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Ultimo Aggiornamento: 06/08/2012 19:22
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06/08/2012 19:06

[SM=g27998] Un ricco si presenta a Gesù. Considerazioni sulla ricchezza

§ 484. Quando Gesù stava per allontanarsi dal luogo ove gli erano stati presentati i bambini, si presentò frettoloso un giovane che ingi­nocchiatosi davanti gli domandò: “Maestro buono, che cosa farò perché (io) possa ereditare (la) vita eterna?”. Ma Gesu' gli disse:”Perché mi dici buono? Nessuno (é) buono se non uno, Iddio” (Marco, 10, 17-18). Già rilevammo (§121, nota) come i termini di. questo dialogo, confermati da Luca, appaiono in maniera diversa presso Matteo: si temette infatti che i termini, com'erano impiegati in Mar­co e Luca, offrissero appiglio a scandalo potendo essere interpretati come negazione della bontà di Gesù e della sua divinità; e quindi il traduttore greco del Matteo aramaico, pur conservando material­mente i termini, li impiegò in maniera diversa per togliere ai suoi lettori ogni occasione di malinteso. Ma, appunto perché più difficile (§ 480), il testo di Marco e Luca ha in suo favore ogni probabilità di essere il più antico e il più esatto nel riportare le parole di Gesù: il testo di Matteo, più facile, rispecchia meglio l'impiego che del dia­logo faceva la catechesi cristiana posteriormente alla pubblicazione dei vangeli di Marco e di Luca. Riportandosi alle circostanze storiche, i termini del dialogo si spie­gano agevolmente.
L'appellativo Maestro buono (Rabbi taba) non era mai usato parlando a rabbini, neppure ai più autorevoli, poiché sembrava esagerata adulazione: un rabbino si riteneva sufficiente­mente onorato dal termine Maestro, mentre colui al quale spettava l'appellativo di buono era a rigore soltanto Dio. Qui il giovane, che ha visto Gesù abbracciare e accarezzare i bambini, lo chiama buono più nel senso umano e familiare che in quello accademico e filosofico. Gesù ne prende occasione per offrire al giovane la maniera di approfondire la conoscenza del maestro a cui si rivolge; scendendo sullo stesso piano di lui (come aveva già fatto con la Samaritana; Gio­vanni, 4, 22), egli dice in sostanza al giovane: « Tu mi chiami mae­stro come qualunque altro dottore della Legge, e per di più mi chia­mi buono. Perché mi dài questo appellativo? Non sai che, secondo l'uso comune, esso è riservato a Dio? ». Il giovane avrebbe potuto giustificare l'uso dell'appellativo rispondendo: “Ma appunto tu sei il figlio di Dio!”. E invece non rispose. Si aspettava veramente Gesù questa risposta da quel giovane, forse ignaro; oppure aveva egli cer­cato di provocarla affinché in cuor loro rispondessero i discepoli, non ignari (§ 396), ch'erano presenti? Poiché il giovane non dette risposta, Gesù continuò per soddisfare alla richiesta di lui: Se poi vuoi entrare nella vita, osserva i comanda­menti. Il giovane chiese: Quali? - Gesù allora, confermando ancora una volta la Legge ebraica, gli recitò il Decalogo: Non ucciderai; non commetterai adulterio; ecc. Il giovane, meravigliato, replicò: Ma tutto ciò io l'ho osservato fin dalla mia prima giovinezza! Vorrei sapere se mi manca ancora qualche altra cosa. - Dopo questa fidu­ciosa e volenterosa risposta Gesù, a detta di Marco (10, 21), riguardatolo lo amò, ossia lo fissò con chiara espressione di benevolenza, e poi gli disse: Ti manca una cosa. Se vuoi essere perfetto, va', vendi tutti i tuoi beni, distribuisci ai poveri il ricavato, ché avrai un tesoro nei cieli; e poi seguimi! - A tale invito, quale risulta in complesso da tutti e tre i Sinottici, avvenne un cambiamento di scena: il giovane già cosi ardente e volenteroso diventò a un tratto gelido e afflittissi­mo (Luca, 18, 23) perché possedeva molti beni ed era assai ricco.
E cosi' ottenebrato, si allontanò. L'amara proposta di alienare tutti i propri beni era stata addolcita dalla promessa di un tesoro nei cieli, conforme alla sanzione univer­sale della dottrina di Gesù (§ 319), ma il palato del giovane sentì poco o nulla il dolce e moltissimo l'amaro; a lui il futuro tesoro nei cieli parve troppo lontano per poterlo preferire alle sue grosse anfore ripiene di lucenti sicli e custodite gelosamente dentro qualche occulto ripostiglio. Buon giovane, senza dubbio, ma d'una bontà comune e terra terra, mentre Gesù aveva ammonito che ai suoi seguaci poteva chiedere ad ogni momento di essere giganti di eroismo (§ 464). Quel giovane sarebbe stato certamente un ottimo magistrato dell'Impero romano, mentre al primo scrutinio per essere assunto quale alto ma­gistrato del regno dei cieli risultò deficiente: per questo regno egli non aveva l'animo tanto nobile quanto quell'ignobile pubblicano di Levi, che aveva posseduto forse meno sicli ma più generosità (§ 306).

§ 485. Partito il giovane, sul contegno di lui Gesù fece alcune con­siderazioni con i discepoli. “Quanto difficilmente - esclamò egli - quelli che hanno ricchezze entreranno nel regno d'Iddio!”. Senon­ché i discepoli rimanevano stupiti delle parole di lui. Gesu' però, di nuovo rispondendo, dice loro: “Figli, quant'e' difficile entrare nel regno d'Iddio! E’ piu' agevole per un camello passare attraverso la cruna dell'ago, che per un ricco entrare nel regno d'Iddio”. Quelli allora rimanevano sempre piu' stupefatti, dicendo tra loro: “E chi può salvarsi?”. Riguardatili, Gesu' dice: “Presso gli uomini (é) im­possibile, ma non presso Dio” (Marco, 10, 23-27). L'immagine del camello è perfettamente orientale. Sono infondate le interpreta­zioni che il nome greco di camello sia stato scambiato col nome somigliante di una grossa fune oppure che con l'appellativo cruna dell'ago si designasse una ignota porticina delle mura di Gerusalemme stretta ed aguzza. Gesù parla di un vero ca­mello e di una vera cruna d'ago, come più tardi nel Talmud si par­lerà di rabbini che a forza di sottigliezze facevano passare un elefante attraverso una cruna d'ago. Neppure è il caso di attenuare la forza di questo paragone; Gesù se ne serve per adombrare, non una grande difficoltà, ma una vera impossibilità.
Il ricco non può entrare nel regno di Dio per la stessa ragione per cui un uomo non può servire a Dio e a Mammona (§ 331) questi due monarchi nella loro lotta implacabile non si dànno quartiere, e l'uno non permette ai sudditi dell'altro di entrare sotto nessun pretesto nel proprio regno. E allora nessun ricco potrà in questo caso entrare nel regno di Dio? No, vi potrà entrare, purché prima svesta la divisa di suddito di Mammona, diventando povero di fatto o equivalente povero in ispirito (§ 321, nota). Ma sarà possibile questa diserzione dei sudditi di Mammona, che diventino sudditi di Dio? No, questa diserzione cosi paradossale è umanamente impossibile, perché gli uomini preferiranno sempre il palpabile oro terrestre all'impalpabile tesoro celeste: tuttavia essa presso gli uomini (e') impossibile, ma non presso Dio, e Dio opererà questo miracolo di fare che un ricco preferisca il tesoro lontano al­l'oro vicino. Queste idee in sostanza non erano nuove, essendo già state espresse da Gesù sia nel Discorso della montagna, sia nella sua recente dispu­ta con i Farisei a proposito delle ricchezze (§ 471). Un elemento nuovo qui introdotto è l'affermazione che l'abbandono delle ricchezze per entrare nel regno di Dio non sarebbe stato effetto d'industria umana ma della potenza di Dio.

§ 486. Ascoltate le parole di Gesù e applicatele a se stessi, gli Apostoli riscontrarono che essi si trovavano avvantaggiati sugli altri uomini. Dei loro sentimenti si fece interprete il solito Pietro, che disse a Gesù: Ecco, noi lasciammo tutto e ti seguimmo; cosicché erano diventati volenterosi poveri per Gesù e per il regno dei cieli, e stavano in regola con le condizioni testé dettate dal maestro. Seguì per ciò una domanda, riportata da un solo Sinottico: Che cosa dunque avremo? (Matteo, 19, 27). Gesù rispose riferendosi sia agli Apostoli suoi particolari seguaci e collaboratori, sia a tutti gli altri seguaci presenti e futuri che non avevano il grado di Apostoli. La parte della risposta che si riferisce agli Apostoli è riportata qui dal solo Matteo (19, 28), mentre da Marco è taciuta e da Luca (22, 28-30) è riportata fra i discorsi dell'ultima cena; la parte relativa agli altri seguaci di Gesù è riportata da tutti e tre i Sinottici, ma presso Marco e Luca con una particolare distinzione cronologica.
Agli Apostoli Gesù disse « In verità vi dico che voi che mi segui­ste, nella rigenerazione quando segga il figlio dell'uomo sul suo trono di gloria, sederete anche voi su dodici troni giudicando le dodici tribù d'israele. Ciò dunque avverrà alla rigene­raztone o palingenesi, la quale rinnoverà ab imis il « secolo » pre­sente allora, su quel trono di gloria che i rabbini riserbavano a Dio, si sederà il figlio dell'uomo come sul suo proprio trono, e aven­do ai suoi lati i dodici Apostoli seduti su troni minori giudicherà insieme con essi quelle dodici tribù d'Israele alle quali esclusivamen­te egli ha indirizzato la sua personale missione (§ 389). Con questa solenne assemblea giudiziale si chiuderà il « secolo » presente e s'mi­zierà il « secolo » futuro (§ 525 segg.). Ciò che Gesù promise agli altri suoi seguaci, non Apostoli, suona così presso Marco (10, 29-31): In verità vi dico, non v'e nessuno che la­sciò casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a cagio­ne della buona novella, il quale non riceva centuplicati adesso in questo tempo case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insie­me con persecuzioni, e nel secolo venturo (la) vita eterna. Qui la ricompensa non è messa in relazione col solenne giudizio delle do­dici tribù, ma è nettamente divisa in due tempi: la seconda parte si avrà nel secolo venturo, e consisterà nella vita eterna; la prima parte si avrà adesso in questo tempo, che perciò è il « secolo » pre­sente. Nella ricompensa del « secolo » presente si promette ai seguaci di Gesù il centuplo di tutto ciò che hanno lasciato. Ora, questo cen­tuplo è di beni solamente spirituali, ovvero anche materiali?

§ 487. E’ noto che, come gli scritti apocalittico-messianici del tar­divo giudaismo si sbizzarrirono nel descrivere i beni materiali che il futuro Messia avrebbe apparecchiati nel suo regno, così alcuni scrit­tori cristiani dei primi due secoli presero argomento da queste pa­role di Gesù per descrivere anch'essi il futuro regno del Messia Gesù quasi come un paese di Bengodi: in quel regno ogni vite avrà 10.000 tralci, ogni tralcio 10.000 rami, ogni ramo 10.000 viticci, ogni viticcio 10.000 grappoli, ogni grappolo 10.000 acini, e da ogni acino si pi­geranno 25 misure di vino, e altrettanto avverrà per il grano e gli altri prodotti del suolo; quel re­gno poi durerà mille anni (cfr. Apocalisse, 20, 3 segg.). Uguale con­cezione materiale ne aveva, dal di fuori, Giuliano l'Apostata, il qua­le domandava beffardamente ai Cristiani se il loro Gesù avesse re­stituito al centuplo anche le mogli i lasciate da essi per seguirlo. Ma a questo millenarismo materiale inferse gravi colpi già Origene nel secolo III, e più tardi 5. Gerolamo ripeterà In occasione di questo passo (della ricompensa centuplicata) alcuni introducono mille anni dopo la resurrezione, dicendo che allora ci sarà concesso il centu­plo di tutte le cose che lasciammo e la vita eterna; non compren­dendo però che, se nelle altre cose la promessa e' degna, nelle mogli appare una sconcezza, giacché chi ne ha lasciata una per il Signore, ne riceverà cento in futuro.

Il senso dunque e' questo: Chi per il Salvatore abbia lasciato cose carnali, riceverà cose spirituali, le quali in confronto e per valore intrinseco saranno come se si confronta il cento con un numero piccolo. Cosicché per S. Girolamo, come pu­re per altri Padri, il centuplo ha un valore spirituale. La spiegazione è sostanzialmente giusta, ma, dal punto di vista storico, non appare completa e dovrà essere integrata attribuendo al centuplo promesso pure un subordinato valore materiale. Anche sotto questo aspetto, infatti, la promessa di Gesù si riscontra immediata­mente avverata fra i primissimi cristiani, i quali costituivano una famiglia in cui si ritrovavano moltiplicati i beni materiali e gli af­fetti naturali lasciati per amore del Cristo. Narrano gli Atti (2, 44-45) che tutti i credenti (erano) insieme (e) avevano tutte le cose in comune, e vendevano le possessioni e sostanze e le spartivano fra tutti secondo che alcuno aveva bisogno; e poco appresso (4, 32) confermano che la moltitudine dei credenti aveva un cuore e un'a­nima sola, e nessuno diceva esser cosa sua propria alcunché di ciò ch'egli aveva, bensì tutte le cose in comune essi avevano. Cosi pure dagli Atti e dalle varie Lettere apprendiamo che i cristiani, di comunità anche lontane, si consideravano legati da vincoli di carità tanto forti da sentirsi, pure nel campo affettivo, largamente ricom­pensati di vincoli naturali forse spezzati per seguire il Cristo. Se dunque i primi cristiani avevano lasciato una casa ed un cuore, tro­vavano veramente cento case e cento cuori in compenso. Giusta­mente quindi in questi benelizi materiali, offerti dalla fratellanza religiosa, gli studiosi moderni delle varie tendenze vedono il centu­plo promesso da Gesù adesso in questo tempo, come del resto gli storici delle epoche successive della Chiesa scorgevano l'avveramento della stessa promessa in quelle molte associazioni i cui membri, per avvicinarsi allo spirito di Cristo, vissero e vivono di beni messi in comune, in maniera da poter affermare con S. Paolo di essere come nulla aventi ed ogni cosa possidenti (il Corinti, 6, 10).
Si noti bene, però, che questo centuplo materiale è promesso da Gesù insieme con persecuzioni. I seguaci del Messia assassinato (§ 400) dovevano infatti in qualche maniera assomigliarsi a lui, e seguirlo - come dice egualmente S. Paolo (ivi, 6, 4... 10) - in molta pazienza, in tribolazioni, in necessità, in angustie, in piaghe, in carceri, in tu­multi, in travagli, in veglie, in digiuni; ma pur fra queste vicende essi potevano affermare, insieme col nomenclatore delle medesime, di essere come castigati e non messi a morte, come attristati ma sempre gaudenti.

Gli operai della vigna

§ 488. Queste ricompense promesse da Gesù secondo quale criterio saranno distribuite ai suoi seguaci? Questo punto fu esposto da Gesù mediante una nuova parabola, presa anche questa dai costumi agricoli del paese. In Palestina, ai primi accenni della primavera, le vigne dànno molto da fare e i vari lavori di potatura, sarchiatura e altro, devono finirsi presto prima che le viti si risveglino e comincino a gettare: sono alcune settimane di lavoro intenso, nelle quali tutti i proprie­tari cercano braccia. Ora, il regno dei cieli è simile a un padrone di vigna, che al tempo di questi lavori usci di buon mattino in cerca di braccianti. Recatosi sulla piazza del paese, ne trovò alcuni e accordatosi con loro sulla paga che sarebbe stata di un denaro d'argento al giorno (poco più d'una lira in oro), li inviò senz'altro alla sua vigna. Di nuovo verso l'ora terza di sole, cioè verso le nostre nove antimeridiane, quel padrone usci sulla piazza e trovò altri braccianti inoperosi; disse perciò loro: Andate anche voi nella mia vigna, e vi darò quello ch'è giusto. - Uscì ancora verso l'ora sesta e l'ora nona, cioè verso mezzogiorno e le tre pomeridiane, e trovando altri braccianti inoperosi inviò anche questi promettendo il giusto.
All'undicesima ora, cioè un'ora prima del tramonto, uscì nuovamen­te e trovando ancora gente inoperosa disse loro: Ma perché state qui tutta la giornata oziosi? - E quelli: Perché nessuno ci ha presi a giornata. - Allora il padrone: Ebbene, andate anche voi alla mia vigna. - Calato il sole, il padrone disse al suo fattore: Chiama i braccianti e pàgali, cominciando dagli ultimi arrivati per finire ai primi. - Il fattore chiamò gli ultimi e consegnò loro un denaro d'ar­gento a ciascuno; gli altri braccianti, che tenevano d'occhio il pagatore, vedendo che gli ultimi erano ricompensati cosi lautamente, speravano che la stessa lautezza sarebbe stata impiegata con loro: e invece, man mano che vennero quelli dell'ora nona e della sesta e della terza, ricevettero tutti lo stesso; perfino quelli impegnati al primo mattino ricevettero egualmente un denaro d'argento. Questi allora, nella loro delusione, cominciarono a brontolare contro il pa­drone dicendo: Come? Gli ultimi venuti hanno lavorato appena un'ora e al fresco, e tu li hai trattati alla pari con noi che abbiamo sopportato tutto il peso della giornata e il caldo? - Ma il padrone rispose a uno dei brontolanti: Amico, io non ti faccio torto. Non ci siamo messi d'accordo per un denaro al giorno? Te l'ho dato, e quindi va' per i fatti tuoi. Se io voglio dare al bracciante giunto per ultimo quanto ho dato a te, non mi è forse lecito di fare della roba mia quel che mi pare? Oppure non mi è lecito mostrarmi liberale con i tuoi compagni, se l'occhio tuo diventa invidioso della mia liberalità? - Gesù infine chiuse la parabola dicendo: Così gli ulti­mi saranno primi e i primi ultimi.

Gli scritti rabbinici ci hanno trasmesso vari paragoni che mostrano notevoli analogie con questa parabola di Gesù; ma, oltre ad essere posteriori in ordine di tempo, mirano anche a insegnamenti diversi. L'insegnamento generico di questa parabola è che la liberalità di Dio si riversa su chi vuole e nella misura che vuole, e che la ricom­pensa finale per i seguaci di Gesù sarà nella sua parte essenziale eguale per tutti. I braccianti della vigna non adombrano, a rigore, i ricompensati del regno dei cieli, i quali certamente non bronto­lano né accusano di parzialità chi li ha ricompensati né sentono in­vidia per altri: adombrano invece storicamente quei seguaci di Gesù che in vista del regno dei cieli si ritenevano per qualsiasi ragione più adorni di meriti che altri, e specialmente quei Giudei di spirito onesto ma di mentalità strettamente giudaica che si ritenevano tuttora più accetti a Dio per la loro appartenenza alla nazione elet­ta.
Per costoro i pubblicani, le meretrici, e anche i pagani, potevano bensì essere ammessi nel regno dei cieli quando si fossero con­vertiti, tuttavia in quel regno sarebbero stati di gran lunga addietro ai fedeli e genuini Israeliti, pieni di millenari meriti al cospetto di Dio. Gesù invece insegna che siffatti primati scompariranno, e che la liberalità del Re dei cieli potrà far passare gli ultimi ai primi posti, cosicché coloro che già erano primi diverranno ultimi.

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