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06/08/2012 18:19 | |
Il paralitico di Bezetha
§ 384. I fatti precedenti erano avvenuti in Galilea e nell'imminenza della Pasqua: è anche possibilissimo che lungo il loro svolgimento la Pasqua fosse già trascorsa. Giovanni narra questi avvenimenti al cap. 6, ma nel precedente cap. 5 egli ha narrato fatti che si svolgono a Gerusalemme; già accennammo alcune ragioni che raccomandano di considerare i fatti del cap. 5 come posteriori cronologicamente a quelli del cap. 6 (§ 177), per cui si tolgono alcune difficoltà testuali senza che s'introducano nuovi inconvenienti. Riprendendo pertanto il cap. 5 lasciato in sospeso, troviamo che Gesù si è recato a Gerusalemme in occasione di una imprecisata festa dei Giudei; la quale poté esser la Pasqua (§ 177), ma più probabilmente era la Pentecoste dello stesso anno 29; in questo caso si era sul declinare del maggio.
A settentrione di Gerusalemme, immediatamente fuori delle mura, stava sorgendo un quartiere nuovo, il quale - come avviene spesso in casi simili si designava usualmente con un doppio nome, quello generico di Città Nuova o quello specifico di Bezetha (cfr. Flavio Giuseppe, Guerra giud., v, 151; Il, 530). In questo quartiere, e precisamente vicino alla vecchia Porta della città chiamata “Probatica” ossia delle pecore, esisteva uno stagno o piscina chiamata anch'essa Bezetha. Vi si raccoglievano le acque di una sotterranea fonte che, come quella di Gihon (Silce) situata nello stesso versante della città, era intermittente, scaturendo di tempo in tempo; a quelle acque si attribuivano particolari virtù curative, specialmente se un malato riusciva a tuffarvisi appena cominciavano a gorgogliare per il nuovo afflusso. Perciò erano stati costruiti a quadrilatero torno torno allo stagno quattro portici, con un quinto trasversale in mezzo, che le ricerche moderne hanno chiaramente riscontrati; in quei portici giaceva una moltitudine di infermi, ciechi, zoppi, rattrappiti, aspettando il movimento dell’acqua.
§ 385. Un giorno Gesù, aggirandosi fra quell’ammasso di miserie, si fermò davanti a un uomo disteso su un giaciglio; era stato colpito da paralisi 38 anni prima, e si faceva trasportare là sperando la guarigione. Improvvisamente Gesù gli domandò: Vuoi guarire? – Naturalmente l’infelice pensò all’acqua; sperava egli in quell’acqua, sì, ma purtroppo non faceva mai in tempo ad entrarvi per primo perché, immobilizzato com’era e non avendo nessuno che lo spingesse dentro non appena cominciava il gorgoglimento, era sempre preceduto da altri. A questo rimpianto del paralitico Gesù non rispose, ma ad un tratto gli ordinò: “Alzati, prendi su il tuo giaciglio e cammina!”. E subito l'uomo diventò sano; e prese su il suo giaciglio e camminava (Giov., 5, 8-9). Senonché quel giorno era sabbato. Ecco quindi che zelanti Giudei, al vedere quello scandalo, vanno incontro al risanato, e gli fanno stizzosamente osservare ch'egli non può trasportare di sabbato un giaciglio; pesava ben più quel giaciglio che un fico secco, eppure per i sommi maestri era norma sacrosanta che di sabbato non si poteva trasportare neanche un fico secco (§ 70). La risposta del ripreso fu spontanea: Quello che mi ha guarito mi ha comandato di prendere il giaciglio e di camminare! - Gli altri replicarono: E chi è costui? Il guarito non lo sapeva, perché non conosceva Gesù, e in quel momento Gesù si era occultato per evitare la folla accorsa al miracolo. Tùttavia più tardi Gesù incontrò nel Tempio il guarito, e gli rivolse alcune parole d'esortazione. Allora il guarito, temendo forse di apparire un complice agli occhi dei Farisei, andò a riferir loro che autore della guarigione e del comando era stato Gesù.
Per questo perseguitavano i Giudei Gesu', perché faceva queste cose di sabbato. Non solo, dunque, perché aveva comandato di trasportare il giaciglio, ma anche per la guarigione operata; dunque i Farisei di Gerusalemme condividevano pienamente l'opinione dei loro colleghi della Galilea, già manifestata in occasione dell'uomo dalla mano rattrappita (§ 309). Ma Gesù, entrato in discussione, rispose loro: “Il Padre mio fino adesso opera, ed io opero”. Per questo, dunque, ancor piu' cercavano i Giudei d'ucciderlo, perché non solo abrogava il sabbato, ma diceva suo proprio Padre Iddio, facendo se stesso uguale a Dio. Quanto ad acume di mente, quei Giudei non lasciavano nulla a desiderare. Essi avevano ben seguito il ragionamento di Gesù, ch'era in sostanza questo come Iddio creatore opera sempre, governando e conservando tutto il creato e non ammettendo alcun riposo sabbatico in questa sua operazione, così e per la stessa ragione io Gesù opero. Dunque - argomentavano quei Giudei -Gesù fa se stesso uguale a Dio.
Avevano afferrato perfettamente il ragionamento di Gesù; ma poiché la sua conclusione rafforzata dal miracolo abbatteva uno dei capisaldi della casuistica farisaica, ragionamento e conclusione dovevano essere senz'altro rigettati.
§ 386. Seguì un lungo ragionamento di Gesù a difesa della sua missione; nella prima parte (Giov., 5, 19-30) egli illustra la sua eguaglianza col Padre e i còmpiti che ne derivano di essere dispensatore di vita e giudice universale; nella seconda (ivi, 31-47) sono addotte le testimonianze che accreditano quella missione eppure sono misconosciute dai Giudei. Il ragionamento contiene quelle idee ed espressioni elevate che sono predilette dal IV vangelo, e che scarsamente o quasi incidentalmente si riscontrano nei Sinottici. Dal punto di vista storico, come già rilevammo (§ 169), la differenza di tono si spiega agevolmente considerando la differenza degli interlocutori con cui Gesù discute: i montanari della Galilea, anche se Farisei, non raggiungevano certamente la finezza intellettuale dei dottori di Gerusalemme, con cui Gesù stava qui a discutere. Queste discussioni gerosolimitane, trascurate dai Sinottici, sono giustamente supplite dal solerte Giovanni.
Il lungo ragionamento di Gesù (che dovrà essere letto direttamente nel testo) non convinse affatto i Giudei, i quali ricorsero ad argomenti d'altro genere: ossia decisero che quel fastidioso operatore di miracoli doveva esser soppresso. Cosicché, dopo ciò Gesu' s'aggirava nella Galilea: non voleva infatti aggirarsi nella Giudea, perché i Giudei cercavano d'ucciderlo (Giovanni, 7, 1, ricollegantesi con 5, 47).
La “tradizione degli anziani”
§ 387. Trasferendosi in Galilea, Gesù si era sottratto alle insidie dei Farisei di Gerusalemme, ma costoro non abbandonarono però la partita; lassù nella Galilea essi non potevano certo spadroneggiare come a Gerusalemme, ma qualcosa potevano sempre fare: ad esempio, pedinare Gesù e raccogliere nuove accuse contro di lui. Difatti, già tornato Gesù in Galilea, si radunarono presso di lui i Farisei ed alcuni degli Scribi venuti da Gerusalemme (Marco, 7, 1). La tattica scelta da questi inviati fu quella di assillare l'irriducibile Rabbi con rilievi ed osservazioni sulla sua condotta, sia per umiliarlo in se stesso sia per screditarlo presso il popolo. Notarono subito che i discepoli del Rabbi non si lavavano le mani prima di mangiare: violazione gravissima della “tradizione degli anziani”, gravissimo delitto che equivaleva - secondo la sentenza rabbinica (§ 72) - a “frequentare una meretrice” e attirava la punizione d'essere “sradicato dal mondo”.
Riscontrato il delitto, lo denunziarono subito al Rabbi, come al responsabile morale. Gesù accetta la battaglia, ma dal caso singolo s'innalza a considerazioni più ampie. Tutte quelle abluzioni di mani e di stoviglie sono prescritte dalla “tradizione degli anziani”: sta bene. Ma gli anziani non sono Dio, e la loro tradizione non è legge di Dio, la quale è infinitamente superiore; perciò in primo luogo bisogna badare alla legge di Dio, e non preferirle mai la tradizione di uomini. Ora, avveniva questo caso. La legge di Dio, ossia il decalogo, aveva prescritto di onorare il padre e la madre, e quindi di sovvenire ai loro bisogni fornendo aiuti materiali. I rabbini, dal canto loro, avevano stabilito la norma che, se un Israelita aveva deciso d'offrire un certo oggetto al Tempio, quell'offerta era inalienabile e l'oggetto non doveva finire che nel tesoro del Tempio: in tal caso bastava pronunziare la parola Qorban (“offerta” sacra), e l'oggetto designato diventava proprietà sacra del Tempio in virtù di un voto irrevocabile. Spesso perciò accadeva che un figlio, maldisposto verso i suoi genitori, pronunziava Qorban su tutto ciò ch'egli personalmentè possedeva: cosicché i genitori, anche sul punto di morir di fame, non potevano toccar nulla di ciò che il figlio possedeva; costui invece continuava tranquillamente a godersi i suoi beni consacrati in voto (anche ciò permettevano i rabbini), fino a che li consegnava effettivamente al Tempio, oppure trovava una scappatoia per non consegnarli (anche qui le scappatoie rabbiniche non mancavano).
§ 388. Stando così le cose, Gesù rispose ai suoi pedinatori: Bellamente (voi) dispregiate il comandamento di Dio per osservare la tradizione vostra! Mosé infatti disse: “Onora il padre tuo e la madre tua” e “ Chi maledice padre o madre sia messo a morte”; voi invece affermate: “Se un uomo dice al padre o alla madre - (Sia) Qorban ciò che ti potrebbe giovare - (deve mantenere)”; (cosicchè) non gli lasciate piu' nulla da fare al padre o alla madre, abolendo la parola d'Iddio con la tradizione vostra che avete trasmessa (Marco, 7, 9-13). Accennando poi ad altri casi non venuti in discussione aggiunse: E cose simili di tal genere ne fate molte (§ 37). La conclusione fu tolta da un passo di Isaia (29, 13): Ipocriti! Bellamente profetò di voi Isaia dicendo: “Questo popolo con le labbra mi onora, ma il cuor loro lungi si tiene da me; e invano mi rendono culto insegnando insegnamenti (che sono) comandi d'uomini” (Matteo, 15, 7-9).
Farisei criticanti avevano avuto la loro parte, e sembra che non rispondessero. Gesù però si preoccupò delle turbe che avevano ascoltato, e che avevano la testa infarcita delle minute prescrizioni farisaiche riguardo a purità o impurità di cibi (§ 72); onde rivolgendosi ad esse continuò: Uditemi tutti e capite! Non c'è nulla esteriormente all'uomo che entrando dentro di lui possa inquinarlo; bensì quelle cose che escono fuori dell'uomo sono quelle che inquinano l'uomo (Marco, 7, 14-15). Come altre volte, Gesù aveva parlato anche qui da capovolgitore (§ § 318, 368); i Farisei se ne scandalizzarono: i discepoli stessi non capirono bene la forza del capovolgimento anti-farisaico, e quando furono soli con Gesù gliene domandarono la spiegazione. La spiegazione fu elementare: tutto cio che entra nell'uomo, non raggiunge il cuore ch'è il vero santuario dell'uomo, bensì il ventre, donde i cibi ingenti sono emessi poco dopo; dal cuore dell'uomo invece escon fuori i pensieri malvagi, gli adulterii, le bestemmie e tutto il corteo di male azioni, e queste sole hanno la potenza d'inquinare l'uomo. Per Gesù, dunque, l'uomo era essenzialmente spirito e creatura morale; tutto il resto, in esso, era accessorio e subordinato a quella superiore essenza.
Gesù nella Fenicia e nella Decapoli. Seconda moltiplicazione dei pani
§ 389. La relazione degli evangelisti diviene nuovamente saltuaria e aneddotica, e improvvisamente ci presenta Gesù trasferitosi nelle regioni di Tiro e Sidone, ossia nella Fenicia. E la prima volta che Gesù esce fuori dalla Palestina dacché ha cominciato la vita pubblica e forse dacché è nato (salvo la fuga in Egitto durante la sua infanzia). Perché quella uscita? Certamente non fu per portare in terra di pagani la “buona novella”, perché ciò non entrava nella sua missione personale e immediata come dichiarerà ben presto egli stesso (Matteo, 15, 24); neppure per sottrarsi a minacce di Antipa, perché di ritorno da Gerusalemme era venuto appunto nel territorio di lui: probabilmente fu per sottrarsi alle persecuzioni dei Farisei venuti a pedinarlo anche da Gerusalemme (§ 387), e nello stesso tempo per rifugiarsi in un luogo ove potesse rimanere sconosciuto e tranquillo (cfr. Marco, 7, 24) e provvedere ai suoi discepoli, che avevano tanto bisogno ancora di formazione spirituale. Ma anche in Fenicia, come già era avvenuto a Bethsaida (§ 327), il progetto di tranquillità e raccoglimento svanì. Anche quelle regioni pagane, confinanti con la Palestina, avevano inteso parlare di Gesù come di gran taumaturgo: andavano in giro per il mondo d'allora tanti sedicenti operatori di miracoli, che là non si ebbe alcuna difficoltà ad annoverare fra essi anche il profeta della Galilea; se si attribuivano portenti a Esculapio e ad altri Dei, non c'era ragione di non attribuirli anche al Dio dei Giudei operante per mezzo d'un suo profeta: all'atto pratico si sarebbe giudicata la valentia di ciascuno. Questi, più o meno, dovevano essere i sentimenti d'una donna di Tiro che si presentò a Gesù.
Era pagana, e mentre Marco che scrive per i Romani la chiama siro-fenicia perché la Fenicia faceva parte della provincia romana di Siria, Matteo che scrive per i Giudei la chiama cananea alludendo all'avanzo dell'antica popolazione pagana che abitava nella Siria-Palestina prima degli Ebrei. La donna era spinta a Gesù dal suo cuore di madre: una sua figlioletta - cosi' la chiama Marco era malamente vessata dal demonio, e la madre aveva messo la sua speranza in Gesù. Espone ella la sua domanda; Gesù non le risponde parola. L'infelice madre insiste, e segue per la strada il gruppo di Gesù e dei discepoli implorando ad alta voce Abbi pietà di me, Signore, figlio di David! Era la maniera insistente e rumorosa che usavano in Oriente i mendicanti (§ 351); la donna, che non doveva ritrovarsi in povertà, era spinta ad imitare i mendicanti dal suo cuore di madre. Gesù continua a non udirla; ma dopo un poco i discepoli, seccati di quella pubblicità, dicono a Gesù di allontanarla, invitandolo con ciò implicitamente ad accordare la grazia. Gesù risponde asciuttamente di essere stato inviato soltanto alle pecorelle sperdute della casa d'Israele: i pagani, qual era la donna, sarebbero stati oggetto della missione personale di altri, non di Gesù. La donna interviene direttamente, e rinnova la supplica. Gesù allora le risponde con durezza: Lascia prima che si satollino i figli. Non sta bene infatti prendere il pane dei figli e gettar(lo) ai cagnolini! I privilegiati figli erano i Giudei, e i cagnolini erano i pagani. La durezza della risposta fu quasi amarezza di medicina che provochi la reazione, e con ciò la guarigione. La donna reagì rispondendo ancora da madre implorante: Anzi (sta bene), Signore! Anche i cagnolini sotto la tavola mangiano dalle briciole dei ragazzi! Era una reazione di fede. Per Gesù fede significava salvezza (§§ 349-351); perciò egli rispose all'implorante: O donna, grande e' la tua fede! (Matteo, 15, 28). Per questa parola, va', e' uscito dalla tua figlia il demonio (Marco, 7, 29). La madre senz'altro credette, e tornata in casa trovò la bambina adagiata sul letto e libera dall'ossessione.
§ 390. Da Tiro Gesù s'inoltrò più a settentrione, fino a Sidone; di là piegò verso oriente, e con imprecisato giro attraverso la Decapoli (§ 4) si riportò nei pressi del lago di Tiberiade (Marco, 7, 31). Di questa peregrinazione randagia, che probabilmente fece trovare a Gesù quell'isolamento con i discepoli che non aveva trovato a Tiro, ci è trasmesso un solo episodio avvenuto nella Decapoli e narrato dal solo Marco (7, 31-37). Fu presentato a Gesù un sordomuto con vive raccomandazioni che gli imponesse le mani. Gesù lo prende in disparte dalla folla, gli mette le dita nelle orecchie, tocca con un po' della propria saliva la lingua di lui, quindi guarda su in cielo sospirando; infine gli dice: Ethpetah., cioè Sii aperto! L'evangelista trascrive in greco la precisa parola aramaica, ripetuta fedelmente da Pietro nella sua catechesi, pur facendola seguire dalla traduzione greca (§ 133). Il sordomuto restò guarito all'istante. Gesù poi ordinò che non si parlasse dell'accaduto; ma anche questa volta il suo ordine fu poco o punto eseguito. Perché, invece di operare una guarigione immediata come in altri casi, Gesù premise quei vari atti preliminari?
Il vecchio Paulus diceva che Gesù applicava qualche medicina naturale (§ 198); soltanto che l'acuto esegeta ha dimenticato di segnalare, a beneficio dell'umanità intera, quale fosse quella medicina. Parlando invece seriamente, si potrà congetturare che la circostanza di trovarsi Gesù nella regione pagana della Decapoli rendesse opportuno quella specie di simbolismo preparatorio, per ragioni che oggi a noi sfuggono; nello stesso tempo è ben probabile che, non potendo il sordomuto udire le parole di Gesù e volendo costui eccitarlo a quella fede che sempre richiedeva in chi domandava un miracolo, si servisse di quegli atti materiali appunto per eccitarlo alla fede viva.
§ 391. A questo punto i Sinottici, salvo Luca, narrano una seconda moltiplicazione di pani, somigliantissima alla prima ed avvenuta egualmente sulla riva orientale del lago di Tiberiade (§ 372). Accorrono attorno a Gesù grandi folle, che rimangono con lui tre giorni: in questo tempo le cibarie di cui si erano provviste sono consumate.
Gesù ha compassione di quella gente, e non vuole rinviarla digiuna per timore che venga meno lungo la strada. I discepoli fanno osservare che lì, in luogo deserto, non c'è modo di trovar pane. Gesù chiede quanti pani disponibili ci siano; gli si risponde: Sette, e pochi pesciolini (Matteo, 15, 34). Come la prima volta Gesù prende quel cibo disponibile, lo spezza e lo fa distribuire; tutti mangiano e si satollano, e si raccolgono sette sporte di avanzi. Coloro che avevano mangiato erano quattromila uomini senza (contare) donne e bambini (ivi, 38). Ambedue i Sinottici che raccontano, dopo la prima, anche questa seconda moltiplicazione dei pani la distinguono espressamente dalla prima (Matteo, 16, 9-10; Marco, 8, 19-20). Ciò è più che sufficiente a dimostrare che la primitiva catechesi degli Apostoli, testimoni degli avvenimenti, parlava di due fatti ben distinti; non è però sufficiente a convincere di questa distinzione gli studiosi radicali moderni, che invece pensano allo sdoppiamento di un unico fatto.
Ma sta in contrario che i due fatti, se sono somigliantissimi, mostrano anche divergenze sia quanto al tempo sia quanto ai numeri; le loro somiglianze, invece, sono facilmente giustificate dalla corrispondenza delle circostanze. E se Gesù volle non una, ma due volte, provvedere miracolosamente ai bisogni materiali delle folle ricercanti il regno di Dio, fu per confermare sempre più l'ammonizione del Discorso della montagna: Cercate prima il regno e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta (§ 331). Trattandosi dell'urgentissima preoccupazione umana, quella del pane materiale, due esempi tipici, invece di uno solo, erano opportunissimi. Dopo il miracolo Gesù risalì in barca ed approdò, certamente sulla sponda occidentale, ad un luogo che Matteo (15, 39) chiama Magadan, e invece Marco (8, 10) Dalmanutha. I nomi sono del tutto sconosciuti, e nonostante varie congetture fatte non si sa a quali luoghi assegnarli.
[Modificato da Caterina63 06/08/2012 18:20] |