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Ultimo Aggiornamento: 06/08/2012 19:22
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06/08/2012 18:06

[SM=g27998] Invio dei dodici Apostoli

§ 352. Fra questi episodi staccati continuava la generica operosità di Gesù in tutta la Galilea, quale è già stata riassunta da Luca (§ 343). Ma nel frattempo l'affluenza della gente era cresciuta, e nonostante la cooperazione dei dodici le cure crescevano a dismi­sura; e Gesù vedendo le folle s'impietosì per essi, perché erano di­sfatti e abbattuti come pecore non aventi pastore (cfr. Numeri, 27, 17). Allora dice ai suoi discepoli: “La messe (è) bensì molta, ma gli operai pochi; pregate dunque il signore della messe, affinché invii operai nella sua messe”. E chiamati dappresso i dodici discepoli suoi, dette ad essi autorita sugli spiriti impuri, si da scacciarli via e da curare ogni malattia e ogni languore (Matteo, 9, 36; 10, 1). Investiti perciò di tale autorità, i dodici furono inviati da soli senza maestro, come squadra volante, per una missione particolare e con norme ben precise. La missione consisteva nell'annunziare che si era avvicinato il regno di Dio, come già aveva fatto Giovanni il Battista e fino allora anche Gesù; ma la squadra volante era inviata in zone ancora non rag­giunte.
Tuttavia fu prescritto che queste zone appartenessero al territorio d'Israele, perché ad Israele prima di tutte le altre genti era stata promessa la “buona novella” della salvezza dagli antichi Profeti; i dodici quindi non s'incamminassero verso i paesi dei Gen­tili né dei Samaritani, ma piuttosto si rivolgessero alle pecore sban­date del casato d'Israele. A dimostrare poi la verità del loro an­nunzio, e in forza dell'autorità testé ricevuta, essi dovevano curare infermi, mondare lebbrosi, scacciare demonii, e perfino risuscitare morti. Era insomma la missione di Gesù la quale passava da uno solo a dodici, ma per lo stesso scopo e con gli stessi metodi. Anche le norme pratiche erano le stesse seguite fino allora da Gesù, e si possono riassumere in una totale noncuranza degli argomenti po­litici, dei mezzi finanziari, delle preoccupazioni economiche. L'annunzio del regno di Dio doveva ignorare affatto i regni umani, non avendo alcuna connessione con essi. Le finanze spirituali da cui era accreditato il regno di Dio erano i mezzi dimostrativi della sua solvibilità, cioè curare infermi, mondare lebbrosi, scacciare demonii, risuscitare morti; ma siccome i banchieri a cui era stato affidato questo credito lo avevano ricevuto senza pagamento, così dovevano comunicarlo senza pagamento: gra­tuitamente riceveste, gratuitamente date (Matteo, 10, 8).
Le preoccupazioni economiche erano egualmente proibite agli an­nunziatori del regno di Dio, salvo per quello che era rigorosamente indispensabile. Infine, gli annunziatori dovevano mettersi in giro a due a due, come già usavano fare i messi del Sinedrio, sia per assistenza sia per sor­veglianza reciproca, e nelle loro peregrinazioni si dovevano distin­guere dagli altri viandanti per varie ragioni.

§ 353. I soliti viandanti, in primo luogo, si servivano possibilmente dell'asino, classico mezzo di trasporto in Oriente; ad ogni modo all'atto della partenza si provvedevano di cibarie, di monete d'oro e d'argento riposte nella cintura o nel turbante, di una seconda tu­nica per proteggersi meglio dal freddo o cambiarsi dopo un acquaz­zone, di accurati e solidi calzari per reggere bene sulle strade sca­brose, di un nodoso bastone in forma di mazza per difendersi in pericolosi incontri, di una bisaccia da viaggio ove si mettevano altre minute provviste o anche ciò che per caso si veniva acquistando lungo il cammino. Questa bisaccia era importante soprattutto per coloro che viaggiavano a scopo di questue religiose, perché tali questue fruttavano bene in Oriente anche presso i pagani: un'iscri­zione greca trovata nella zona orientale dell'Hermon (§ 1) ricorda come un certo Lucio di Aqraba, che andava in giro questuando a nome della dea sira Atargate, riportasse a casa da ogni suo viaggio settanta bisacce ricolme.
Ebbene, appunto la mancanza di tutti questi amminicoli doveva distinguere da tutti gli altri viandanti i dodici inviati da Gesù: Non vi procurate oro né argento né (spic­cioli di) rame nelle vostre cinture, non bisaccia da viaggio né due tuniche né calzari né bastone (Matteo, 10, 9-10). A queste prescri­zioni Marco (6, 8-9) aggiunge quella di non provvedersi di cibarie (pane), ma in cambio permette di portare sandali e anche di recare il bastone soltanto. Neppure dell'alloggio dovevano preoccuparsi i dodici. Giunti che fossero ad un gruppo di case, si dovevano informare di qualche capo di famiglia degno e di buona fama, e poi rimanere in casa sua senza più cambiare. Il caravanserraglio (§ 242) col suo andirivieni era luogo inadatto per quegli araldi del regno di Dio, i quali si dove­vano occupare soltanto di affari spirituali, e in nessun modo di negozi politici o commerciali. Il loro prezioso tempo doveva esser impiegato tutto nella loro missione; quasi certamente anche a questi dodici, come più tardi ai settantadue discepoli (§ 437), fu proibito di perdere il loro tempo per “salutare” quanti incontrassero nel cammino (Luca, 10, 4). In Oriente il “saluto” fra viandanti, specialmente se s'incontra­vano in luoghi solitari, poteva prolungarsi per ore ed ore parlandosi di tutto un po' in segno di confidenza e quasi per obbligo di buona creanza: anche oggi, del resto, il beduino che si presenta per la prima volta allo sportello d'una stazione ferroviaria si crede spesso obbligato a chieder dapprima al bigliettaio se sta bene di salute, se i figli crescono floridi, se il gregge o il raccolto sono sod­disfacenti, e solo dopo questi e altri segni di buona educazione do­manda il biglietto per il treno. Gli inviati del regno di Dio dove­vano fare a meno di siffatti convenevoli, valendo per loro la norma Maiora premunt. Se qualche borgata non avesse accolto gli inviati del regno o avesse prestato loro scarsa attenzione, essi dovevano allontanarsi senza ri­mostranze, ma nello stesso tempo attestare che la responsabilità del­l'allontanamento ricadeva su quella gente. A tale scopo dovevano compiere il gesto simbolico, appena usciti dalla borgata, di scuo­tere dai propri piedi la polvere raccolta in quel luogo: era co­me polvere di terra pagana, da non riportarsi sul sacro territorio d'Israele.

§ 354. Ricevute queste istruzioni, i dodici partirono per la missio­ne; è probabile che, nello stesso tempo ma separatamente da essi, partisse anche Gesù (cfr. Matteo, 11, 1). La missione non poté durare che poche settimane, sugli inizi dell'anno 29 (§ 355). Anche il suo risultato non ci viene comunicato; è detto solo in genere che i missionari predicando il “cambiamento di mente”, scacciavano via molti demonii e ungevano con olio molti malati e (li) guarivano (Marco, 6, 13). La loro predicazione del regno di Dio è dunque accompagnata, come presso Gesù, da segni miracolosi; come tali indubbiamente sono presentate le guarigioni qui accennate, pur es­sendo riconnesse con l'unzione d'olio. L'unzione d'olio aveva allora notevole importanza come medicamento usuale (§ 439); ma qui il contesto mostra chiaramente che il suo impiego non era quello fattone dalla terapia comune, bensì da una più alta e spirituale, che tutt'alpiù si serviva di quell'unzione come di simbolo materiale: analogamente l'usuale lavanda corporale era già stata impiegata da Giovanni, e anche dai discepoli di Gesù, per simboleggiare la mon­dezza spirituale del “cambiamento di mente” (§ 291). Più tardi, nel cristianesimo pienamente istituito, questa unzione d'olio sarà un rito particolare e stabile (Giacomo, 5, 14-15).


[SM=g27998] Morte di Giovanni il Battista

§ 355. Verso il tempo della missione dei dodici avvenne l'uccisione di Giovanni, forse tra il febbraio e il marzo dell'anno 29. Se egli era stato chiuso in prigione verso il maggio del 28 (§ 292), erano già passati una decina di mesi; ma ne sarebbero passati molti di più, se non fosse avvenuto un caso imprevisto. Antipa, infatti, s'intrat­teneva volentieri col venerato prigioniero e non voleva in realtà la morte di lui (Marco, 6, 20, greco); la voleva invece Erodiade, l'uno e l'altra per i motivi che già sappiamo (§ 17). Nel contrasto fra i due, prevalse l'astuzia e il rancore femminile. Erodiade, che stava in agguato, colse per agire l'occasione in cui Antipa festeggiava il suo giorno genetliaco. La festa era solenne, e vi erano stati invitati i maggiorenti della corte e dell'intera tetrar­chia: tutta gente autorevole e denarosa, ma provinciale e ansiosis­sima di tenersi al corrente nel conoscere ed ammirare le ultime fi­nezze dell'alta società metropolitana. L'occasione era opportunissima per Erodiade, giacché aveva sotto mano il mezzo per far rima­nere sbalorditi quei provincialoni e nello stesso tempo ottenere ciò che agognava: aveva presso di sé Salome, figlia del suo vero marito di Roma, la quale nell'alta società dell'Urbe aveva imparato a ballare stupendamente, ad eseguire danze tali di cui quella gente grossa non aveva neppur l'idea.
La madre risvegliò l'amor proprio del­la ragazzetta, e la ragazzetta messa sul punto si comportò egre­giamente. Introdotta che fu nella sala del gran banchetto al momento buono, quando i fumi del vino e della lussuria avevano già annebbiato i cervelli, la ballerina con le sue gambe piroettanti e lanciate in aria in tutti i sensi suscitò fra quegli imbambolati un delirio. Antipa ne fu addirittura intenerito. Con simili spettacoli la sua corte dimo­strava di essere veramente up to date, aggiornata, e superiore alle altre corti orientali; soltanto in essa si davano esibizioni che appena nella corte del Palatino e in qualcuna delle più aristocratiche domus di Roma era possibile ammirare. L'infrollimento del monarca fu tanto, che fattasi venir dappresso la ballerina tuttora ansante e sudata le disse: Chiedimi quello che vuoi e te lo darò! E per mag­gior solennità aggiunse alla promessa un giuramento: Qualunque cosa (tu) mi chieda te la darò, fin la meta' del mio regno! (Marco, 6, 23). Tra gli applausi frenetici dei convitati e le mirabolanti offerte del monarca la ballerina tornò ad essere inesperta fanciulletta, e si sa­rebbe forse smarrita: ma appunto questo momento delicato era già stato previsto dalla navigata madre, che le aveva dato consigli in proposito. Di quei saggi consigli materni si ricordò ella nel suo smar­rimento, e subito riavutasi attraversò di corsa la sala per andare a consultarsi da sua madre, che teneva banchetto nella sala riservata alle dame: Mamma, il re è disposto a darmi fin la metà del suo re­gno, e l'ha giurato pubblicamente.
Che cosa chiederò? (Marco, 6, 24). La navigata femmina capi che il suo uomo era caduto in trap­pola, e quindi ch'ella aveva vinto. Rivolta allora alla ballerina, fra una carezza e l'altra, le disse recisamente: Lascia tutto il resto, che non conta, e chiedi una cosa sola: la testa di Giovanni il Battista (ivi). - L'adultera, per esser sicura nel suo adulterio, aveva bisogno dei servigi di una prosseneta e di un carnefice, ed affidava queste nuove incombenze all'inconscia sua figlia. Ancbe questa volta la ragazzetta si comportò egregiamente. Ed entrata subito in fretta dal re, chiese dicendo: « Voglio che all'istante (tu) mi dia sopra un vassoio la testa di Giovanni il Battista!”. E, (pur) divenuto afflittissimo il re per i giuramenti fatti e (per) i commensali, non volle dare a lei un rifiuto. E subito, inviato il re un boia, ordinò di portare la testa di lui.
E (il boia) partitosi, lo decapitò nella prigione, e portò la testa di lui su un vassoio e la dette alla ragazzetta e la ragazzetta la dette a sua madre (Marco, 6, 25-28). L'afflizione del tetrarca, che si ritenne im­pegnato dal giuramento fatto in presenza dei convitati, non impedì che tutto si svolgesse con la massima naturalezza, come se si fosse trattato di accontentare il capriccio di una bambina che desidera un frutto maturo pendente da un albero: si manda un servo a staccare il frutto per porgerlo alla bambina, come allora si mandò il boia a tagliar la testa a Giovanni per porgerla alla ballerina. Dalle mani della ballerina, a cui non interessava affatto, quella testa ancora cal­da e grondante sangue passò nelle mani della madre, a cui interes­sava moltissimo: secondo una tardiva notizia data da S. Girolamo, l'adultera avrebbe sfogato il suo odio forando con uno stiletto la lingua di quella testa, come già aveva fatto Fulvia con la testa di Cicerone (Adv. Rufinum, in, 42). Più tardi i discepoli del martire riuscirono a ricuperare la salma, e le dettero sepoltura.

§ 356. Il luogo del martirio non è nominato dagli evangelisti, ma se­condo Flavio Giuseppe (Antichità giud., XVIII, 119) prigionia e mar­tirio avvennero a Macheronte. Ivi, dunque, si svolse anche l'infame banchetto: dalla narrazione evangelica, infatti, risulta chiaramente che il prigioniero stava a pochi passi dai banchettanti, cosicché la do­manda della ballerina poté essere appagata immediatamente. La cir­costanza non deve meravigliare: Macheronte era bensì una fortezza che faceva da baluardo contro gli Arabi Nabatei - anzi Plinio (Na­tur. hist., v, 16, 72) la chiamava la fortezza più agguerrita della Giu­dea, dopo Gerusalemme - ma era una di quelle costruzioni nello stesso tempo ben salde e ben comode che Erode il Grande aveva innalzato un po' dappertutto nei suoi dominii; Giuseppe Flavio che la descrive a lungo (Guerra giud.,VIII, 165 segg.) dice, fra le altre cose, che Erode costrui nel mezzo del recinto fortificato una reggia suntuosa per grandezza e bellezza di appartamenti, fornendola anche di molte cisterne e di magazzini d'ogni genere. Vi si stava dunque benissimo, e proprio in quel tempo Antipa vi doveva rimaner volen­tieri per sorvegliare più da vicino gli Arabi Nabatei, con i quali era in rotta per il divorzio della sua legittima moglie (§17). Oggi il fortunato viaggiatore che riesce a spingersi fino al luogo di Macheronte non vi trova che desolazione e squallore.
Dell'antica costruzione, circondata da una larghissima zona totalmente deserta, non resta che un cono mozzato alla cima e interrato; sulla vetta af­fiorano basamenti d'antiche torri; alla sua base si aprono ampie ca­verne, che sono forse le antiche cisterne della fortezza e oggi servono a ricoverare d'inverno greggi di beduini nomadi. In qualcuna di quelle caverne, o li dappresso, Giovanni il Battista stette rinchiuso per molti mesi aspettando. Improvvisamente una sera in quel sotterraneo, dopo che vi era giunto il prolungato frastuono d'un lontano tripudio, giunse anche un boia con una spada in mano. Il prigioniero capì, denudò e protese il collo; un lampeggio, un tonfo, e il figlio di Zacharia e di Elisabetta non era più. Oggi il solitario beduino a cui il viaggiatore si rivolge in quel deserto per essere indirizzato, addita da lontano il cono mozzato di Macheronte, e ne pronunzia con ribrezzo il nome arabo: al-Mashnaqa («luogo d'impiccagione », “patibolo“). Sembra che da quel cono, come da un vulcano, parta una vampa esiziale che faccia desolazio­ne all'intorno; la sagoma del cono si presenta proiettata all'ingiù, verso occidente, e le fa da sfondo il Mar Morto e la regione di Sodoma.

[SM=g27998] Gesù espulso da Nazareth

§ 357. Qualche tempo dopo giunsero ad Antipa notizie di Gesù, co­me di predicatore straordinario che commoveva i suoi sudditi della Galilea. Il ricordo di Giovanni il Battista era recente, come pure l'indole morale e l'attività del profeta testé morto erano somiglian­tissime a quelle del profeta nuovamente comparso: perciò il super­stizioso Antipa ne trasse la conclusione che Giovanni era risuscitato e riapparendo in forma di Gesù operava miracoli. Anche altri, del resto, erano di questa opinione scambiando l'annunziatore con l'an­nunziato; taluni invece preferivano riconoscere in Gesù o Elia o qual­cuno degli antichi profeti (Luca, 9, 7-8). Da quel giorno Antipa sentì la curiosità di vedere personalmente Gesù, per riscontrare forse quali precise fattezze avesse assunto il Giovanni risuscitato (ivi, 9). Gesù invece non aveva alcun desiderio d'incontrarsi con l'adultero assassino di Giovanni. Era circa il tempo dell'invio dei dodici, e men­tre i discepoli dovevano svolgere la loro missione in zona più am­pia Gesù si riserbò una zona più ristretta ma più ardua. Partito da Cafarnao dopo aver risuscitato la figlia di Jairo (cfr. Marco, 6, 1), Gesù volle fare un tentativo speciale e personale riguardo a Naza­reth, perché sapeva che nel villaggio dov'egli era cresciuto covavano forti risentimenti contro di lui. Da principio non era stato così, e a Gesù appena tornato dalla Giudea erano state fatte festose acco­glienze certamente anche a Nazareth (§ 299); ma poi l'umore di quei compaesani si era mutato. Vi doveva avere buona parte l'altezzosità di quei parenti che già vedemmo essere avversi a Gesù (§ 344); ma ciò che più profondamente aveva ferito l'amor proprio dei Nazaretani era la preferenza data da Gesù a Cafarnao, divenuta a un certo tempo sua dimora abituale (§ 285). Le rivalità paesane e la fierezza dei villaggi più meschini erano abi­tuali nell'antichità non meno di oggi; l'esclamazione dispregiativa di Nathanael appunto nei riguardi di Nazareth ne è una riprova (§ 279). I Nazaretani perciò non perdonavano a Gesù il pratico abban­dono del suo villaggio, tanto più che nella preferita Cafarnao egli aveva operato quei fatti straordinari di cui parlava tutta la Galilea. Mancavano forse a Nazareth malati da guarire, storpi da raddrizzare, ciechi da illuminare? Perché dunque privare la propria patria di tanti benefizi, che sarebbero insieme ridondati a maggior lustro del tanto disprezzato villaggio? Quest'acredine paesana doveva aver innalzato una barriera morale anche contro la predicazione di Gesù: giacché egli faceva a meno del suo paese, il paese faceva a meno della sua dottrina.
Di qui il tentativo personale di Gesù riguardo a Nazareth. La sua dimora ivi dovette protrarsi alcuni giorni, in attesa dell'occasione propizia per ottenere buoni effetti; avrà egli alloggiato da sua madre, nella casetta da cui era uscito più d'un anno prima (§§ 270, 282). Ma l'atteggiamento dei compaesani si mostrò subito tale da dare po­co affidamento: se taluni lo accolsero cordialmente, se tutti indistintamente riparlarono dei miracoli da lui fatti poco prima nei paesi all'intorno e riconoscevano ch'egli predicava in maniera straordinaria, molti al contrario si domandavano che motivo c'era di preti­dere per oro colato la sua dottrina. Non era egli forse il figlio di Giuseppe il carpentiere? Sua madre non era quella Maria che tutti conoscevano? E i suoi fratelli non era­no Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sorelle non erano no­tissime in paese? (§ 264). Tutta gente comune, che non s'alzava d'un palmo sopra il livello comune.
Donde aveva egli attinto, dunque, la sua dottrina? Non poteva essere tutto effetto dell'impressionabilità di chi non lo conosceva e non lo aveva visto, come essi di Nazareth, prima bambino e poi fanciullo e poi ragazzo e poi giovane come tutti gli altri? Restavano i miracoli; ma anche su questi c'era da discutere. Chi sa far miracoli, li fa dappertutto, in patria e fuori, fra amici e fra sco­nosciuti: anzi, se è ammissibile una preferenza, questa sarà riser­vata alla patria e agli amici. E invece quello strano Nazaretano pro­prio a Nazareth non operava miracoli; faceva davvero la figura di un medico che sa curare gli estranei, ma non è capace di curare nè i suoi familiari né se stesso.

§ 358. Il paragone trovò fortuna in paese, e passò di bocca in bocca con la petulanza dei piccoli villaggi. I più focosi trovarono anche maniera di spiattellarlo apertamente a Gesù: Medico! Cura te stesso! Quante cose udimmo avvenute a Cafarnao, fa' anche qui nella patria tua! (Luca, 4, 23). Gesù rispondeva cercando d'illuminare e di convincere, e insieme ammoniva che nessun profeta è accetto in pa­tria sua. Fece egli anche miracoli curando infermi, ma pochi di numero, non già perché il paese si chiamava Nazareth invece di Cafarnao, ma per l'incredulità loro (Matteo, 13, 58): mancava infatti ciò che poco prima, nella giornata della fede, aveva trionfato con la figlia di Jairo, con la donna dal profluvio di sangue e con i due ciechi (§ 349 segg.). L'urto finale avvenne quando Gesù tentò la prova solenne e. quasi ufficiale per scuotere i suoi compaesani, e fu nell'adunanza sinagogale del sabbato, forse l'unico sabbato di quel soggiorno. All'adunanza abituale gli oppositori di Gesù si dovettero recare con intenzioni di sfida; c'era vento di battaglia, Gesù non sarebbe mancato all'adu­nanza e quella era una buona congiuntura per venire ad una totale spiegazione con lui e metterlo alle strette. Gesù infatti intervenne, e l'adunanza si svolse regolarmente secondo le norme che già esaminammo (§ 66 segg.). Quella volta il discorso istruttivo, che si teneva dopo la lettura dei « Profeti », fu fatto da Gesù: non è arrischiato supporre che l'archisinagogo, dirigente la funzione, invitasse a tenere discorso appunto il tanto discusso com­paesano per dargli agio di esporre il suo pensiero. Recatosi pertanto Gesù sul pulpito destinato all'oratore, gli fu porto il libro del pro­feta Isaia, e aperto il libro trovò il luogo dove stava scritto: “Lo spirito del Signore su me: perciò mi unse per dar la buona novella ai poveri, mi ha inviato ad annunziare a prigionieri liberazione ed a ciechi vista, a rinviare in liberazione piagati, ad annunziare annata accetta al Signore”.
E ripiegato il libro, resolo al ministro, sedette; e gli occhi di tutti, nella sinagoga, erano intenti a lui. Co­minciò pertanto col dire ad essi: Oggi si e' adempiuta questa scrit­tura (ch'e' risonata) nelle vostre orecchie (Luca, 4, 17-21). Questo fu l'inizio del discorso di Gesù, ma purtroppo il restante non ci è con­servato. Certamente l'oratore applicò ampiamente a se stesso il passo letto, dimostrando con appelli alle sue opere come egli avverasse in pieno l'antica profezia mediante l'annunzio della « buona novella ». La dimostrazione fu efficace e l'oratore anche quella volta apparve come avente autorità (§ 209), cosicché tutti rimasero ammirati; senonché alla radice stessa dell'ammirazione stava il fomite dello scan­dalo. Non era costui l'umile figlio del carpentiere? Se aveva opera­to altrove tanti miracoli, da lui stesso citati nel discorso, perché non li operava anche li fra i suoi compaesani? Le domande, solo ripensate dentro la sinagoga, furono ripetute ad alta voce al di fuori dopo la funzione. Si discusse pro e contro, fra gli uditori; si abbordò di­rettamente l'oratore; lo si invitò ancora una volta a rispondere alle cruciali domande, ricordandosi sopràttutto di essere Nazaretano. Vo­leva egli guadagnare veramente i compaesani alle sue dottrine? Eb­bene operasse, lì, sulla pubblica piazza, miracoli dimostrativi, e allora si che tutti si sarebbero dati anima e corpo a lui Medico! Cura te stesso!
La risposta di Gesù fu la stessa dei giorni precedenti: badassero a non render vero anche per Nazareth il principio che nessun profeta è accetto in patria sua; per lui, Gesù, Nazareth valeva quanto Cafar­nao e quanto ogni altra borgata israelita, ma qualora egli fosse stato respinto da una di esse aveva ben maniera di rivolgersi altrove; ai tempi del profeta Elia vivevano molte vedove in Israele, eppure il profeta fu inviato da Dio ad una vedova non israelita; e al tempo del profeta Eliseo vivevano molti lebbrosi in Israele, eppure il profeta fu inviato da Dio al lebbroso Naaman ch'era siro (Luca, 4, 25-27).
§ 359. La risposta di Gesù era un ammonimento, ma dai suoi maldisposti interlocutori fu interpretata come una provocazione dispregiativa. Dunque, egli dichiarava esplicitamente di non aver bisogno di Nazareth e d'esser pronto a preferirle qualunque altro paese, anche fuori d'israele! Donde tanta albagia nel figlio del carpentiere? Im­parasse una buona volta la gratitudine per il luogo che l'aveva alle­vato! Se egli aveva ripudiato Nazareth, Nazareth doveva ripudiare lui! Allontanarlo immediatamente da Nazareth bisognava, e allonta­narlo in maniera tale che gli togliesse per sempre la voglia di ri­tornare.'

Il furore divampò a un tratto, come avviene sempre fra turbe ec­citate. Si stava ancora discutendo là nei pressi della sinagoga, quando si saranno levate grida contro l'indegno Nazaretano: Fuori di qui il tracotante! A morte il traditore! - I pochi favorevoli a Gesù si saranno pavidamente allontanati; gli altri lo scacciarono fuori della città e lo condussero fino a un ciglio del monte su cui stava costruita la loro città, in modo da precipitarlo giù. Ma egli, passando attraverso in mezzo ad essi, se ne andava (Luca, 4, 29-30). Perché il progetto non fu condotto a termine? Non ci vien detto. Forse all'ultimo momento i paesani favorevoli a Gesù, ripreso un po' di coraggio, saranno intervenuti ad impedire in qualche maniera l'odioso delitto; forse gli stessi facinorosi, quando fu l'istante decisivo, saranno rientrati in sé, contentandosi della minaccia già avanzata; non è escluso, tuttavia, che la superiorità dominatrice mostrata in quella circostanza da Gesù soggiogasse i tumultuanti, sì che al mo­mento critico egli poté sottrarsi a loro. Neppure del preciso luogo, ove avvenne la minaccia, siamo informati. Si mostra oggi un picco chia­mato Gebel el-Qafse, che domina da più che 300 metri la sottostante vallata di Esdrelon e già nel Medioevo aveva ricevuto il nome di Saltus Domini, mentre oggi è designato di solito come il “Colle del precipizio”; ma il luogo ha il grave inconveniente di esser situato a circa 3 chilometri dall'antica Nazareth, distanza veramente eccessiva per una folla eccitata che si decida ad un'esecuzione sommaria. Nel­l'àmbito del villaggio non potevano mancare scoscendimenti di ter­reno, che si prestavano benissimo al violento progetto: si è quindi pensato, non senza verosimiglianza, a uno sbalzo di una decina di metri situato presso l'odierna chiesa dei Greci cattolici, la quale sa­rebbe sorta appunto presso il luogo già occupato dall'antica sinagoga. La pia riflessione cristiana ripensò più tardi anche a ciò che dovette provare Maria in questa occasione, e una cappella situata in direzione del Saltus Domini ricevette nel Medioevo il nome di Santa Maria del Tremore a ricordo del timore sofferto da Maria quando vide suo figlio in pericolo.

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