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Ultimo Aggiornamento: 06/08/2012 19:22
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06/08/2012 18:35

[SM=g27998] La donna adultera

§ 424. Egualmente in occasione della festa dei Tabernacoli è ri­portato l'episodio della donna adultera, che è collocato precisamente dopo il discorso dell'acqua simbolica e prima del discorso della luce simbolica (Giovanni, 8, 3-11). Ma sull'episodio grava la famosa que­stione della sua trasmissione, che sorge dai fatti seguenti. Il racconto dell'episodio manca nei più antichi codici greci unciali (salvo nel dibattuto codice D, del secolo vi) e in molti minuscoli, come pure nelle antiche versioni siriaca, copta, armena, e nei codici più autorevoli della versione latina pre-geronimiana. Fra gli antichi scrittori cristiani tacciono dell'episodio i Greci tutti quanti fino al secolo XI; lo ignorano anche i Latini più antichi, quali Tertulliano, Cipriano e Ilario, mentre sulla fine del secolo iv e nel v lo conoscono Paciano di Barcellona, Ambrogio, Agostino, e in seguito altri sempre più numerosi.
Altri codici greci, sia unciali sia specialmente minuscoli, o lasciano uno spazio nel luogo ove andrebbe il racconto dell'episodio, oppure riportano il racconto ma notandolo con un asterisco (che segnalava i passi aggiunti posteriormente e controversi). I codici stessi che riportano il racconto contengono una quan­tità eccezionale di varianti testuali, fenomeno ordinario di passi di­battuti. Si è anche notato che il racconto, mentre contiene espres­sioni linguistiche estranee allo stile abituale di Giovanni e affini invece a quello dei Sinottici, interrompe la concatenazione logica fra i due discorsi dell'acqua simbolica e della luce simbolica; e questa brusca interruzione sembra che fosse notata già nell'antichità, giac­ché un codice greco colloca il racconto non al suo posto solito ma dopo Giov., 7, 36, qualche altro lo relega in fondo al iv vangelo (dopo 21, 24), e infine quattro particolari codici (gruppo Ferrar) lo trasferiscono ad altro vangelo collocandolo dopo Luca, 21, 38. Riportano invece il racconto sei unciali greci meno antichi (oltre al suddetto D) e molti minuscoli; lo hanno anche parecchi codici della versione latina pre-geronimiana, quelli della Vulgata, dell'etiopica e alcuni recenti di altre versioni. D'altra parte, come risulta con buona probabilità da una notizia di Eusebio (Hist. eccl., III, 39, 17), sembra che l'episodio fosse già noto a Papia (§ 114) cioè già divul­gato nel primo ventennio del secolo II.

§ 425. Come risolvere la questione? L'assenza del racconto è do­vuta a una soppressione, oppure la sua presenza è dovuta a un'ag­giunta? La prima alternativa è scelta da S. Agostino (De coniug. adult., ti, 7, 6); egli pensa che il racconto sia stato soppresso nei codici da uomini di poca fede, i quali temevano peccandi impunitatem dan mulieribus suis. Senonché tale ragione, più psicologica che storica, non convince: in primo luogo perché, come osserva lo stesso S. Ago­stino, non fu dato nessun permesso di peccare da quel Gesù qui dixit: lam deinceps noli peccare; inoltre perché storicamente non è verosimile che semplici fedeli, laici e ammogliati, avessero tanta autorità nella Chiesa dei primi secoli da far sopprimere nelle sacre Scritture un passo di tanta ampiezza ed importanza: troppo gelosa era la Chiesa nel preservare intatte le sacre Scritture sia da inter­polazioni in più, sia da soppressioni in meno. Del resto, come e quando si sarebbe potuta effettuare una soppressione così radicale, che avrebbe cancellato ogni traccia del racconto da tutti i codici originali fino a mezzo il secolo IV? D'altra parte gli argomenti in favore del racconto hanno il loro innegabile peso; esso è riconosciuto anche da critici radicali, che considerano l'episodio come porzione antichissima della tradizione evangelica (Loisy), o come perla perduta dell'antica tradizione e casualmente ricuperata (Heitmiìller).
Altrettanto dicono i più auto­revoli studiosi cattolici, per i quali naturalmente il racconto è ispi­rato e fa parte delle sacre Scritture canoniche; fra essi appunto un editore neotestamentario conclude la sua ricerca dicendo che, nel testo del IV vangelo, il racconto dell'adultera è evidentemente una parte aggiunta... sebbene la sua alta antichità sia indiscutibile: perciò il racconto dev'essere annoverato fra le piu' preziose perle della tradizione; ma quale sia la prima origine del passo e come esso abbia trovato la strada per entrare nel vangelo di Giovanni, e' questione che rimane totalmente insoluta (Vogels). Proviene il racconto dal testo aramaico di Matteo (§ 114)? Sarebbe forse una noticina solitaria vergata dallo stilo di Luca? In favore di quest'ultima congettura deporrebbe il carattere del racconto, che è tutto di una misericordia infinita e ben degno dello scriba man­suetudinis Christi (§ 138). Ma dal punto di vista documentario dob­biamo confessare, purtroppo, la nostra ignoranza.

§ 426. Un giorno dunque, forse durante l'ottava dei Tabernacoli, Gesù, dopo aver passato la notte sul prediletto monte degli Olivi, di buon mattino ne scese, attraversò il Cedron, risalì ad occidente ed entrò nel Tempio: ivi il popolo accorse a lui nell'atrio esterno, ed egli sedutosi cominciò ad insegnare. Ad un certo punto irrompe nell'atrio un gruppo di Scribi e Farisei seguiti da un codazzo di gente; guardando essi torno torno nell'atrio, e scorto il cerchio di coloro che ascoltano Gesù vanno direttamente verso quella parte. Giunti, si aprono un varco tra la folla interrompendo la predica; di tra il codazzo che segue Scribi e Farisei si fanno avanti due o tre uomini che trascinano a forza una donna riluttante, e con un ultimo spintone la cacciano nello spazio rimasto vuoto davanti all'oratore; la donna, scarmigliata e coprendosi con le mani il viso per la vergogna, si accascia là a terra come un ciarpame di stracci. Gli Scribi e i Farisei spiegano allora a Gesù di che si tratta. Quel­la là è una donna sorpresa in flagrante adulterio: il complice, come per lo più succede (Daniele, 13, 39), pare che sia riuscito a fuggire, ma la donna è stata presa; ella non può negare la flagranza del delitto, e quindi dev'esser punita secondo la Legge. Ora, Mosè nella Legge ha comandato che siffatte donne siano lapidate (Deuterono­mio, 22, 23 segg.; cfr. Levitico, 20, 10).
Che ne pensa dunque il maestro? Come bisognerà comportarsi con questa delinquente? Dopo tale scena l'evangelista avverte: Dicevano questo per metterlo alla prova, onde avere (di che) accusarlo. Era quanto potevamo immaginarci, anche indipendentemente dall'avviso dell'evangelista. L'occasione, senza dubbio, era eccellente per quei Farisei. In primo luogo, quell'andare in giro per la città trascinandosi appresso la donna tremante e piangente permetteva ad essi di fare una ma­gnifica figura, come custodi esattissimi della Legge e guardiani ze­lanti della moralità. Del delitto doveva giudicare il Sinedrio (§ 59); ma che vantaggio ci sarebbe stato a condurre la donna direttamen­te al Sinedrio senza tanto strepito e clamore? Se tutto si fosse fatto con modesta riservatezza, nessuno avrebbe potuto apprezzare i meriti di loro, Scribi e Farisei. Inoltre, questo spiegamento di forze offriva un'altra opportunità bellissima. C'era quel Rabbi galileo che, con la sua ostentata indipendenza dai grandi maestri della Legge e con la sua crescente autorità sul popolo, meritava bene una le­zione pubblica e solenne, e precisamente su una questione di Legge. Il caso di quella donna sembrava fatto apposta per impartirgli que­sta lezione. Prima di consegnare la colpevole al Sinedrio bisognava sottoporre il caso a lui, come per averne un parere: si doveva lapi­dare o no quell'adultera?
Se egli avesse risposto di no, si sarebbe svelato da se stesso come un rivoluzionario, sovvertitore dell'ordine pubblico e abolitore della Legge mosaica. Se avesse risposto di essere inesorabili ed eseguire la lapidazione, avrebbe perduto quella sua autorità sul popolo, che gli era conciliata specialmente dai suoi pre­cetti di misericordia e di bontà. L'occasione, dunque, era davvero bellissima; i Farisei la colsero, e dettero battaglia a Gesù.

§ 427. La battaglia fu accettata Gesù, interrotta ormai la predica, ascoltò l'esposizione del caso, rimanendo tranquillamente assiso come stava prima. Quando gli accusatori dell'adultera ebbero finito, egli non rispose parola; soltanto, come persona che non abbia nulla da fare e cerchi d'ingannare il tempo, si curvò verso terra e si dette a tracciare col dito segni di scrittura sul pavimento. Il suo atteggia­mento diceva in sostanza ch'egli non aveva alcuna risposta da co­municare, e che stava li ingannando il tempo fino a che la questione fosse finita.
Gli accusatori aspettarono alquanto: Gesù seguitava a tracciare svolazzi in terra. Quelli ripeterono l'accusa, rinnovando la domanda, aspettarono ancora; solo dopo altro tempo Gesù len­tamente si rialzò sul busto, girò lo sguardo sugli accusatori, sulla folla, sulla donna, poi disse con semplicità: Chi di voi e senza pec­cato, lanci per primo su lei (una) pietra. Detto ciò come la cosa più naturale di questo mondo, si curvò di nuovo verso terra e ricomin­ciò a tracciare svolazzi. Tutto era finito, anzi non avrebbe dovuto neppur cominciare: l'interpellato era e si manteneva estraneo a quel­la questione, proposta da quegli accusatori, in quelle cincostanze; egli preferiva tracciare svolazzi, e se aveva dato quella risposta, lo aveva fatto cedendo alle loro insistenze. Agissero loro: purché si conformassero alla norma da lui data. Ahi, abi! quella norma li toccava intimamente! Non si trattava di giudicare su un elegante caso giuridico, per stabilire quanti colpi di staffile doveva ricevere il dorso altrui o quanto doveva esser alto il palo a cui si doveva impiccare il corpo altrui; si trattava di un giudizio intimo, di un tribunale invisibile in cui accusatore e giudi­ce erano tutt'uno, il tribunale della propria coscienza. Sarebbe sta­to in realtà facilissimo rispondere a quel Rabbi: Io sono senza pec­cato, e quindi lancerò per primo una pietra! - Ma con lui non era prudente scherzare; padrone della natura e scrutatore degli spiriti come si era più volte mostrato, quel Rabbi era capace di ripetere e precisare l'apostrofe dell'antico Daniele ai vecchioni di Susanna (Daniele, 13, 57) e di rispondere lì davanti alla folla: Sei senza peccato tu, che il giorno tale con la tal donna maritata hai fatto questo, e il giorno tal altro con la tal altra hai fatto quest'altro?!... - No, no: era troppo pericoloso stuzzicare quel vespaio. Perciò av­venne che quelli, quand'ebbero udito, se ne uscirono uno per uno cominciando dai piu' anziani (fino agli ultimi), e fu la­sciato solo Gesu' e la donna che stava in mezzo. Rialzatosi poi Gesu' disse a lei:”Donna, dove sono? nessuno ti condannò?”. Quella allora disse: “Nessuno, Signore!”.
Disse allora Gesù: “Nemmeno io ti condanno. Va', da questo momento non peccar più!”. Colui che era venuto non ad abolire la Legge di Mosè ma a com­pierla (§ 323), non aveva violato quella Legge e per di più ne aveva raggiunto l'intimo spirito; l'intimo spirito di ogni legge onesta non può essere che distogliere dal male e indirizzare al bene. La giu­stizia era stata sublimata nella misericordia.


[SM=g27998] Il cieco nato

§ 428. Dopo il discorso sulla luce spirituale, terminato senza effetto e col tentativo di lapidazione, Giovanni narra immediatamente una diffusione di luce materiale che ottiene il suo effetto, ossia la gua­rigione del cieco nato: il fatto dovette avvenire un poco più tardi, quando la festa dei Tabernacoli era finita da qualche tempo e il bollore degli animi si era calmato alquanto. Un giorno, di sabbato, Gesù passò vicino a un uomo cieco dalla nascita che chiedeva l'elemosina, forse nei pressi del Tempio. Riflet­tendo su quell'infelice, i discepoli che accompagnavano Gesù gli domandarono: Rabbi, chi peccò, costui o i suoi genitori, perché nascesse cieco? Si scorge in questa domanda la vecchia opinione ebraica, secondo cui il male fisico era sempre conseguenza e puni­zione del male morale: opinione già dimostrata fallace dal nobi­lissimo autore del libro di Giobbe, eppure tenacemente prolungatasi presso dotti e indotti. Gesù respinse l'opinione dicendo che nè quel­l'infelice nè i suoi genitori avevano peccato, e che quel caso singolo era stato permesso affinché si manifestassero le opere di Dio: Fin quando (io) sia nel mondo, luce sono del mondo (Giov., 9, 5). Detto ciò, Gesu' sputò in terra, fece con lo sputo un po' di fango, mise quel fango sugli occhi del cieco, e poi gli disse: Va', làvati nella piscina del Siloam. - Quello andò, si lavò, e tornò che vedeva. L'evangelista spirituale, appena ha scritto il nome di Siloam, vi aggiunge una glossa di sapore mistico, avvertendo che quel nome si traduce z ìnviato ~. E in realtà il greco Siloam sta per l'ebraico Shiloh: questo era il nome dato originariamente al canale sotter­raneo che raccoglieva le acque della fonte di Gibon (§ 384) convogliandole e introducendole dentro la città; in virtù di tale fun­zione al canale era stato dato il suddetto nome col significato di inviante (il liquido), o anche di (liquido) inviato, e dal canale il nome si era esteso naturalmente anche alla piscina in cui il canale terminava. Era la piscina del Siloe (§ 76). L'evangelista spirituale, che ha parlato dell'acqua simbolica convogliata sul mondo da Gesù, ripensa volentieri a lui come a soprannaturale liquido inviato; in quel liquido deve lavarsi l'intero genere umano privo di luce, come il cieco nato si lavò nella piscina del Sibe, e in ambedue i casi il risultato sarà il medesimo.

§ 429. Avvenuta la guarigione, seguono le inevitabili discussioni, perché il guarito era un mendicante di mestiere, notissimo a tutta la città e tutti sapevano ch'era nato cieco, mentre adesso vedeva. Perciò alcuni dicevano: E’ proprio lui! - Altri invece: Macché! uno che rassomiglia al cieco! - Il guarito, interpellato, risponde­va: Ma no, sono proprio io, il mendicante nato cieco! - Gli altri allora: E come ti si sono aperti gli occhi? - E quello, con sempli­cità: Eh! Quel tale che si chiama Gesù ha fatto un po' di fango; me l'ha messo sugli occhi; mi ha detto: “Va', làvati al Siloam”; ci sono andato; mi sono lavato; ho veduto. Ecco tutto! - Per approfondire l'indagine bisognava interpellare Gesù stesso. - Dov'è andato? domandarono al guarito. Quello rispose che non lo sapeva. Il caso era grave, sia per il fatto in sé, sia perché il tutto era avve­nuto di sabbato; perciò il guarito fu condotto ai Farisei. I Farisei ripeterono le stesse domande: ricevettero le stesse risposte. Nessun dubbio era possibile: quell'uomo lì davanti era il cieco nato, e ades­so vedeva benissimo. Tuttavia c'era di mezzo il sabbato. Quindi alcuni Farisei sentenziarono: Quest'uomo non è da Dio, perché non osserva il sabbato! - E infatti aveva violato il riposo sabbatico, facendo quella ditata di fango che aveva messo sugli occhi del cieco. Ma ci furono altri, un po' meno farisei, che osservarono: Ma se fosse un peccatore, come potrebbe fare prodigi di tal genere? - E i due gruppi dissenzienti cominciarono a discutere fra loro. Si, che il cieco fosse guarito era cosa certa; ma cosa anche più certa era che chi faceva una ditata di fango in giorno di sabbato era un peccatore, un empio, un ese­crando, epperciò non poteva operar miracoli. Non c'era via d'uscita. Nell'imbarazzo si volle conoscere, per aver qualche lume, il parere del guarito; gli fu chiesto: Che pensi tu di quel tale che ti ha aperto gli occhi? - E quello senz'altro: Per me, è un profeta!

§ 430. Male, malissimo. Si stimò necessario fare un passo indietro, e si ritornò sui dubbi, già scartati, riguardo all'identità del guarito. Si mandarono a chiamare i genitori di lui: Costui è proprio il figlio vostro? ~ proprio nato cieco? E come va che adesso ci vede? - I due vecchi, intimoriti da quell'accolta d'illustri dottori, si ripararono dietro alla realtà dei fatti, declinando ogni responsabilità loro per­sonale: Che questo sia il figlio nostro è certo, ed è pure certo ch'è nato cieco; ma come sia che adesso ci veda, o chi gli abbia aperto gli occhi, noi non ne sappiamo nulla. Interrogate lui stesso! Ha l'età: è maggiorenne; risponda egli stesso dei casi suoi! Riferita questa risposta, l'evangelista avverte: Ciò dissero i genitori di lui perché avevano paura dei Giudei; già infatti si erano accordati i Giudei che, se alcuno lo riconoscesse (come) Cristo (Messia), fosse espulso dalla sinagoga. I vecchi sagacemente avevano evitato il pericolo, e da essi non si poteva cavar nulla di decisivo. Gl'inquisitori allora tornarono di nuovo alla carica sul figlio. Presero perciò un tono esortativo e confidenziale; commovendosi, il cieco avrebbe forse “cantato”: Su dunque! Da' gloria a Dio! Noi sappiamo benissimo che questo tale è un peccatore. Dicci con schiet­tezza come sono andate le cose! - Quello rispose: Se sia peccatore o no, io non lo so; so unicamente che prima ero cieco, e adesso ci ve­do! - E quegli altri: Ma che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi? - Il guarito, che si serviva la prima volta degli occhi per contemplare quegli inquisitori, mentre forse avrebbe preferito andar fuori ad ammirare visioni più piacevoli, cominciò a perder la pazien­za: Ma ve l'ho già raccontato! Perché volete sentirlo di nuovo? Volete forse anche voi diventar discepoli di Gesù? - Apriti cielo! Un diluvio di maledizioni e d'improperi cadde addosso all'impertinente che aveva fatto l'ironica domanda, e fu ritorta su lui l'obbrobriosa insinuazione: Tu sei discepolo di quel tale; noi siamo discepoli di Mosè. Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Iddio; costui invece non sappiamo donde sia (§ 419). - Ma l'investito non si lasciò abbattere, e replicò impavido: Ma appunto qui sta la stranezza, che voi non sapete donde egli sia, e quello invece mi ha aperto gli occhi. E’ cer­tissimo che Dio ascolta, non già i peccatori, ma i giusti e i pii; come pure, dacché mondo è mondo, nessuno ha mai potuto fare quello che ha fatto! - Quale irriverenza!
Ai più insigni rappresentanti della “tradizione” e della sapienza giudaica pretendeva insegnare quel cialtrone tracotante, generato per di più nella colpa come la sua cecità aveva dimostrato! Gli fu perciò risposto sdegnosamente: Sei nato tutto intero nel peccato, e vieni a insegnare a noialtri? Fuori di qua! - E fu messo alla porta. Lo scacciato incontrò poco dopo Gesù, che gli disse: Credi tu nel figlio dell'uomo (variante: di Dio)? Il guarito rispose: E chi e', Si­gnore, affinché io creda in lui? Gesù soggiunse: E lo hai visto (allu­dendo alla guarigione ottenuta), e colui che ti parla e' (appunto) esso. Allora il guarito esclamò: Credo, Signore! e si prostrò davanti a lui. Gesù soggiunse: Per una cernita venni io in questo mondo, (ciò) affinché i non vedenti vedano e i vedenti diventino ciechi. Essendosi nel frattempo avvicinati alcuni Farisei, udirono le ultime parole e le interpretarono come allusione a loro stessi; chiesero perciò a Gesù: Siamo forse ciechi anche noi? Gesù rispose: Se foste (soltanto) ciechi, peccato non avreste; ora invece dite “Vediamo!”, (e perciò) il vostro peccato permane. In altre parole, la cecità è generale, ma si può guari­re da essa soltanto se si comincia col riconoscere di esserne affetti, mentre non ne guarirà giammai colui che s'illude di vedere; questa illusione è più dannosa della cecità stessa, perché è il suo settemplice sigillo.

§ 431. L'irriducibile tenacia dei Giudei nel non riconoscere la guarigione del cieco nato è di una storicità perfetta, ed è anche un fenomeno storicamente regolarissimo. Questi Farisei troneggiavano su certi loro piloni che non dovevano mai crollare, anche se tutto il resto del mondo fosse crollato: l'osservanza farisaica del sabbato, l'appartenenza all'associazione farisaica, e cose simili, erano i loro piloni, dall'alto dei quali essi giudicavano l'universo intero, approvando ciò che rafforzava i piloni e riprovando ciò che li indeboliva. Citano essi al loro tribunale il cieco guarito e i suoi genitori, investigano sulle testimonianze, almanaccano scappatoie, senza però ottenere la spiegazione desiderata. Non fa niente: si lasci crollare tutto il resto, ma rimangano i piloni. Ebbene confrontando serenamente i fatti, lo storico odierno trova che dopo tanti secoli una certa parte dell'umanità a cambiato ben poco nei suoi procedimenti riguardo ai dati della vita di Gesù: ha cambiato soltanto i nomi, ma i procedimenti sono rimasti in sostanza gli stessi. Quei piloni incrollabili che una volta si chiamavano osservanza del sabbato, e simili, oggi si chiamano assurdità del miracolo, impossibilità del soprannaturale, e simili: ma i piloni, agli effetti pratici, sono sempre gli stessi. Si citano al tribunale del razionalismo i vari documenti, s'investigano le testimonianze, si almanaccano teorie, senza però ottenere la spiegazione desiderata, anzi ottenendo un Gesù sempre più soprannaturale (§ 221 segg.). Non fa niente: si lasci crollare tutto il resto, ma rimangano i piloni. E cosi rimane la cecità, col suo settemplice sigillo.


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