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Ultimo Aggiornamento: 06/08/2012 19:22
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06/08/2012 17:58

Il centurione di Cafarnao e la vedova di Naim

§ 336. Tanto Luca quanto Matteo mettono dopo il Discorso della montagna l'episodio del centurione di Cafarnao: la circostanza cro­nologica sembra dunque assicurata, ed essa insieme con le diver­genze interne basta a distinguere questo episodio dall'altro dell'im­piegato regio (§ 298), sebbene in realtà i due episodi abbiano vari tratti somiglianti. Poco dopo il Discorso, Gesù rientrò a Cafarnao, dov'era di guarnigione un centurione: probabilmente faceva parte delle truppe mercenarie del locale tetrarca Erode Antipa, non di qualche distaccamento romano. Era pagano ma ben disposto verso il giudaismo, tanto che aveva costruito a sue spese la sinagoga di Cafarnao (§ 285); la sua bontà di cuore è confermata anche dal fatto che aveva uno schiavo al quale era affezionatissimo, trattan­dolo più da figlio che da schiavo. Ora, questo schiavo si era am­malato e stava in punto di morte; il desolato centurione, che aveva certamente tentato tutte le cure ma invano, conosceva di fama Gesù, anzi proprio in quel giorno Cafarnao si doveva esser quasi svuotata perché molti si erano recati sulla vicina montagna ove il famoso taumaturgo teneva un gran discorso. Disperando dei medici, il centurione pensò spontaneamente al taumaturgo; ma non osava di proporgli il suo caso, anche perché non era stato in relazioni per­sonali con lui. Si rivolse allora a Giudei insigni del paese, affinché parlassero a Gesu' del moribondo pregandolo di far qualcosa per lui. I Giudei fecero l'ambasciata e raccomandarono vivamente a Gesù il desiderio del centurione: E’ degno che tu gli conceda ciò: ama infatti la nostra nazione, e la sinagoga ti costruì (proprio) egli (Luca, 7, 15). Gesù, giudeo, fu accessibile a questa domanda giudaica: quel pa­gano era stato un benefattore anche di lui, perché della sinagoga di Cafarnao anche Gesù si era servito per pregare e predicare; sen­z'altro, quindi, s'avviò insieme con gli intercessori alla volta della casa del centurione. Ne era già in vista, quando fu incontrato da una seconda ambasceria inviatagli dal centurione.

Costui sentiva una certa titubanza, motivata da scrupolo e da rispetto: la sua casa era pagana, cioè tale che un Giudeo osservante non avrebbe potuto entrarvi senza stimarsi contaminato; e il famoso Gesù non avrebbe sentito interiormente ripugnanza a tale ingresso, o almeno non ne avrebbe riportato esteriormente disonore presso i suoi cor­religionari? Perciò la nuova ambasceria avvertì delicatamente Gesù da parte del centurione: Signore, non ti disturbare! Non sono in­fatti degno che entri sotto il mio tetto; perciò neppure mi stimai degno di venire da te: ma comanda a parola, e sia sanato il mio servo! Anch'io, infatti, sono uomo ch'e' messo sotto autorità, avendo sotto di me soldati, e dico a questo “Va'!” ed (egli) va, e ad un altro e Vieni! ed (egli) viene, ed al mio schiavo e Fa' ciò! ed (egli lo) fa (Luca, 7, 6-8). Il centurione voleva giustificare la pro­pria deferenza verso Gesù col suo spirito soldatesco. Egli conosceva bene ciò che i Romani d'allora chiamavano l'imperium e noi oggi chiamiamo la disciplina militare, e l'esercitava sui propri soldati essendone sempre obbedito; Gesù quindi non si abbassasse fino a venire in casa sua, ma pronunziasse una sola parola d'imperium, e il suo comando sarebbe subito riconosciuto ed eseguito dalle forze della natura che opprimevano il moribondo. Udite tali cose, Gesu' l'ammirò, e rivoltosi alla folla che lo seguiva disse: Vi dico, neppure in Israele trovai tanta fede! E subito la parola d'imperium aspet­tata dalla bocca di Gesù fu pronunziata, e il malato fu guarito all'istante. Ma nel racconto evangelico tutto ciò passa quasi in se conda linea, mentre in prima linea rimane la tanta fede.

§ 337. A questo episodio il solo Luca soggiunge quello di Naim. In greco il nome è Naim, e si è conservato in quello arabo odierno. Il villaggio è situato alle falde del Piccolo Hermon, a una dozzina di chilometri da Nazareth e a una cinquantina da Cafarnao per la strada odierna, e oggi consta di poche e miserabili case con nep­pure 200 abitanti tutti musulmani; ai tempi di Gesù era certo in condizioni migliori, ma era egualmente di poca ampiezza e sembra che avesse un' unica porta nelle mura. A questa borgatuccia Gesù un giorno giunse accompagnato dai discepoli e da molta folla. Mentre egli stava per entrare nella porta delle mura, ecco uscirne un corteo funebre, indirizzato certamente a quel cimitero ch'è ancora oggi superstite a breve distanza dalle case e contiene antiche tombe scavate nella roccia. Portavano alla tomba un giovanetto; la madre del morto, ch'era vedova ed aveva quel solo figlio, seguiva la salma. Il caso era particolarmente pie­toso, e forse ciò spiega anche perché c'era molta lolla della città insieme con essa vedova (Luca, 7, 12): certamente tutti della bor­gata avevano risaputo della disgrazia e volevano condolersi con l'infelicissima madre. Di tutto il resto che Gesù vide in quest'incontro, non dice nulla il sapiente Luca; per lo scrittore medico il triste corteo si riassume tutto nella madre piangente, e Gesù non vede che lei: e vedutala, il Signore s'inteneri su di lei, e le disse “Non piangere!”. Queste due parole erano state certamente ripetute centinaia o migliaia di volte in quella giornata alla povera donna, ma rimanevano soltanto parole. Gesù andò oltre le parole; e avvicinandosi toccò la bara - i portatori allora si fermarono - e disse: e Giovanetto, dico a te, alzati! ». E il morto si alzò a sedere, e cominciò a parlare; e (Gesu') lo dette alla sua mamma.

La descrizione, come ognun vede, è quanto di più vivo ed imme­diato si possa immaginare; ha perfino il realismo di far notare come i portatori si fermassero sorpresi da quell'inaspettato intervento, e come il morto, tornato in vita ma sbalordito ben più dei portatori, per prima cosa si mettesse a sedere sulla bara, quasi per prendere tempo ad orientarsi e rendersi conto di quanto era successo. Se dunque si trattasse della descrizione d'un corteo nuziale qualsiasi, oppure d'una scena in cui Gesù semplicemente accarezzi bambini, nessun critico avrebbe trovato alcunché da ridire e tutti sarebbero stati d'accordo nell'accettare la narrazione tale quale, senza sco­prirvi dei sottintesi. Ma qui c'è di mezzo il morto che risuscita; ed ecco perciò che il testo di Luca è stato collocato insieme con le presunte allegorie del IV vangelo e considerato come un simbolo continuato: la madre vedova sarebbe Gerusalemme, il figlio unico sarebbe Israele, il quale è strappato dalla morte e restituito alla madre mercé la potenza di Gesù (Loisy). Basta però rileggere il testo di Luca per riscontrare se interpretazioni siffatte siano dettate da critica e storica, oppure da prevenzioni e filosofiche, e se que­ste prevenzioni rispettino l'indole della narrazione oppure la deformino totalmente.

Il messaggio di Giovanni il Battista

§ 338. Frattanto nei sotterranei di Macheronte (§ 292) Giovanni fremeva come leone racchiuso. Quanto più il tempo passava e la prigionia si prolungava, tanto più il suo spirito si struggeva di vi­brante attesa: egli era nato e vissuto per essere il precursore del Messia, e non aveva sottratto un sol giorno della sua esistenza a quella missione; ma adesso che la sua esistenza da un giorno all'al­tro poteva esser troncata dalla prepotenza degli uomini, egli ancora non vedeva coronata la sua missione da una palese e solenne mani­festazione del Messia. Questa ansiosa aspettativa era grave al pri­gioniero ben più dell'estenuante inerzia a cui era condannato e ben più della spada di Erode Antipa che gli roteava sulla testa. La segregazione non era però totale: il tiranno, che nutriva per Giovanni una superstiziosa venerazione (§ 17), gli permetteva di ricevere nella prigione i suoi discepoli rimastigli attaccati anche dopo la cornparsa in pubblico di Gesù, per il quale del resto taluni di essi nutrivano una certa avversione (§§ 291, 307). Mediante le notizie che riceveva da questi visitatori, il prigioniero seguiva i pro­gressi che faceva il ministero di Gesù e i fatti straordinari che l'ac­compagnavano; ma quelle notizie, se rinsaldavano sempre più nel suo spirito l'opinione ch'egli aveva di Gesù e che aveva pure espres­sa pubblicamente, aumentavano sempre più la sua ansiosa aspetta­tiva. I visitatori gli annunziavano che il nuovo Rabbi operava mira­coli, si', ma giammai in nessuna occasione si era proclamato Messia, anzi redargniva severamente coloro che lo proclamavano tale e fug­giva ogni occasione a che le turbe facessero ciò (§ 300); è anche molto probabile che i visitatori, riferendogli questo, se ne compia­cessero nella gelosia che nutrivano per Gesù insieme con l'affetto per Giovanni.
Il prigioniero invece ne doveva essere accorato: forse si domandava se il suo ufficio di precursore era totalmente termi­nato, e se egli pur dalla prigione non dovesse ancora compiere qual­che cosa per far riconoscere Gesù come Messia. Perché dunque il figlio di Maria tardava tanto a proclamarsi Messia? Solo con questa solenne proclamazione l'ufficio di lui, Giovanni, si sarebbe concluso per sempre, mentre senza di essa egli sarebbe rimasto il precursore di uno che in realtà non compariva. Eppure oramai egli era tagliato fuori dalla vita del popolo, e da un momento all'altro poteva anche partire da questo mondo, senza aver la consolazione di vedere che il popolo accorreva compatto al Messia da lui additato, anzi ve­dendo che perfino i suoi propri discepoli sentivano una certa ripulsa per Gesù. Che poteva fare egli ancora dalla prigione? Come sospin­gere Gesù all'attesa proclamazione, e come insieme sospingere verso Gesù i suoi propri discepoli?

§ 339. Un giorno il prigioniero prese la sua risoluzione. Da Ma­cheronte egli inviò due suoi discepoli a Gesù con l'incarico di ri­volgergli questa domanda: Sei tu il Veniente, o (bisogna) che aspet­tiamo un altro? (Luca, 1,19-20). L'espressione il Veniente designava per i Giudei un “termine fisso d'eterno consiglio”, cioè quel Messia che “doveva venire” (§§ 213, 296, 374, 505), di cui gli antichi profeti erano stati lontani araldi e Giovanni il Bat­tista si era presentato quale immediato precursore. La domanda perciò costringeva ad una precisa dichiarazione sia Gesù che la riceveva, sia i discepoli di Giovanni che la rivolgevano: Gesù non poteva negare in pubblico quella sua qualità di cui Gio­vanni era assolutamente certo; i discepoli interroganti, udendo an­che dalla bocca di Gesù quella stessa affermazione che a suo riguar­do avevano udita dalla bocca del venerato Giovanni, non potevano esitare ad abbandonare la loro diffidenza verso Gesù e ad aderire a lui. D'altra parte la domanda, pur essendo così contingente, aveva un'intonazione generica: era in sostanza la medesima domanda che i maggiorenti di Gerusalemme avevano rivolta alcuni mesi prima al­lo stesso Giovanni (§ 277). La risposta di Gesù fu diversa da quella aspettata: egli non pro­nunziò il “no” ch'era impossibile, ma neppure pronunziò il chiaro ed esplicito “si” che Giovanni aveva tentato di provocare. Quando i due inviati esposero la domanda a Gesù, egli in quell'ora curò molti da malattie e infermità e spiriti maligni, e a molti ciechi fece grazia di vedere; poi rispondendo disse a quelli: Andate ad annunziare a Giovanni le cose che vedeste e udiste: “Ciechi vedono, zoppi camminano, lebbrosi sono mondati, e sordi odono, morti ri­sorgono, poveri ricevono la buona novella”: ed e' beato colui che non si scandalizzi in me (Luca, 7, 21-23). In conclusione, invece di rispondere con parole Gesù rispondeva con fatti, i quali valevano a dimostrare se egli era o no il Veniente Messia. Ma i fatti mira­colosi presenti si richiamavano a parole profetiche passate, perché già da Isaia era stato annunziato che ai tempi messianici i ciechi avrebbero visto, i sordi udito, gli zoppi camminato (Isaia, 29, 18; 35, 5-6), e i poveri avrebbero ricevuto la buona novella (Is., 61, I); se dunque Gesù avverava con le sue opere le profezie messianiche, le stesse opere lo proclamavano Messia. Tuttavia, questa esplicita proclamazione dalla bocca sua non uscì. L'inaspettata risposta fu certo riportata al prigioniero, ma non ci è riferito che impressione facesse su lui. E’ ben possibile che Gio­vanni avesse preferito sentirsi riportare come Gesù si fosse procla­mato apertamente e sonoramente Messia, e come a quella procla­mazione tutti i Giudei di Palestina e di fuori fossero accorsi osan­nanti al loro re: molto più tardi gli stessi discepoli di Gesù, edotti per lunghi mesi alla scuola di lui, s'aspetteranno ancora qualcosa di simile. Se questa fu realmente l'aspettativa di Giovanni, biso­gnerebbe applicare anche a lui l'osservazione che lo stesso Luca fa sui genitori di Gesù, i quali non capirono la parola che pronunziò loro (§ 262); Giovanni non avrebbe capito la risposta di Gesù per varie possibili ragioni, fra cui quella di non sapere che Gesù se­guiva una linea di manifestazione graduale della propria messiani­cità per motivi altamente spirituali (§ 300 segg.).

§ 340. L'onorevole provocazione di Giovanni, sebbene non assecon­data, fu gradita da Gesù. Per mostrare che il precursore non era certamente uno di coloro che si sarebbero scandalizzati di lui, Gesù dopo la partenza dei due invitati fece il più alto elogio di Giovanni proclamandolo piu' che profeta, a nessuno inferiore fra i nati di donna, e infine precursore del Messia conforme alla profezia di Ma­lachia, 3, 1. Senonché, mentre la povera gente e i pubblicani avevano accolto la predicazione di Giovanni ed accettato il suo batte­simo, la massima parte degli Scribi e dei Farisei era rimasta retriva rendendo vano il consiglio d'Iddio a loro riguardo (Luca, 7, 30). Perciò Gesù soggiunse una similitudine: A chi dunque rassomiglierò gli uomini di questa generazione, e a chi sono somiglianti? Sono somiglianti a quei ragazzetti che stanno nella piazza, e si apostro fano tra di loro dicendo: ”Il flauto vi sonammo e non ballaste! - Lamentele facemmo e non piangeste!”. La similitudine è presa dagli usi di quei tempi sociali, perciò anche i cortei nuziali e quelli funebri: nel primo caso, alcuni sonavano o fingevano sonate flauti, mentre gli altri dovevano ballare come se fossero gli “amici dello sposo” (§ 281); nel secondo caso, gli uni imitavano le manifestazioni di cordoglio fatte dalle lamentatrici di professione ch'erano chiamate ai funerali, e gli altri dovevano piangere come se fossero i parenti del defunto. Tuttavia spesso il giuoco non riusciva bene, perché il gruppo di ragazzi che doveva o ballare o piangere non faceva con diligenza la sua parte, e allora sorgevano recriminazioni e apostrofi interminabili.
L'applicazione della similitudine fu fatta da Gesù stesso, che pro­seguì: E’ venuto infatti Giovanni il Battista non mangiando pane né bevendo vino, e dite: “Ha un demonio”; è venuto il figlio dell'uomo mangiando e bevendo, e dite: “Ecco un uomo mangiatore e bevitor di vino, amico di pubblicani e peccatori” (Luca, 7, 33-34). I Farisei non avevano accettato la predicazione di Giovanni per­ché, oltre il resto, egli era troppo rigoroso e austero, tanto da sem­brare un fanatico spiritato (anche oggi gli Arabi chiamerebbero un uomo siffatto un magnun, ossia posseduto dal ginn,”spirito fol­letto”; ma ecco che, comparso Gesù, anche la sua predicazione era respinta col pretesto ch'egli mangiava come tutti gli uomini, lasciava mangiare i suoi discepoli quando avevano fame (§§ 307-308), e trattava con pubblicani e peccatori. Cosicché, o si sonasse il flauto o si alzassero lamenti funebri, il giuoco non riusciva mai bene con i Farisei, ma perché essi appunto non volevano farlo riuscir bene. Eppure sarebbe riuscito egualmente, perché la Sapienza (di­vina) fu riconosciuta giusta da tutti i suoi figli (in Matteo, 11, 19, greco: dalle sue opere).
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