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Ultimo Aggiornamento: 06/08/2012 19:22
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06/08/2012 19:15

La parabola delle mine e dei talenti

§ 499. Probabilmente l'ammenda di Zaccheo e la risposta di Gesù avvennero durante un banchetto offerto dal capo pubblicano al suo ospite. Vi avranno partecipato, oltre ai discepoli di Gesù, anche altri suoi ammiratori che s'aspettavano da lui grandi cose: e un fremi­to ansioso doveva passare a ondate in quella sala, ove a mezza voce si sentiva parlare di regno di Dio, di Messia glorioso, di travolgenti vittorie, di tribunali giudicanti, di fulgidi troni e di cortigiani gloriosi e beati; se ne parlava tuttavia con qualche prudenziale riser­bo per non dispiacere al maestro, giacché tutti sapevano ch'egli -chissà per quali sue recondite ragioni - disapprovava quei ragiona­menti e sostituiva a quelle prospettive così rosee altre prospettive altrettanto lugubri. Eppure, senza alcun dubbio, oramai si era alla vigilia di fatti decisivi; tutto induceva a credere che da un giorno all'altro la potenza taumaturgica del maestro si sarebbe dispiegata in pieno, lo stato delle cose sarebbe stato totalmente mutato e il regno di Dio palesemente inaugurato. Da alcune finestre della sala si scorgeva forse la suntuosa reggia ricostruita da Archelao: e taluni di quegli infervorati dovettero ripensare all'effimero ed oscuro prin­cipato di quel tetrarca (§ 14), contrapponendogli in cuor loro lo sta­bile e glorioso regno che il Messia Gesù avrebbe inaugurato di lì a pochi giorni. Gesù in parte udì le sommesse parole, e per il resto comprese da sé lo stato d'animo dei presenti; perciò disse una parabola, perché egli era vicino a Gerusalemme e quelli credevano che il regno d'iddio sta­va per apparire subito (Luca, 19, 11).
La parabola fu la seguente. Un uomo nobile partì per una regione lontana, onde ricevere l'in­vestitura di un regno e poi ritornare quale re effettivo del luogo di partenza. Per non lasciare inoperoso il proprio denaro durante la sua assenza, consegnò una mina - cioè un po' più di 100 lire in oro - a ciascuno dei dieci suoi servi con l'incarico che la commercias­sero fino al suo ritorno. Senonché i suoi cittadini lo odiavano, e mandarono dietro a lui una loro propria ambasceria che dicesse a colui che doveva concedere l'investitura: Non vogliamo che costui regni su di noi! - Tuttavia l'investitura fu concessa, e l'uomo no­bile tornò quale re effettivo. Questa “premessa” della parabola è cavata dalla realtà storica; già notammo che essa corrisponde esattamente al viaggio che un trenta anni prima Archelao aveva fatto a Roma per ricevere da Augusto l'investitura dei suoi dominii, e inoltre anche alla delegazione di 50 Giudei che fu inviata da Gerusalemme dietro a lui e contro di lui (§13). Si abbia anche presente che, mentre Gesù parlava e gli altri l'ascoltavano, gli occhi di tutti potevano benissimo posarsi sulla reg­gia dello stesso Archelao rimasta vuota a Gerico. Tornato il nuovo re, domandò i conti ai servi a cui aveva affidato le mine. Si presentò per primo un servo che con la mina consegnatagli ne aveva guadagnate altre dieci; il re lo lodò perché era stato fe­dele nel pochissimo, e lo ricompensò dandogli il governo di dieci città. Si presentò un secondo che aveva guadagnato altre cinque mine, e costui fu ricompensato col governo di cinque città. Venne poi un terzo che disse: Signore, rieccoti la tua mina che io ho te­nuta riposta in un fazzoletto; ho avuto infatti paura di te che sei severo, ritiri ciò che non hai depositato e mieti dove non hai semi­nato! - Evidentemente questo servo non aveva acconsentito all'am­basceria ostile inviata dietro al pretendente al regno, ma neppure aveva fatto alcunché in favore di lui; conoscendolo per altro come molto esigente, aveva conservato tale quale la somma affidatagli, cosicché il futuro re non avrebbe potuto accusarlo d'infedeltà e di fur­to.
Ma il re gli rispose: Dalla tua bocca ti giudico, servo malvagio! Sapevi che io sono uomo austero, che tolgo ciò che non ho depo­sitato e mieto ciò che non ho seminato? E perché non consegnasti il mio argento alla banca, ché io ritornato l'avrei riscosso con interes­se? Voltosi poi agli astanti comandò: Toglietegli la mina, e datela a quello che ne ha dieci! - Gli fu fatto osservare: Ma, signore, quello ha già dieci mine! - Però il re replicò: Eppure è cosi; a chi ha già, sarà ancora dato, mentre a chi non ha, sarà tolto anche ciò che ha! Inoltre, quei tali miei nemici che non volevano ch'io regnassi su loro siano condotti qui ed uccisi in mia presenza!

§ 500. L'ansiosa aspettativa che quegli uditori avevano del regno messianico non poté rimanere soddisfatta della parabola. In essa l'insegnamento è, in primo luogo, che il palese trionfo del regno di Dio sarà o uno ricompensa o un castigo a seconda del contegno dei singoli individui: in secondo luogo, che quel trionfo avverrà dopo una partenza e un'assenza del pretendente al regno, il quale com­parirà ed agirà da re soltanto alla sua futura venuta. Applicando la parabola, troviamo che il pretendente al regno è Gesù stesso; il qua­le è già nel pieno possesso dei suoi diritti regali, ma ancora non è partito per andare a ricevere l'investitura pubblica e solenne dal suo Padre celeste assentandosi dai suoi sudditi, alcuni dei quali gli sono apertamente ostili e vorrebbero che egli non regnasse; questa sua as­senza non è breve, giacché il pretendente parte per una regione lon­tana e affida ai suoi servi traffici che richiedono molto tempo (difatti Matteo, 25, 19, dirà che il padrone della parabola ritorna dopo mol­to tempo); quando Gesù sarà di ritorno dal suo Padre celeste, allora avverrà l'inaugurazione manifesta e solenne del suo regno con il premio dei sudditi fedeli e il castigo dei negligenti e ribelli. Non stiano dunque in ansiosa trepidazione i discepoli, aspettandosi da un giorno all'altro il trionfo solenne del regno di Dio. Prima di quel trionfo Gesù dovrà partire per una regione lontana e rimanere assente da loro fino alla sua nuova parusia, ossia presenza. Durante questa sua indefinita assenza, i nemici del lontano re brigheranno accanitamente affinché non regni: anzi, quando sarà proposto loro di riconoscere ufficialmente la sua regalità di Messia ebraico, rispon­deranno di riconoscere soltanto la regalità del Cesare pagano (Gio­vanni, 19, 15). Perciò questa sua assenza sarà un periodo di dure prove per i sudditi fedeli rimasti soli, e superando tali prove essi me­riteranno di partecipare al trionfo finale della parusia. Se però il trionfo definitivo era riservato alla parusia, Gesù stesso aveva già promesso una grande manifestazione di possanza del regno di Dio che poteva ben valere come parziale anticipazione del trionfo finale (§ 401); inoltre aveva promesso particolari soccorsi ap­punto durante quelle dure prove (§ 486).

La parabola delle mine, propria a Luca, è narrata anche da Matteo (25, 14-30) ma in altro contesto e con talune divergenze. Matteo la fa recitare da Gesù durante il grande discorso escatologico, pronun­ziato a Gerusalemme nel rnartedì della settimana di passione (§ 523); inoltre, colui che parte non è un pretendente al regno che va a ri­ceverne l'investitura ma è un uomo facoltoso, e non distribuisce ai suoi servi una mina a ciascuno ma o cinque o due o un solo talento, il quale valeva 60 mine: alla fine, poi, non si parla del castigo dei nemici che avevano brigato contro l'assente. - La collocazione che Luca dà alla parabola è senza dubbio migliore di quella di Matteo, perché corrisponde in maniera sorprendente al momento storico e alle circostanze della recita; lo stesso si dica della qualità di pretendente al trono e del conseguente castigo dei nemici, che non si ritro­vano in Matteo. Per il resto le due parabole corrispondono quanto alla sostanza: quella di Matteo può essere un raccorciamento di quel­la di Luca, ma può anche darsi che il dippiù che si ritrova in Luca (specialmente il castigo finale dei nemici) provenga da una parabola diversa.


Il convito di Bethania


§ 501. Risalendo da Gerico verso Gerusalemme, Gesù doveva pas­sare necessariamente per Bethania, da cui si era allontanato poche settimane prima. Ivi egli giunse sei giorni prima della Pasqua (Gio­vanni, 12, 1), cioè in un sabbato; poiché il tragitto da Gerico a Be­thania (§§ 438, 489 segg.) era così lungo che non sarebbe stato permesso in un giorno di sabbato, Gesù probabilmente viaggiò nel venerdì precedente per giungere a Bethania sul tramonto, quando cominciava ufficialmente il sabbato. Anche qui l'indicazione di Giovanni vuole precisare ciò che i precedenti Sinottici hanno lasciato nel vago: attenendosi infatti a Matteo (26, 6 segg.) e a Marco (14, 3 segg.) sembrerebbe che questa visita a Bethania fosse avvenuta più tardi, il mercoledì successivo: ma questo ritardo della narrazione presso di loro è dovuto alla mira di far risaltare la relazione tra le parole pronunziate a Bethania da Giuda e il suo successivo tradi­mento. Con la venuta a Bethania sembrava che Gesù si offrisse da se stesso al pericolo: i suoi nemici, che poco prima avevano deciso la sua morte e ordinato il suo arresto (§ § 494, 495), erano là ad una passeg­giata da Bethania e potevano essere informati subito ed agire.
Il pe­ricolo indubbiamente esisteva, tuttavia era meno immediato di quan­to apparisse: in primo luogo dopo l'ordine di arresto Gesù era scom­parso, e quindi i primi bollori si erano alquanto raffreddati, salvo a riaccendersi se Gesù fosse ricomparso; inoltre, oramai si era in piena preparazione pasquale, a Gerusalemme giungevano ad ogni ora folle di Giudei di tutte le regioni e quindi anche di conterranei e ammiratori di Gesù, e non era opportuno provocare un tumulto procedendo contro di lui con la città così affollata. Ad ogni modo i Sinedristi ed i Farisei, non dimentichi affatto della loro decisione, si sarebbero regolati con prudenza a seconda delle circostanze; frat­tanto i comuni Giudei della capitale, incuriositi, aspettavano di ve­dere come si sarebbe svolta la lotta e se sarebbe prevalso il Sinedrio oppure Gesù. A Bethania Gesù dovette trovare accoglienze trionfali, provocate cer­tamente dal ricordo della recente resurrezione di Lazaro. La sera di quel sabbato fu tenuto un convito in suo onore in casa di un certo Simone soprannominato il Lebbroso, ch'era senza dubbio uno dei più facoltosi della borgata, e doveva il suo soprannome alla malat­tia da cui era guarito, forse per intervento di Gesù. Fra gli invitati non poteva mancare, e difatti non mancò, Lazaro; sua sorella, la massaia Marta, dirigeva il servizio; l'altra sorella Maria, meno esper­ta di faccende domestiche, provvide da se stessa a portare un con­tributo d'onore al convito. Come i convitati erano sdraiati su di­vani con il busto verso la tavola comune e i piedi all'in fuori nella maniera che già dicemmo (§ 341), Maria ad un certo punto del con­vito entrò recando uno di quei vasi d'alabastro dal collo allungato, in cui gli antichi usavano conservare essenze odorose di gran pre­gio: la ragione è data da Plinio quando dice che l'alabastro cavant ad vasa unguentaria, q'uoniam optime servare incorrupta dicitur (Natur. hist., XXXVI, 12). Il vaso recato da Maria conteneva una lib­bra, cioè 327 grammi, di nardo autentico di gran valore.
L'aggetti­vo autentico, come dice il greco “di fiducia”, è oppor­tuno, perché il citato naturalista romano ricorda che l'ungnento di nardo si adulterava facilmente, adulteratur et pseudonardo herba qua' ubique nascitur (ivi, XII, 26). E come genuino, il nardo di Ma­ria era di gran valore: Giuda, che doveva intendersi di prezzi, lo valutò a piu' di 300 denari, cioè a più di 320 lire in oro; Plinio (ivi) dice che in Italia il nardo costava 100 denari la libbra, e altre spe­cie meno pregiate anche meno: tuttavia egli stesso ricorda altrove (ivi, XIII, 2) unguenti che costavano da 25 a 300 denari la libbra. Maria pertanto, giunta al divano di Gesù, invece di sciogliere il si­gillo apposto sull'orifizio del vaso ne spezzò il collo allungato, in se­gno di maggiore dedizione, e ne effuse abbondantemente l'essenza profumata dapprima sul capo di lui e poi il rimanente sui suoi pie­di: egualmente in segno di particolare omaggio, asciugò ella con i propri capelli i piedi profumati del maestro, imitando in parte l'an­tica peccatrice innominata (§ 341). E la casa fu piena del profumo dell'unguento.

§ 502. L'atto compiuto da Maria non era insolito: ad ospiti insigni invitati a banchetto si offrivano, dopo la lavanda di mani e piedi, squisiti profumi di cui cospargersi. E tanto più questa finezza era na­turale in Maria in quanto la usava verso colui che aveva risusci­tato il fratello, anche se per compierla ella impiegava una quantità di essenza veramente straordinaria; ma l'esuberanza della materia testimoniava l'esuberanza del sentimento interno. Questa prodigalità sorprese taluni discepoli, e più di tutti il loro amministratore comune che era Giuda l'Iscariota (§ 313); costui, come avverte in maniera distinta Giovanni (mentre gli altri evan­gelisti parlano di discepoli in genere), protestò apertamente pur sotto la parvenza di beneficenza: Perché s'e' fatto questo scempio d'un­guento? Si poteva infatti vendere questo unguento per piu' di 300 denari, e dare ai poveri! (Marco, 14, 4-5). Ma alla protesta di Giu­da l'evangelista Giovanni, non meno pratico che spirituale, fa se­guire una sua riflessione: Disse però questo, non perché gl'importava dei poveri, ma perché era ladro, e avendo (egli) la cassetta asportava le cose messevi (dentro) (Giovanni, 12, 6). Da questa notizia apprendiamo che il gruppetto dei seguaci abituali di Gesù faceva vita comune, senza dubbio insieme col maestro, e tutti mettevano i personali proventi in comune depositandoli in una cassetta; questa era affidata a Giuda, il quale fun­geva da amministratore e certamente sarà stato coadiuvato occasionalmente da quelle pie donne che, di tempo in tempo secondo le loro possibilità, seguivano il gruppo di Gesù incaricandosi dell'assi­stenza materiale (§ 343).

Ma Giuda era ladro, e sottraeva il denaro dalla “cassetta”. Ora, questo furto continuato difficilmente poteva essere riscontrato dagli altri Apostoli, i quali erano totalmente occu­pati nel ministero spirituale e per le cose materiali si rimettevano in tutto a Giuda; invece appunto le pie donne avevano ogni facilità di riscontrare il furto perché, occupandosi delle spese e fornendo esse stesse buona parte del denaro, potevano seguire a un dipresso le entrate e le uscite della “cassetta” ed avvedersi delle sottrazioni più notevoli. Forse di tali sottrazioni avevano esse informato gli altri Apostoli e Gesù stesso; e da allora l'amministratore infedele fu guar­dato con occhio d'accorata pietà, ma silenziosamente fu lasciato an­cora nel suo ufficio per la speranza che egli, non svergognato, rinsa­visse. Qui invece Giuda si mostra incancrenito: piu' di 300 denari era una somma cospicua, quasi un anno intero di salario d'un operaio (§ 488), e il ladro al vedersi sfumare questa bella entrata scatta allegando il pretesto dei poveri. Il seguace di Mammona vuoi conser­vare ancora la divisa esteriore di seguace di Dio (§ 485). Alla protesta di Giuda, Gesù rispose: Lasciala (fare)! Che lo serbi (= che valga come riserbato) per il giorno del mio seppellimento! I poveri infatti sempre avete con voi, me invece non avete sempre (Giov., 12, 7-8; cfr. Matteo, 26, 10-13; Marco, 14, 6-9). Per Gesù, dunque, l'unzione da lui testé ricevuta valeva come un'anticipazione del suo imminente seppellimento, giacché le salme si deponevano nella tomba cosparse di aromi e di essenze profumate.
Ma anche da questo nuovo annunzio pare che gli Apostoli non si convincessero dell'imminente morte di Gesù: tranne forse Giuda che, da buon finanziere umano, previde la bancarotta altrui e dovette da allora pen sare direttamente ai casi propri.

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AVVISIAMO I LETTORI CHE LA LETTURA PROSEGUE QUI:
cristianicattolici.freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=1...




[Modificato da Caterina63 06/08/2012 19:22]
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