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Ultimo Aggiornamento: 06/08/2012 19:22
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06/08/2012 18:23

[SM=g28004] Il segno dal cielo. Il lievito dei Farisei. Il cieco di Bethsaida


§ 392. Tornato Gesù in Galilea, saltarono nuovamente fuori i suoi pedinatori rimasti sul posto. I Farisei, fiancheggiati questa volta dai Sadducei (Matteo, 16, 1), entrarono in discussione con lui; e poiché la discussione non li pensuadeva, gli chiesero una prova definitiva della sua missione cioè un portento che calasse giù dal cielo. Que­sta sì che era la prova incontrastabile, da cui anch'essi sarebbero rimasti assolutamente convinti, non già guarire storpi, risuscitare mor­ti e moltiplicare pani! Ci voleva qualcosa come un bel globo iride­scente che calasse giù dal cielo, o anche che il sole s'oscurasse, oppure qualche altra meteora di tal genere: allora senza dubbio Gesù avrebbe vinto la sua causa! La richiesta non era nuova. A un atto magico di questo tipo avevano pensato quei Giudei che, disputando con Gesù dopo la prima moltiplicazione dei pani, ave­vano ricordato la manna calata dal cielo (§ 379); del resto il « se­gno » messianico per eccellenza era, nell'opinione diffusa d'allora, il portento astronomico e meteorologico (§ 446); fuor di questo, tutti gli altri portenti non avevano un valore probativo sicuro, ap­punto perché non corrispondevano all'aspettativa comune. Ma questa aspettativa, perché deformata ed avvilita, non fu appa­gata da Gesù. Udendo la richiesta, egli sospirò profondamente: e questa fu la sua vera risposta, fatta di commiserazione e di ram­marico. Solo come un dippiù egli aggiunse: « Perché ricerca questa generazione un segno? ìn verità vi dico, non sarà dato a questa ge­nerazzone un segno!. E lasciatili, salito nuovamente (in barca), se ne andò al di là (Marco, 8, 12-13).

§ 393. Essendo stata subitanea la partenza, i discepoli avevano di­menticato di far provviste, e lungo il tragitto si rammaricavano di aver con loro un solo pane. Gesù, udendo le loro parole, disse loro: Guardatevi dal fermento dei Farisei e dal fermento di Erode! -Erode, cioè Antipa, fu menzionato certamente in conseguenza di discorsi o di avvenimenti precedenti; è probabile che fra coloro che avevano discusso testé con Gesù vi fossero agenti di Erode, o che i Farisei stessi agissero per conto di Erode, dato che costui aveva sempre la sua vecchia curiosità riguardo a Gesù (§ 357): la stessa partenza subitanea di Gesù indurrebbe a credere ch'egli volesse sot­trarsi bruscamente alle insidiose e maligne investigazioni che veni­vano dalle due parti. I discepoli tuttavia, che si sentivano lo stomaco vuoto, non vedevano che relazione avesse il fermento con i Farisei e con Erode. Gesù, ricordando loro le due moltiplicazioni dei pani, li esortò a non preoccuparsi del pane materiale bensì nuo­vamente a star lontani dal suddetto fermento. Allora capirono ch'egli alludeva alle dottrine dei Farisei e alle astuzie di Erode, che corro­devano lo spirito come un fermento corrode la pasta azima.

§ 394. Le ostilità trovate sulla riva occidentale del lago (e che do­vettero essere molto più gravi di quanto risulti dagli scarsissimi ac­cenni degli evangelisti) avevano indotto Gesù a riportarsi a Bethsaida, forse per cercare animi meglio disposti; ma anche di ciò che av­venne là non c'è trasmesso nulla, salvo la guarigione riferita dal solo Marco (8, 22-26) il quale l'apprese certamente dalla catechesi di Pietro. E portano a lui un cieco, e gli raccomandano di toccarlo. E avendo preso il cieco per la mano, lo condusse fuori della borgata, e avendo sputato negli occhi di lui e postegli le mani sopra, lo in­terrogava: “Vedi alcunché?”. E (quello) guardando in su diceva: “Scorgo gli uomini, perché vedo come alberi che camminano!”. Allora di nuovo gli impose le mani sugli occhi, e (quello) vide di­stintamente e fu ristabilito e scorgeva nettamente da lontano tutte le cose. E (Gesu') lo mandò a casa sua dicendo: “Non entrar neppure nella borgata!”. Questa vivida descrizione, dovuta a Pietro non meno che a Marco, ci fa assistere a una vera guarigione graduale; forse il cieco non era tale dalla nascita, perche' rico­nosce subito uomini ed alberi, ad ogni modo la visione è dapprima torbida e confusa, e poi perfetta. Perché questa graduazione? Si possono ripetere le ipotesi fatte a proposito del sordomuto (§ 390), la cui guarigione ha qualche analogia con questa; ma, meglio che congetture, non siamo in grado di fare. Quanto all'impiego della saliva, si ritrova anche nelle prescrizioni dei rabbini per le malattie d'occhi; quindi anche questa volta i razionalisti seguaci del Paulus riusciranno a spiegar la guarigione in maniera naturalissima.

A Cesarea di Filippo

§ 395. Da Bethsaida Gesù risalì verso settentrione, allontanandosi ancor più da contrade giudaiche, e raggiunse la zona di Cesarea di Filippo (§ 19). In quella zona, in prevalenza pagana, egli e i suoi discepoli non erano assillati da folle d'imploranti né disturbati da intrighi di Farisei e di politicanti; fu dunque per lui una specie di ritiro con i suoi prediletti. Quei discepoli, del resto, rappresentavano il miglior risultato del­l'opera sua: saranno stati chi ruvido, chi zotico, e chi di dura cer­vice; avranno tutti, più o meno, risentito delle grette idee predomi­nanti allora nella loro stirpe; ma uomini di cuore erano, sincera­mente affezionati al maestro e pieni di fede in lui. Le solite turbe che assiepavano Gesù non avevano questi pregi: in Gesù esse cerca­vano ordinariamente il taumaturgo che guariva malati, risuscitava morti e moltiplicava pani, e se gradivano pure sentirlo parlare del regno di Dio e s'infiammavano anche alla sua parola, in parte era quella vampa nazionalista che Gesù deprecava e in parte era un fuoco di paglia che si spegneva poco dopo. Perciò Gesù prediligeva i discepoli, e ne curava particolarmente la formazione spirituale in vista del futuro. E oramai, dopo un anno e mezzo di operosità, egli poteva trattarli confidenzialmente nella questione più delicata per lui e forse più oscura per i discepoli stessi: la qualità messianica. Quel maestro così amato, quel taumaturgo cosi potente, quel predicatore cosi efficace, era veramente il Messia predetto da secoli ad Israele, ov­vero era soltanto un tardivo profeta dotato di straordinari doni divini?
Era un figlio di Dio, ovvero era il figlio di Dio? Certamente, dentro di loro, i prediletti discepoli si erano rivolti già nel passato questa domanda: ma se personalmente si sentivano assai inclinati a rispondere che egli era proprio il Messia, il figlio di Dio, ne erano anche distornati dalla vigilantissima cura mostrata fino allora da Gesù affinché quella risposta affermativa non fosse proclamata ad alta voce. Perché mai quella ritrosia inesplicabile? Era questo un punto assai oscuro per i discepoli; i quali però pensavano che il maestro ne sapeva più di loro, e avendo fede in lui si rimettevano a lui, aspettando che quel punto oscuro fosse schiarito a suo tempo. Gesù giudicò che allora era venuto questo tempo. La lunga ed in­tima assiduità con Gesù aveva aperto gli occhi ai discepoli in molte cose; d'altra parte, là in terra pagana, non esistevano pericoli d'in­composti tumulti nazionalisti qualora i discepoli avessero avuto la certezza che Gesù era il Messia e di ciò avessero potuto parlare tra loro liberamente; è anche probabile che, nei giorni di tranquillo ritiro passato con i discepoli, Gesù li avesse predisposti spiritual­mente a ricevere la delicata confidenza, sfrondando dalla loro immaginativa molte frasche politiche di cui era adornata ancora nelle loro menti la figura del Messia d'Israele. Infine, com'era solito fare nei momenti più decisivi della sua missione, Gesù si era appartato a pregare da solo (Luca, 9, 18).

§ 396. Ripreso tutti insieme il cammino, stavano per giungere a Cesarea di Filippo. S'avanzavano lungo la strada, ed erano già in vista della città (Marco, 8, 27): di fronte ad essi si ergeva la mae­stosa roccia su cui troneggiava il tempio di Augusto (§ 19). A un tratto, riferendosi certamente a discorsi precedenti, Gesù chie de ai discepoli: Chi dicono gli uomini che io sia? Gli fu risposto alla rinfusa: Ho inteso dire che tu sei Giovanni il Battista! Un altro: C'è chi dice che sei Elia! - Un altro ancora: Secondo alcuni tu saresti Geremia! Altri infine riferirono l'opinione più vaga se­condo cui Gesù era uno degli antichi profeti risorto. Le opinioni riferite erano numerose; ma Gesù non dette loro alcuna importanza, né si fermò a discuterle. Quell'investigazione sul pensiero altrui era una semplice introduzione all'investigazione veramente importante, quella sull'opinione personale dei discepoli. Terminate infatti le ri­sposte, Gesù disse loro: “Voi, invece, chi dite che io sia?”. I discepoli ebbero certamente un sussulto: a quella domanda si sen­tirono toccati nell'intimo, e con stupore videro che Gesù da se stesso entrava nel campo fino allora gelosamente evitato. Dovette seguire un silenzio imposto più da felicità ritrosa che da vera esitanza, si­lenzio non dissimile da quello d'una fanciulla che sia chiesta in isposa dal giovane ch'ella nel suo cuore segretamente già amava: forse i discepoli ripensarono in quel momento alla parola di Gesù che si era paragonato, nei loro confronti, ad uno sposo fra gli « ami­ci dello sposo » (§ 307).
E rimasero lì in mezzo alla strada muti d'un silenzio eloquente, con gli occhi fissi sul tempio di Augusto che dominava su citta' e campagna dall'alto della roccia. Passati alcuni istanti il silenzio fu tradotto in parole da Simone Pie­tro, ne poteva esser da altri che da lui impetuoso tra affezionati: Tu sei il Cristo, il figlio d'Iddio il vivente! La traduzione del vere­condo silenzio era stata perfetta; lo si vide in quei barbuti visi, che esprimevano la felicità d'un cordiale consenso e dimostravano una giocondità da lungo tempo repressa.

§ 397. Gesù sfiorò col suo sguardo tutti quei visi; rivolto poi a chi aveva parlato disse: Beato sei (tu), Simone figlio di Giona, poiché carne e sangue non rivelò (ciò) a te, bensì il Padre mio quello nei cieli! L'affermazione di Simone era confermata in pieno da colui ch'era il maggiormente interessato. Tutti i presenti si sentirono parimente confermati nella loro antica fede serbata in segreto. Dovette seguire ancora un breve silenzio, in cui fu alzato ancora uno sguardo al tempio lassù in cima alla roccia. Poi Gesù rispose: Ebbene, an­ch'io ti dico che tu sei Roccia, e sopra questa roccia costruirò la mia chiesa, e porte d'inferi non prevarranno contro di essa. Darò a te le chiavi del regno dei cieli, e ciò che (tu) abbia legato sopra la terra sarà legato nei cieli, e ciò che (tu) abbia sciolto sopra la terra sarà sciolto nei cieli (Matteo, 16, 16-19). Già in precedenza Simone era stato da Gesù chiamato Roccia, in aramaico Kepha (§ 278), ma quella prima volta non era stata comunicata la ragione e la spie­gazione dell'appellativo. Adesso la spiegazione è comunicata, ed è tanto più chiara davanti alla visione della roccia materiale che so­stiene il tempio dedicato al signore del Palatino.
Il tempio spirituale che Gesù costruirà al Signore dei cieli, cioè la sua Chiesa, avrà per roccia di sostegno quel suo discepolo che per primo lo ha procla­mato Messia e vero figlio di Dio. Anche le altre parole di Gesù sono chiare, alla luce delle circostanze in cui furono pronunziate. Gli Inferi (in greco Ade) corrispondono alla ebraica Sheol (§ 79), non però come generica dimora dei morti, bensì come dimora dei morti reprobi, ostili al bene e al regno di Dio; le porte di cotesta bolgia satanica, cioè tutte le sue massime forze (cfr. la sublime Porta), non prevarranno contro la costruzione di Gesù e contro la roccia che la sostiene. Tipicamente semitici sono anche i simboli delle chiavi e del legare e sciogliere. Ancora oggi in paesi arabi girano per le strade uomini con un paio di grosse chiavi legate ad una funicella e pendenti ostentatamente di qua e di là della spalla: sono i padroni di case, che fanno pompa in quella maniera della propria autorità. Il sira­bolo del legare e sciogliere (cfr. Matteo, 18, 18) conserva qui il valore che aveva nella terminologia rabbinica contemporanea, ove si ritrova usato frequentemente: i rabbini “legavano” quando proi­bivano alcunché, “scioglievano” quando lo permettevano; Rabbì Nechonja, fiorito verso l'anno 70 dopo Cr., usava premettere alle sue lezioni la seguente preghiera: “Ti piaccia, o Jahvè, Dio mio e Dio dei miei padri, che... noi non dichiariamo impuro ciò ch'è puro e puro ciò ch'è impuro; che noi non leghiamo ciò ch'e' sciolto e non sciogliamo ciò ch'e' legato”. L’ufficio del discepolo Roccia è dunque ben definito. Egli sarà il fondamento che sosterrà la Chiesa, e la sosterrà così saldamente che le avverse potenze infernali non prevarranno contro di essa. Egli inoltre sarà il maggiordomo di quella casa, le cui chiavi saranno perciò affidate a lui. Egli infine detterà legge nell'interno di quella casa, proibendo oppure permettendo alcunché, e le sue sentenze pronunziate sulla terra saranno tali quali ratificate nei cieli.

§ 398. La replica di Gesù a Simone Pietro è di una chiarezza che si direbbe abbagliante; né minore è la sua sicurezza testuale, giacché tutti gli antichi documenti senza alcuna eccezione concordano nel trasmetterci con precisione sillabica il nostro odierno testo. Eppure, com'è ben noto, questo testo ha fatto scorrere torrenti d'inchiostro, e si è recisamente negato che Gesù abbia conferito a Simone l'ufficio di essere roccia fondamentale della Chiesa, depositano delle sue chiavi e arbitro di legare e di sciogliere. Come mai questa negazio­ne? Gli antichi protestanti ortodossi assicuravano che Gesù non ha parlato affatto di Simone Roccia, ma di se stesso, e per il resto si è riferito a tutti gli Apostoli collettivamente e alla loro fede. Quando dice sopra questa roccia costruirò la mia chiesa, ecc., Gesù allunga un dito e lo rivolge verso se stesso, sebbene stia a parlare con Simone e di Simone. Quel dito allungato risolve la questione: esso è chiarissimamente sottinteso dal contesto, e si accorda spontanea­mente con le parole che seguono darò a te le chiavi del regno dei cieli e ciò che (tu) abbia legato, ecc. Come si vede subito, il ragio­namento è perfetto, purché si parta dal principio che bianco significa nero e nero significa bianco: lucus a non lucendo. I negatori moderni dell'ufficio di Simone hanno preso la strada pre­cisamente opposta.

Essi hanno trovato che la spiegazione degli antichi protestanti è di una goffaggine tale da tradire subito la tendenziosità settaria che l'ispira. No, rispondono essi, le parole di Gesù hanno precisamente quel significato che la tradizione e il buon senso vi hanno sempre ritrovato; su ciò è inutile arzigogolare: - Uno di questi nuovi negatori si esprime così: Simone Pietro... vive ancora, agli occhi di Matteo, in una potenza che lega e scioglie, che detiene le chiavi del regno di Dio e che e' l'autorità della Chiesa stessa... Si­mone Pietro e' la prima autorità apostolica in ciò che riguarda la fede, perché il Padre gli ha rivelato a preferenza il mistero del Fi­glio; in ciò che riguarda il governo delle comunità, perché il Cristo gli ha confidato le chiavi del regno; in ciò che riguarda la disciplina ecclesiastica, perché egli ha il potere di legare e di sciogliere. Non e' senza motivo che la tradizione cattolica ha fondato su questo testo il dogma del primato romano (Loisy). Gesù dunque ha veramente conferito a Simone l'ufficio in questione, secondo i nuovi negatori? Mai più! La ragione è che Gesù non ha mai pronunziato quelle parole; quel testo è tutto, o quasi tutto, falso o inventato; esso fu interpolato tra la fine del secolo I e gl'inizi del II o a Roma, a servizio della chiesa romana, oppure in Palestina. E le prove di tutto ciò? Non si è addotto nessun codice antico, nes­suna versione, nessuna citazione, che mostrino indizi sia pur vaghi d'interpolazione: si sono addotti argomenti a silentio (che tutti sanno quanto valgano) per cui scrittori cristiani dei secoli II e III o non citano il passo o ne citano, solo una parte. Si potrebbe forse pensare che gli antichi protestanti, beffeggiati dai moderni negatori per avere scoperto il dito allungato di Gesù, siano in grado di vendicarsi trion­falmente applicando ai beffeggiatori le parole di Orazio: Quod­cumque ostendis mihi sic, incredulus odi!

§ 399. Queste sono le ragioni, addotte da una parte e dall'altra, per negare l'ufficio di Simone. Ma la ragione vera e reale, eppure non addotta mai francamente ed esplicitamente, è la previa « im­possibilità » che Gesù abbia conferito quell'ufficio. Questa “impos­sibilità” è assoluta, indiscutibile, trascendente, e vale ben più della chiarezza del senso e della sicurezza testuale. Soltanto da questa roccia sono scaturiti i torrenti d'inchiostro accen­nati sopra, e soltanto sopra questa roccia si adunano concordemente negatori antichi e moderni. Scesi però dalla roccia e calati sul ter­reno esegetico-documentario, i concordi negatori discordano fra loro e si negano a vicenda. Secondo essi, dietro le spalle di chi si appella alla chiarezza del sen­so e alla sicurezza testuale s'erge l'ombra del papismo: papismo o no, i negatori alzerebbero tripudianti grida di trionfo se avessero a propria disposizione solo una metà degli argomenti strettamente “storici” di cui dispongono gli adombrati dal papismo. Ma hanno poi questi negatori pensato di riguardare qualche volta dietro le proprie spalle, per vedere se caso mai là si ergano le ombre di Lu­tero o di Hegel, e se unicamente quelle ombre suggeriscano ad essi i loro argomenti “storici”?

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