomposo rivestimento della sposa. Quando Gesù era an­cora ragazzo a Nazareth, sua madre gli avrà più volte narrato che un po' di festicciuola era stata fatta anche quando si erano celebrati i nissu'in per lei, ed ella era entrata in casa di Giuseppe (§ 239). Allora era sorta una nuova famiglia, che Gesù aveva onorata e santificata con un'obbedienza trentennale; adesso, ch'egli sta per uscire da questa famiglia, quasi si volge addietro con rimpianto e vuole onorare e santificarne il principio morale costitutivo. Per questa ragione Gesù, il nato da vergine e che morirà vergine, in­terviene a nozze al termine della sua vita privata e al cominciare di quella pubblica. Anzi, la cominciò con un miracolo tale che, mentre dimostrava la potenza di lui, direttamente servì a rendere sempre più liete e fe­stose quelle nozze. Accortamente Giovanni (2, 11), dopo aver raccontato il miracolo, conclude osservando che quello di Cana fu l'inizio dei “segni” miracolosi di Gesù. A Cana Gesù ritrovò sua madre dopo circa due mesi d'assenza. Era stata forse la prima lunga assenza di lui dalla casa paterna; essendo già morto Giuseppe, la bottega in quel tempo era rimasta inope­rosa e Maria senza compagnia. In quella prima solitudine, più che mai, ella avrà ripensato a lui, alla sua nascita e alla sua preannun­ziata missione, intravedendo che questa stava per cominciare: e avrà fatto ciò, mentre doveva schermirsi dalle domande delle indi­screte donne del paese, o anche dai frizzi degli acrimoniosi parenti (§ 264), che avranno voluto sapere perché Gesù l'avesse la­sciata sola, e dove fosse andato, e a quale scopo, e quando sarebbe tornato. Adesso, a Cana, ella se lo rivedeva davanti, già chiamato Rabbi, considerato come un maestro e circondato da alcuni fervo­rosi discepoli: indubbiamente la previsione fatta nella sua solitudine stava per avverarsi. Ma, anche davanti al Rabbi, Maria rimase sem­pre madre, quale si era mostrata davanti al ragazzo dodicenne di­sputante nel Tempio. Da buona madre di famiglia Maria, durante quel pranzo di nozze, avrà sorvegliato insieme con le altre donne che tutto procedesse regolarmente, e le vivande e ogni cosa fossero pronte. Senonché sul finire del pranzo - o perché si erano fatti male i calcoli, o perché erano sopraggiunti convitati imprevisti - venne a mancare proprio il principale, il vino. Le massaie che amministravano ne furono costernate. Era il diso­nore per la famiglia che ospitava; i convitati non avrebbero rispar­miato proteste e schemi, e la festa sarebbe finita bruscamente e ignominiosamente, come quando a teatro in una scena decisiva viene a mancare la luce.

§ 283. Maria s'avvide subito della mancanza, e previde la vergogna degli ospitanti; tuttavia non ne fu costernata come le altre donne. Al suo spirito la presenza del suo figlio Rabbi diceva tante cose che non diceva agli altri; soprattutto ella ricollegava quella presenza con la previsione da lei fatta nella sua solitudine di Na­zareth. Non era forse giunta l'ora di lui? Dominata da questi pensieri Maria, fra lo smarrimento generale a mala pena dissimulato, dice sommessamente a Gesù: “Non han­no vino”. E dice a lei Gesu': “Che cosa (é) a me e a te, donna? Non ancora e' giunta l'ora mia” (Giov., 2, 3-4). Gesù pronunziò queste parole in aramaico, e secondo questa lingua esse vanno interpretate. In primo luogo donna era un appellativo di rispetto, circa come l'appellativo (ma) donna nel Trecento italiano. Un figlio chiamava ordinariamente madre la donna che lo aveva ge­nerato, ma in circostanze particolari poteva chiamarla per maggior riverenza donna. E donna chiamerà nuovamente Gesù sua madre dall'alto della croce (Giov., 19, 26); ma anche prima, secondo un aneddoto rabbinico, un mendicante giudeo aveva chiamato donna la moglie del grande Hillel, come Augusto aveva chiamato donna Cleopatra (Cassio Dione, LI, 12), e così in altri casi. Più tipica è l'altra espressione che cosa (e') a me e a te...?, è certamente traduzione della fra­se fondamentale ebraica mahlz wal (ak) che ricorre più volte nella Bibbia. Ora, il significato di questa frase era precisato nell'uso molto più dalle circostanze del discorso, dal tono della voce, del gesto, ecc., che dal semplice valore delle parole; tutte le lingue han­no di tali frasi idiomatiche in cui le parole sono rimaste un semplice pretesto per esprimere un pensiero, e che verbalmente non si possono tradurre in altra lingua. Nel caso nostro una parafrasi, che tenga qualche conto anche delle parole ebraiche, potrebb'esser que­sta: Che (motivo fa fare) a me e a te (questo discorso)?; il che, indipendentemente dalle parole, equivale all'espressione italiana: Per­ché mi fai questo discorso? Era insomma una frase ellittica con la quale si ricercava la recondita ragione per cui tra due persone av­veniva un discorso, un fatto, e simili. Con questa risposta Gesù declinava l'invito fattogli da Maria, e ne adduceva come ragione il fatto che ancora non era giunta l'ora sua. Dunque in quelle tre sole parole di Maria non hanno vino (seppure furono dette quelle tre sole) era nascosto l'invito a com­piere un miracolo, e la mira dell'invito era nettamente designata dalle circostanze esterne ma soprattutto dai pensieri interni e dal volto materno di colei che invitava. Gesù, che si rende ben conto di tutto, rifiuta, come già nel Tempio aveva rifiutato di subordi­nare la sua presenza nella casa del Padre celeste a quella nella sua famiglia terrena (§ 262): ancora non è giunta l'ora di dimostrare con miracoli l'autorità della propria missione, poiché il precursore Giovanni sta ancora svolgendo la sua. Tuttavia il dialogo fra Maria e Gesù non è finito; anzi le sue più importanti parole non furono mai pronunziate da labbro, ma solo trasmesse da sguardo a sguardo. Come già nel Tempio Gesù dopo il rifiuto aveva obbedito lasciando subito la casa del Padre celeste, così dopo questo nuovo rifiuto accede senz'altro all'invito di Maria. La madre, nel dialogo muto seguito al dialogo parlato viene assicurata che il figlio acconsente; perciò senza perder tempo si volge agli inservienti e dice loro: Fate tutto ciò che vi dirà!

§ 284. Nell'atrio di quella casa erano sei grandi pile destinate alle abluzioni delle mani e delle stoviglie prescritte dal giudaismo: per­ciò le pile erano di pietra, perché secondo i rabbini la pietra non contraeva impurità come la terracotta. Ed erano pile grandi, contenendo ciascuna due o tre volte la normale ”misura” giudaica, la quale si aggirava sui 39 litri; dunque, tutte insieme avevano una capacità di circa 600 litri. Naturalmente il pranzo era lungo, i con­vitati erano molti, e quindi tutta quell'acqua necessaria era stata in gran parte consumata e le pile erano quasi vuote. Gesù allora dette ordine di riempire totalmente le pile; gl'inservienti corsero al pozzo o alla cisterna vicina, e in pochi viaggi le pile fu­rono colme. Non c'era altro da fare; e dice a quelli: “Attingete adesso, e portate al direttore di mensa”. E quelli portarono (Giov., 2, 8). Tutto si era svolto in pochi minuti, anche prima che il direttore di mensa notasse lo smarrimento delle donne e s'avvedesse che non c'era più vino; la discretezza di Maria aveva impedito an­che il dilagar dello scandalo familiare. Quando il direttore di mensa si vide davanti una nuova specie di vino, e l'ebbe assaggiata com'era suo ufficio, rimase strabiliato, tan­to che dimenticò anche il sussiego della sua carica e parlò con la schiettezza del buon popolano. Avvicinatosi allo sposo, gli dice: Ogni uomo passa prima il vino buono, e quando sono brilli quello peg­giore; tu (invece) hai serbato il vino buono fin qui! (Giov., 2, 10). Le parole del direttore di mensa non alludono a qualche uso cor­rente, che non ci è attestato da nessun documento antico; vogliono esser piuttosto un complimento spiritoso, che fa notare quanto fosse inaspettata sul finire del pranzo quell'ambresia e in quella quan­tità. Ma, a quelle parole, lo sposo probabilmente guardò ben bene in faccia il direttore di mensa, domandandosi se proprio lui non fosse il più brillo di tutti: egli, lo sposo, non si era mai sognato di riserbare per la fine del pranzo quella sorpresa del vino miglio­re. Alcune poche interrogazioni rivolte agli inservienti e alle don­ne indirizzarono le ricerche su Maria e poi su Gesù, e tutto fu spiegato. Così questo primo miracolo, dice Giovanni, Gesù manifestò la sua gloria e credettero in luie i suoi discepoli. Ciò non meraviglia, se si pensa all'entusiasmo che già avevano per Gesù i suoi pochi disce­poli. Ma quale sarà stata l'impressione prodotta sui commensali dal miracolo? Dissipati i fumi del convito e dimenticato i1 sapore di quel misterioso vino, avranno essi ripensato al significato morale dell'avvenimento?
§ 285. Dopo la festicciuola e il miracolo Gesù si recò a Cafarnao, egli e la madre di lui e i fratelli e discepoli di lui, e colà rima­sero non molti giorni (Giovanni, 2, 12). Questa permanenza a Cafarnao fu breve, perché Gesù aveva deciso dì recarsi a Gerusalemme per l'imminente Pasqua; ma fin da allora Cafarnao servì a Gesù come abituale dimora in Galilea, divenendo sua patria adottiva invece di Nazareth. Dalla sua famiglia egli già si era staccato, e all'istituzione familiare aveva anche dedicato in omaggio il suo primo miracolo: adesso si staccava anche dall'umi­lissimo suo paese, trasferendosi in luogo più opportuno per la sua missione che cominciava. Cafarnao era sulla riva nord-occidentale del lago di Tiberiade non lontano dallo sbocco del Giordano nel lago. Situata a 13 chilometri a nord della città di Tiberiade e a circa 30 a oriente di Nazareth, era presso i confini fra il territorio di Erode Antipa e quello di Fi­lippo; perciò era fornita anche d'un ufficio di dogana, ed era luogo di transito. Sul lago aveva un piccolo porto conveniente per i pe­scatori. La vita religiosa vi doveva essere intensa e non molto di­sturbata dall'ellenismo insediato poco sopra; suo presidio ivi era, come sempre, l'edificio della sinagoga oggi fortunatamente conservato e ritornato alla luce, sebbene nella precisa forma in cui è stato ri­trovato sembri appartenere a tempi posteriori a quelli di Gesù. Il suo nome Kephar Nahum, “ villaggio di Nahum”, proveniva da un personaggio Nahum a noi ignoto; in tempi molto posteriori si venerò ivi la tomba di un rabbino Tanhum, il cui nome fu poi deformato in Teli Hum, che è l'odierno nome del luogo. A imitazione di Gesù, man mano verranno a stabilirsi a Cafarnao anche i suoi primi discepoli oriundi della vicina Bethsaida, quali Simone Pietro e Andrea. Quanto a Simone Pietro, è probabile che già avesse a Cafarnao legami di parentela; se egli, genero generoso, alberga ivi in casa sua la propria suocera (§ 300), non è arrischiato supporre che la moglie di lui fosse appunto di Cafarnao. Più tardi poi, per designare Cafarnao, si finirà per chiamarla senz'altro la città propria di Gesù (Matteo, 9, 1), sebbene lo stesso documento poco appresso designi Nazareth ancora come la patria di lui (Matteo, 13, 54).

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