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Ultimo Aggiornamento: 06/08/2012 19:22
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06/08/2012 18:52

DALL'ULTIMA FESTA DELLA DEDICAZIONE FINO ALL'ULTIMO VIAGGIO LUNGO LA GIUDEA

Alla festa della Dedicazione


§ 460. Nella precedente operosità di Gesù furono consumati circa due mesi e mezzo, cioè l'intervallo di tempo che separava la festa dei Tabernacoli (§ 416) da quella delle Encenie, ossia della Dedicazione del Tempio (§ 77). Poiché Giovanni (10, 22) dice esplicitamente che a quest'ultima festa Gesù intervenne, viene spontaneo identificare questo intervento con uno dei viaggi minori appena accennati da Luca (§ 415). Era dunque la fine di dicembre dell'anno 29; inter­rompendo la sua vaga peregrinazione lungo la Giudea, Gesù si recò nella capitale per continuare ivi il suo ministero durante quella na­zionalistica « festa dei lumi ». La sua presenza in città fu subito notata le recenti discussioni sulla sua missione e il suo aggirarsi nella circostante Giudea avevano reso il Rabbi galileo oggetto di particolare attenzione e sorveglianza da parte delle supreme autorità del giudaismo. Difatti un giorno del­l'ottava festiva, mentre Gesù si intratteneva nel Tempio e insegnava passeggiando nel “portico di Salomone” (§ 48) forse a causa della pioggia - il minuzioso Giovanni ricorda appunto che era inverno - gli vennero attorno i soliti avversari Giudei e gli dissero: Fino a quando tieni sospeso l'animo nostro? Se tu sei il Cristo (Messia), dic­celo francamente! La forma di questa dichiarazione è non solo ami­chevole, ma quasi di raccomandazione e di preghiera: si direbbe che quegli interroganti aspettassero soltanto la franca dichiarazione che Gesù era l'aspettato Messia per darsi anima e corpo a lui. La so­stanza dell'interrogazione è invece un'insidia: gli avversari aspettano quella franca dichiarazione soltanto per ritorcerla in accusa contro Gesù e rovinarlo, come mostreranno poi i fatti.

Il carattere subdolo dell'interrogazione è rivelato da Gesù, il quale risponde fornendo la sostanza della dichiarazione attesa, ma non nella forma desiderata, giacché dichiara chi egli sia, senza però offri­re appiglio all'insidia: Ve (lo) dissi e non credete: le opere che io faccio nel nome del Padre mio, queste attestano circa me; ma voi non credete, perché non siete delle mie pecore. Le mie pecore odono la voce mia, e io le conosco e mi seguono; e io do ad esse vita eter­na, e non periranno in eterno e non le rapirà alcuno dalla mia mano. Ciò che il Padre mio mi ha dato è maggiore di tutte le cose, e nessuno può rapir(lo) dalla mano del Padre. (Ora), io e il Padre siamo una sola cosa (Giovanni, 10, 25-30). Gli interroganti avevano sperato che Gesù rispondesse esplicitamente “io sono il Mes­sia”; Gesù invece ha risposto in sostanza “Che io sia il Messia ar­gomentatelo dalle opere che io faccio”, evitando una dichiarazione precisa e netta, come già aveva fatto con gli stessi avversari alla fe­sta dei Tabernacoli (§ 422). Anche il motivo di questa maniera in­diretta di rispondere è il medesimo; considerando serenamente i mi­racoli di Gesù, tutti potevano concludere che era giunto... il regno d'iddio (§ 444) e che egli era il Messia, mentre questo appello ai miracoli non offriva appiglio a denunzie politiche e a violenze; se invece Gesù si fosse con termini espliciti dichiarato Messia davanti a quegli avversari, avrebbe fornito loro occasione di accusano pres­so le autorità romane come agitatore politico, o anche di trascendere ad atti di violenza immediata contro di lui.

§ 461. Infatti, appena udite le ultime parole di Gesù, i Giudei pre­sero di nuovo le pietre per lapidarlo; l'evangelista con l'avverbio di nuovo vuoI ricordare l'analogo tentativo fatto ai Tabernacoli pochi mesi prima. In quell'occasione Gesù si era proclamato anteriore ad Abramo (§ 423), si era descritto come buon pastore di affezionate pe­core (§ 432 segg.), ed aveva anche risaputo del tentativo fatto dai Farisei di “rapire dalla sua mano” una di quelle pecore, cioè il cieco nato scacciato dagli inquisitori, ed espulso conseguentemente dalla sinagoga (§ 430). Qui Gesù va assai più oltre: in linea prelimi­nare afferma che gli avversari non credono in lui perché non sono del numero delle sue pecore, e che queste non possono essere rapite via dalla mano di lui come neppure dalla mano del Padre; infine, rivela la ragione fondamentale di tutto ciò, la quale è che Gesù e il Padre sono una sola cosa. Dunque Gesù, pur non proclamandosi esplicitamente Messia, si proclama addirittura Dio? Cosi interpretarono le sue parole i Giudei con logica inappuntabile, e lo dichiararono apertamente. Vedendoli infatti raccogliere le pie­tre, Gesù domandò loro: “Molte opere buone vi mostrai (fatte per autorità ricevuta) dal Padre; per quale opera fra esse mi lapidate?”. Gli risposero i Giudei:”Per opera buona non ti lapidiamo, ma per bestemmia, e perché, essendo tu uomo, fai te stesso Dio!”. Il furo­re per la lapidazione è momentaneamente calmato: in Oriente sui mercati e nei fondachi, nei luoghi pubblici e nei privati, gli animi si accendono ad un tratto per un nonnulla: si grida, si gesticola, tea­ tralrnente, senza conseguenze tragiche. Così avvenne quella volta, e i minacciosi ascoltarono le spiegazioni di Gesù, che disse: Eppure nella vostra Legge sta scritto quel passo: “Io dissi - Siete Dei –“ (cfr. Salmo 82, 6 ebr.).
Se dunque Dio stesso, rivolgendosi agli uo­mini li chiama Dei, e fa ciò nella sacra Scrittura la cui testimonianza è irrefragabile; perché accusate di bestemmia me per aver detto che sono figlio di Dio, se il Padre stesso mi ha santificato e inviato nel mondo? Ad ogni modo, guardate le mie opere: se non faccio le opere del Padre mio, non mi credete; ma se le faccio, lasciatevi con­vincere da esse, e allora conoscerete che in me (e') il Padre e io (so­no) nel Padre (Giovanni, 10, 34-38). Nel passo della Scrittura addotto a prova, il termine Dei è usato in senso improprio, perché si riferisce ai giudici umani, che rappresen­tano l'autorità di Dio nei tribunali. La prova tuttavia era efficace come argomento ad hominem, per ridurre al silenzio gli avversari di Gesù rispettosi della sacra Scrittura: se la Scrittura stessa chia­mava Dei gli uomini, i Giudei non potevano accusarlo di bestem­mia avendo egli maggior ragione per attribuirsi quel termine. Anche qui Gesù non scese a particolari, che avrebbero gettato altra esca sul fuoco; tuttavia, riferendosi alla frase incriminata secondo cui egli e il Padre erano una cosa sola, precisò dichiarando in me (e') il Padre e io (sono) nel Padre.
Lungi dall'essere un'attenuazione, questa spiegazione era una conferma della frase. Anche questa volta i Giu­dei capirono perfettamente, e il fuoco che era appena sopito divampò nuovamente: Cercavano pertanto di nuovo di afferrario; ma (egli) uscì fuori dalle loro mani. Quei Giudei erano molto intelligenti: capirono subito e perfettamente ciò che gli Ariani, tre secoli più tardi, non vollero capire, cioè che dalle parole di Gesù risulta indubbiamente che egli si è dichia­rato eguale in tutto al Padre. I critici radicali odierni sono intelli­genti quanto quegli antichi Giudei, e forse anche più: capiscono anch'essi perfettamente che dalle parole di Gesù risulta una dichiarazione di eguaglianza al Padre, ma parecchi di essi - tanto per non essere da meno degli antichi Ariani - assicurano che Gesù non pronunziò mai quelle parole, le quali sarebbero un'esposizione teorica del dogma cristiano dovuta all'autore del IV vangelo.
Le prove “storiche” di questa spiegazione sono tutte nell'assicurazione di chi la propone, e nella solita “impossibilità” che Gesù abbia pronun­ziato quelle parole. Ritorna insomma l'identico procedimento già seguito a proposito dell'episodio di Cesarea di Filippo (§ 398): giac­ché in sostanza quella critica demolitrice, se è povera e nuda di ar­gomenti storici, è anche monotona e uniforme nei suoi procedimenti dialettici.


[SM=g27998] Gesù nella Transgiordania

§ 462. Poco dopo la festa della Dedicazione, ossia nei primi giorni dell'anno 30, Gesù si recò in Transgiordania (Perea), precisamente nella zona ove Giovanni il Battista aveva amministrato il suo battesimo (§ 269) e vi si trattenne qualche tempo (Giovanni, 10, 40; cfr. Matteo, 19,1; Marco, 10, 1; Luca, 13, 31 segg.); di là tuttavia egli dovette in seguito irradiarsi per varie escursioni missionarie nelle par­ti settentrionali della Giudea, attraversando anche la Samaria e raggiungendo la Galilea, dalla cui direzione lo fa scendere Luca (17, 11) nel suo ultimo e definitivo viaggio verso Gerusalemme (§ 414). Perciò anche per questo periodo continua l'imprecisione di cronolo­gia e di topografia che già rilevammo, e la narrazione di Luca prosegue ad essere aneddotica (§ 415). Un tale una volta l'interroga: Signore, saranno pochi coloro che si salvano? - Gesù risponde impiegando idee che già abbiamo udite nel Discorso della montagna secondo Matteo (§ 333): Sforzatevi di entrare per la porta stretta, giacché molti cercheranno invano di en­trare quando il padrone, visto che gli invitati sono tutti giunti, si è levato da sedere ed è andato a chiudere l'uscio; allora sarà troppo tardi, e a quelli che busseranno per entrare sarà risposto: Non so donde siete! L'interrogazione fatta a Gesù risentiva dell'opinione diffusa a quei tempi nel giudaismo, che gli eletti fossero in numero molto minore dei reprobi.
Gesù non respinge né approva tale opinione, ma solo invita a sforzarsi per entrare nella sala del convito non essendo facile l'ingresso. E’ vero che l'interrogante è giudeo, membro del popolo eletto e connazionale di Gesù: ma tale qualità non serve a nulla per avere un ingresso di favore. Prosegue infatti Gesù: Quando vi vedrete cosi esclusi, insisterete dicendo « Ma come? Abbiamo mangiato e bevuto insieme con te, e tu hai insegnato nelle nostre piazze!“ eppure vi sarà ancora risposto “Non so donde siete; lungi da me voi tutti operatori di iniquità” (§ 333). Voi ri­marrete là ove è pianto e stridore di denti, pur vedendo i vostri antenati Abramo Isacco e Giacobbe, nel regno di Dio. Né i posti lasciati vuoti da voi a quel convito rimarranno vuoti, giacché giungeranno altri invitati non giudei da Oriente ed Occidente, da Settentrione e Mezzodi, e s'assideranno a mensa nel regno di Dio!

§ 463 Si avvicinarono poi a Gesù alcuni Farisei e gli dissero in tono confidenziale: Va' fuori, allontanati di qua, perché Erode vuole ucciderti (Luca, 13, 31). Questo Erode è Antipa, l'assassino di Giovanni il Battista; trovandosi allora Gesù nella Transgiordania, era appunto sul territorio di lui: di qui il consiglio datogli da quei Fa­risei. Ma come stavano in realtà le cose? Aveva Antipa vera intenzione di mettere a morte Gesù? Molto probabilmente no, ché se l'avesse avu­ta, l'avrebbe eseguita con segretezza e facilità. Egli piuttosto comin­ciava ad esser seccato di quel Rabbi galileo, ricomparso adesso nel suo territorio a commuovere turbe e sovvertire istituzioni e che nella sua fisionomia morale rassomigliava tanto al Giovanni da lui ucciso; questa sua vittima doveva stargli sempre fissa davanti agli occhi, qua­si per continuare con più potenza il suo ufficio di censore, e il tetrarca non aveva alcun desiderio di disturbare ancor più le sue notti adulterine facendo una vittima anche di Gesù. Si allontanasse costui spontaneamente dal suo territorio, senza costringerlo a ricorrere alla forza. Ma come indurlo a questa partenza? C'erano i Farisei pronti a questo servizio; se com'è probabile (§ 292) - appunto essi si erano prestati come mediatori per attirare Giovanni il Battista sul territorio di Antipa e farlo catturare da lui, adesso in compenso fa­cessero la mediazione inversa inducendo Gesù ad allontanarsi con lo spauracchio della morte: e i Farisei si sarebbero prestati volentieri a questo servizio perché, attirato che avessero Gesù nella zona di Gerusalemme, più facilmente avrebbero fatto di lui ciò che volevano. Una fine astuta da volpe.

Gesù infatti, sapendo benissimo come stavano le cose, rispose a quei premurosi Farisei: Andate a dire a questa volpe: “Ecco, scaccio demonii e compio guarigioni oggi e domani, e al terzo (giorno) son consumato; senonché e' necessario che oggi e domani e il dì seguente io cammini, perché non e' conveniente che un profeta perisca fuori di Gerusalemme”. La risposta da portare alla volpe, ossia ad Antipa, lo esortava a non preoccuparsi: Gesù avrebbe continuato la sua operosità taumaturgica, nel territorio del tetrarca o altrove, ancora due giorni e al terzo giorno l'avrebbe cessata ed egli stesso sarebbe stato consumato; ma questa consumazione della sua vita non sarebbe avvenuta nel territorio di Antipa bensì a Gerusalemme, tanto per rispettare il tragico privilegio di questa città di es­sere l'assassina dei profeti. Ancora una volta, dunque, Gesù si appella nettamente alle sue opere taumaturgiche come alle prove della sua missione; inoltre affer­ma che questa missione durerà ancora un giorno, un secondo giorno, e parte di un terzo.

E’ questa indicazione di tempo soltanto vaga e generica (come, riferendosi al passato, si direbbe “ieri, l'altro ieri e tre giorni fa”), oppure vuole essere una delimitazione ben precisa? Il primo caso è certamente possibile, ma il secondo sembra più pro­babile; se Gesù pronunziava queste parole nel gennaio dell'anno (§ 462), circa due mesi e mezzo lo separavano dalla sua morte, e questi sarebbero i due giorni e mezzo qui accennati.


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