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Ultimo Aggiornamento: 06/08/2012 19:22
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06/08/2012 18:03

[SM=g28004] La tempesta sedata e l'energumeno di Gerasa

§ 346. Di questa uniforrne operosità nella Galilea ci sono traman­dati soltanto pochi fatti particolari. In questo periodo certamente cadde la giornata dedicata da Gesù all'insegnamento per mezzo di parabole, della quale tuttavia è più opportuno trattare a parte, stac­candola dal suo inquadramento cronologico (§ 360). Altri episodi tramandati sono i seguenti. Forse la sera stessa della giornata delle parabole (cfr. Marco 4, 35) Gesù, che aveva parlato alle turbe sulla riva occidentale del lago di Tiberiade, salì in barca con i discepoli e comandò loro di passare alla riva opposta. La partenza, a quanto sembra, fu improvvisa ed affrettata: forse, ancora una volta, Gesù voleva sottrarsi alle fervo­rose dimostrazioni della folla che l'aveva ascoltato. La traversata è di pochi chilometri (§ 376) ma può esser pericolosa, specialmente se compiuta sul far della notte come quella volta, a causa dei venti freddi che si scaricano giù improvvisamente dal sovrastante nevoso Hermon e suscitano tempeste violentissime per quel lago e per le fragili imbarcazioni che lo percorrono. Così avvenne in quella serata. Gesù, stanco della faticosa giornata, si distese a poppa della barca e s'addorrnentò: Marco (4, 38), che più volte avrà udito il racconto dalla bocca di Pietro, menziona anche il cuscino su cui Gesù ap­poggiò la sua testa, il piccolo cuscino di cui erano provviste le più umili barche; inoltre, il solo Marco ricorda che altre barche accom­pagnavano quella di Gesù. Ad un tratto un turbine violento s'ab­batte sul lago, e ben presto la barca di Gesù è in pericolo e fa ac­qua; i barcaioli tentano manovrare, ma tutto è inutile e da un momento all'altro può esser la fine. Frattanto Gesù continua a dormire a poppa della squassata navicella. Dante, alla prima visione sovrumana che ebbe nel Purgatorio, scorse un vasello snelletto e leggiero guidato da un angelo; da poppa stava il celestial nocchiero, ma stava eretto e vigile con l'ale sue... dritte verso il cielo.
Al contrario, a poppa di quella barchetta del lago, Gesù era disteso e dormiva, sembrava estraneo a quanto accadeva all'intorno, e nell'oscurità della notte lo si sarebbe scambiato per un ammasso di cordami o per una vela deposta e ripiegata. I discepoli non si spiegano quel sonno tra tutta quella furia degli elementi, e stanno ansiosi fra il desiderio di non disturbarlo e lo spavento della catastrofe imminente, fra il rispetto per il maestro e l'abitudine di ricorrere fiduciosi a lui. Ma, passato ancora del tempo, si convincono che oramai non si può più titubare: bisogna senz'altro svegliare ed avvisare il maestro, affinché pure egli provveda in qualche maniera alla propria salvezza. Gli si fanno perciò dappresso gridando: Mae­stro, siamo perduti! Sàlvaci! Gesù si sveglia: insieme col turbamento degli elementi egli nota il turbamento dei cuori. Voltatosi allora al turbine, comanda impe­rioso: Taci! Fa' silenzio! - Voltatosi quindi ai cuori esclama misericordioso: Che paura avete? Gente di poca fede! - Il turbamento degli elementi cessa ad un tratto, e si fa gran bonaccia. Il turba­mento dei cuori è sostituito da un altro d'altro genere, ché i presenti si dànno a riflettere: E chi è dunque costui, che perfino il vento e il mare gli obbediscono? Per i razionalisti il miracolo, naturalmente, è fittizio. I seguaci del­l’antico Paulus (§ 198) lo spiegheranno forse immaginando che sulla barca di Gesù stessero deposti molti otri d'olio, e l'esperto maestro ad un certo punto li facesse svuotare nel lago in modo da calmarne le onde; i moderni mitologi, invece, penseranno che si tratti di una pura allegoria. Una volta tanto con i mitologi concordano in parte gli studiosi spiritualisti, in quanto anche costoro trovano nella nar­razione un significato allegorico ma insieme con quello storico.
Ambedue reali furono la tempesta e la bonaccia che avvennero attonno a quella barca: ma compiendo quel miracolo Gesù venne a prealombrare altre tempeste e altre bonacce che da secoli si avvicendano attorno a un'altra barca, non di legno ma non meno reale e storica, e i cui protagonisti sono gli stessi di quella notte là sul lago di Tiberiade. Da poppa stava il celestial nocchiero. Questa volta l'interpretazione allegorica non è un postulato filosofico, come abitualmente presso i mitologi, ma è fondata su fatti storici che ognu­no può riscontrare e che uno storico non deve fingere d'ignorare.

§ 347. Con quella bonaccia presto si toccò terra e si sbarcò. La riva raggiunta fu certamente quella orientale del lago, circa dirim­petto a Cafarnao o a Magdala, ma il suo nome varia presso i Sinot­tici; Matteo la chiama regione dei Gada reni, Marco dei Geraseni, Luca dei Gergeseni o piu' probabilmente dei Geraseni. I Gli appel­lativi da prendersi in considerazione, dei Gadareni e dei Geraseni, si riferiscono rispettivamente alle due città di Gadara e di Gerasa, che appartenevano ambedue alla Decapoli di là dal Giordano (§ 4); tuttavia ambedue erano situate a sud del lago e, specialmente Gerasa, assai lontane da esso, cosicché è difficile che i rispettivi terri­tori s'estendessero fin sulla sponda del lago dandole il proprio nome. Limitandosi pertanto agli appellativi derivati da Gadara e da Gera­sa, non è impossibile che i rivieraschi a occidente del lago designas­sero le opposte rive col nome delle città piu' celebri nella cui direzione essi guardavano: questi appellativi geografici di direzione non sono rari negli usi paesani. Tuttavia la spiegazione dell'apparente incongruenza può forse esser suggerita dal terzo appellativo dei Ger­geseni, meno autorevole sotto l'aspetto documentario ma più racco­mandato dai riscontri archeologici (§ 348). Giunto pertanto Gesù col suo seguito a oriente del lago, uno dei giorni seguenti alla notte dell'approdo, avvenne un fatto che è nar­rato da tutti e tre i Sinottici, nella maniera più breve da Matteo, nella più ampia da Marco: tuttavia il riassunto di Matteo fornisce una particolarità non trasmessa dagli altri due Sinottici, cioè che del fatto furono attori due indemoniati, e non già uno solo come nsul­terebbe da Marco e da Luca.

Certamente il fatto è il medesimo, e questa differente maniera di narrarlo è un bell'esempio della man­canza di servilismo letterario presso gli evangelisti (§ 122) e della loro particolare maniera di trattare gli argomenti: Marco e Luca si accentrano sull'attore principale e neppure ricordano quello se­condario; Matteo, sebbene più ristretto, li ricorda ambedue. Lo stesso avverrà nuovamente nel caso dei ciechi di Gerico (§ 497). A Gesù, dunque, si fece incontro un indemoniato. Era un essere sel­vaggio e imbestialito, che aveva scelto la sua dimora abituale fra im­pure tombe e s'aggirava in quella zona tutto nudo; dotato di forza mostruosa, aveva sempre spezzato funi e catene con cui avevano tentato più volte di legarlo, tratto tratto gridava furiosamente o si percoteva con sassi, e ispirava tanto terrore che nella zona ove egli si aggirava nessuno più voleva passare. Quando costui ebbe scorto Gesù da lontano, gli corse incontro, ma invece di aggredirlo si pro­strò davanti a lui urlando: Che c'e' fra me e te; (cfr. § 283), Gesu' figlio d'iddio altissimo? Ti scongiuro per iddio, non mi tormentare! (Marco, 5, 7). Aveva pariato l'uomo imbestialito, ma la risposta di Gesù s'indirizzò a colui che stava dentro l'uomo ad imbestialirlo. Disse infatti Gesù: Esci, spirito impuro, dall'uomo! Più che un comando, le parole furono un annunzio; Gesù infatti interrogò, subito appresso, l'imbestialente: Che nome hai? E quello: il nome mio e' “Legione”, perché siamo molti. La parola non risonava allora in Palestina e fuori senza suscitare un ar­cano sbigottimento; quella moltitudine d'armati fusi in compattezza mirabile a formare un travolgente congegno guerresco sembrava un'istituzione sovrumana, e più tardi Vegezio, ripetendo certamente idee anteriori a lui, parlerà di istituzione divina: non tantum huma­no consilio, sed etiam divinitatis instinctu legiones a Romanis arbi­tror constitutas (Vegezio, lì, 21). Ai tempi di Gesù la romana legione variava dai 5000 ai 6000 uomini: ma qui l'interpellato impiega cer­tamente la parola per alludere in maniera generica a una moltitu­dine grande e compatta.

§ 348. Fatta questa confessione, la moltitudine degli interpellati si raccomandava molto a lui, a Gesù, affinché non li inviasse fuori della regione, intendendo certamente la circostante regione: ma questo punto di partenza è sostituito presso Luca (8, 31) col punto d'arrivo, perché ivi si dice che la raccomandazione era di non in­viarli nell'abisso. La raccomandazione fu rincalzata da una propo­sta concreta: era la' verso il monte un grosso branco di porci che pascolava; e (quelli) si raccomandavano a lui dicendo: Màndaci nei porci, affinché entriamo in essi! Ed (egli lo) permise loro. E usciti, gli spiriti impuri entrarono nei porci, e il branco si slanciò giu' per il precipizio nel mare - circa duemila - e affogarono nel mare. La presenza di un branco di porci conferma che si era fuori del terri­torio giudaico, perché nella vera Palestina per le note prescrizioni della Legge non si allevavano quegli animali impuri: i quali perciò qui appaiono come asilo ricercato dagli spiriti impuri, costretti ad uscire dall'uomo. Visto ciò ch'era successo, i pastori dei porci se la dettero a gambe, corsero nella città vicina a narrare il fatto e a giustificarsi del danno subito presso i padroni del branco. Dalla città si venne a riscontrare la realtà degli avvenimenti: si trovò che quel notissimò energumeno, già cosi feroce e imbestialito, stava adesso vicino a Gesù ma tranquillo, seduto, vestito e sano di mente; inter­rogati poi i testimoni si riseppe per filo e per segno com'erano andate le cose. Quegli Ellenisti accorsi non dubitarono minimamente del portento, anzi appunto perché lo credettero pienamente miracoloso s'impensierirono per il futuro: da uomini pratici ed economici quali erano, pensarono che con un taumaturgo di quella forza in giro per i loro territori non si sapeva mai quel che potesse succedere; perciò, rivoltisi a Gesù, cominciarono a raccomandargli di partir­sene dai loro confini.

Gesù acconsentì e si avviò verso la barca; l'in­demoniato guarito voleva che l'accogliesse al suo seguito, ma Gesù gli prescrisse di tornare in seno alla propria famiglia e di far cono­scere il beneficio ricevuto da Dio. Il beneficato obbedì, e se n'andò e cominciò ad annunziare nella Deca poli quanto Gesu' gli fece, e tutti ammiravano. Il riconoscimento del luogo ove avvenne il fatto è oggi seriamente probabile. Sulla riva orientale del lago, quasi dirimpetto a Magdala, si estende la zona dell'antica città di Hippos, ove in realtà le colline digradano a qualche distanza dalle acque del lago; tuttavia, a set­tentrione di questa zona, sbocca il wadi es-Samak che è chiuso a sud da un piccolo promontorio alto qualche centinaio di metri e cosi dirupato sull'acqua che ai suoi piedi resta una spiaggia di poche decine di passi; varie caverne, aperte nei fianchi del promontorio, hanno tutto l'aspetto di essere state in antico tombe. Geologicamente dunque lo scenario corrisponde, giacché il promontorio sarebbe il precipizio da cui si gettarono i porci andando per il loro impeto a finire nell'acqua, e le tombe sarebbero l'abituale dimora dell'indemoniato. Ma forse c'è anche una corrispondenza onomastica: presso lo sbocco del wadi es-Samak è situato un villaggio chiamato oggi dagli Arabi Korsi, ma che ha ricevuto il suo nome da un abitato più antico che ai tempi dei Bizantini era chiamato Kopa e situato circa un chilo­metro più ad oriente. Ora, se si hanno presenti le facili oscillazioni di pronunzia di un dato nome lungo i secoli - oscillazioni tanto abi­tuali che, oggi stesso, Korsi è pronunziato da quei del luogo anche Kersa o Ghersa - si comprende come Origene riavvicinasse il Kersa o il Ghersa da lui uditi pronunziare, al Gergesa e ai Gergeseni del­l'Antico Testamento (§ 347, nota) e li sostituisse con questi nomi cre­dendo di appoggiarsi su una tradizione locale; senonché mentre la tradizione era buona come quella odierna, la sostituzione era arbi­traria. Si avrebbe così non solo la corrispondenza geologica, ma an­che quella toponomastica, giacché l'antica Korsi sarebbe la città donde uscirono gli abitanti per pregare Gesù d'allontanarsi; essendo però un nome poco o punto noto, sarebbe stato sottoposto dai copisti o dai traduttori dei testi evangelici a quelle variazioni con cui e giunto fino a noi.

[SM=g27998] La figlia di Jairo. La donna con profluvio di sangue. I due ciechi

§ 349. Ripassato il lago, Gesù tornò a Cafarnao ove l'accolse la folla perché tutti l'aspettavano (Luca, 8, 40). Più ansiosamente forse di tutti l'aspettava un Giudeo di riguardo, archisinagogo (§ 64), di nome Jairo; costui, saputo che Gesù è arrivato, corre e cade ai piedi di lui e si raccomanda molto a lui dicendo: La figliolina mia è agli estremi! Vieni dunque, imponi le mani su lei, affinché sia salva e viva! (Marco, 5, 22-23.) Il racconto di Luca non è altrettan­to vivido, ma aggiunge il particolare che la moribonda fanciulla era unigenita e di circa dodici anni. Gesù senz'altro s'avvia insieme con l'angosciatissimo padre, ed è seguito naturalmente da molta folla che si accalca attorno al tau­maturgo: chi lo sospinge, chi l'acclama, chi lo supplica, chi gli ba­cia le vesti, chi tenta d'aprirgli un varco. Nell'avanzarsi in questa maniera, a un tratto Gesù si ferma, si rivolge, e guardando attorno domanda: Chi mi ha toccato? - A quella inaspettata domanda tutti rimangono perplessi, non sapendo che cosa veramente intenda egli dire. Pietro e i discepoli che sono presenti esprimono a parole la ragione della perplessità: Maestro, le folle ti costringono ed oppri­mono! (Luca, 9, 45). Ma la spiegazione di Pietro non spiega nulla; il maestro replica ch'egli ha sentito uscir da sé potenza al toccamento speciale di qualcuno. Ecco infatti che una povera donnetta, tutta tremante, viene a prostrarsi davanti a Gesù e narra alla folla quant'è avvenuto. La donna soffriva di perdite di sangue da dodici anni e molto aveva sofferto da parte di molti medici, e dopo aver consumato tutte le sue sostanze non aveva tratto alcun giovamento, ma piuttosto era andata peggio; questa franca informazione di Marco è pudicamente accorciata dal medico Luca, e noi già sappiamo perché (§137). Veramente i rimedi contro questo incomodo erano molti, e i rab­bini che spesso facevano anche da medici ci hanno conservato una buona lista di opportune ricette (ar. Shabbath, 110 a).
Ad esempio, un rimedio molto efficace era quello di far sedere la donna malata alla biforcazione d'una strada facendole tenere in mano un bicchie­re di vino; qualcuno, a un tratto, venendole di soppiatto alle spal­le, doveva gridarle che cessasse il profluvio di sangue. Un rimedio poi assolutamente decisivo era quello di prendere un granello d'orzo trovato nello stabbio di un mulo bianco: prendendolo per un giorno il profluvio sarebbe cessato per due giorni, prendendolo per due gior­ni sarebbe céssato per tre giorni, e prendendolo per tre giorni si sarebbe ottenuta la guarigione completa e per sempre. Altre ricette richiedevano impiego di droghe rare e costose, e quindi grandi spese da parte della malata. La donna ricorsa a Gesù le aveva forse sperimentate tutte, giacché aveva consumato tutte le sue sostanze, ma rimanendole egualmente il suo incomodo. Perduta ogni fede nelle medicine, la malata trovò la sua medicina nella fede. Quel Gesù di cui tanto si parlava in quei luoghi era certamente in grado di guarirla; ella concepì di ciò tanta fede, che andava ripetendo a se stessa Se (io) tocchi an­che sol le vesti di lui sarò salva; non pretendeva la fiduciosa di toc­care proprio la persona del taumaturgo, ma solo la sua veste, o an­che solo quell'orlatura o frangia (ebr. sisith, plurale s.isùjoth; gr. Vulgata, fimbria: Matteo, 9, 20) che ogni Israelita os­servante doveva portare ai quattro angoli del suo mantello conforme alle prescrizioni della Legge (Numeri, 15, 38 segg.; Deuteron., 22, 12). Sorretta da tale fede, la donna aveva toccato nascostamente quell'orlatura della veste di Gesù e all'istante si era sentita guarita. Il medico, a guarigione ottenuta, approvò la medicina scelta dalla malata, perché voltatosi a lei le disse: Figlia, la tua fede ti ha sal­vata. Va' in pace, e sii guarita dal tuo male!

§ 350. L'incidente della donna era chiuso e Gesù avrebbe potuto riprendere il cammino verso la casa di Jairo, ma ecco che appunto da quella casa si viene ad annunziare al povero padre Tua figlia è morta; non disturbare piu' il maestro! Gesù ode l'annunzio, e quasi proseguendo il discorso sulla fede fatto alla donna, soggiunge al padre: Non temere! Soltanto credi, e sara' salva! La casa della morta è presto raggiunta, ma Gesù non permette di entrare se non ai di­scepoli prediletti, Pietro, Giacomo e Giovanni, e ai genitori della morta; si sono già adunati flautisti e lamentatrici, di prammatica nelle adunanze funebri, ma Gesù dice che la loro presenza è inutile: Che strepitate e piangete? La fanciullina non morì ma dorme. Gli accorsi trovano che lo scherzo è di cattivo gusto vicino a un cada­vere, e rispondono con scherni. I genitori stanno come trasognati fra la realtà dei fatti e le ferme parole dell'invocato taumaturgo; Gesù li spinge insieme con i tre discepoli dentro la camera della morta, dopo che ne sono usciti tutti gli estranei. Là dentro stanno cinque uomini imbambolati; oltre ad essi c'è uno che non è più uomo, e uno che è più che uomo. Dal di fuori giunge il brusìo con­fuso della folla. Il più che uomo si avvicina a chi non è più uomo, gli prende la mano già fredda e pronunzia due sole parole; il disce­polo del testimonio Pietro ci ha conservato nel suo suono origina­rio queste due parole, ch'egli avrà udite ripetute tante volte dal suo maestro: Telita qumi, cioè Ragazza sorgi! – E’ L'effetto di queste due parole è descritto così dall'evangelista medico: E ritornò lo spirito di lei, e si levò all'istante, e (Gesu') ordinò che le fosse dato da man­giare. E rimasero fuor di sé i genitori di lei; ma egli prescrisse loro di non dire a nessuno l'accaduto. Questa prescrizione era conforme alla norma seguita da Gesù, che già rilevammo (§ 300); ma quei rasserenati genitori, con tutta la loro buona volontà, avranno potuto osservarla solo in minima parte, giacché troppo eloquentemente par­lava la stessa presenza in casa di quella figliuola, che tutti avevano vista partire per l'oltretomba e poi a un tratto ne era ritornata: tanto è vero che il pratico Matteo conclude il racconto dicendo che uscì la fama di questo (avvenimento) in tutta quella regione.
Che fine avrà fatto la fanciulla risuscitata? Avendo dodici anni, era in età da marito (§ 231); forse poco dopo si sarà maritata, avrà poi avuto figli e nepoti, ma alla fine ritornò stabilmente in quell'ol­tretomba già da lei visitato per poco tempo. Su questo bel caso scritti apocrifi e leggende tardive pare che non abbiano fantasticato, mentre invece si ricamò attorno alla donna dal profluvio di sangue. Negli apocrifi Atti di Pilato, VII, la donna è chiamata Veronica (§ 193). Secondo una voce riportata da Eusebio (Hist. eccì., vii, 18) era una pagana nativa di Panion, ossia Cesarea di Fi­lippo (§ 395 segg.), e tornata in patria fece erigere alla porta di casa sua un monumento di bronzo raffigurante lei stessa inginocchia­ta davanti a Gesù: ai piedi di Gesù spuntava una pianta esotica, che guariva ogni sorta di malattie; Eusebio vide sul posto il gruppo e afferma soltanto: Dicono che questa statua riproduca l'immagine di Gesu'. E’ molto probabile che il gruppo originariamente rappresentasse qualche divinità pagana curatrice di morbi, e che più tardi la leggenda cristiana la interpretasse come dice Eusebio; secondo una notizia di Sozomeno, il gruppo sarebbe poi stato abbattuto da Giuliano l'Apostata.

§ 351. Con la donna guarita e la fanciulla risuscitata gli insegna­menti taumaturgici della fede non erano finiti. A Gesù uscito dalla casa di Jairo tennero dietro due ciechi, due di quegli infelici di cui doveva abbondare la Palestina antica non meno dell'odierna: an­cora oggi, del resto, in Palestina i ciechi spesso s'uniscono a coppia per aiutarsi bene o male fra loro, e mostrano come tutti gli altri mendicanti quella tenacia nel chiedere mostrata da questi due. Al sentir raccontare i recentissimi miracoli, nei due brillò un lume di speranza e fattisi accompagnare presso Gesù si dettero. a seguirlo gridando con immutabile costanza: Abbi pieta di noi' figlio di David! Data la norma prudenziale seguita da Gesù (§ 300), quell'appellativo non poteva tornargli per allora gradito, perché era un appellativo messianico che designava usualmente il grande Atteso, e perciò era anche più pericoloso in quell'effervescenza suscitata fra il popolo dai miracoli. Gesù non si ferma né si rivolge a quell'in­cessante grido, ma non per questo il grido cessa; Gesù infine entra nella casa ove dimora, certamente a Cafarnao, e i due lo seguono anche dentro casa. Tutto sommato, la tenacia dei due ciechi era fede, precisamente quella fede poco prima lodata e raccomandata da Gesù alla donna malata e a Jairo; inoltre, nell'interno d'una casa l'appellativo mes­sianico non era più pericoloso, cosicché Gesù entrò in discussione con i due imploranti. Ma la prima e forse l'unica domanda fu sulla fede: Avete fede che posso far ciò? I due ciechi naturalmente ti­spondono: Si, Signore! Allora Gesù toccò loro gli occhi, dicendo: Secondo la vostra fede avvenga a voi. E i due videro. Allora Gesù comandò con somma energia - l'evangelista usa la parola fremette, (Matteo, 9, 30) - di non parlare con nessuno del fatto; ma quelli, usciti di là con la luce negh occhi e nel cuore, ne par­larono in tutta la regione. Fu una vera disobbedienza? Vari studiosi protestanti l'hanno stimata tale; antichi Padri l'hanno giudicata un incoercibile moto di gratitudine. Forse gli antichi conoscevano il cuore umano meglio dei moderni.

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