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Ultimo Aggiornamento: 06/08/2012 19:22
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06/08/2012 18:16

[SM=g27998] DALLA SECONDA PASQUA FINO ALL'ULTIMA FESTA DEI TABERNACOLI

La prima moltiplicazione dei pani


§ 372. Durante gli avvenimenti fin qui visti era passato del ternpo, e si doveva stare allora a circa la metà di marzo; perciò era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei (Giovanni, 6, 4), cioè quella dell'anno 29, seconda Pasqua del ministero pubblico di Gesù (§ 177). A questo punto, quasi contemporaneamente, giungono a Gesù gli Apostoli di ritorno dalla loro missione (§ 354) e la notizia della morte di Giovanni il Battista (§ 355). I primi, oltre ad essere spos­sati dalle fatiche sostenute, erano così assillati da folle accorrenti a loro che neppur di mangiare avevano tempo (Marco, 6, 31). D'al­tra parte la tragica fine di Giovanni aveva profondamente attristato Gesù. In conseguenza quindi d'ambedue i fatti, egli prese con sé i reduci dalla missione e si allontanò con loro da Cafarnao in cerca di riposo per essi e di solitudine per sé, e partirono in barca per un luogo deserto in disparte (Marco, 6, 32) che stava nei pressi di una città chiamata Bethsaida (Luca, 9, 10, greco). Era la città che poco prima il tetrarca Filippo aveva ricostruita interamente chia­mandola Giulia (Bethsaida-Giulia) in omaggio alla famigerata figlia di Augusto (§ 19); era anche la patria delle due coppie di fratelli, Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni (§ 279). Il luogo sembrava adatto. Non apparteneva alla giurisdizione di Antipa ma a quella di Filippo, e quindi Antipa non avrebbe potuto agire contro di Gesù del quale già era sospettoso come di un Gio­vanni risuscitato (§ 357); inoltre la città, situata di là dal Giordano poco sopra il suo sbocco nel lago, aveva più ad oriente una vasta estensione quasi disabitata che poteva offrire solitudine e riposo; infine dai pressi di Cafarnao, attraversando il lago obliquamente, si sarebbe raggiunto dopo breve navigazione il posto designato.

Ma la partenza di Gesù con il suo gruppo fu notata dalle folle di Cafarnao, le quali dalla direzione presa dalla barca capirono facil­mente qual era la mèta; allora molti presero la via di terra, risa­lendo lungo la curva settentrionale del lago e attraversando il Giordano nel punto dove il fiume entra nel lago, e così riuscirono a prevenire la barca di Gesù. Quando egli scese a terra nella solitudine d'oltre Bethsaida-Giulia trovò le turbe che già l'attendevano. Probabilmente, durante il viaggio a piedi, i volenterosi partiti da Ca­farnao erano cresciuti di numero; nell'imminenza infatti della Pa­squa tutta la regione era già percorsa da carovane dirette a Geru­salemme e composte di Galilei orientali, i quali colsero quell'occa­sione per ascoltare di nuovo Gesù che non vedevano da qualche tempo. L'incontro con tanta folla fece subito svanire il progetto di solitu­dine e di riposo; tanto più che Gesù, appena vide i volenterosi ac­corsi, si impietosi su di essi e si dette a guarire miracolosamente gli infermi e parlare a tutti del regno di Dio. Frattanto le ore passa­vano; il gruppo di Gesù doveva esser partito da Cafarnao di buon mattino e nella stessa mattinata aveva approdato alla sponda opposta: ma l'incontro con le turbe, le implorazioni dei malati e degli infelici, le loro guarigioni, i discorsi sul regno, avevano consumato l'intera giornata e già si era fatta molta ora (Marco, 6, 35).
Le turbe, dimentiche di tutto, non si stancavano né si staccavano da Gesù; però i pratici Apostoli s'avvicinarono a Gesù e gli fecero osservare che il posto era solitario, l'ora tarda, e quindi sarebbe stato opportuno licenziare le turbe affinché si sparpagliassero nelle borgate più vicine per trovarsi un po' di vitto e di alloggio. Gesù rispose: Date voi (stessi) da mangiare a loro! La risposta appariva molto strana: prima di tutto non c'era pane, e poi forse non c'era neppure denaro sufficiente per comprarlo; Fi­lippo, fatto un calcolo sommario, fece osservare un po' ironicamente che neppure se ci fosse stato pane per la rilevante somma di due­cento denari d'argento (più di duecento lire oro) sarebbe bastato per darne appena un boccone a ciascuno. Gesù non rispose ai calcoli di Filippo, ma cambiando tono chiese: Quanti pani avete? Rispose Andrea fratello di Pietro: C'e' qui un ragazzetto che ha cinque pani d'orzo e due pesci; anch'egli però volle aggiungere all'informazione un serio richiamo alla realtà: ma che è ciò per tanti? Ma neanche ai calcoli di Andrea replicò Gesù.

§ 373. Tutt'attorno si stendeva a perdita d'occhio la prateria, in pieno rigoglìo alla stagione pasquale d'allora: sembrava un mare di verde ondeggiante, da cui affioravano qua e là a guisa di Cicladi i raggruppamenti della folla. A un tratto Gesù ordinò agli Apostoli che facessero adagiare la folla sull'erba; quando tutti furono ada­giati in tanti circoli, ciascuno di una cinquantina o di un centinaio di persone, l'aspetto della scena si delineò più nitidamente: il testi­mone Pietro, che l'avrà descritta con predilezione nella sua catechesi orale, la rassomiglia a uno sterminato giardino in cui gli ada­giati formavano aiuole (ed) aiuole e l'interprete di Pietro ripete a parola la sua comparazione (Marco, 6, 40). Ma ancora non si vedeva a che mirasse quell'ordine: adagiarsi sui di­vani avveniva nei conviti di lusso (§ 341), ma lì fra quell'erba quali vivande si potevano imbandire? Gesù però, presi i cinque pani e due pesci, avendo guardato su nel cielo, benedisse e spezzò i pani, e (li) dava ai discepoli affinchè apprestassero a quelli: anche i due pesci sparti a tutti.
E mangiarono tutti e furono satollati. Il carat­tere tradizionale del convito giudaico era stato osservato sia nell'a­dagiarsi, sia nella preghiera premessa e nello spezzamento del pane che spettavano al padre di famiglia; ma fu osservato anche al ter­mine con la raccolta degli avanzi, la quale si praticava ad ogni desinare giudaico: e raccolse i pezzi con cui si riempirono dodici sporte, e (gli avanzi) dei pesci. Con la comodità del ripartimento in “aiuole” fu facile fare un calcolo della folla: ed erano coloro che mangiarono i pani cinquemila uomini (Marco, 6, 41-44); Matteo conferma ch'erano cinquemila, ma da antico gabelliere ama precisare: senza (contare) donne e bambini (Matteo, 14, 21). Nel Discorso della montagna Gesù aveva ammonito Non v'aflan­nate dicendo “Che mangeremo?” o “Che berremo?” o “Di che ci revestiremo?”... sa tnvero il vostro Padre celeste che abbisognate di tutte queste cose. Cercate invece prima il regno e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta (§ 331).
Questa am­monizione si dimostrò esattissima in quella prateria di Bethsaida. Tutta quella gente nella intera giornata aveva cercato il regno e la sua giustizia ossia il pane dello spirito, ma senza pensarvi ritrovò anche il pane del corpo; tuttavia questo pane del corpo fu un soprappiù secondarissimo, un episodio accessorio della scena, mentre il fatto eccezionale di quella giornata fu la ricerca generosa del regno e la sua trionfale espansione. Giustamente fu messo in rilievo - e proprio da un razionalista (Loisy) - che tutta questa narrazione nel IV vangelo è dominata dall'idea del Cristo considerato come pane di vita spirituale; è appunto questo dovevamo aspettarci dal “vangelo spirituale” (§ 160), il quale molto più che agli episo­di vistosi e sonori bada ai sottili insegnamenti profondi, e mette particolarmente in luce le analogie tra fatti materiali e principii spirituali.

§ 374. Egualmente però dovevamo aspettarci che le folle rimasero colpite molto più dal fatto materiale che dal resto. Avevano esse inteso parlare la giornata intera del “regno” e ne erano state commosse, infine avevano visto moltiplicarsi fra le mani di quel banditore del “regno” il cibo dei loro corpi. La conclusione fu immediata, in conformità con le loro aspettative messianiche (§ 362): chi operava prodigi siffatti, poteva altrettanto facilmente sterminare eserciti nemici come Isaia, poteva ricoprir di tenebre un'intera re­gione come Mosè, attraversare fiumi all'asciutto come Giosuè, cor­rere vittorioso su tutta la terra come il pagano Ciro chiamato “mes­sia” dallo stesso Dio d'Israele (Iaia, 45, 1), poteva insomma at­tuare in pochissimo tempo il tanto sospirato “regno del Messia” a maggior gloria d'Israele. Dunque, egli era l'atteso Messia: la sua potenza lo rivelava indubbiamente tale. Davanti ad una conclu­sione così chiara e stringente, quegli ardenti Galilei passarono subito all'azione: Gli uomini pertanto, veduto il miracolo che aveva fatto dicevano: “Questo e' veramente il profeta veniente (§ 339) nel mon­do!”. Gesu' dunque, conosciuto che stavano sul punto di venire a rapirlo affin di farlo re, si appartò di nuovo nella montagna egli solo (Giovanni, 6, 14-15). Questa notizia, preziosa per il suo bel colorito storico, è anche più preziosa perché trasmessa dal solo evangelista che oggi si vorrebbe far passare per un incessante ideatore di astratte allegorie; qui in­vece abbiamo la realtà storica più cruda, proprio quella realtà che Gesù aveva prevista da lungo tempo e che si era proposto di evitare con la sua condotta prudenziale (§ 301).

§ 375. Anche quella sera Gesù si era premunito contro il pericolo. Appena terminata la refezione, prima ancora che i focosi elettori avessero deciso la proclamazione regale, Gesu' subito costrinse i di­scepoli suoi ad entrare nella barca e a preceder(lo) al di là alla volta di Bethsaida, finché egli licenzia la turba (Marco, 6, 45). In altre parole Gesù, avendo notato l'eccitazione della folla e ricono­sciutine gl'intendimenti, volle in primo luogo preservarne i suoi di­scepoli rinviandoli avanti a sé a Cafarnao, e inoltre rimaner solo per esser più spedito nel suo contegno con gli eccitati messianisti politici. Il suo contegno da solo, come ci ha detto l'altro evangelista, fu quello già seguito altre volte (§ 301), cioè di sottrarsi nascosta­mente; buona parte della notte fu poi passata da lui sulla mon­ tagna a pregare (Matteo, 14, 23). Frattanto i discepoli navigavano verso Cafarnao.

Gesù cammina sull'acqua. Discorso sul pane vivo

§ 376. Quando la barca si staccò da terra era notte fatta; prima d'imbarcarsi i discepoli probabilmente attesero, nella speranza che Gesù liberatosi dalle folle li raggiungesse, ma non vedendo alcuno ed essendo già tardi presero il largo. L'aveva comandato il màestro, e perciò obbedivano; ma pienamen­te soddisfatti non si sentivano, sia perché il maestro si era staccato da loro, sia perché quel viaggio notturno non era né piacevole né sicuro. Spesso sul lago di Tiberiade, in primavera avanzata, dopo una giornata calda e tranquilla verso il tramontar del sole si sca­rica dalle montagne sovrastanti un vento freddo e violento in direzione meridionale, che continua e cresce sempre più fino al mattino rendendo la navigazione assai difficile.
Così avvenne quella notte; sorpresi di fianco dal vento e spinti verso mezzogiorno invece che verso ponente, i navigatori ammainarono la vela, ormai nociva e pe­ricolosa, e fecero forza sui remi. Ma tra lo sballottamento delle onde la barca avanzava male, e alla quarta vigilia della notte, ossia dopo le 3 del mattino, s'erano fatti soltanto 25 o 30 stadi di tragitto, ossia dai 4,5 chilometri ai 5,5: mancava forse ancora un buon terzo del tragitto prima di raggiungere l'approdo. La stanchezza veniva ad accrescere il malumore dei naviganti. Ad un tratto, d'in mezzo alla foschia mattinale e agli spruzzi delle onde, essi vedono a pochi passi dalla barca un uomo che cammina sull'acqua. Un rematore dà un grido, e addita. Tutti guardano. Indubbiamente è una figura umana: sembra camminare di conserva con la barca e volerla oltrepassare. No: piega invece verso la barca per raggiungerla. Tutti allora si turbarono dicendo: “E un fanta­sma!”, e dalla paura gridarono. Subito però Gesù parlò ad essi dicendo: “Coraggio! Sono io! Non abbiate paura!” (Matteo, 14, 26-27). Se era veramente lui, non c'era da meravigliarsi: chi poche ore prima aveva moltiplicato i pani, poteva ben camminare sulle onde. Ma era veramente lui? Pietro volle esserne sicuro: Signore, se sei tu, comanda che io venga a te sulle acque! Gesù rispose: Vieni! Pietro scese dalla barca, camminò sull'acqua e raggiunse Ge­sù. L'esperto pescatore di Cafarnao non si era mai inoltrato sul­l'acqua in quella maniera; ma appunto la sua esperienza lo tradì, e quando si trovò tutto solo avvolto tra i flutti turbinanti si spense in lui l'ardore di fede che lo aveva fatto scendere dalla barca e rimase soltanto l'esperto pescatore, il quale perciò ebbe paura. La paura lo portava a fondo; il pauroso gridò: “Signore, salvami!”. E subito Gesù, stese la mano, lo prese e gli dice: “Scarso di fede, di che cosa dubitasti?”. Ambedue salgono in barca, il vento dà subito giù, e ben presto l'approdo è raggiunto.

§ 377. Nel breve tragitto tranquillo ci fu nella barca un inconsa­pevole stordimento. I naviganti si gettarono ai piedi del nuovo imbarcato esclamando: Veramente di Dio sei figlio!. Non dicevano che era il “figlio di Dio” per eccellenza, il Messia; ma certo lo proclamavano un uomo straordinario, a cui Dio aveva elargito i più ampi favori. Appunto qui però rimaneva una mac­chia oscura: a voler inquadrare questo nuovo prodigio insieme con gli altri dentro una grande visione riassuntiva, quei naviganti, che avevano tuttora lo stomaco ripieno del pane miracoloso e gli occhi ripieni del presunto fantasma, non riuscivano a dare un giudizio complessivo sull'intera visione. Ripetevano essi dentro di sé l'iden­ tico ragionamento fatto poche ore prima dalle folle, che avevano mangiato il pane moltiplicato: Se costui sa operare miracoli così potenti, perché non si decide ad agire come potente e re messia­nico » d'israele? (§ 374). Chi mai lo trattiene? E molto di piu' stu­pivano in se stessi; non avevano infatti capito riguardo a(ll'avveni­mento dei) pani, bensì il loro cuore era indurito (Marco, 6, 51-52). Lo sbarco avvenne a Gennesareth, la regione chiamata oggi el-Ghu­weir e descritta come ubertosissima da Flavio Giuseppe (Guerra giud., III, 516 segg.): stava, come Tabgha (§ 375, nota), circa 3 chilometri più a sud di Cafarnao.
Probabilmente Cafarnao fu evi­tata per non provocare le solite manifestazioni clamorose e perico­lose. Tuttavia l'arrivo di Gesù fu subito segnalato, e tosto cominciò l'affluenza di malati e d'imploranti dai luoghi vicini, e quanti lo toccavano erano salvati (Marco, 6, 56). Molti della zona di Cafarnao erano intanto rimasti a llethsaida sul posto della moltiplicazione dei pani. Sopraggiunta la notte, Gesù era scomparso e i discepoli senza di lui erano salpati sull'unica barca che stava sulla riva: non restava dunque niente da fare sul posto. Passata la notte alla meglio, la mattina seguente alcuni di quei ri­tardatari approfittarono di alcune barche venute là a pescare da Tiberiade (Giovanni, 6, 23) e si fecero trasportare a Cafarnao; altri presero altre direzioni. Giunti a Cafarnao, si dettero a cercare Gesù con la speranza forse di riprendere il fallito progetto di proclamarlo re, e d'indurlo o ad una piena accettazione ovvero ad un aperto rifiuto. Lo ritrovarono infatti come avevano previsto, ma probabilmente dopo due o tre giorni, durante i quali Gesù s'era trattenuto nella zona di Gennesareth; allora, tanto per attaccar discorso, gli dissero: Rabbi, quando sei venuto qua? (Giovanni, 6, 25).

§ 378. Con questa domanda ha inizio il celebre discorso sul pane vivo, riportato dal solo Giovanni (6, 25-71): noi già sappiamo che questo metodo integrativo è proprio al IV vangelo nei confronti con i Sinottici (§ 164). Nel discorso ricompaiono tratti caratteristici a Giovanni, già rilevati nei due dialoghi di Gesù con Nicodemo e con la Samaritana: specialmente col dialogo della Samaritana (§ 294) il discorso sul pane vivo mostra varie affinità, anche di svi­luppo logico. Tuttavia, analizzando minutamente la compagine del discorso stesso, appaiono qua e là delle saldature o riconnessioni che attestano un lavoro redazionale: se il Discorso della Montagna offrì ai due Sinottici che lo riportano, e specialmente a Matteo, occasione di esercitare la loro operosità redazionale (§ 317), un'e­guale occasione fu colta e impiegata da Giovanni per il discorso sul pane vivo.
In esso infatti si distinguono chiaramente tre parti: nella prima (6, 25-40) Gesù ha per interlocutori gli abitanti della regione di Cafarnao che avevano assistito alla moltiplicazione dei pani; nella seconda parte (6, 41-59) intervengono come interlocu­tori i Giudei, e in fondo una nota redazionale avverte che le pre­cedenti parole di Gesù furono pronunziate nella sinagoga di Ca­farnao; infine la terza parte (6, 60-71) riporta insieme con poche parole di Gesù vari fatti che furono conseguenze dei precedenti ra­gionamenti, le quali conseguenze non avvennero immediatamente ma richiesero senza dubbio un tempo più o meno lungo per svi­lupparsi. Dunque il discorso, quale oggi l'abbiamo, è una “com­posizione”, la quale ha unito con un nucleo cronologicamente com­patto altre sentenze di Gesù cronologicamente staccate ma riconnes­se con quel nucleo dall'analogia dell'argomento: questa maniera di « composizione », in parte cronologica è in parte logica, era usuale alla <”atechesi” di Giovanni non meno che a quella degli altri Apostoli, e gli antichi Padri o espositori l'hanno riconosciuta ed ammessa ben prima degli studiosi recentissimi (§ § 317, nota; 360, nota prima; 415, nota).

§ 379. La prima parte del discorso avviene a Cafarnao, ma fuori della sinagoga. Coloro che ricercano Gesù l'incontrano, forse per istrada, e gli rivolgono la suddetta domanda: Quando sei venuto qua? - La mira segreta è ben altra. Gesù, riferendosi alla mira se­greta e avvicinandosi alla sostanza della questione, risponde: in verità, in verità vi dico, mi cercate non già perché vedeste segni, bensì' perché mangiaste dai pani e foste satollati. I segni erano i miracoli fatti da Gesù a comprova della sua missione, e in tanto sarebbero stati efficaci come segni in quanto avessero indotto gli spettatori ad accettare quella missione: e invece quegli abitanti di Cafarnao che parlavano con Gesù erano stati spettatori di molti miracoli ma non li avevano accettati come segni, avevano goduto del beneficio materiale ma non avevano accolto il beneficio spiri­tuale; ultimamente avevano mangiato il pane miracoloso ma subito appresso si erano infervorati per il regno politico del Messia. Perciò Gesù prosegue: Producetevi non già il nutrimento che perisce, bensì il nutrimento permanente in vita eterna il quale vi darà il figlio dell'uomo: costui infatti il Padre, Iddio, segnò del suo sigillo. Il sigillo era lo strumento più importante nella cancelleria d'un re. Quegli ascoltatori di Gesù avevano tentato, poco prima, di eleggere Gesù “re”; ma qual re sarebbe stato egli dopo siffatta elezione? Donde la sua autorità regale? La sua autorità egli l'aveva ricevuta, non da uomini, ma dal Padre, Iddio.
Gl'interlocutori replicano: Che dobbiamo fare per produrre le opere d'iddio? e con questa doman­da si riferiscono chiaramente all'esortazione di Gesù di produrre... il nutrimento permanente in vita eterna. Gesù risponde Questa è l'opera di Dio, che crediate in chi egli inviò; che crediate cioè in lui anche quando la sua parola delude le vostre speranze e fa sva­nire i vostri sogni, che crediate nel suo regno anche se è la nega­zione totale del vostro regno. Insistettero gli altri: Qual segno fai dunque tu, affinché vediamo e crediamo in te? Che produci? I pa­dri nostri mangiarono la manna nel deserto, conforme a ciò che sta scritto:”Pane del cielo dette loro da mangiare” (Esodo, 16, 4; Salmo, 78, 24). L'allusione mirava a due termini e li contrapponeva fra loro: da una parte l'opera di Mosè e il suo “segno”, quello d'aver fatto scendere la manna dal cielo; dall'altra parte, l'opera di Gesù e il suo recentissimo “segno”, quello d'aver moltiplicato i pani a Bethsaida. Fra i due termini del confronto, gl'interlocu­tori mostrano di preferire l'opera e il “segno” di Mosè all'opera e al “segno” di Gesù; gli altri “segni” di Gesù non sono neppur chiamati in causa, quasicché non avessero alcuna efficacia dimostra­tiva riguardo alla fede e quasi per dar ragione alle prime parole di Gesù, mi cercate non già perché vedeste segni, bensì perché man­giaste dai pani e foste satollati. Gesù ad ogni modo è riprovato e posposto a Mosè: se egli vuole ottenere fede nel suo invisibile e impalpabile “regno”, faccia dei “segni” almeno eguali a quelli di Mosè.

§ 380. La discussione è giunta ad un bivio, e bisogna decidersi fra i due termini del confronto: da una parte Mosè e la sua opera, dal­l'altra parte Gesù e il suo “regno”. Quale di questi due termini è superiore? Qui sta il nodo della questione, e Gesù l'affronta in pieno: In verità, in verita vi dico, non già Mose' vi ha dato il pane dal cielo, bensi il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; il pane d'iddio infatti e' colui che discende dal cielo e dà vita al mon­do. Il giudizio dato dagli interlocutori è capovolto: dei due termini del confronto Gesù è tanto superiore a Mosè quanto il cielo è superiore alla terra; Gesù, non già Mosè, discende dal cielo e dà vita al mondo, egli è veramente il pane dal cielo. L'esposizione è inter­rotta un istante da un'esclamazione degl'interlocutori: Signore, dacci sempre questo pane!; la quale esclamazione è gemella di quella del­la Samaritana riguardo all'acqua, e dimostra che in un caso e nel­l'altro si pensava ad oggetti materiali. Replicò Gesù: lo sono il pane della vita; chi viene a me non sentirà fame, e chi crede in me non sentirà sete giammai. Ma io vi dissi che e mi avete veduto e non credete. Con altre affermazioni di Gesù (Giov., 6, 37-40) si chiu­se questo primo incontro.

§ 381. Dell'incontro e delle affermazioni di Gesù si dovette parlar molto in paese, anche con desiderio di avere spiegazioni in propo­sito e di offrire a Gesù opportunità di darle. Probabilmente i fatti si svolsero come a Nazareth (§ 358), e fu offerta a Gesù occasione di spiegarsi nella prima riunione sinagogale che si tenne in paese, per­ché le nuove dichiarazioni furono fatte da lui insegnando nella sina­goga in Cafarnao (6, 59). Se però è detto, a principio di questa nuova parte del discorso, che i Giudei mormoravano di lui, non è necessario supporre che un gruppo di accaniti Farisei fossero giunti apposta dalla Giudea per dar battaglia a Gesù i Giudei, nello stile di Giovanni, sono in genere i connazionali di Gesù che hanno re­spinto l'insegnamento di lui. Questi Giudei pertanto mormoravano di Gesù perché disse: « Io sono il pane disceso dal cielo »; e dicevano: « Non e' costui Gesu' il figlio di Giuseppe, di cui conosciamo il padre e la madre? Come adesso dice: “Dal cielo sono disceso”?. Gesù, dopo alcune consi­derazioni più ampie, torna sulla precedente questione del pane: Io sono il pane della vita. I vostri padri mangiarono nel deserto la man­na e morirono; (invece) questo e' il pane discendente dal cielo, affinché taluno mangi di esso e non muoia. Io sono il pane vivente, il disceso dal cielo: se alcuno mangi di questo pane, vivrà in eterno; e il pane poi che io darò, é la mia carne per la vita del mondo.
Al suono di tali parole i Giudei, mal disposti quali erano, avevano da strabiliare ben più che Nicodemo e la Samaritana. Se a questi due antichi interlocutori Gesù aveva parlato di “rinascita dallo Spirito” e di “acqua zampillante in vita eterna”, siffatte espres­sioni potevano a prima vista intendersi in senso simbolico: come in senso simbolico poteva intendersi adesso l'espressione “pane di vi­ta” la prima volta che Gesù l'aveva impiegata ed applicata a se stesso. Ma Gesù non si era limitato a quella prima volta; egli era tornato sopra quella espressione e, quasi per escludere a bella posta l'interpretazione simbolica, aveva affermato che quel pane era “la sua carne” data per la vita del mondo. Questa precisazione non era tollerabile in un parlare metaforico: parlando della sua “carne-pane”, Gesù non si esprimeva simbolicamente. Così ragionarono, con pertetta logica, gli uditori della sinagoga di Cafarnao, i quali perciò si dettero a discuter fra loro: Come può darci costui la (sua) carne da mangiare? Il momento era davvero decisivo e solenne; a Gesù spettava in quel momento di precisare ancor meglio la sua intenzione, esprimendo con limpidezza cristallina se le sue parole dovevano esser interpretate come metaforiche ovvero come piane e reali.

§ 382. La limpidezza cristallina si ebbe. Gesù, udita la discussione degli uditori, soggiunse: In verità, in verità vi dico, se non man­giate la carne del figlio dell'uomo e beviate il sangue di lui, non avete vita in voi stessi. Chi mangia la mia carne e beve il mio san­gue ha vita eterna, e io lo risusciterò all'estremo giorno. La carne mia infatti è vero nutrimento, e il sangue mio è vera bevanda; chi mangia la mia carne e beve il mio sangue in me rimane, e io in lui. Come inviò me il Padre vivente e io vivo per il Padre, (così) anche chi mangia me, egli pure vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non (avverrà) come (a) i padri (vostri che) mangiarono (manna) e morirono: chi mangia questo pane, vivrà in eterno. Ascoltate queste spiegazioni, gli uditori non ebbero più il minimo dubbio; né, in realtà, avrebbero potuto averlo. Le parole ascoltate saranno state dure quanto si vuole, ma più chiare e precise di cosi' non potevano essere; Gesù aveva nettamente e ripetutamente affer­mato che la sua carne era vero cibo e il suo sangue vera bevanda, e che per avere vita eterna bisognava mangiare di quella carne e bere di quel sangue. Non era possibile equivocare. Non equivoca­rono infatti gli ostili Giudei, che videro confermata la loro prima interpretazione; non equivocarono neppure molti dei discepoli stessi di Gesù, che trovarono scandalo in quelle parole. Molti pertanto dei discepoli di lui, avendo ascoltato, dissero:”Duro è questo di­scorso; chi può ascoltarlo?”. L'aggettivo duro qui vale quasi per “ripugnante”, “stomachevole”, tanto che non si può ascoltarlo senza un certo ribrezzo.
Evidentemente si era pensato ad un ban­chetto da antropofagi. Gesù in realtà non aveva precisato la maniera in cui si sarebbe mangiata la sua carne e bevuto il suo sangue; ma perfino davanti alla possibilità dell'interpretazione antropofaga e dello scandalo, egli non retrocedette d'un sol passo e non ritirò una sola parola. Sa­pendo che i suoi discepoli mormorano di ciò, disse loro: Ciò vi scan­dalizza? Se dunque contempliate il figlio dell'uomo che risale dov'e­ra prima? Lo spirito è il vivificante, la carne non giova a nulla; i detti ch'io ho parlati a voi sono spirito sono vita. L'ultimo pe­riodo fu ritenuto sufficiente da Gesù per dissipare il timore del ban­chetto da antropofagi: i suoi detti erano spirito e vita. Ma gli stessi detti conservavano il loro pieno valore letterale, senza traslati me­taforici; l'indispensabile era aver fede in lui, e l'ultimo argomento di tale fede sarebbe stato contemplare il figlio dell'uomo risalente al cielo, donde era disceso quale pane vivente. Pane celestiale, carne celestiale. Chi avesse avuto tale fede, avrebbe visto in che maniera si poteva veramente mangiar la carne di lui e bere il suo sangue senza ombra di antropofagia.

§ 383. La reazione dei discepoli al discorso udito, nonostante le spiegazioni aggiuntevi da Gesù, non fu soltanto verbale: da questo (tempo in poi) molti dei suoi discepoli si ritrassero addietro e non camminavano piu' con lui. Avvenne dunque una defezione, che al­lontanò da Gesù molti dei suoi discepoli; i dodici apostoli invece rimasero fedeli. Un giorno, quando la defezione era già assai pro­gredita, Gesu' disse ai dodici:”Anche voi forse volete andarvene?”. Gli rispose Simone Pietro: « Signore, da chi andremo? Parole di vita eterna (tu) hai; e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il santo d'Iddio » (Giovanni, 6, 67-69). Non è fortuita in uno scrittore quale Giovanni quella consecuzione di pensiero, secondo cui i dodici avevano creduto e poi conosciuto. Su questo argomento Giovanni non torna più, e l'annunzio del pane di vita non risulta attuato in tutto il resto del suo vangelo, perché egli sarà il solo evangelista che non racconterà l'istituzione dell'Eu­caristia alla vigilia della morte di Gesù. Ma appunto in questa sua omissione sta la più chiara indicazione che l'annunzio è stato at­tuato nella forma spirituale predetta. Giovanni omette l'istituzione dell'Eucaristia perché già narrata da tutti e tre i Sinottici e già notissima agli uditori della sua catechesi (§ 165); ha invece narra­to l'annunzio, perché i Sinottici l'avevano omesso (§ 164).

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