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Innamoriamoci della Sacra Scrittura! Essa ha per Autore Dio che, con la potenza dello Spirito Santo solo, è resa comprensibile (cf. Dei Verbum 12) attraverso coloro che Dio ha chiamato nella Chiesa Cattolica, nella Comunione dei Santi. Predisponi tutto perché lo Spirito scenda (invoca il Veni, Creator Spiritus!) in te e con la sua forza, tolga il velo dai tuoi occhi e dal tuo cuore affinché tu possa, con umiltà, ascoltare e vedere il Signore (Salmo 119,18 e 2 Corinzi 3,12-16). È lo Spirito che dà vita, mentre la lettera da sola, e da soli interpretata, uccide! Questo forum è CONSACRATO ALLO SPIRITO SANTO e sottolineamo che questo spazio non pretende essere la Voce della Chiesa, ma che a Lei si affida, tutto il materiale ivi contenuto è da noi minuziosamente studiato perchè rientri integralmente nell'insegnamento della nostra Santa Madre Chiesa pertanto, se si dovessero riscontrare testi, libri o citazioni, non in sintonia con la Dottrina della Chiesa, fateci una segnalazione e provvederemo alle eventuali correzioni o chiarimenti!
 
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SCARICA QUI LA VITA DI GESU' CRISTO DI DOM RICCIOTTI (3)

Ultimo Aggiornamento: 06/08/2012 21:11
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06/08/2012 19:21

PROSEGUIAMO CON L'INSERIMENTO DEL TESTO "VITA DI GESU' CRISTO"

NARRATA DALL'ABATE DOM RICCIOTTI, UN TESTO IMPERDIBILE E RACCOMANDABILE,

DI MEDITAZIONE E GARANZIA DOTTRINALE CATTOLICA.....


QUI LA PRIMA PARTE: SCARICA QUI LA VITA DI GESU' CRISTO DI DOM RICCIOTTI (1)

QUI LA SECONDA PARTE: SCARICA QUI LA VITA DI GESU' CRISTO DI DOM RICCIOTTI (2)


  [SM=g1740720] LA SETTIMANA DI PASSIONE. LA DOMENICA E IL LUNEDÌ

L'ingresso trionfale in Gerusalemme

§ 503. A Gerusalemme si riseppe subito che Gesù era giunto a Be­thania; il suo arrivo colà poté essere comunicato tanto da pellegrini, i quali nel venerdì avessero fatto il viaggio da Gerico a Bethania in­sieme con lui (§ 501), quanto da spie del Sinedrio le quali ottem­perassero all'ordine emanato da quel consesso di segnalare ove si trovasse Gesù (§ 495). La notizia fece impressione in città. Forse anche prima che il riposo sabbatico cominciasse, e certamente appena esso fu terminato, molti curiosi corsero da Gerusalemme a Bethania, spinti dal doppio motivo di vedere sia Gesù che Lazaro, l'uno vicino all'altro, tanto più che il primo non s'era più lasciato vedere in città dopo la resurrezione del secondo. Riseppe pertanto la gran folla dei Giudei che (Gesù) e' lì, e vennero non per Gesu' solo ma anche per vedere Lazaro, che (egli) aveva risuscitato dai morti.

Durante questa affluenza si ripeté più am­piamente quel che era avvenuto subito dopo la resurrezione di La­zaro, cioè che molti si arresero all'evidenza del miracolo e credettero in Gesù. Anche questo risultato fu subito risaputo in Gerusalemme; e allora i sommi sacerdoti, confermandosi nel proposito di mettere a morte Gesù, per giunta deliberarono di uccidere anche Lazaro (Giovanni, 12, 10), inviando così di nuovo all'altro mondo quel testi­monio che ne era tornato per scandalizzare l'ortodossia giudaica. Certamente il rimedio era, o sembrava, decisivo: uccisi Gesù e La­zaro, la commozione suscitata tra il popolo dal predicatore Galileo si sarebbe senz'altro calmata. Ma l'esecuzione del progetto era resa dif­ficile, oltreché dall'affluenza dei pellegrini pasquali, anche dalla com­mozione popolare, da cui potevan sorgere reazioni violente e compli­cazioni con l'autorità romana che si volevano evitare ad ogni costo. Comincia perciò da questo momento un periodo di vigile attesa in cui le autorità del Tempio tengono continuamente d'occhio Gesù, finché si presenti una circostanza favorevole per eseguire il loro progetto senza fastidiose conseguenze; dal canto suo Gesù prosegue nella linea di condotta tracciatasi indipendentemente dalle circostanze esteriori, e come non paventa le mene del Sinedrio, così non cura il fa­vore delle folle, sebbene da queste egli sia momentaneamente protet­to. Durante questa attesa, la prima mossa è fatta da Gesù che, re­candosi direttamente verso il pericolo, parte da Bethania alla volta di Gerusalemme.


§ 504. Era la mattina della domenica. A Bethania in quel mattino e nella sera precedente s'erano radunati attorno a Gesù molti fervo­rosi, sia conterranei della Galilea giunti in pellegrinaggio pasquale, sia cittadini di Gerusalemme testé convinti dal miracolo di Lazaro: ed era una folla vibrante, che non poteva trattenersi da qualche ma­nifestazione solenne in onore di Gesù. Anche le circostanze si presen­tavano propizie, giacché era abitudine che i cittadini uscissero incon­tro ai gruppi di pellegrini più numerosi o importanti, e tutti uniti entrassero in città fra canti e manifestazioni di gioia; quando dun­que il maestro avesse manifestato l'intenzione di riprendere il cam­mino per Gerusalemme, era più che giusto preparargli un solenne ingresso nella città: anche se egli si fosse mostrato riluttante come nel passato, la manifestazione solenne era necessaria questa volta do­po i fatti di Bethania e di Gerusalemme, ed il maestro avrebbe do­vuto tollerarla suo malgrado. E invece, contro ogni previsione, Gesù questa volta non si mostrò riluttante. Manifestata l'intenzione di recarsi a Gerusalemme quella mattina stessa, egli scelse la strada più breve e frequentata la quale da Bethania risaliva sul monte degli Olivi, ne discendeva lungo il versante occidentale, e infine si congiungeva con la città presso l'angelo nord-orientale del Tempio dopo un percorso di circa 2.800 metri (§ 490); lungo questo percorso si passava vicino all'antico villaggio chiamato Bethphage, “casa dei fichi [immaturi]”, ch'è considerato dal Talmud già come sobborgo di Gerusalemme, e stava certamente vicino al luogo ch'è ritenuto oggi come Behphage ed è situato a meno di un chilometro a nord-ovest di Bethania. Partita da Bethania la comitiva risaliva festosa verso la sommità del monte degli Olivi ed era già in vista di Bethphage, quando Gesù dette un ordine che colmò di gioia tutti i presenti; chiamati due dei suoi di­scepoli, disse loro: Andate al villaggio che vi sta dirimpetto e su­bito entrativi troverete un asinello legato sul quale nessun uomo se­dette giammai; scioglietelo e conducete(lo). E se alcuno vi dica:”Perché fate questo?” dite:”Il Signore ne ha bisogno, e subito lo manda di nuovo qui”. L'asino era in Palestina la cavalcatura delle persone autorevoli fin dai tempi di Balaam (Numeri, 22, 21 segg.), e Gesù ricercando in questa occasione tale cavalcatura mostrò di voler assecondare i festosi desideri della comitiva, che ne fu felicissima. Ma la mira di Gesù era anche più lontana; Matteo, nella sua speciale cura di rilevare l'avveramento delle profezie messianiche, fa notare che allora s'adem­pila predizione dell'antico profeta Zacharia (9, 9), secondo cui il re di Sion sarebbe venuto a lei mansueto cavalcando un asina e un asinello: i perciò anche il solo Matteo ricorda che là, a Bethphage, nel luogo indicato da Gesù stavano legati l'asinello e sua madre e che ambedue furono recati a Gesù, mentre gli altri evangelisti menziona­no soltanto l'asinello sul quale effettivamente cavalcò Gesù. I due discepoli eseguirono l'ordine; mentre scioglievano i due animali, i padroni ne richiesero la ragione, e udito che servivano a Gesù non replicarono: probabilmente erano persone amiche della famiglia di Lazaro, e quindi benevole verso Gesù.

All'arrivo dei due animali la comitiva non si contenne più. Con quel­la cavalcatura si poteva compiere un vero ingresso trionfale nella città; se l'asinello non aveva ancora servito da cavalcatura a nessu­no, tanto più era indicato a trasportare per la prima volta una per­sona sacra come Gesù, giacché agli antichi sembrava che un ani­male già adibito a servizi profani fosse meno atto ad usi religiosi. Il corteo fu subito composto. Alcuni gettarono i loro mantelli sul­l'asinello a guisa di sella e di gualdrappa, e poi vi fecero salire Gesù; altri, correndo un poco sul davanti, stendevano di tratto in tratto i mantelli sul suolo affinché il cavalcatore vi passasse sopra come su tappeti; moltissimi altri accorrevano lungo la strada man mano che il corteo si avvicinava alla città, gettavano frasche verdi lungo il percorso e agitavano festosi rami di palme staccati dagli alberi dei dintorni: tutti poi gridavano alla rinfusa: Osanna! Benedetto il Veniente in nome del Signore! Benedetto il veniente regno del nostro padre David! Osanna negli eccelsi (Marco, 11, 9-1 0).


§ 505. La focosità orientale divampava pienamente in queste grida: ma vi divampava anche la spasmodica attesa che quegli osannanti avevano conservata e repressa nei loro cuori per tanto tempo, l'attesa del regno messianico. I termini impiegati sono tipici: il Veniente in nome del Signore è il Messia (§ 339), e il veniente regno di David è il regno messianico che è inaugurato dal Messia figlio di David. Le insegne di questo inizio di regno erano certamente modestissime, un asinello e quattro rami di palma; ma in ciò non trovavano scandalo quegli entusiasti, i quali erano fermamente sicuri che da un giorno all'altro l'asinello sarebbe stato sostituito da falangi di superbi destrieri e le palme da una selva di ben polite lance. Il padre David dal suo sepolcro e il Dio Jahvè dal cielo avrebbero compiuto questo miracolo in favore del loro Messia. Precisamente questo è il punto ove s’incontrarono, in maniera fugace e quasi fortuita, il messianismo delle plebi e quello di Gesù. Per le plebi quell'ingresso trionfale in Gerusalemme doveva essere la prima favilla d'un immenso incendio futuro: per Gesù era la sola ed unica pompa ufficiale della sua regalità messianica. Quella regalità, da lui nascosta con tanta cura e confidata con tante precauzioni e rettiliche solo ai suoi più intimi, doveva pure essere manifestata ufficialmente almeno una volta, adesso che il tempo stringeva e che l'erronea in­terpretazione politica aveva scarse probabilità d'attecchire; ebbene, questa appunto valeva come manifestazione ufficiale e solenne e in corrispondenza dell'antica profezia di Zacharia, ma tutto sarebbe finito lì, in quell'asinello contornato da qualche centinaio di osannan­ti: subito dopo, tutto sarebbe rientrato in ciò che gli uomini chia­mavano ombra, ma che per il regno di Dio era notte d'operosità re­condita (§ 369). Gesù, insomma, finiva dove le plebi credevano di cominciare. Un quarantennio più tardi un Giudeo rinnegato, Flavio Giuseppe, impiegherà lunghe pagine per descrivere un altro ingresso trionfale a cui aveva assistito egli stesso (Guerra giud., VII, 120-162), come gli evangelisti a quello di Gesù; senonché le due narrazioni sembrano scritte apposta per contrapporsi l'una all'altra. Quella del Giudeo rinnegato descrive il trionfo di chi ha distrutto poco prima Gerusa­lemme, ed entra nella Roma pagana fra un apparato d'incredibile splendore e potenza; la narrazione degli evangelisti descrive il trion­fo di chi sarà il distruttore della Roma pagana, e adesso entra in Ge­rusalemme fra un apparato umilissimo e piangendo sulla prossima distruzione di questa città. Il trionfatore di Roma conclude la sua pompa uccidendo ai piedi del Campidoglio il condottiero dei nemici, trascinato in catene dietro al corteo: il trionfatore di Gerusalemme finisce con l'essere ucciso lui stesso, dopo il suo trionfo d'un giorno. A Roma, dopo i festeggiamenti, si gettano le fondamenta di un nuovo tempio idolatrico dedicato alla Pace romana; a Gerusalemme si annunzia che il Tempio manufatto del Dio vivente sarà ridotto a un cumulo di macerie, e si gettano invece le fondamenta di un Tem­pio non manufatto (Marco, 14, 58) ove si adorerà il Dio vivente in spirito e verita' (§ 295). Esiste tuttavia un punto importantissimo in cui le due narrazioni, così discordi, concordano, ed è nell'affermare che il rispettivo trionfatote è il Messia per gli evan­gelisti il Messia è Gesù, il carpentiere di Nazareth; per il Giudeo rinnegato il Messia è Tito Flavio Vespasiano, agricoltore nato a Fala­crine presso Rieti l'anno 9 dopo Cr. (§ 83). Confrontando oggi ciò che rimane dei due trionfi bisogna concludere che il Giudeo, mal consigliato dalla sua apostasia, è caduto in un grave errore.

§ 506. Sebbene umilissimo il trionfo di Gerusalemme fu cordiale, certamente più di quello di Roma. Giovanni (12, 16 segg.) c'informa che la cordialità fu grande anche da parte di quei cittadini di Ge­rusalemme i quali erano stati testimoni della resurrezione di Lazaro o ne avevano udito il racconto dai testimoni; la cordialità dei disce­poli senza dubbio era egualmente grande, tuttavia era animata da motivi superficiali e ignara delle ragioni profonde di ciò che avveni­va, perché a detta dello stesso evangelista queste cose i suoi discepoli non conobbero dapprima; ma quando Gesu' fu glorificato, allora si ricordarono che queste cose erano state scritte di lui e queste cose (essi) fecero a lui. Insomma, l'entusiasmo dei discepoli era troppo sotto l'influenza dell'entusiasmo delle folle per assurgere a conside­razioni più alte e più spirituali circa quel brevissimo trionfo umano del loro maestro. Ma il carattere trionfale della manifestazione fu difeso fermamence da Gesù stesso. Poiché i Farisei rimanevano sempre Farisei anche in mezzo all'entusiasmo generale, e d'altra parte vedevano bene che sarebbe stato troppo pericoloso dar sulla voce a quella folla infervc­rata, alcuni di essi pensarono di ricorrere a Gesù stesso e gli dissero: Maestro, sgrida i tuoi discepoli! quasicché gli artefici più numerosi di quella manifestazione fossero i discepoli e non piuttosto i Giudei testimoni della resurrezione di Lazaro. Ma Gesù risponde: Vi dico, se questi taceranno, le pietre grideranno (Luca, 19, 40). La protesta fu rinnovata di lì a poco quando, entrato Gesù nel Tem­pio, frotte di fanciulli accorsi tra la calca si dettero a gridare: Osan­na al figlio di David! sotto il naso dei sommi sacerdoti e degli Scribi. Queste degnissime persone, irritate dalle grida di quei mocciosi, pro­testarono verso Gesù: Senti che dicono costoro? Questa volta Gesù rispose: Si. Non leggeste mai (quel passo) “Da bocca di bambini e di lattanti esprimesti laude”? (Matteo, 21, 16). Il passo citato (Sal­mo 8, 3) era opportunissimo, perché ivi il poeta contrappone l'inge­nua laude innalzata a Dio da bambini e da lattanti al silenzio for­zato dei suoi nemici: se dunque i fanciulli del Tempio erano gli esprimenti laude a Dio, i sacerdoti e gli Scribi potevano facilmente riconoscersi nei nemici di Dio ridotti al silenzio. Queste risposte di Gesù e il suo incontrastato trionfo dovettero far perdere il lume degli occhi ai Farisei. Fatto un bilancio di quanto avevano ottenuto con tutte le loro deliberazioni d'impadronirsi di Gesù, di farlo denunziare dalle spie, di metterlo a morte insieme con Lazaro, essi si ritrovarono in pieno fallimento: Gesù circolava a pie­de libero e in Gerusalemme stessa, la sua vita e quella di Lazaro erano salvaguardate dal fervore popolare, egli faceva sempre più se­guaci e ardiva periino entrare trionfalmente nella città santa. Gli stessi Farisei riconobbero questo loro fallimento e si dissero gli uni agli altri: Vedete che non ricavate alcuni profitto?
Ecco, il mondo andò appresso a lui! (Giovanni, 12, 19). Tuttavia questa confessione non fu una capitolazione, anzi fu una conferma d'ostilità implaca­bile, in attesa che si presentasse l'occasione propizia per agire. Frattanto il corteo trionfale di Gesù aveva valicato la sommità del monte degli Olivi e discendeva lungo la china occidentale dirigendo­si al sottostante Tempio. Da quella china si contemplava il panora­ma dell'intera città: era la città uscita un trentennio prima dalle ma­ni di quell'infaticabile ricostruttore ch'era stato Erode il Grande, me­no gravata di memorie e meno solenne della città odierna ma in­comparabilmente più decorosa e più adorna. Ai piedi del monte, subito oltre il torrente Cedron, s'ergeva la mole grandiosa del Tem­pio sfavillante di ori e abbagliante di candidi marmi. Ricongiunto a settentrione con esso s'alzava il possente quadrilatero della torre Antonia, allora stazione della guarnigione romana e quasi dimora di falco che vigilasse sulla preda (§ 49). Al lato opposto, verso occiden­te, troneggiava la reggia di Erode, difesa a settentrione da quelle tre torri che l'esperto Tito un quarantennio dopo avrebbe giudicate me­spugnabili. Due recinti di mura proteggevano a settentrione la città, e di là dal recinto più esterno si estendeva il sobborgo del Bezetha (§ 384) che un decennio più tardi Agrippa I comincerà a recingere con un “terzo muro”. Qua e là, fra la distesa di case antiche, spic­cavano parecchie suntuose costruzioni recenti, mentre il quartiere più negletto appariva quello che occupava la parte sud-orientale della città, immediatamente più in giù del Tempio, ove era stata la Ge­rusalemme primitiva dei Jebusei, di David e di Salomone. Al contemplare questo panorama, Gesù pianse.


§ 507. Quel pianto, fra tante grida festose e davanti a uno spettaco­lo cosi solenne era davvero inaspettato. I discepoli ne dovettero ri­manere sconcertati, e forse si domandarono in cuor loro se anche quel pianto voleva essere uno dei soliti correttivi messianici già ap­plicati dal maestro (§ § 400, 475, 495). La ragione fu comunicata dal piangente stesso, che rivolgendosi alla città contemplata esclamò: Oh! avessi conosciuto in questo giorno anche tu le cose (necessarie) alla pace! Adesso invece stanno nascoste agli occhi tuoi! Poiché verranno su te giorni quando i tuoi nemici ti ricingeranno di vallo, e ti accer­chieranno all'intorno, e ti stringeranno da ogni parte, e abbatteranno te e i tuoi figli dentro te, e non lasceranno pietra sopra pietra in te, perché non conoscesti il tempo (propizio) della visita (fatta) a te (Luca, 19, 42-44). Il pianto dunque si riferiva non al presente ma ad un futuro più o meno remoto. Tutti sanno che queste parole si riferiscono al terribile assedio che Tito mise nel 70 a Gerusalemme. Il vallo qui accennato è il muro di circonvallazione lungo 39 stadi (chilometri 7,215 costruito dalle le­gioni romane in soli tre giorni attorno alla città per prenderla con la fame: esso si trova minutamente descritto da Flavio Giuseppe (Guerra giud., v, 502-511) e se ne sono rinvenute recentemente alcune probabili tracce; è anche da notare che il vallo, nella sua parte ad oriente della città, saliva dal torrentè Cedron verso il monte degli Olivi (ivi, 504), dove appunto si trovava Gesù quando pianse. E’ superfluo dire che una predizione cosi precisa è giudicata assurda dai razionalisti, i quali perciò affermano che queste parole non furono mai pronunziate da Gesù ma sono un invenzione dell'evangelista il quale avrebbe scritto dopo la catastrofe del 70; in attesa che que­sta affermazione sia suffragata da prove storiche, le quali non siano la monotona “impossibilità” del miracolo, si può passare ad un altro riavvicinamento offertoci egualmente da Flavio Giuseppe.
Rac­conta egli (ivi, VII, I 12-113) che Tito, alcuni mesi dopo aver distrut­to Gerusalemme, da Antiochia passò in Egitto, e che, strada facendo, si recò a Gerusalemme; confrontando egli allora la mesta solitudine che scorgeva con la passata magnificenza dela città, e richiamando alla mente sia la grandezza degli edifici ruinati sia l'antica bellezza, deplorò la distruzione della città, non già vantandosi, come altri (avrebbe fatto), d'averla espugnata pur essendo si grande e si forte, bensì maledicendo spesso i colpevoli che avevano iniziato la rivolta e attirato sulla città quella punizione.
Cosicché, Gesù e Tito concordano nel far ricadere la responsabilità della distruzione su determinati uomini e nell'affermare che la distruzione non sarebbe avvenuta se la condotta di quegli uomini fosse stata diversa: ma Gesù, giudeo e adoratore del Dio Jahvè, versa anche brucianti lacrime sul­la distruzione della sua città e del suo Tempio, mentre Tito, romano e cultore del Giove Capitolino, deplora la perdita di sontuosi edifici e di belle opere d'arte; l'uno piange sulla rovina spirituale, l'altro rimpiange la rovina materiale; ma soprattutto l'uno piange sulla cit­tà che lo ucciderà fra pochi giorni, l'altro rimpiange la sorte della città che egli stesso ha distrutta e dove è stato proclamato impera­tore mentre il Tempio era tuttora in fiamme.



[Modificato da Caterina63 06/08/2012 19:25]
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06/08/2012 19:28

I Greci vogliono essere presentati a Gesù

§ 508. Alla fine il corteo trionfale raggiunse la città ed entrò nel Tempio. Ivi, nell'atrio esterno, continuavano ancora le acclamazioni festanti, e i fanciulli ripetevano le grida che già udimmo. Di quell'aura di tripudio approfittarono subito ciechi e storpi che erano a limosinare in un luogo così opportuno, e si fecero condurre presso al trionfatore taumaturgo implorando la sanità; e Gesù li guarì. Il Tempio era già affollato di pellegrini accorsi per l'imminente Pa­squa; e fra costoro erano anche molti non giudei ma benevoli per il giudaismo. Nella Diaspora infatti il giudaismo aveva lavorato inten­samente a far seguaci, e coloro che erano stati guadagnati si riparti­vano in due classi: la classe inferiore era quella dei “devoti” o “timorati” di Dio, oppure, i qua­li erano obbligati all'osservanza del sabbato, a certe preghiere ed ele­mosine e ad altre prescrizioni minori, pur rimanendo sempre estranei alla nazione eletta d'Israele; la classe superiore invece era quella dei veri “proseliti”, i quali avevano ricevuto la circoncisione ed erano perciò eguagliati in tutto, o quasi, agli Israeliti, e ne condividevano ogni obbligo. Quando il corteo entrò nel Tempio, erano nell'atrio esterno alcuni di questi “devoti”, di stirpe Greci come li chiama Giovanni (12, 20, greco), ch'erano venuti a Gerusalemme in occasione della Pasqua per fare adorazione, sebbene ai veri riti pasquali essi non potessero par­tecipare perché non erano eguagliati agli Israeliti.
Rimasti colpiti dallo spettacolo del corteo e soprattutto da ciò che videro e udirono della potenza taumaturgica di Gesù, essi desiderarono esser presentati a lui; per riuscirvi più facilmente tra quella calca, si rivolsero al­l'apostolo Filippo (§ 314) e gli dissero: Signore, vogliamo vedere Gesu'. Filippo, alquanto sorpreso dalla richiesta, si consigliò in propo­sito col suo compaesano Andrea, e finalmente ambedue comunicarono la richiesta a Gesù. Ciò che avvenne appresso è narrato da Gio­vanni conforme a quella sua singolare maniera che lumeggia i principii perenni più che gli episodi fugaci: nel suo racconto i Greci che hanno chiesto di esser presentati a Gesù non sono più mentovati, ma in compenso Gesù parla della sua missione e questa è confermata solennemente da una testimonianza divina. Si direbbe che Giovanni nella ricerca di Gesù fatta da questi Greci scorga l'inizio della più ampia ricerca che farà di lui l'umanità, tanto che egli trascura l'epi­sodio occasionale per dilungarsi sul risultato perenne. Alla comuni­cazione dei due Apostoli Gesù replicò E venuta l'ora che sia glorifi­cato il figlio dell'uomo. In verità, in verità vi dico, se il chicco di grano caduto in terra non muoia, esso rimane solo; se invece muoia, porta molto frutto.

Torna dunque l'idea della glorificazione di Gesù Messia, preceduta però dalla prova del dolore supremo; il regno di Dio si dispiegherà in pieno nella maniera riserbatagli nel “secolo” presente, solo dopoché il suo fondatore sia stato disfatto come un chicco di grano nascosto nell'umida terra: da quell'interiore disfa­cimento si sprigionerà la fruttificazione possente e moltiplicativa. Ed eguale alla sorte di Gesù sarà quella dei suoi seguaci: Chi ama la vita sua la perde, e chi odia la vita sua in questo mondo la con­serverà in vita eterna. Se alcuno mi serva, mi segua; e dove sono io, ivi sarà anche il mio servitore. Se alcuno mi serva, il Padre l'ono­rerà. Quindi Gesù ritorna su se stesso, e ripensa alla prova suprema che dovrà precedere la sua glorificazione: Adesso l'anima mia e' tur­bata. E che devo dire? “Padre, salvami da quest'ora”? Al contrario, per questo venni in quest'ora! Padre, glorifica il nome tuo. Appena è apparsa la possibilità di una titubanza davanti alla prova suprema, è respinta; più tardi nel Gethsemani la titubanza riapparirà in circo­stanze ben diverse e con risultato differente (§ 555).

§ 509. L'invocazione finale al Padre celeste fu esaudita. Come già era accaduto al battesimo di Gesù ed alla sua trasfigurazione (§§ 270, 403) venne una voce dal cielo che disse: E glorificai, e di nuovo glo­rificherò. L'oggetto di questa glorificazione non è espresso, ma è chiaramente il nome dell'invocato Padre, il quale sarà glorificato dalla missione del suo Figlio Gesù e soprattutto dalla conclusione di quella missione. La folla astante percepì il suono, ma non capi distintamente le pa­role; perciò alcuni credettero che fosse scoppiato un tuono, chiamato spesso dagli Ebrei “la voce di Diò” (cfr. II Samuele, 22, 14; Salmo 29, 3. 9 ebr.; Giobbe, 37, 5; ecc.), mentre altri supposero che un angelo avesse parlato a Gesù. Egli allora spiegò: Non per me e' stata questa voce, ma per voi. Adesso e' (il) giudizio di questo mondo: adesso il principe di questo mondo sarà scacciato fuori. E io, se sia innalzato dalla terra, attirerò tutti a me stesso. In altre parole, Dio stava per compiere il giudizio di condanna sul mondo presente e su Satana, principe di esso; segno materiale che quel giudizio comin­ciava era la voce testé udita, la quale ricordava le voci divine del Sinai allorché era stata stabilita l'antica alleanza; la chiusura ed il coronamento di quel giudizio si sarebbero avuti quando Gesù fosse stato innalzato dalla terra, poiché avrebbe attirato a sé tutti gli uomini liberandoli dalla sudditanza a Satana.
Appena menzionato l'”innalzamento” di Gesù, l'evangelista si affretta ad aggiungere: Ciò poi diceva, significando di qual morte stava per morire. Non sappiamo però con sicurezza in qual maniera gli ascoltatori di Gesù interpre­tassero il suo annunziato “innalzamento”; dalle loro parole sembra che pensassero ad una specie di “assunzione” di Gesù, analoga al­l'assunzione di Henoch. Gli rispose pertanto la folla: “Noi udimmo dalla Legge che il Cristo (Messia) permane in eterno, e come tu dici che dev'essere innalzato il figlio dell'uomo? Chi e questo figlio dell'uomo?”. Dalle sacre Scritture (Legge) risultava infatti che il regno del Messia sarebbe stato eterno; Gesù invece diceva che egli sarebbe stato innalzato ossia, come interpretavano essi,”assunto” in cielo: dunque il suo regno, qui su questa terra, non sarebbe durato in eter­no. Inoltre, quel titolo di figlio dell'uomo non era chiaro per quegli ascoltatori, i quali forse conoscevano poco o nulla il libro di Daniele (§ 81); essi quindi si sentivano dubbiosi e aspettavano luce da Gesù. Gesù invece questa volta non si estese in spiegazioni, o almeno esse non ci sono tramandate; ci viene trasmesso soltanto ciò che sembra una sua generica esortazione conclusiva. Disse pertanto ad essi Gesu':”Ancora (per) piccolo tempo la luce e' in voi. Camminate mentre avete la luce, aflinché tenebra non vi sorprenda; e chi cammina nel­la tenebra non sa dove va. Mentre avete la luce credete nella luce, affinché diveniate figli di luce”. Mentre Gesù pronunziava queste parole, calavano le prime ombre del vespero, dicendoci espressamen­te Marco (11, 11) che tarda era già l'ora; perciò le parole, mentre convenivano spontaneamente con le circostanze della giornata solare, si riferivano in realtà alla giornata della vita di Gesù e alla sua luce spirituale che era vicina al tramonto. Quando l'ultimo chiarore di quella giornata trionfale fu spento, Gesù con gli Apostoli fece il cammino inverso da Gerusalemme a Bethania, ove passò la notte (Marco, ivi; Matteo, 21, 17; cfr. Giovanni, 12, 36).

Il fico maledetto

§ 510. La divisione cronologica di queste ultime giornate di Gesù si trova meglio che in ogni altro evangelista in Marco; il quale distin­gue nettamente la notte fra la domenica e il lunedì (Marco, 11, 11-12), la notte fra il lunedì e il martedì (11, 19-20), il giorno del mercoldì (14, 1), quello del giovedì (14, 12) e la sua sera (14, 17), e infine la mattina del venerdì (15, 1) suo pomeriggio (15, 25.33) e la sua sera (15, 42), che fu l'ultimo giorno della vita di Gesù. Per i primi giorni gli altri evangelisti sono più vaghi. Luca aggiunge la notizia generica, che Gesù in questa settimana stava durante i giorni nel Tempio insegnando; durante le notti poi, uscito fuori, dimorava nel monte chiamato degli Olivi. E tutto il popolo s'affrettava di buon mattino alla volta di lui nel Tempio per ascoltarlo (Luca, 21, 37-38). Il ripartire tra questi singoli giorni le cose narrate dai quattro evan­gelisti non porta a risultati sicuri. Anche seguendo la distribuzione cronologica di Marco, i fatti e discorsi di Gesù anteriori all'ultima cena spetterebbero in massima parte al martedì, mentre al lunedì e al mercoledì rimarrebbe ben poco; ora, può darsi che questa assegnazione corrisponda alla serie dei fatti, ma può anche benissimo darsi che sia effetto di ripartizione redazionale anzi quest'ultimo caso sembra accertato per taluni fatti, quali la cacciata dei mercanti dal Tempio (§ 287, nota prima) che Marco sembra collocare in questo lunedì, e il banchetto di Bethania (§ 501) che appare collocato al mercoledì. Certamente l'operosità di Gesù in questi ultimi giorni fu molto intensa, e a buon diritto possiamo supporre che ci sia stata narrata soltanto in parte.
Il favore popolare, prolungatosi ancora per due o tre giorni dopo la domenica trionfale, salvaguardava sufficien­temente Gesù dall'odio dei maggiorenti giudei e gli permetteva di trattenersi durante il giorno in Gerusalemme insegnando e disputan­do pubblicamente nel Tempio, ove il popolo l'attendeva ansiosamen­te come ci ha detto Luca; di notte invece, quando il popolo avrebbe potuto far pochissimo e i maggiorenti moltissimo, Gesù si allonta­nava dalla malfida città e, attraversato il torrente Cedron, si ritirava sull'attiguo monte degli Olivi, il quale comprendeva tanto l'amico villaggio di Bethania, quanto il giardino di Gethsemani, ch'era un luogo anche più vicino e prediletto da Gesù. Dunque l'unico impe­dimento a che l'odio dei maggiorenti si sfogasse era la benevolenza del popolo; ma quei maggiorenti sapevano perfettamente che tale benevolenza è quanto di più mutevole e incostante si possa immagi­nare, ed essi attesero il momento propizio per farla mutare d'un col­po senza pubblici sconvolgimenti. In tale attesa consumarono essi questi quattro giorni. Nel primo di essi, il lunedì, Gesù partì da Bethania di buon mattino insieme con gli Apostoli alla volta di Gerusalemme. Prima di partire egli non aveva mangiato, e quindi durante il cammino ebbe fame. Veramente appare strano che egli uscisse dalla casa governata da una solerte massaia come Marta senza prender cibo, tanto più che nel Talmud i rabbini raccomandano il pasto in ora sollecita, e Rabbi Aqiba ammonisce: “Alzati di buon'ora e mangia...; sessanta corrieri potranno correre ma non oltrepassare colui che ha mangiato di buon'ora”. Ma questo non è il solo elemento paradossale del pre­sente episodio; anche altri suoi tratti ci inducono a considerano alla stregua di una di quelle azioni simboliche compiute frequentemente dagli antichi profeti, e specialmente da Ezechiele l'azione era vera e reale, ma usciva dal quadro della vita ordinaria, mirando solo a rappresentare in maniera visiva e quasi tangibile un dato insegna­mento astratto.

§ 511. Per calmare dunque la fame, Gesù s'avvicinò ad un albero di fico che stava presso la strada ed era lussureggiante di foglie, come se ne trovano comunemente ancora oggi sul monte degli Olivi, e cercò tra il fogliame se c'erano frutti. Ma frutti non ce n'erano e non potevano esserci, per la semplice ragione - come dice Marco (11, 13) - che non era la stagione dei fichi. Si stava infatti ai primi d'aprile e a quella stagione in Palestina, anche nelle zone più solatie, l'al­bero di fico può bensì aver gettato i primi bocci, i cosiddetti fichi fiori, ma questi non sono allora in nessun modo mangiabili e maturano solo verso i primi di giugno; anche i frutti della gettata seconda, o autunnale, possono conservarsi sull'albero fin verso gli inizi dell'in­verno, ma non vi resistono mai fino all'aprile in cui allora si stava. Volendo dunque giudicare quell'albero come se fosse stato una per­sona morale e responsabile, bisognerebbe dire che esso non era “col­pevole” se non aveva frutti in quella stagione: in realtà Gesù cercava ciò che, regolarmente, non poteva trovare. Con tutto ciò egli male­disse quell'albero dicendo: Mai piu' in eterno nessuno mangi da te frutto! Tutte queste considerazioni ci confermano che Gesù volle compiere un'azione che aveva valore simbolico, analoga per esempio allo spezzamento della brocca compiuto da Geremia (cap. 19), all'azione compiuta da Ezechiele (cap. 5) di radersi barba e capelli con una spada affilata, e a tante altre azioni paradossali degli antichi profeti, le quali avevano tutte un significato simbolico. In questo caso del­l'albero il simbolo prendeva argomento dal contrasto tra l'abbon­danza del fogliame inutile e la mancanza dei frutti utili: dal quale contrasto era anche giustificata la maledizione all'albero « colpevole ». Chi poi - come gli Apostoli ch'erano presenti - conosceva l'indole del ministero di Gesù ed aveva ascoltato le sue discussioni con i Fa­risei e le sue invettive contro la loro ipocrisia, poteva comprendere agevolmente a chi si riferisse l'insegnamento simbolico: il vero col­pevole era il popolo eletto, Israele, ricchissimo allora di fogliame fa­risaico ma ostinatamente privo da lungo tempo di frutti morali, e quindi meritevole della maledizione di sterilità eterna.

Ché se qualche dubbio su tale riferimento storico poté sussistere da principio nella mente degli Apostoli, esso fu del tutto rimosso dalle parabole della riprovazione (§ 512 segg.) pronunziate da Gesù il giorno appresso e indirizzate appunto contro l'Israele contemporaneo. Quanto avvenne dopo la maledizione di Gesù è riassunto in poche parole da Matteo (21, 19), il quale dice che l'albero si disseccò subito e riporta immediatamente appresso l'ammonizione fatta su tal pro­posito da Gesù. Marco invece segue una cronologia più precisa, giac­ché narra che gli Apostoli riscontrarono il disseccamento dell'albero la mattina appresso - quella del martedì - allorché ritornando con Gesu' da Bethania a Gerusalemme ripassarono per lo stesso posto, ed attribuisce a quella mattina l'ammonizione di Gesù. Ripassando per­tanto di là, Pietro ebbe l'ingenuità d'esclamare: Rabbi, guarda! Il fico che maledicesti si è disseccato! (Marco, 11, 21). Gesù nella ri­sposta non accennò al significato morale del fatto simbolico, e si limitò ad ammonire nuovamente gli Apostoli ad aver fede, con la quale sarebbero riusciti a spostar le montagne (§ 405, nota).
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06/08/2012 19:32

LA SETTIMANA DI PASSIONE. IL MARTEDÌ E IL MERCOLEDÌ

L'autorità di Gesù. Parabola dei due figli



§ 512. In quella mattina del martedì Gesù si recò al Tempio dove il popolo l'aspettava ansioso (§ 510) e si mise ad insegnare; ma ben presto si presentarono anche sommi sacerdoti, Scribi ed Anziani del popolo, cioè i rappresentanti dei vari gruppi del Sinedrio (§ 58), cosicché si ritrovarono riunite tutte insieme le forze in azione: Gesù da una parte, i maggiorenti giudei dall'altra, e in mezzo il popolo che proteggeva Gesù. Per allora c'era equilibrio tra le due forze contrastanti, ma quando l'ostacolo intermedio - ossia il favore popolare - fosse venuto a mancare, l'equilibrio sarebbe stato turbato e le due forze sarebbero venute in urto. E appunto a rimuovere l'ostacolo mirarono quella mattina i maggio­renti, i quali lì davanti alla folla domandarono a Gesù: Con quale autorità fai queste cose? O chi ti dette questa autorità perché (tu) faccia queste cose? (Marco, 11, 28). Il tono della domanda era da inquisizione tribunalesca, e quei maggiorenti trattavano Gesù come se già fosse stato deferito al loro tribunale; ma nello stesso tempo, con quella domanda, essi volevano screditarlo davanti al popolo e fargli perdere il favore di questo: probabilmente speravano che Gesù parlasse sprezzantemente di Mosè, della sua Legge o simili cose, ur­tando i sentimenti popolari. Gesù invece, accettando battaglia anche questa volta e precisamente sul terreno scelto dal nemico, seguì un metodo di discussione molto impiegato dai dottori della Legge, il quale consisteva nel rispondere facendo alla propria volta un'interro­gazione quasi per stabilire un punto ammesso da ambedue le parti.

Gesu' però disse loro: “V'interrogherò in un solo punto; rispondetemi, e allora vi dirò con quale autorità (io) faccio queste cose: - Il battesimo di Giovanni era dal cielo o dagli uomini? - Rispondetemi!”. La domanda di Gesù era assai imbarazzante per i destinatari, specialmente lì davanti alla folla, a causa dell'atteggiamento che essi avevano tenuto di fronte a Giovanni il Battista (§ § 268, 292); il loro imbarazzo è descritto dall'evangelista con queste parole: E ragiona­vano in se stessi dicendo:”Se diciamo: - (Era) dal cielo - (egli ci) dirà: Perché dunque non credeste in lui? - E allora diremo - (Era) dagli uomini?”. (Ma non dissero ciò, perché) temevano la folla; tut­ti infatti ritenevano che Giovanni realmente era un profeta. E ri­spondendo a Geù dicono: “Non sappiamo”. E Gesù dice loro:”Neppure io vi dico con quale autorità faccio queste cose”. La bat­taglia era finita, certo non con la vittoria di chi aveva scelto il ter­reno. I Sinedristi avevano sperato far forza sul consenso popolare, per poi aver nelle loro mani Gesù abbandonato dalla folla; e invece la folla aveva protetto ancora una volta Gesù, il quale inoltre aveva nuovamente ricollegato la propria missione con quella di Giovanni il Battista. Nessuna meraviglia che i Sinedristi non accettassero la missione di Gesù, dal momento che avevano respinto quella del suo precursore.

Per confermare la propria vittoria e schiarire sempre più il colle­gamento della propria missione con quella di Giovanni il Battista, Gesu' soggiunse una parabola. - Un uomo aveva due figli, che im­piegava nel coltivare la sua vigna. Un giorno egli disse al primo: Figlio, oggi va' a lavorare nella vigna! - Quello rispose: Si, signore, vado. - E invece non andò affatto. Più tardi il padre dette lo stesso comando al secondo figlio, il quale rispose: Non voglio andare! - Tuttavia in seguito, pentendosi della sua risposta, andò. E Gesù concluse: Chi dei due fece la volontà del padre? Gli risposero: L'ul­timo. Gesù allora applicò la parabola al caso storico: in verità vi di­co che i pubblicani e le meretrici precedono voi nel regno d'iddio. Venne infatti a voi Giovanni in via di giustizia e non credeste in lui, mentre i pubblicani e le meretrici credettero in lui; voi al contrario, dopo aver veduto, neppure piti tardi vi pentiste si da credere in lui (Matteo, 21, 31-32). Dunque gl'inappuntabili Scribi e Farisei erano adombrati in quel figlio che a parole obbediva ma a fatti era ribelle; al contrario lo scarto della nazione eletta, cioè pubblicani e meretrici, avevano indubbiamente errato ma poi erano rinsaviti accettando la missione di Giovanni il Battista, e così avevano imitato il figlio dap­prima ribelle e poi obbediente. Tra i due figli, colui che dopo aver fatto il male “cambia di mente” e passa a fare il bene, è da preferirsi a colui che non si decide mai a fare il bene pur dichiarandosi sempre pronto a farlo.

Parabola dei vignaioli omicidi

§ 513. La precedente parabola era stata una sentenza di riprovazione per coloro che allora si stimavano le guide e i più insigni rappresen­tanti della nazione eletta; ma Gesù ne soggiunse un'altra, egualmen­te di riprovazione, in cui volle riassumere l'intera storia d'Israele confrontata con l'economia prestabilita da Dio riguardo alla salvezza umana. L'insegnamento velato in questa nuova parabola era eguale a quello impartito da Gesù poche ore prima, con l'azione simbolica di maledire e far disseccare l'albero di fico; l'immagine che vien im­piegata nella parabola era già stata impiegata sette secoli prima e per lo stesso scopo dal profeta Isaia, cosicché Gesù ricollegava ancora una volta la sua propria missione con quella degli antichi profeti e nello stesso tempo rendeva facilissima l'interpretazione della sua para­boIa. Isaia (5, i segg.) nel suo celebre carme aveva descritto una vigna nel­la quale il padrone aveva riversato le più amorevoli cure, sceglien done il sito in un terreno ubertoso, ripulendolo da pietre, piantandovi maghuoli sceltissimi, costruendovi tutt'attorno un recinto di pre­tezione e al di dentro una torre di guardia col suo presso in basso; nonostante tutto ciò quella vigna si era ostinata a produrre acri lambrusche invece di dolci uve. La spiegazione soggiunta all'allego­ria aveva ricordato che l'ingrata vigna era la nazione d'Israele e il suo padrone era il Dio Jahvè Sebaoth; il quale però, esacerbato dalla sterilità della vigna, ne avrebbe abbattuto il recinto abbandonandola a devastazione e lasciandovi crescere rovi e spine. Questa immagine fondamentale, ripresa da Gesù, fu da lui ampliata e precisata con ciò ch'era avvenuto nei sette secoli trascorsi da Isaia fino a lui. C'era un uomo, padrone di casa, il quale piantò una vigna, e la cir­condò di siepe, e scavò in essa un pressoio e costruì una torre, e la cedette a vignaiuoli, e partì per l'estero.

Quando poi s'avvicinò il tem­po dei frutti, inviò i suoi servi ai vignaiuoli a prendere i suoi frutti; e i vignaiuoli, presi i servi di lui, uno (ne) percossero, un altro (ne) uccisero e un altro (ne) lapidarono. Nuovamente inviò altri servi piu' numerosi dei primi, e (i vignaiuoli) fecero ad essi ugualmente. Alla fine inviò loro il figlio suo dicendo: “Avranno rispetto per il figlio mio!”. Ma i vignaiuoli, veduto il figlio, dissero fra loro:“Questo e' l'erede. Su dunque, uccidiamolo ed avremo la sua eredità! “. E presolo, (lo) scacciarono fuori della vigna ed uccisero. Quando dun­que venga il padrone della vigna, che cosa farà a quei vignaiuoli? - Gli dicono: (Essendo) cattivi, di cattiva fine li farà perire, e cederà la vigna ad altri vignaiuoli i quali gli consegneranno i frutti alle loro stagioni”. Dice loro Gesu':”Non leggeste mai. nelle Scritture - Una pietra che scartarono i costruttori” questa divenne testata d'angolo:dal Signore avvenne questa cosa” ed e mirabile agli occhi nostri - ? Salmo 118, 22-23 ebr. Per questo vi dico che sarà tolto a voi il regno d'Iddio e sarà data a nazione che faccia i frutti di esso” (Matteo, 21, 3343). Non era necessaria la perizia dei Farisei nelle sacre Scritture e la loro conoscenza della storia religiosa della propria nazione per compren­dere subito che la vigna era Israele, il padrone era Dio, e i servi malmenati o uccisi erano i profeti, le cui morti violente formavano un necrologio ininterrotto lungo le pagine delle Scritture. Ma a que­sta parte riguardante il passato Gesù aveva aggiunta, a guisa di con­clusione, una parte riguardante il futuro ed era quella ove aveva detto che lo stesso figlio, inviato per ultimo dal padrone della vigna, era stato percosso ed ucciso; evidentemente in questo figlio l'oratore aveva adombrato se stesso, e così si era proclamato implicitamente figlio di Dio ed aveva accusato in anticipo i colpevoli del loro futuro delitto. Tutto era di una chiarezza e precisione che non lasciava luo­go ad equivoci. Ed il risultato di questa perfetta comprensione fu in armonia con lo stato d'animo degli uditori: avendo udito i sommi sacerdoti e i Farisei le parabole di lui conobbero che di loro (egli) parla; e cercando d'impadronirsene ebbero paura delle folle, poiché (queste) lo ritenevano per profeta.

Il tributo a Cesare

§ 514. Anche quella volta, dunque il favore popolare aveva funzio­nato da ostacolo protettivo di Gesù di fronte ai maggiorenti; costoro perciò, fremendo dal desiderio di concludere la lotta che si prolun­gava serrata da troppo tempo, decisero di aggirare quel fastidioso ostacolo compromettendo Gesù in maniera tale che il favore del po­polo non avrebbe potuto giovargli. Tenuto breve consiglio sul da farsi (Matteo, 22, 15), i Farisei inviaro­no a Gesù alcuni dei loro discepoli insieme con taluni Erodiani (§ 45) per proporgli, in pubblico e in maniera che la folla ascoltasse, una particolare questione. La presenza degli Erodiani già induceva a pre­vedere che si trattava di una questione politica, cioè di un argomen­to che Gesù aveva sempre evitato. Gl'inviati s'avvicinano pieni d'o­stentato rispetto, come se non avessero nulla in comune con i prece­denti interlocutori e venissero da tutt'altra parte, e untuosamente di­cono a Gesù: Maestro, sappiamo che sei veritiero ed insegni la via d'Iddio con verità e non tieni conto di nessuno, perché non guardi in faccia agli uomini; dicci dunque, che cosa ti sembra: e' lecito dare censo a Cesare o no? (Matteo, 22, 1~l7).
La domanda, come già ha avvertito l'evangelista, era un tranello che consisteva in questo: se Gesù avesse risposto ch'era lecito, si sarebbe attirato l'odio del po­polo, perché colui che figurava come Messia ed eroe nazionale non avrebbe mai potuto dichiarar lecito il riconoscere un'autorità poli­tica straniera e il pagarle un tributo qualsiasi; se poi Gesù avesse risposto ch'era illecito, siffatta dichiarazione era bastevole per de­nunziarlo al procuratore romano come ribelle e istigatore di sommos­se, tanto più che la grande ribellione di Giuda il Galileo avvenuta un trentennio prima era stata provocata dal censimento romano intima­mente riconnesso col pagamento del tributo (§ 43).
I Farisei, da per­sone esperte, trovarono che il dilemma era rigorosamente cornuto, e quindi che Gesù sarebbe rimasto vittima di una delle due alternative: probabilmente s'aspettavano ch'egli dichiarasse illecito il pagamento del censo, e in tal caso la denunzia subito presentata dai testimoni Erodiani avrebbe fatto colpo sul procuratore romano. Ma le previsioni fallirono, perché il dilemma fu rivolto contro gli interroganti. Disse infatti Gesù: Perché mi tentate, ipocnti? Mostra­temi la moneta del censo. Gli fu porto un denarius romano d'argen­to, che valeva poco più di una lira in oro odierna: serviva da mo­neta corrente per il pagamento delle imposte, ed era stato coniato fuori della Palestina perché era di metallo prezioso e recava impressa un'effigie umana, mentre le monete coniate in territorio giudaico era­no soltanto di bronzo e non recavano alcuna effigie umana in omag­gio alla nota prescrizione del giudaismo (§ 23). Se il denarius porto a Gesù era - come sembra assai probabile - quello di Tiberio allora regnante, esso recava sul retto l'immagine dell'imperatore coronato e attorno ad essa l'iscrizione TI.(berius) CAESAR DIVI AUO.(usti) f. (ilius) AUGUSTUS.

Alquanto strana era parsa la richiesta di Gesù di vedere una moneta del censo quasicché non le avesse mai viste, ma anche più strana sembrò la sua domanda quandò ebbe la moneta sott'occhi: Di chi e' questa immagine e iscrizione? Ma come, non lo sapeva? Anche l'ul­timo ragazzo palestinese sapeva che effigie e nome erano di quell'im­peratore che stava laggiù a Roma a comandare sul mondo intero e - purtroppo - anche su Gerusalemme. Meravigliati di quella igno­ranza gli risposero: Di Cesare. Ma l'ignoranza era simile a quella già usata da Socrate nel suo metodo interrogativo, la quale mirava a far enunciare una data verità all'interrogato stesso. Con la risposta ottenuta, che effigie e nome erano di Cesare, Gesù aveva ottenuto quanto voleva; egli allora ne concluse: Rendete dunque le cose di Cesare a Cesare, e le cose d'iddio a iddio. La conclusione scaturiva, per una logica rigorosa, dalla risposta dei Farisei. Era di Cesare quel­la moneta? Ebbene, la rendessero a Cesare, giacché per il semplice fatto che essi accettavano quella moneta e se ne servivano correntemente mostravano di accettare la sovranità di chi l'aveva battuta.
E così la questione politica era risolta senza che Gesù fosse entrato nell'evitato campo politico, ma solo in virtù della confessione che la moneta era di Cesare. Tuttavia, affermando il solo dovere verso Cesare, la questione non era totalmente risolta secondo Gesù. La sua missione tendeva al re­gno di Dio, non a quello dell'uno o dell'altro Cesare, e quando gli uomini avessero reso al rispettivo Cesare quel che gli spettava avreb­bero compiuto solo una parte, e non la più importante, del loro do­vere. Perciò alla prescrizione di rendere a Cesare, Gesù soggiunge l'altra di rendere a Dio, e l'aggiunse come elemento non solo integra­tivo di tutta la risposta ma anche rafforzativo della prima prescri­zione. Gesù infatti non conosce di persona nessuno dei Cesari di que­sto mondo, e non sa se essi si chiamino Augusto oppure Tiberio, Erode Antipa oppure Ponzio Pilato: sa soltanto che essi sono investiti di un'autorità la quale dev'essere rispettata.

Ma perché questa sud­ditanza a Cesare? Appunto in virtù della sudditanza a Dio. I doveri verso Cesare formano solo un piano del gran quadro in cui Gesù contempla il regno di Dio: chi appartiene al regno di Dio compia, in forza di questa sua appartenenza, i suoi doveri verso il pro­prio Cesare; ma subito appresso, appena sdebitatosi verso Cesare, ri­salga egli nei piani superiori e spazieggi nei dominii imperituri del Padre celeste.

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06/08/2012 19:36

I Sadducei e la Resurrezione

§ 515. L'insidiosa questione del tributo a Cesare era finita con una sconfitta dei Farisei interroganti, i quali avendo udito furono presi d'ammirazione e lasciatolo se n'andarono (Matteo, 22, 22). Di questa sconfitta si compiacquero i rivali Sadducei, i quali si fecero subito avanti a ritentare per proprio conto una nuova partita; questa avrebbe riguardato l'argomento della resurrezione dei corpi, tenacemente negata dai Sadducei (§ 34) e oggetto di vecchie dispute fra loro e i Farisei. Si presentarono pertanto a Gesù per sottoporgli non la questione astratta della resurrezione, ma un caso concreto, uno di quei “casi” che formavano la delizia delle accademie giudaiche. Cominciarono col citare la legge del “levirato”, con cui Mosè pre­scrive che, se un Ebreo muoia non lasciando figli, il fratello del morto sposi la vedova di lui per procurare una discendenza al defunto (Deu­teronomio, 25, 5 segg.).

Ricordata questa legge, essi presentarono il “caso”. C'erano stati sette fratelli, il primo dei quali era morto non lasciando figli, cosicché il secondo fratello aveva sposato la vedova del primo; ma anche costui era morto non lasciando figli, e la don­na era stata sposata dal terzo; altrettanto era avvenuto con tutti i successivi fratelli fino al settimo, e dopo la morte del settimo era mor­ta anche la donna. Ora - chiedevano quei Sadducei - di chi sareb­be stata moglie quella donna, quando fosse risorta insieme con tutti e sette contemporaneamente? Tutti e sette, infatti, avevano egual diritto su di lei. Il caso era tipicamente accademico; ma in fatto d'astruseria e di manierismo si andava oltre, come appare dal seguente “caso” conser­vato nel Talmud. - C'erano 13 fratelli, e 12 di essi morirono senza figli. Le 12 vedove citarono allora il superstite fratello davanti al Rabbi (Giuda I, morto sui primi del sec. III) affinché le sposasse in forza della legge del “levirato”; ma il superstite dichiarò che non aveva rnezzi finanziari per mantenere le 12 aspiranti.
Esse allora, tutte d'accordo, dichiararono che ciascuna avrebbe provveduto al mantenimento durante un mese all'anno, e così si sarebbe provve­duto a tutti e 12 i mesi. Senonché il futuro marito delle 12 aspiranti fece cautamente osservare che nel calendario ebraico i mesi dell'an­no erano talvolta 13: ciò infatti avveniva circa ogni 3 anni, quando si intercalava un tredicesimo mese per eguagliare l'ufficiale anno lu­nare con l'anno solare; ma il generoso Rabbi rispose che nel caso di mese intercalato egli avrebbe provveduto al mantenimento. E così avvenne. Dopo 3 anni le 12 vedove rimaritate si presentarono alla casa del Rabbi recando complessivamente 36 bambini, e il Rabbi li mantenne tutti per quel mese.

§ 516. I Sadducei che proposero il loro “caso” a Gesù non s'interessavano di questioni finanziarie, ma di quella della resurrezione. Secondo essi il caso proposto dimostrava che la resurrezione era impossibile, giacché risorta che fosse quella donna avrebbe dovuto essere nello stesso tempo moglie di tutti e sette i risorti mariti: ma poiché ciò era manifestamente una sconcezza e un'assurdità, per questo la resurrezione si dimostrava impossibile. Se poi Gesù avesse tentato di difendere la resurrezione, nello sciogliere il caso proposto si sarebbe cacciato in un ginepraio di ridicolaggini perdendo così ogni credito sulla folla. Questo modo di ragionare presupponeva un concetto della resurrezione molto crasso e materialesco, il quale anche per tale ragione era respinto dai Sadducei mentre tra i Farisei era predominante seb­bene non universale; questo concetto immaginava la resurrezione come il ridestarsi di un dormiente, il quale svegliato che sia si ri­trova nelle stesse condizioni naturali di prima che s'addormentasse. Perciò ai risorti si assegnavano le antiche attività di mangiare, bere, dormire, generare, ecc.; anzi sembrava conveniente che queste atti­vità fossero accresciute e rafforzate, tanto che un cinquantennio dopo Gesù l'autorevole Rabban Gamaliel sentenziava che nella vita futura le donne partoriranno ogni giorno come le galline. Gesù taglia corto a tali fantasticherie puerili, e risponde: Errate, non sapendo le Scritture né la potenza d'iddio.
Nella resurrezione infatti (i risorti) né sposano né sono spòsati, ma sono come angeli nel cielo. I risorti saranno bensì gli stessi uomini di prima, ma non già nelle stesse condizioni di prima: la loro nuova condizione sarà come quel­la degli angeli nel cielo. Continuò poi Gesù: Riguardo alla resurrezione dei morti, non leggeste ciò che fu detto a voi da Iddio affermante “io sono il Dio di Abramo e il Dio d'isacco e il Dio di Gia­cobbe”? (Esodo, 3, 6) Non è Dio di morti ma di viventi. Il passo citato da Gesù fa parte della Torah, l'unica Scrittura sacra accettata dai Sadducei (§ 31); questa sembra la ragione come notò già S. Girolamo - per cui Gesù, tralasciando altri passi delle Scritture che attestano più chiaramente le fede nella resurrezione dei morti (§ 80), argomenti da questo passo che a differenza degli altri non poteva essere rifiutato dai Sadducei. Ad ogni modo l'argomentazione è condotta secondo i metodi delle scuole rabbiniche, e presuppone il patrimonio ideale dell'ebraismo il Dio dei patriarchi ebrei è Dio non di morti ma di viventi; dunque quei patriarchi vivono anche dopo la loro morte corporea, e la resurrezione è attestata dalle sacre Scritture.

Il massimo comandamento. Il Messia figlio di David

§ 517. L'alternativa di Farisei e Sadducei continuò ancora in quel giorno operosissimo per Gesù. La risposta data ai Sadducei piacque a uno Scriba presente alla discussione, il quale perciò si fece avanti e propose a Gesù una questione che corrispondeva bene ai metodi rab­binici: Qual e' il comandamento primo di tutti? (Marco, 12, 28) o come è riportata da Matteo (22, 36): Qual (e' il) comandamento (piu') grande della Legge? La Legge scritta infatti, ossia la Torah, con­teneva secondo i rabbini 613 precetti (§ 30), dei quali 248 erano po­sitivi perché comandavano una data azione, e 365 erano negativi per­ché proibivano di fare alcunché: gli uni e gli altri, poi, eran ripartiti in precetti “leggieri” e precetti “gravi” a seconda dell'importanza che si attribuiva loro.
Ora, fra tutti questi comandamenti vi sarà pure stata una specie di gerarchia, e fra i precetti “gravi” ve ne sarà stato uno gravissimo che superava per importanza tutti gli al­tri. Ciò appunto voleva sapere da Gesù questo Scriba. La risposta di Gesù fu quella già data al dottore della Legge per cui fu pronunziata la parabola del buon Samaritano: Gesù recitò l'inizio dello Shema' (§ 438). Il primo (comandamento) e': “Ascolta Israele! Il Signore Iddio nostro e' Signore unico; e amerai il Signore Iddio tuo con tutto il cuore tuo, e con tutta l'anima tua, e con tutta la mente tua, e con tutta la forza tua”. (Il) secondo (comandamento e') questo:”Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Maggiore di que­sti, altro comandamento non e'. Veramente lo Scriba aveva interro­gato circa un solo comandamento, il massimo fra tutti; Gesù ha ri­sposto recitando il comandamento dell'amore di Dio, ma quasicché tale comandamento non sia da solo integro e pieno - almeno nel campo pratico - vi aggiunge l'altro dell'amore del prossimo: questi due precetti, che si riconnettono l'un l'altro, formano per Gesù il comandamento “massimo”. Le stesse idee erano già state espresse nel Discorso della montagna (§§ 327, 332). Lo Scriba approvò cor­dialmente la risposta di Gesù riscontrando da parte sua che il doppio amore di Dio e del prossimo valeva più che tutti gli olocausti e i sacrifizi del Tempio. In premio di questa sua replica Gesù gli disse: Non sei lontano dal regno d'Iddio. Gli mancava, in fatti, soltanto di credere nella missione di Gesù ad imitazione di Pietro, di Giovanni, e di tanti altri. Se ciò poi avvenisse, non sappiamo. Dopo questa discussione finita con l'accordo dei due ci si dice che nessuno piu' osava interrogarlo (Marco, 12, 34).
Gesù però venne per conto suo alla riscossa. Avvicinatosi nel Tempio stesso a un altro gruppo di Farisei, intavolò una questione riguardo ai Messia: Da quale stirpe sarebbe disceso il Messia? Di chi sarebbe egli stato figlio? Gl'interrogati, d'accordo con tutta la tradizione ebraica, risposero: Di David. Gesù allora fece osservare che nella sacra Scrittura Da­vid stesso, il cui nome figura nell'iscrizione in cima al Salmo 110 ebr. (Vulg. 109), si esprime ivi cosi: Oracolo di Jahvè al mio Signore: “Siedi alla mia destra, finchè Io ponga i tuoi nemici (quale) sgabello per i tuoi piedi!”. Da questo passo Gesù argomentò: Se dunque David lo chiama “Si­gnore”, come e' figlio di lui?
La forza dell'argomentazione poggiava su due punti ammessi anche dai Farisei: in primo luogo, che nel Salmo parlava David come mostrava la sua iscrizione; in secondo luogo, che il Salmo trattava del futuro Messia, come risulta dal largo impiego in questo senso che se ne fa nel Nuovo Testamento (più di quindici volte) e che presuppone il consenso della parte avversaria. Perché mai, dunque, David chiamava “Signore” il futuro Messia che era suo discendente? Ciò dimostrava, secondo Gesù, che il Mes­sia era più che un semplice “figlio di David” e racchiudeva in sé qualità che lo rendevano piu' che Giona e piu' che Salomone (§ 446) e anche più che David; ma Gesù voleva avere dai Farisei la spiega­zione di questa apparente incongruenza. Quei Farisei però non po­terono rispondere nulla. Più tardi, dal secolo II in poi, i rabbini risolsero la questione sostenendo che il Salmo non si riferiva al Messia, bensì ad un altro personaggio: che di solito era creduto Abramo, talvolta David stesso (!),e secondo la solitaria notizia di Giustino (Dial. cum Tryph., 33 e 38) il re Ezechia. Questa mutazione di riferimento fu evidentemente determinata dalla polemica anticristiana.

[SM=g27998] L’”Elenchos” contro Scribi e Farisei. L'offerta della vedova

§ 518. I Greci antichi avevano chiamato e'lenchos quella parte dell'orazione forense in cui, esponendosi le accuse addotte contro l'avversario, si corredavano delle rispettive prove; era dunque un biasi­mo dimostrativo del disonore altrui, come nei tempi più antichi (presso Omero) e'lenchos aveva significato sia “biasimo” sia “diso­nore”. In quel tempestoso martedì, consumato da Gesù in buona parte a battagliare contro Scribi e Farisei, non poteva mancare un e'lenchos contro questi avversari che riassumesse ed integrasse le accuse già formulate in precedenza. Difatti tutti e tre i Sinottici riportano tale requisitoria di Gesù in questo giorno, ma con le solite divergenze: Marco (12, 38-40) è brevissimo; cosi pure Luca (20, 4647), il quale però ha già riferito un ampio formulario d'accuse in occasione del pranzo offerto a Gesù dal Fariseo (§ 447). Lunghissimo è invece Matteo (cap. 23), il quale incorpora quasi tutto il formulario di Lu­ca accrescendolo di altre accuse. E’ probabile che Matteo, come ha già fatto per il Discorso della montagna (§ 317), abbia riunito qui per motivi redazionali alcune sentenze di Gesù pronunziate occasionalmente altrove: e questa conclusione è suggerita anche dall'esame let­terario dell'e'lenchos, ch'è diviso simmetricamente in tre parti (23, 1-12; 23,13-32; 23, 33-39), ed ha la seconda parte suddivisa in set­te Guai a voi!... (§ 125); tuttavia la collocazione di Matteo è nel suo complesso preferibile a quella di Luca, e il nucleo principale del di­scorso dovette esser pronunziato da Gesù appunto in questo scorcio di sua vita come del resto confermano vagamente gli altri due Sinot­tici. Riproduciamo qui integralmente l'e'lenchos di Matteo, rinviando per le parti già viste a quanto già se ne disse in precedenza. Sulla cattedra di Mose' si sedettero gli Scribi ed i Farisei. Perciò tut­te quante le cose che vi dicano fate ed osservate, ma conforme alle opere loro non fate, giacche' dicono e non fanno. Legano infatti cari­chi pesanti e (li) impongono sulle spalle degli uomini, ma essi col loro dito non vogliono rimuoverli. Fanno poi tutte le opere loro per esser rimirati dagli uomini: allargano infatti le loro filatterie e ingrandiscono le loro frange, amano poi il primo divano nei conviti e i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze e l'esser chiamati “Rabbi” dagli uomini. - Voi invece non vi lasciate chiamare “Rabbi”: uno solo infatti e' il vostro maestro, e voi siete tutti fratel­li. E non chiamate “padre” vostro (alcuno) sulla terra: uno solo infatti e' il Padre vostro, quello celeste. E non vi lasciate chiamare “direttori” perché direttore vostro e' uno solo, il Cri­sto. invece chi di voi e' maggiore, sara' inserviente di voi; chiunque poi s'innalzera' sara abbassato, e chiunque s'abbassera sarà innalzato. In questa prima parte del discorso Gesù traccia i lineamenti caratte­ristici dei Farisei, e tornano perciò alcuni tratti delle sue precedenti discussioni con essi: parlando qui egli alla folla deI Tempio, passa subito appresso ad esortare affinché quelle caratteristiche non siano imitate e si faccia precisamente il contrario. La vanagloria dei Fa­risei si esercitava fra l'altro nelle filatterie, le quali consistevano in bossoletti ove stavano arrotolate strisce di pergamena su cui erano scritti alcuni passi dei Libri sacri (cioè Esodo, 13, 1-10; 13, 11-16; Deuteron., 6, 4-9; 11, 13-21): du­rante la preghiera l'Israelita applicava (ed applica ancora) le strisce sulla fronte e sul braccio sinistro, intendendo di eseguire letteralmen­te la prescrizione contenuta in Deuteron., 6, 8 (cfr. Esodo, 13, 9). I vanagloriosi si procuravano strisce più ampie e vistose, per dare più sull'occhio; altrettanto facevano con le frange del mantello che avevano anch'esse un significato religioso ed erano portate pure da Gesù, come già vedemmo (§ 349).

§ 519. La seconda parte del discorso costituisce il vero e'lenchos: Guai però a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché rinserrate il regno dei cieli in faccia agli uomini: voi infatti non entrate, né gli entranti lasciate entrare. Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché girate per mare e per terra per fare un solo proselita, e quando sia divenuto (tale) lo ren­dete figlio di Geenna il doppio di voi. Guai a voi, guide cieche che dite:”Chi abbia giurato per il santua­rio, e' nulla; ma chi abbia giurato per l'oro del santuario, e' obbliga­to”. Stolti e ciechi! Chi e' infatti maggiore, l'oro oppure il santuario che ha santificato l'oro? E (dite anche):”Chi abbia giurato per l'al­tare, e' nulla; ma chi abbia giurato per il dono che (sta) sopra a quello, e' obbligato”. Ciechi! Che cosa infatti e' maggiore, il dono oppu­re l'altare che santifica il dono? Chi dunque ha giurato per l'altare, giura per esso e per tutte le cose che (stanno) sopra a quello; e chi ha giurato per il santuario, giura per esso e per chi l'abita; e chi giurato per il cielo, giura per il trono d'Iddio e per chi vi è assiso sopra1 Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché pagate la decima della menta e della finocchiella e del comino, e lasciate le cose piu' gravi della Legge, il giudizio e la misericordia e la fede! Invece, queste cose bisognava fare e quelle non tralasciare. Guide cieche, che filtrate il moscerino e inghiottite invece il camello! Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché mondate l'esterno della coppa e del vassoio, mentre l'interno e' riempito di rapina e sfrena­tezza! Fariseo cieco, monda dapprima l'interno della coppa affinché diventi puro anche l'esterno di essa! Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché rassomigliate a sepolcri imbiancati, i quali al dì fuori appaiono belli, al dì dentro invece sono ripieni d'ossa di morti e d'ogni impurità! Così anche voi all'esterno apparite giusti agli uomini, all'interno invece siete colmi d'ipocrisìa e d'iniquità. Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché costruite i sepolcri dei profeti ed abbellite le tombe dei giusti, ed esclamate.”Se fossimo stati ai giorni dei padri nostri, non saremmo stati loro complici nel sangue dei profeti!”. Cosicché attestate a voi stessi che siete figli di quei che uccisero i profeti. E voi colmate la misura dei padri vo­stri! L'e'lenchos ha denunziato i fatti; tale denunzia serviva già da prova, perché tutti gli uditori sapevano per esperienza che i casi mentovati corrispondevano alla realtà. Un quarantennio più tardi, dopo la ca­tastrofe del 70, lo stato delle cose cambierà alquanto: i Farisei rimar­ranno le guide sole e incontrastate del residuo della nazione e molti­plicheranno a piacer loro norme e prescrizioni; ma rinunceranno del tutto all'ansioso proselitismo qui accennato, e di cui già vedemmo al­cuni risultati ottenuti fra i Greci (§ 508).

§ 520. Ma l'annunzio che i Farisei hanno colmato la misura dei padri loro segue la deplorazione, come nella procedura forense alla dimo­strazione del delitto seguiva la pena; è la terza parte del discorso: Serpenti, razza di vipere, come (avverrà che) sfuggiate al giudizio (condanna) della Geenna? Per questo ecco io invio a voi profeti e sa­pienti e scribi: di essi ucciderete e crocifiggerete, e di essi flagellerete nelle vostre sinagoghe (§ 64) e perseguiterete di città in città, affin­ché venga su voi tutto il sangue giusto versato sulla terra, dal sangue di Abele il giusto fino al sangue di Zacharia figlio di Barachia che uccideste fra il santuario e l'altare. in verità vi dico, verranno tutte queste cose su questa generazione! - Gerusalemme, Gerusalemme, uccidente i profeti e lapidante gl'inviati ad essa! Quante volte volli coadunare insieme i tuoi figli, alla maniera che una gallina coaduna i pulcini sotto le ali, e (voi) non voleste! Ecco, e lasciata a voi la vo­stra casa deserta. Vi dico infatti, non (sarà che) mi vediate da adesso fino a che diciate: “Benedetto il Veniente in nome del Signore!”. Questa ultima parte, più che una minaccia, è in realtà una deplora­zione. Gesù deplora che i suoi reiterati tentativi di salvare città e nazione siano stati frustrati, e che l'intero edificio costruito man ma­no da Dio per la salvezza d'Israele venga demolito man mano dalla pervicacia degli uomini: ciò ch'è avvenuto a al tempo della Legge quando i profeti di Jahvè finivano lapidati, avverrà anche al tempo del Messia i cui inviati finiranno in maniera analoga; ma in tal modo tutto il peso dei delitti anche più antichi graverà su quei che compiono l'ultimo delitto, perché costoro scalzano le ultime fonda­menta dell'edificio di Dio, e colmando la misura attireranno su se stessi la vendetta totale. E dunque una minaccia salutare, un supre­mo angoscioso grido affinché le guide cieche della nazione eletta s'arrestino sull'estremo orlo dell'abisso. Dei delitti antichi sono ricordati per nome solo due, l'uccisione di Abele e quella di Zacharia, probabilmente perché erano narrate l'una al principio del primo libro della Bibbia ebraica che è il Genesi (4, 8), e l'altra sulla fine dell'ultimo libro che sono le Cronache (II Cron., 24, 20-22). Vecchia, poi, è l'altra difficoltà offerta dall'appellativo paterno di Zacharia chiamato qui figlio di Barachia, mentre nelle Cronache è chiamato figlio di Jojada; al contrario appare come figlio di Barachia il profeta Zacharia (Zach., 1, 1. 7), che è tutt'altra persona dallo Zacharia qui ricordato. E notevole però che l'appellativo paterno manca nel passo parallelo di Luca (11, 51) e anche nell'autorevolis­simo codice Sinattico di Matteo: ciò potrebbe far sospettare che fi­glio di Barachia sia un'antica glossa infiltratasi nel testo greco ma assente nell'originale semitico di Matteo (§ 121), salvo che la divergen­za si fondi su altre ragioni che a noi oggi sfuggono. I due Sinottici, che soli riportano quest'apostrofe di Gesù a Geru­salemme, mostrano con ciò di conoscere i reiterati tentativi di Gesù per salvare la città e quindi i suoi ripetuti viaggi alla capitale, seIbbene questi viaggi siano oggetto della narrazione di Giovanni e non dei Sinottici: quindi la tradizione sinottica implicitamente conosce quella giovannea, sebbene non se ne serva (§ 165).

§ 521. Ma con questo appello, angoscioso e minaccioso, i tentativi di Gesù finiscono. Quando sia avvenuta l'ultima ripulsa e consumato l'ultimo delitto, la loro casa sarà abbandonata ad essi deserta, priva dell'aiuto di colui che hanno respinto. Né essi rivedranno mai più lui, se non in tempi d'un futuro remotissimo allorché l'aberrante na­zione si sarà ravveduta del suo errore e farà ricerca del respinto: Una voce sulle nude colline si ode, il pianto supplichevole dei figli d'Israele: ché aberrarono dalla loro via, dimenticarono Jahvè loro Dio; saranno giorni, quelli, in cui non si esclamerà più oltre “O Arca dell'alleanza di Jahvè!”, non starà (piu') a cuore, non si penserà ad essa, non sarà rimpianta nè costruita piu' oltre; e agli aberranti sarà rivolto un invito: Ritornate, o figli ribelli, guarirò io le vostre ribellioni! ed essi risponderanno: Eccoci, noi veniamo a te, perché tu sei Jahvè nostro Dio!... Davvero, in Jahvè nostro Dio sta la salvezza d'Israele! Geremia, 3, 16... 23, con inversioni. Questa visione dell'antico profeta è contemplata nuovamente da Ge­sù ma sullo sfondo d'un tempo del tutto nuovo ed ancor più remoto, quello dell'ultima parusia; allora Israele, riconciliato col già respinto Messia, potrà nuovamente vederlo perché gli andrà incontro rivol­gendogli l'acclamazione già rivoltagli nel breve trionfo di due giorni prima Benedetto il Veniente in nome del Signore! (§ 504). Qualche anno più tardi il fariseo Paolo di Tarso, divenuto “schiavo del Cristo Gesù”, contemplerà anch'egli il remotissimo tempo in cui i suoi connazionali, presentemente accecati, riacquisteranno la vista e cosi l'intero israele sarà salvato (Romani, 11, 25-26). Dopo l'e'lenchos contro Scribi e Farisei, ci è dato assistere ad una umile ma nobilissima scenetta che è precisamente l'opposto del mon­do spirituale degli Scribi e dei Farisei: la scenetta è descritta da Luca (21, 1-4) ma anche più vividamente da Marco (12, 41-44); Matteo invece, inaspettatamente, la omette. Forse si tratta di un elemento della catechesi di Pietro, trasmesso a Luca per mezzo di Marco.
§ 522. Quel martedì era quasi trascorso; Gesù, terminata l'accorata deplorazione contro i suoi avversari, entrò nelle parti interne del Tempio spingendosi fino all'”atrio delle donne”, e ivi si sedette di fronte all'attigua aula del Tesoro (§ 47). All'ingresso di questa erano collocate, per raccogliere le offerte, tredici casse chiamate “trombe” dalla forma allungata dell'imboccatura nella quale si gettavano le monete; in occasione di grandi feste, come questa di Pasqua, le of­ferte erano abbondantissime perché molti pellegrini approfittavano di questa loro venuta per pagare il tributo prescritto per il Tempio (§ 406) e tutti in genere facevano oblazioni spontanee: perciò vicino al­le casse stavano di guardia alcuni sacerdoti, che certificavano il pa­gamento del tributo e sorvegliavano il regolare svolgimento delle operazioni. Seduto lì di fronte, Gesù guardava. Molti ricchi venivano alle casse e con molta ostentazione gettavano dentro manciate di monete, sicuri con ciò di essere apprezzati assai, oltreché dagli uomini, anche da Dio; framezzo a costoro, non avvertita né curata da alcuno, venne una povera strascicata di vedova che lasciò cadere nella cassa soltanto due minuzzoli che e' (un) quadrante (§ 133), cioè neppure due centesimi. Allora Gesù, chiamati a sé i suoi discepoli disse loro: In verità vi dico che questa vedova, povera, gettò piu' di tutti quei che gettano nel tesoro; tutti infatti gettarono (traendo) dal sovrab­bondante ad essi: questa invece (traendo) dalla sua indigenza gettò tutto quanto aveva, l'intera sua sussistenza (Marco, 12, 43-44). Anche con questa osservazione il maestro dello spirito si opponeva ai maestri dell'esteriorità, suoi avversari.

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06/08/2012 20:31

Il discorso escatologico

§ 523. La giornata volgeva oramai al tramonto; Gesù s'avviò per uscire dal Tempio e passar la notte fuori della città, come soleva fare in quella settimana (§ 510). Attraversato l'atrio dei gentili, egli fiancheggiò le sottocostruzioni che s'elevavano lungo la valle del Cedron ed offrivano uno spettacolo di vera potenza e magnificenza. A quella vista tornarono spontaneamente alla memoria dei discepoli che lo seguivano le ultime parole di lui, pronunziate poco prima con­tro i Farisei e ch'erano balenate come tetra minaccia: Ecco, e' lasciata a voi la vostra casa deserta. La prima e più amata casa di ogni buon Israelita era la casa del Dio Jahvè, il Tempio della città santa e unico di tutto il mondo; quel Tempio non poteva non essere eterno come era richiesto dalla fede comune e anche dimostrato dalla gran­diosità delle sue costruzioni. In che senso, dunque, aveva Gesù potuto dire che quella casa sarebbe rimasta deserta? Si ricollegava forse questa predizione con le altre angosciose predizioni fatte nel passato dal maestro? Ci fu qualche discepolo che volle scandagliare il pensiero di Gesù: senza darsene l'aria, gli si avvicinò mentre la comitiva sfilava lungo le sottocostruzioni del Tempio e cominciò ad esaltare quell'edificio gigantesco con termini entusiastici, non dissimili certamente da quelli che si ritrovano nelle ampie descrizioni di Flavio Giuseppe (Antichità giud., xv, 380-425; Guerra giud., v, 184-226). Le lodi del resto non erano esagerate, perché stando a questo testimonio oculare appunto quelle sottocostruzioni e le parti del Tempio rivolte verso il Cedron presentavano il seguente aspetto: Il tempio inferiore, nella parte piu' bassa, fu dovuto tener su con muri di 300 cubiti (circa 150 metri) e in certi posti anche piu': tuttavia l'intera profondità delle fondamenta non appariva, perchè (i costruttori) colmarono buona parte dei bur­roni volendo livellare le stradicciuole della città.

Nella costruzione (delle fondamenta) furono (impiegate) pietre di 40 cubiti di gran­dezza (20 metri)... Di tali fondamenta erano degne anche le fabbriche sovrastanti. Doppi erano infatti tutti i portici, e sostenuti da colon­ne di 25 cubiti d'altezza (metri 12,50), ch'erano monoliti di marmo bianchissimo ricoperti con impalcature di cedro; la loro magnificenza aturale, la levigatura e l'aggiustamento offrivano uno spettacolo am­mirevole... (Guerra giud., v, 188-191). Senonché le parole entusiastiche dei discepoli non riuscirono a scuo­tere la pensierosità di Gesù; solo dopo qualche tempo egli, rialzando il capo e dando uno sguardo fugace alle decantate costruzioni, rispo­se gravemente: Non vedete tutte queste cose? In verità vi dico non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sarà distrutta. E subito si chiuse nel suo silenzio. I discepoli rimasero come fulminati da quelle parole; la pensierosità del maestro si diffuse sui discepoli, e la comitiva proseguì oramai muta il cammino, attraversando il Cedron e poi risalendo sull'opposto pendìo del monte degli Olivi. Quando fu sulla cima del mon­te, Gesù si sedette di fronte al Tempio (Marco, 13, 3) e rimase lì muto a guardare: lo si sarebbe detto un pilota che dalla riva ri­guardi accoratamente la sua amata nave su cui ha navigato lunghi anni, ma che ha dovuto abbandonare perché sa che di lì a pochi mo­menti sprofonderà per sempre. Gli sgomentati discepoli approfittarono di quella sosta per tornare sul­l'argomento di prima e domandare al maestro qualche schiarimen­to sulla sua nerissima predizione. Lo interrogavano privatamente Pietro e Giacomo e Giovanni e Andrea; e Gesù rispose con quello che comunemente è designato come il “discorso escatologico”.

§ 524. Il discorso escatologico è riferito dai soli Sinottici (Matteo, cap. 24; Marco, cap. 13; Luca, 21, 5-36) ma con le solite divergenze che si riscontrano anche altrove fra loro; inoltre Luca ha già antici­pato al cap. 17 vari elementi di questo discorso (§ 474 segg.), e lo stesso in minor parte sembra aver fatto anche Matteo (10, 17-23). E’ dunque palese anche qui l'intervento redazionale dei singoli evan­gelisti, del quale il lettore odierno deve tener conto per una retta esegesi del discorso. Ma bisogna aver presente anche un altro fatto importante. Le tre re­dazioni del discorso presso i Sinottici dipendono come al solito dalle rispettive catechesi ch'essi rappresentano (§ 110 segg.), e rispecchiano perciò l'animus Ecclesia; ora tale animus, nel presente caso, si tro­vava in condizioni di delicatezza estrema essendo pervaso da quella perplessità e ansia dubbiosa che molti punti del discorso avevano su­scitata nella mente dei primitivi cristiani, non esclusi gli evangelisti. Si confronti infatti l'impressione che il discorso fa in un lettore odier­no con l'impressione ch'esso faceva nei fedeli della prima generazione cristiana, e si ammetterà senza esitazione che la giusta interpretazio­ne del discorso è oggi assai più facile di allora. In realtà il tempo è spesso un ottimo coefficiente per una retta esegesi; e il lettore odier­no, che ha a sua disposizione venti secoli di storia, può oggi comprendere bene almeno alcuni punti del discorso escatologico, mentre quei primitivi cristiani non avevano questo prezioso aiuto.

Il discorso, infatti, tratta di due grandi avvenimenti, ambedue futuri in un tempo più o meno remoto, ma idealmente ricollegati in qual­che maniera fra loro. Come futuri, questi avvenimenti erano ambe­due velati di mistero per chi aveva ascoltato il discorso dalla bocca di Gesù o degli Apostoli; poco più tardi, durante la stessa prima ge­nerazione cristiana, il meno remoto dei due avvenimenti accadde di fatto e allora una parte del mistero fu svelata tuttavia, per contrac­colpo, l'altra parte s'avvolse in un'oscurità più ansiosa e palpitante. Se si era avverata cosi puntualmente la prima predizione che appari­va idealmente ricollegata con la seconda, non si avvererebbe presto anche la seconda? Il primo avvenimento non era come l'immediato precursore del secondo? E su queste domande i primi cristiani riflet­terono trepidanti per molti anni. Oggi si riconosce concordemente che il primo dei due fatti si è av­verato durante la prima generazione cristiana, ma non sorgono piu' le ansie di quella generazione riguardo al susseguirsi immediato del secondo fatto: i venti secoli di storia hanno attribuito il loro giusto valore alle parole di Gesù che ponevano tra i due fatti un interstizio di tempo incommensurabile. Fatta però la luce sul primo fatto e sull'interstizio, l'oscurità si è raccolta oggi tutta sul secondo fatto, ri­guardo al quale il lettore odierno è non meno dubbioso della pri­ma generazione cristiana, sebbene non ansioso come quella. Confrontando poi accuratamente fra loro le tre recensioni del di­scorso, e anche i tratti paralleli solitari, appare molto probabile che la sua forma più antica e meno sottoposta a redazione sia quella tra­smessaci da Marco, ossia la forma della catechesi di Pietro (§ 128 segg.): prendendo questa per guida, senza perder d'occhio le altre testimonianze, possiamo riassumere la sostanza del discorso nella ma­niera seguente.

§ 525. La domanda rivolta a Gesù dai quattro discepoli sulla cima del monte era consistita in queste parole: Dicci, quando saranno queste cose, e quale (sarà) il segno allorché stiano per conterminarsi tutte queste cose? (Marco, 13, 4). L'espressione queste cose si riferisce la prima volta alla distruzione del tempio, di cui Gesù aveva predetto che non sarebbe rimasto pietra sopra pietra; ma la seconda volta ha certamente un significato più ampio, e si ri­porta alla catastrofe addirittura universale in cui dovevano aver ter­mine tutte queste cose, cioè il “secolo” o mondo presente, come sug­gerisce anche il termine conterminarsi che è tipico per designare la fine del mondo (§ 638). Ciò del resto è messo fuor d'ogni dubbio dal parallelo Matteo (24, 3), ove la domanda dei discepoli suona: Dicci,quando saranno queste cose, e quale (sarà) il segno della tua “pa­rusia” e della conterminazione del “secolo”? I discepoli dunque, al sentire annunziata da Gesù la distruzione del Tem­pio, avevano ripensato alle varie promesse da lui fatte che il regno d'iddio sarebbe venuto in possanza (§ 401) e che nella rigenerazione si sarebbe assiso il figlio dell'uomo sul suo trono di gloria (§ 486), non­ché ai vari accenni delle parabole, e spontaneamente avevano fuso tutto insieme, contemplando o simultanei o almeno in una immedia­ta concatenazione di tempo ambedue gli avvenimenti, sia quello del­la distruzione del Tempio sia quello della parusia e della fine del “secolo”. Gesù pertanto dovrà rispondere ad ambedue i punti della domanda, quando sarà la distruzione del Tempio e quando la fine del mondo; inoltre dovrà descrivere i segni precursori dell'uno e del­l'altro avvenimento. Egli infatti comincia col mettere in guardia i suoi discepoli contro insidie ingannevoli, e perciò nella prima sezione della sua risposta descrive i segni che precederanno la distruzione del Tempio (Marco, 13, 5-23). - Si faranno avanti molti predicatori menzogneri spaccian­dosi per il Messia e attireranno in errore molti, così pure avverran­no guerre, sedizioni, terremoti e carestie in luoghi diversi: ma tutto ciò non (e') ancora la fine, bensì soltanto l'inizio delle doglie la grande tribolazione infatti si scaricherà diretta­mente sui discepoli di Gesù, che saranno deferiti a sinedri, sinagoghe e governatori, saranno battuti e imprigionati, saranno traditi dai più stretti parenti, e odiati universalmente a causa della loro fede: ma ciò nonostante e appunto durante questo tempo in tutte le genti dap­prima dev'esser predicata la « buona novella ».

Infine la “grande tribolazione” entrerà nella sua stretta finale: l'abominio della desola­zione predetto da Daniele (9, 27) sarà stabilito nel Tempio, e Geru­salemme sarà circondata da armate; allora i discepoli rimasti fedeli a Gesù si diano immediatamente alla fuga per salvare le loro vite. Quelli saranno giorni di vendetta afinché siano adempiute tutte le cose scritte nei libri sacri (Luca, 21, 22), e sarà tribolazione quale non e' stata siffatta, dal principio della creazione che creò Iddio, fino ades­so e non sarà (cfr. Daniele, 12, 1), sebbene la sua durata sarà abbre­viata per far sì che ne scampino gli eletti (Marco, 13,19-20). Fin qui, come si sarà notato, il discorso non ha fatto alcun accenno al tempo ma solo ai segni della “grande tribolazione”. Che poi que­sta si riferisca alla distruzione del Tempio e di Gerusalemme è dimo­strato dai termini impiegati, ed è inoltre confermato dall'importante rilievo che pure Flavio Giuseppe, accingendosi a narrare lo stesso fatto, impiega espressioni somigliantissime, dicendo: In realtà le sven­ture di tutti i secoli mi sembrano restare al di sotto con frontate con quelle dei Giudei (Guerra giud., I, 12), e definisce anche la guerra tra Roma e la Giudea la più grande non solo di quelle del nostro tempo ma quasi anche di quelle che udimmo per fama esser scop­piate fra città e città o fra nazioni e nazioni (ivi, 1, 1). Né fa ostacolo la condizione che, alla distruzione del Tempio, in tutte le genti dap­prima dev'essere predicata la “buona novella”; altrettanto afferma­va, come di cosa fatta, S. Paolo egualmente prima che Gerusalemme fosse distrutta (§ 401). Ora, la distruzione di Gerusalemme avvenne nel quarantennio successivo al discorso, ossia nello spazio di tempo computato dai Giudei come una “generazione”. Troviamo infatti che Gesù in seguito - quando ha finito di descrivere i segni e passa a parlare dei tempi - afferma: In verità vi dico che non passerà questa generazione fino a che tutte queste cose avvengano (Marco, 13, 30).

§ 526. Passando ora ai riscontri storici noi troviamo che, sullo scor­cio del previsto quarantennio, si svolge un periodo il quale fu defi­nito, da uno storico romano che lo conosceva assai bene. Dal canto suo Flavio Giuseppe, occupandosi par­ticolarmente della Palestina, ci fornisce quelle notizie sulle agitazioni interne e soprattutto sul ribollimento del messianismo politico che ricordammo occasionalmente più volte. La conclusione di tutto fu la catastrofe del 70, ove perirono Tempio, capitale e nazione. Quanto ai discepoli di Gesù, durante questa “grande tribolazione” essi su­birono quelle persecuzioni dentro e fuori la Palestina che sono attestate sia dagli Atti e altri scritti del Nuovo Testamento, sia dagli storici romani, e che erano mosse tanto da connazionali e da con­giunti quanto da estranei e da pagani; ma coloro che ressero alle lusinghe dei falsi profeti e alle violenze dei persecutori, allorché vide­ro il Tempio di Gerusalemme profanato dai sanguinari Zeloti (Guer­ra giud., iv, 151 segg., 305 segg., 381 segg.), si attennero all'ammoni­zione del discorso escatologico e fuggendo dalla città si ritirarono a Pella in Transgiordania, come narra Eusebio (Hist. eccì., nì, 5, 3).

§ 527. Fin qui Gesù ha risposto soltanto al primo punto della domanda rivoltagli dai discepoli, descrivendo i segni che precederanno la distruzione del Tempio; un netto e preciso distacco, a guisa di con­clusione, si ritrova infatti al termine di questa sezione ove Gesù fini­sce ammonendo: Voi quindi guardate: (io) vi ho predetto tutte le cose (Marco, 13, 23). Adesso manca che Gesù risponda al secondo punto della domanda, comunicando i segni della fine del mondo. La nuova sezione (Marco, 13, 24 segg.) comincia con le parole Ma in quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole s'oscurerà, ecc. Qui l'espressione in quei giorni è la solita formula, impiegata frequentis­simamente nell'Antico e nel Nuovo Testamento, per introdurre un nuovo argomento ma senza un preciso valore temporale, significan­do tutt'al più in un certo tempo..., a suo tempo..., in una data epo­ca. In questa epoca imprecisata, che si svolgerà dopo la “grande tribolazione”; avverranno insieme la fine del mondo e la parusia, che sono descritte con termini presi in gran parte dall'Antico Testamento e comuni alla letteratura apocalittica (§ 84 segg.): il sole e la luna s'oscureranno, le stelle cadranno, le potenze dei cieli saranno scosse, e allora comparirà sulle nubi il figlio dell'uomo che verrà con possanza e gloria e invierà i suoi angeli ai quattro venti a ra­dunare gli eletti; con ciò il “secolo” presente è chiuso e il “secolo” futuro è inaugurato. Questa descrizione dei segni della parusia è più breve, in tutti e tre i Sinottici, della descrizione dei segni della “grande tribolazione”. Quanto poi all'indicazione del tempo in cui avverrà la parusia, la troviamo subito appresso all'indicazione del tempo assegnato alla “grande tribolazione”; ma, mentre per quest'ultima l'indicazione è stata precisa e netta - ossia la presente generazione - per l'altra è talmente negativa: Circa poi a quel giorno o all'ora nessuno sa (alcunché) né gli angeli.

Nei secoli iv e v, ai tempi delle focose dispute ariane e cristologiche si usò ed abusò largamente di questo passo per misurare la scienza del Figlio divino confrontata con quella del Padre, e per attribuirgli una certa ignoranza. Ma appunto la difficoltà della frase, che sem­bra affermare questa ignoranza nel Figlio, è una ragione di più per considerarla autentica frase di Gesù pervenutaci nella forma più precisa e genuina: come pure la stessa difficoltà fu probabilmente la ragione per cui tutta la frase fu omessa da Luca nel suo van­gelo, e per cui l'allusione al Figlio scomparve anche nel passo cor­rispondente di Matteo (24, 36) da vari codici greci e dalla Vulgata latina, volendosi evitare una spiacevole sorpresa nei rispettivi lettori. Ma, superate le controversie ariane e cristologiche, si convenne gene­ralmente nell'interpretare la frase come una fin de non recevoir da parte di Gesù, che non vuol essere interrogato su questo punto per­ché il rispondervi non entra nella sua missione: Gesù, che già aveva risposto ai figli di Zebedeo non esser còmpito suo ma del Padre as­segnare i seggi nel glorioso regno messianico (§ 496), in questa oc­casione dixit nescire illum diem quia in magisterio eius non erat ut per eum sciretur a nobis, mentre invece entrava nella sua missione appunto il tener nascosto quel giorno; tamquam enim magister scie­bat et docere quod proderat et non docere quod oberat (S. Agosti­no, Enarration. in Psalm. xxxvi, sermo i, 1). Ai nostri giorni la dif­ficoltà è stata ripresa in pieno dalla scuola escatologica (§ 209 segg.), secondo cui Gesù era sicuro che la parusia sarebbe avvenuta nel cor­so della generazione contemporanea, sebbene confessasse di non co­noscere il preciso giorno e la precisa ora (§ 529).

§ 528. Presentato in questa maniera il discorso escatologico è chiaro, in quella misura che può essere concessa dal suo argomento. La sua prima sezione tratta dei segni della “grande tribolazione”, cioè de­gli avvenimenti che precedettero ed accompagnarono la distruzione di Gerusalemme, la seconda sezione tratta dei segni della parusia e della fine del mondo. Dopo le trattazioni dei segni vengono le fissazioni dei rispettivi tempi: per la “grande tribolazione” è fis­sata la generazione contemporanea, mentre per la parusia è riserbato un arcano silenzio. Ma la difficoltà sta in questo, che la fissazione di ciascun tempo non è soggiunta immediatamente appresso alla rispettiva trattazione dei segni cioè la presente generazione appresso alla “grande tribola­zione”, e il silenzio appresso alla parusia - bensì ambedue le fissa­zioni dei tempi sono relegate assieme in fondo, dopo ambedue le trattazioni dei segni. Perché mai questa collocazione che sembra vio­lenta e tale da provocare equivoci? Appunto qui è da scorgere l'ope­ra redazionale degli evangelisti e l'influenza delle circostanze in cui si svolgeva - come accennammo (§ 524) - la primitiva catechesi della Chiesa. Questa collocazione simultanea in fondo, che a noi oggi sembra violenta e tale da provocare equivoci, era invece pru­dentissima quando scrivevano i Sinottici, quando cioè non si sapeva nulla non solo del tempo della parusia ma neppure del preciso tem­po della « grande tribolazione »: Gerusalemme infatti ancora era in­colume e prospera, e nulla faceva umanamente sospettare che dopo pochi anni essa sarebbe ridotta a un ammasso di macerie. Neppure risultava chiaramente in quale relazione stessero fra loro la « gran­de tribolazione » e la parusia, che almeno idealmente apparivano ri­collegate fra loro la prima non sarebbe forse la preparazione imme­diata della seconda, e la venuta del Messia glorioso non sarebbe l'immediato premio a chi aveva superato la grande prova?
Molti cri­stiani infatti ritenevano imminente la parusia, e la risposta di Gesù in proposito, se non implicava necessariamente tale opinione, nep­pure la escludeva con evidente chiarezza: il figlio dell'uomo poteva comparire inatteso in ogni momento, come ladro notturno. Ma an­che se fra la « grande tribolazione » e la parusia doveva cadere un interstizio, chi poteva dire se questo interstizio sarebbe stato breve o mediocre o lungo o lunghissimo? Di tutto ciò nessuno sapeva alcunché con certezza, prima di quel tragico anno 70; oggi invece, edotti da venti secoli di storia, noi sia­mo perfettamente informati della “grande tribolazione” che cuI­minò nel 70 e dell'interstizio ch'è di una durata incalcolabile, men­tre ci è rimasto impenetrabilmente occulto il tempo della parusia. Per queste ragioni gli evangelisti sinottici, nell'oscurità che li avvol­geva, divisero il discorso escatologico secondo la materia in esso trat­tata, collocando prima i segni e poi i tempi, e lasciando alle opinioni dei lettori il ricollegamento delle singole parti fra loro: tanto più che, su questa palpitante questione della parusia le singole comu­nità ricevevano particolari ammaestramenti dai loro direttori, come per la comunità dei Tessalonicesi apprendiamo occasionalmente da Paolo (II Tessal., 2, 5) e per le comunità dell'Asia Minore da Pietro (II Pietro, 3, 1 segg.); e quindi i lettori dei vangeli potevano e forse dovevano rivolgersi per schiarimenti a tali autentici interpreti, sem­pre in virtù del principio che la catechesi scritta non pretendeva mai di sostituire la catechesi orale, bensì la presupponeva in più mo­di (§107).

§ 529. La moderna scuola escatologica desume i suoi principali ar­gomenti da questo discorso, ma appunto confondendo dati e referen­ze, e attribuendo all'unico avvenimento della parusia ambedue le fissazioni cronologiche, sia quella della presente generazione sia quella del giorno e dell'ora. Già rilevammo che siffatta teoria è in contrad­dizione con le testimonianze storiche pervenuteci da quell'epoca (§ 212); qui sarà opportuno spendere appena una parola sull'attribu­zione del giorno e dell'ora. I suddetti studiosi sono costretti a interpretarli in senso rigoroso, ossia giorno per 24 ore e ora per 60 minuti: cosicché Gesù avrebbe confessato di non conoscere in quale gruppo di 24 ore e in quale gruppo di 60 minuti sarebbe avvenuto il cataclisma universale, pur essendo certo che sarebbe avvenuto nella generazione a lui contemporanea. E serio tutto ciò? E’ serio che un presunto “visionario”, tutto vibran­te nell'aspettativa che entro breve tempo il mondo intero vada in pezzi, si rammarichi di non sapere il preciso momento in cui avverrà la conflagrazione?
I veri visionari, appunto perché tali, non sono calcolatori cosi sottili, ritrovandosi totalmente assorbiti dalla visione principale: un visionario di questo genere è come un uomo che abbia sotto i piedi una mina con la sua miccia accesa, e non possa in alcun modo fuggire; la certezza assoluta dell'imminente scoppio gli fa totalmente dimenticare l'incertezza del preciso momento in cui lo scoppio avverrà. Gesù invece è un calcolatore sottile, e distin­gue nettamente le sue due fissazioni di tempi in rapporto alle due precedenti descrizioni dei segni. Ecco pertanto nella sua integrità il passo relativo ai tempi, nel quale ognuno può riconoscere il netto distacco che riporta ciascuna fissazione di tempo alla rispettiva descri­zione dei segni: ìn verità vi dico che non passerà questa generazione fino a che tutte queste cose avvengano. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Circa poi a quel giorno o all'ora nessuno sa (alcunche'), né gli angeli in cielo né il Figlio, se non il Padre (Marco, 13, 30-32; cfr. Matteo, 24, 34-36).
[Modificato da Caterina63 06/08/2012 20:31]
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La parabola delle vergini. L'ultimo giudizio

§ 530. Essendo assolutamente ignoto il giorno della parusia, coloro che aspettano la consumazione finale del regno di Dio dovranno tenersi pronti sempre, perché sempre potrà giungere quel giorno e ca­dere quell'ora. L'ignoranza del tempo porta con sé il pericolo di una neghittosa trascuranza, al quale dovrà provvedersi con una in­cessante vigilanza. Questo è l'insegnamento della parabola delle ver­gini, riportata dal solo Matteo (25, 1-13) e soggiunta al discorso escatologico. La parabola si riporta alle costumanze delle nozze giudaiche, di cui già trattammo (§ 281). Dieci vergini sono state invitate alle nozze di una loro amica, per farle corteggio la sera dei nissu’in (§ 231); sono uscite dalle loro case munite ciascuna della propria lampada di ter­racotta, non tanto per far chiaro lungo la strada fino alla casa della sposa, quanto per accrescere la giocondità della festa allorché giun­gerà lo sposo. Si prevede tuttavia, essendo un matrimonio di lusso, che lo sposo si farà attendere alquanto, dovendo egli a sua volta ricevere una fila interminabile di visitatori. Perciò cinque di quelle vergini, ch'erano prudenti, portarono seco oltre alla lampada accesa anche un orcioletto pieno d'olio per rifornire la piccola lampada quando il suo contenuto fosse esaurito; le altre cinque invece, ch'e­rano disavvedute, non si preoccuparono delle ore lontane e porta­rono soltanto la lampada, non ripensando ch'essa non poteva restare accesa se non per un tempo relativamente breve. Ciò che le vergini avvedute hanno previsto, avviene di fatto lo spo­so, trattenuto a casa sua, tarda molto a giungere.

Frattanto in casa della sposa la comitiva ivi radunata cambia gradualmente il suo con­tegno; quelle ragazze, da vivaci ed irrequiete ch'erano alla prim'ora, divengono man mano inerti, svogliate e come rassegnate; il chiac­chierio s'acquieta, qua e là appaiono segni di noia; ancora più tardi qualcuna sbadiglia e appartatasi in un angolo comincia a lottare fiaccamente contro il sonno che la invade; e le ore seguitano a passare monotone senza che nessuno giunga, cosicché indugiando lo sp­so, s'appisolarono tutte e dormivano. Ma a metà notte ci fu un gri­do:”Ecco lo sposo! Uscite(gli) incontro!”. Allora sorsero tutte quel­le vergini ed acconciarono le lampade loro. Le disavvedute dissero pertanto alle prudenti: “Dateci del vostro olio, perché le nostre lam­pade si spengono!” Ma le prudenti risposero dicendo: “Mai piu'! Non basterebbe a noi e a voi (insieme)! Andate piuttosto dai ven­ditori e compratevene”. Allontanandosi quelle per comprare venne lo sposo, e quelle pronte entrarono con lui nelle nozze e fu rinser­rata la porta. Alla fine però vengono anche le restanti vergini dicen­do:”Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispondendo disse:”In ve­rità vi dico, non so (di) voi!”. La ripulsa dello sposo fa scaturire la morale della parabola, la quale si conclude con l'ammonizione: Ve­gliate dunque, perché non sapete il giorno né l'ora! Veramente la parabola ha taluni tratti che si discostano dalla realtà contemporanea, ad esempio l'invito di andare a comperare l'olio a mezzanotte quasiccbé a quell'ora le betteghe fossero aperte. Ma tali astrazioni di tempo e luogo sono ammissibili in una comparazione ampia, la quale converge tutta su un punto particolare non soffer­mandosi su lineamenti secondari. Qui il punto preso di mira è du­plice: l'ignoranza del giorno e dell'ora ch'è rilevata dalla conclusio­ne finale, e insieme anche il pericolo dell'impreparazione e dell'at­tesa ch'è rilevato in tutta la parabola. L'attesa prolungandosi diven­ta insidiosa, perché fa trascurare la preparazione che eventualrnente esisteva da principio e fa dimenticare la realtà della “venuta”; d'altra parte l'essere stato preparato soltanto alla prima ora non gio­va nulla a chi non si ritrovi preparato anche all'ultimo minuto, quel­lo della “venuta”. Nella lingua dei papiri greci la ”venuta” e “presenza” di un re si trova espressa col termine parusia.

§ 531. Egualmente il solo Matteo (25, 31-46) presenta il gran qua­dro in cui il “secolo” presente si chiude e il “secolo” futuro s'inau­gura ufficialmente, il quadro del giudizio finale. Questo tema era stato trattato già dagli antichi profeti, ma sotto altra luce e con altri in­tendimenti; qui invece la mira principale è di far risaltare i rappor­ti morali che legano il “secolo” presente con quello futuro, cioè la ripercussione etica che la vita presente avrà nella vita futura. Se nel passato il giudizio finale era stato presentato come il trionfo della na­zione ebraica su nazioni pagane o di un partito onesto e pio su un partito malvagio ed empio, qui invece esso riveste un carattere morale riguardante i singoli individui dell'umanità intera senza discriminazio nè alcuna: inoltre, questo carattere morale è riassunto nella ca­rità, come se la nota distintiva del regno di Dio e la tessera per en­trarvi sia la carità (§ 550) e il giudizio finale sia il trionfo della carità. Quando venga il figlio dell'uomo nella gloria sua e tutti gli angeli con lui, allora sederà sul trono della sua gloria. E si raduneranno davanti a lui tutte le genti, ed (egli) separerà gli uni dagli altri come il pastore separa le pecore dai montoni e collocherà le pecore alla sua destra e i montoni alla sinistra.
Allora dirà il re a quelli della sua destra:” Venite, i benedetti del Padre mio! Possedete il regno a voi preparato dalla fondazione del mondo! Ebbi fame, infatti, e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi deste da bere, forestiero ero e mi accoglieste, nudo e mi ricopriste, fui ammalato e mi visitaste, in prigione ero e veniste a me”. Allora gli risponderanno i giusti di­cendo:” Signore, quando ti vedemmo aver fame e nutrimmo, ovvero aver sete e demmo da bere? E quando ti vedemmo forestiero ed accogliemmo, ovvero nudo e ricoprimmo? E quando ti vedemmo ammalato ovvero in prigione e venimmo a te?” E rispondendo il re dirà loro:”In verità vi dico, quanto faceste ad un solo di questi fra­telli miei minimi, faceste a me“. Allora dirà a quelli alla sinistra:”Partitevi da me, maledetti, nel fuoco eterno, quello preparato al diavolo e agli angeli suoi! Ebbi fame, infatti, e non mi deste da man­giare, ebbi sete e non mi deste da bere, forestiero ero e non mi acco­glieste, nudo e non mi ricopriste, ammalato e in prigione e non mi visitaste”. Allora risponderanno anch'essi dicendo:” Signore, quan­do ti vedemmo aver fame ovvero aver sete ovvero forestiero ovvero nudo ovvero ammalato ovvero in prigione, e non ti servimmo?”. Allora risponderà loro dicendo:” in verità vi dico, quanto non faceste a uno solo di questi minimi neppure a me (lo) faceste”. E an­dranno questi in supplizio eterno, i giusti invece in vita eterna (cfr. Daniele, 12, 2).


[SM=g27998] Il mercoledì. Il tradimento di Giuda

§ 532. Giunse pertanto il penultimo giorno avanti la Pasqua, ossia il mercoledì. Il tempo, per i sommi sacerdoti e i Farisei, stringeva e bisognava de­cidersi ad agire. Nonostante le ripetute deliberazioni prese nei giorni precedenti, ancora non si era fatto nulla, perché Gesù era protetto dal favore popolare e quindi si permetteva di girare impunemente in Gerusalemme e perfino di predicare nel Tempio. Ma non c'era dun­que modo di farlo scomparire occultamente, senza che il popolo se ne avvedesse? Certo non bisognava perdere altro tempo, e la que­stione doveva essere risolta in maniera definitiva prima della Pa­squa, per evitare conseguenze che potevano esser gravissime. Le fe­ste in genere, e soprattutto la Pasqua, a causa delle enormi affluenze di folle eccitate, erano considerate dal procuratore romano come pe­riodi di convulsione sismica, ed allora più che mai egli sbarrava tan­to d'occhi e raddoppiava la vigilanza per timore che un nonnulla facesse saltare tutto in aria: perciò in tali occasioni - come riferisce occasionalmente Flavio Giuseppe (Guerra giud., II, 224) - la coorte romana di presidio a Gerusalemme si schierava lungo il portico del Tempio, giacché nelle feste essi fanno sempre la guardia armati af­finché la folla adunata non faccia sedizioni. Che cosa dunque non poteva accadere con quel Rabbi galileo in giro per la città e nel Tempio, attorniato da gruppi d'entusiasti che lo credevano Messia?
Al primo subbuglio che fosse accaduto, il cavaliere Ponzio Pilato avrebbe scatenato i suoi soldati sulle folle dei pellegrini cominciando davvero a distruggere il luogo santo e la nazione, come si era te­muto (§ 494). No, no, assolutamente bisognava scongiurare questo pericolo e far si che per la Pasqua tutto fosse a posto. Ma come? In quel mercoledì si tenne un nuovo consiglio per discutere tale que­stione. Allora si radunarono i sommi sacerdoti e gli anziani del po­polo nel palazzo del sommo sacerdote chiamato Caifa, e delibera­rono di catturare Gesu' con inganno e d'uccider(lo). Tuttavia diceva­no:“Non nella festa, affinché non avvenga tumulto nel popolo” (Matteo, 26, 3-5). Era dunque pacifico per tutti i partecipi dell'adu­nanza che Gesù dovesse esser soppresso; tuttavia alcuni più cauti facevano notare il pericolo che l'arresto fosse eseguito durante la festa pasquale quando molti pellegrini, o Galilei o favorevoli a Gesù, potevano insorgere per proteggerlo; d'altra parte neppure sarebbe sta­to opportuno rimandare l'arresto a dopo la festa, perché nel frattem­po Gesù poteva allontanarsi con i pellegrini che tornavano alle loro case e così sfuggire alla cattura, come aveva già fatto dopo la resur­rezione di Lazaro: perciò bisognava agir subito, prima della Pasqua. e in segreto. A questa sollecitudine e segretezza mirava l'osservazione dei cauti consiglieri. Ma appunto qui stava la difficoltà. Alla Pasqua mancavano solo due giorni, e Gesù passava tutta la sua giornata in mezzo al popolo; co­m'era possibile agire in sì poco tempo e in maniera che l'arresto si risapesse solo a cose fatte? L'aiuto venne donde meno si aspettava. Allora uno dei dodici, quello chiamato Giuda Iscariota, andato dai sommi sacerdoti disse:”Che cosa mi volete dare, ed io lo conse­gnerò a voi?”. E quelli stabilirono trenta (monete) argentee. E da allora (Giuda) cercava un'opportunità per consegnarlo. Questa è l'in­formazione di Matteo (26, l4-l6), con cui concordano gli altri due Sinottici, i quali non precisano la somma pattuita ma aggiungono la ben comprensibile notizia che i sommi sacerdoti si rallegrarono del­la proposta di Giuda. E infatti adesso, con tale cooperatore, arre­stare sollecitamente e segretamente Gesù diventava impresa facile.

§ 533. Ma quale ragione spinse Giuda al tradimento? La primitiva catechesi non ci ha trasmesso altra ragione che l'amo­re al lucro. Quando gli evangelisti presentavano Giuda come ladro e amministratore fraudolento della cassetta comune (§ 502) prepa­ravano in realtà la scena di Giuda che si reca dai sommi sacerdoti per chiedere: Che cosa mi volete dare...? Ma, anche fuori dei van­geli, quando Pietro parla del traditore ormai suicida non accenna ad altro profitto del tradimento se non all'acquisto d'un campo con la mercede dell'iniquità (Atti, 1, 16-19). La ragione del lucro è dun­que sicura; tuttavia insieme con essa non è escluso che ve ne siano state altre di cui la primitiva catechesi non si occupò, e qui il cam­po è aperto a ragionevoli congetture. Anche astraendo dai voli fantastici fatti su questo campo sommamente tragico da drammaturghi o da storici d'ispirazione romanze­sca, resta sempre l'inaspettato contegno tenuto da Giuda soltanto due giorni dopo: visto che Gesù è stato condannato, il traditore im­provvisamente si pente di aver venduto il sangue di quel giusto, e riportatone il prezzo ai sommi sacerdoti va ad impiccansi (§ 574). Ebbene, questo non è il contegno di un semplice avaro: un avaro tipico, un uomo che non avesse avuto altro amore che per il dena­ro, sarebbe rimasto soddisfatto del lucro ottenuto, qualunque fosse stata la sorte successiva di Gesù, e non avrebbe pensato né a resti­tuire il denaro né ad impiccarsi. Avaro e cupido Giuda fu certamen­te, ma oltre a ciò era qualche cosa d'altro. Esistono in lui almeno due amori: uno è quello dell'oro, che lo spinge a tradire Gesù; ma a fianco a questo esiste un altro amore che talvolta può anche essere più forte, perché a tradimento compiuto prevale sullo stesso amore dell'oro e spinge il traditore a restituire il lucro, a rinnegare tutto il suo tradimento, a compiangerne la vittima e infine ad uccidersi per disperazione. Qual era l'oggetto di questo amore contrastante con quello dell'oro? Per quanto ci si ripensi, non si trova altro oggetto possibile se non Gesù. Se Giuda non avesse sentito per Gesù un amore tanto grande che talvolta prevaleva su quello per l'oro, non avrebbe né restituito il denaro né rinnegato il suo tradimento. Ma se egli amava Gesù, per­ché lo tradì?

Certamente perché il suo amore era grande ma non incontrastato, non era l'amore generoso, fiducioso, luminoso di un Pietro e di un Giovanni, e conteneva pur nella sua fiamma alcun­ché di fumoso e di tenebroso: in che consistesse però questo elemen­to oscuro non sappiamo, e per noi rimarrà il mistero dell'iniquità somma. Riseppe forse Giuda di essere stato denunziato a Gesù come frodatore della cassetta comune, e non tollerò di essere decaduto dal­la stima di lui? Ma anche Pietro come rinnegatore di Gesù giudi­cherà di esser decaduto dalla stima di lui, eppure non dispererà. Forse, più accortamente degli altri Apostoli, Giuda comprese dalle rettifiche messianiche di Gesù che il suo regno non avrebbe appor­tato né gloria né potenza mondane ai futuri cortigiani, e in quel previsto fallimento provvide da avaro qual era ai propri interessi? Ipotesi possibilissima; la quale tuttavia non spiega da sola perché mai Giuda, dopo essersi staccato da Gesù mediante il tradimento, si senta ancora legato a lui da pentirsi ed uccidersi. Forse, accoppiando l'amore del lucro con l'ansia di veder presto Gesù a capo del regno messianico politico, Giuda lo tradì con la sicurezza di vederlo compiere portenti su portenti di fronte ai suoi avversari, e così di costringerlo a inaugurar subito quel regno che si faceva troppo aspettare? In tal caso però il traditore non si sarebbe dovuto uccidere prima della morte di Gesù ma tutt'al più dopo, perché egli non sapeva quando il Messia sarebbe ricorso ai suoi mas­simi portenti, tanto più che proprio all'inizio della sua operosità di traditore Giuda aveva assistito nel Gethsemani al portento delle guar­die atterrate (§ 559). E le ipotesi si potrebbero facilmente moltiplicare, senza però che ne rimanesse schiarito con sicurezza il mistero dell'iniquità somma.
§ 534. Inoltre, tale iniquità non consisté soltanto nel vendere Gesù, ma più e soprattutto nel disperare del suo perdono. Giuda aveva visto Gesù perdonare a usurai e prostitute, aveva udito dalla sua bocca le parabole della misericordia compresa quella del figliuol pro­digo, lo aveva inteso comandare a Pietro di perdonare settanta volte sette: eppure dopo tutto ciò egli dispera del suo perdono e s'impic­ca, mentre Pietro dopo il suo rinnegamento non dispererà ma scop­pierà a piangere.
Anche questo disperare del perdono dimostra che Giuda aveva per il giusto da lui tradito un'altissima stima, la quale gli faceva misurare l'abissale nefandezza del delitto commesso: ma era anche una stima incompleta e quindi ingiuriosa, perché davanti alla responsabilità del tradimento si fermava a mezza strada e ingiu­riosamente riteneva Gesù incapace di perdonare al traditore. Ben più che dal tradimento di Giuda, Gesù fu ingiuriato dal suo disperare del perdono: qui fu l'oltraggio sommo ricevuto da Gesù e l'iniquità som­ma commessa da Giuda. La mercede stabilita dai sommi sacerdoti per il tradimento fu di trenta (monete) argentee. Il solo Matteo comunica questa cifra per­ché, sollecito qual è di segnalare che in Gesù si sono adempite le antiche profezie messianiche, scorge qui adempita una profezia di Zacharia (§ 575); tuttavia Matteo, né in questo punto né in segui­to (27, 3-10), dirà il nome individuale delle monete e parlerà sem­pre di trenta argentei. Non c'è dubbio che l'innominata moneta fosse il siclo (§ 249) ossia lo statere (§ 406), il quale valeva quattro dramme ossia quattro denari (§ 465); non era quindi il denarius romano (§ 514); ma una moneta di valore quattro volte maggiore: perciò, parlando tecnicamente, l'espressione usuale di “trenta denari di Giuda” è falsa perché l'intera somma di 30 sicli era costituita da 120 “denari”. Nel valore odierno essa corri­sponderebbe a circa 128 lire in oro. Era norma della legge ebraica (Esodo, 21, 32) che quando un bove avesse ucciso cozzando uno schiavo, il padrone del bove dovesse pa­gare al padrone dello schiavo a risarcimento del danno subito 30 sicli d'argento: quindi in pratica il valore medio d'uno schiavo doveva computarsi circa sui 30 sicli. Può darsi che i sommi sacerdoti s'ispi­rassero a questa norma della Legge nello stabilire la mercede a Giu­da, perché così ottenevano il doppio scopo di mostrarsi osservatori la lettera anche in quel caso e insieme di trattare Gesù come uno schiavo qualunque. Luca, il quale ha terminato il racconto delle tentazioni di Gesù di­cendo che il diavolo si allontanò da lui fino a tempo (opportuno) (§ 276), inizia qui il racconto del tradimento dicendo che entrò Sata­na in Giuda, quello chiamato Iscariota, il quale andò ad accordarsi per il suo delitto con i sommi sacerdoti (Luca, 22, 3 segg.). Cosicché per l'evangelista discepolo di Paolo la passione di Gesù è il tempo (opportuno) preaccennato, e rappresenta in qualche modo una ripresa delle tentazioni a cui Gesù era stato sottoposto da Satana al­l'inizio della sua vita pubblica: terminando adesso Gesù la vita in­tera, Satana gli muove l'ultimo e più potente assalto e lo sottopone alla suprema prova, dopo di che egli entrerà nella sua gloria. O stolti e lenti di cuore...! Non doveva forse patire queste cose il Cristo (Messia) e (cosi) entrare nella sua gloria? (Luca, 24, 25-26) (§ 630).


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06/08/2012 20:38

LA SETTIMANA DI PASSIONE, IL GIOVEDÌ

I preparativi dell'ultima cena


§ 535. Spuntò il giovedì, che era il primo giorno degli Azimi quando immolavano la Pasqua (Marco, 14,12); perciò in quel giorno si do­vevano provvedere le cose necessarie alla celebrazione del solenne rito anche da parte della comitiva di Gesù (§ 495), giacché per questo rito Gesù avrebbe dovuto rimanere quella notte a Gerusalemme e rinunziare a ritirarsi a Bethania sul monte degli Olivi come le notti precedenti.
Gli dissero quindi i discepoli: Dove vuoi che andiamo a preparare affinché (tu) mangi la Pasqua? Gesù allora inviò Pietro e Giovanni (Luca, 22, 8) dicendo loro: Andate nella città e vi si fara' incontro un uomo che porta una brocca d'acqua; seguitelo, e dove egli sia entrato direte al padron di casa: “Il maestro dice: Do v'e' la mia stanza ove (io) mangi la Pasqua insieme con i miei disce­poli?”. Ed egli vi mostrerà una sala superiore grande, provvista di tappeti, pronta; e ivi preparate per noi (Marco, 14, 13-15). Il segno dato ai due Apostoli era abbastanza singolare, perchè l'uf­ficio di attingere e trasportare l'acqua era riservato ordinariamente alle donne. I due s'attennero al segno: entrando in città, certamente per la porta situata sopra la piscina del Siloe (§ 428) e di fronte al monte degli Olivi, incontrarono effettivamente l'uomo dalla brocca; avendo poi essi seguito costui alla casa ov'era diretto, il padrone mise a loro disposizione la sala di cui Gesù aveva parlato. Non c'è da du­bitare che quel padrone fosse persona affezionata a Gesù; probabil­mente l'aveva ricevuto altre volte a casa sua. Chi sarà stato questo ignoto discepolo? Più che al cauto Nicodemo (§§ 288, 420) o a Giu­seppe di Arimatea (§ 615), il pensiero corre al padre o ad altro pa­rente di Marco, la cui casa dopo la morte di Gesù diventò luogo abituale d'adunanza per i cristiani di Gerusalemme (§ 127); se poi si potesse provare che quel misterioso giovanetto il quale sfuggì nudo di mano alle guardie del Gethsemani era appunto Marco (§ 561), si avrebbe conferma che il padrone della casa era suo parente, tanto più che questo racconto della preparazione della Pasqua è più minu­to e circostanziato nel vangelo di Marco che in quello di Matteo. Se il nome di questo discepolo fu tenuto occulto dagli evangelisti è ben possibile che ciò avvenisse per una ragione prudenziale, analoga a quella per cui i Sinottici omisero l'intero racconto della resur­rezione di Lazaro (§ 493).
Così pure, per una elementare prudenza, Gesù inviò a preparare la cena Pietro e Giovanni, ma non Giuda, l'amministratore comune a cui sarebbe spettato quell'ufficio: il tra­ditore era occupato nel frattempo a ordire il suo tradimento, e que­sta sua tenebrosa cura non doveva essere ancor più facilitata dalla prematura indicazione del luogo ove doveva tenersi il supremo con­vegno. Del resto l'opinione secondo cui l'ultima cena ebbe luogo nella casa di Marco non è nuova, ed ha pure in suo favore una rispettabile tradizione. Verso il 530 l'arcidiacono Teodosio descrivendo la sua vi­sita a Gerusalemme, quando parla della chiesa della Saneta Sion ritenuta universalmente come il luogo dell'ultima cena.
E questa affermazione doveva fondarsi su un'antica tradizione; infatti nello stesso secolo VI, il monaco ciprio­ta Alessandro comunica che una tradizione già antica ai suoi tem­pi affermava che la casa in cui ebbe luogo l'ultima cena fu appun­to quella di Maria madre di Marco, ove il maestro era solito alber­gare ogni volta che veniva a Gerusalemme, e inoltre che l'uomo del­la brocca sarebbe stato appunto Marco.
E’ questo il luogo ove la tradizione, già dal secolo IV, ha collocato l'odierno Cenacolo, all'estremità sud-occidentale della Città Alta. Compiuti durante la giornata i preparativi, in quella stessa sera si tenne la cena. Ma qui s'inconfra una famosa questione cronologica che riguarda sia il giorno dell'ultima cena, sia quello successivo nel quale avvenne la morte di Gesù; è la questione di sapere quali gior­ni, non della settimana, ma del mese fossero questi due giorni.

La questione cronologica

§ 536. Quanto al giorno della settimana non sorge alcun dubbio, perché tanto i Sinottici quanto Giovanni mettono l'ultima cena al giovedì e la morte al venerdì seguente. La divergenza sta nella collocazione di questi due giorni nel mese Nisan, perché dai Sinottici risulterebbe che il giovedì dell'ultima ce­na era il 14 Nisan e perciò il venerdì della morte era il 15, mentre da Giovanni risulterebbe che il giovedì era il 13 Nisan e il venerdì il 14. I Sinottici infatti mettono l'ultima cena nel giorno quando immolavano la Pasqua (Marco, 14, 12; cfr. Luca, 22, 7), ossia in cui si faceva l'immolazione dell'agnello pasquale che era prescritta per il pomeriggio del 14 Nisan (§74) perciò l'ultima cena sarebbe stata la cena dell'agnello pasquale celebrata da Gesù al giorno prescritto; essendo poi egli morto il giorno seguente, questo giorno sarebbe stato il 15 Nisan in cui cadeva la Pasqua ebraica. Giovanni invece narra che Gesù morì nella parasceve della Pasqua ( Giov., 19, 14), ossia nel giorno precedente alla Pasqua e prima che in quei giorno i Giu­dei avessero celebrato il rito dell'agnello e mangiato la Pasqua: essi infatti non entrarono nel pretorio (di Pilato) per non contaminarsi ma per mangiare la Pasqua (Giov., 18, 28), riuscendo in quello stes­so giorno a far condannare Gesù e ad ucciderlo; in tal caso Gesù morì il 14 Nisan, e l'ultima cena da lui celebrata la sera precedente non era legalmente la cena dell'agnello pasquale. La seguente tabella mostrerà il consenso e il dissenso fra i Sinottici e Giovanni in questo punto.

§ 537. Senonché i Sinottici stessi, con talune loro fuggevoli allusioni, inducono a fare ulteriori ed importanti considerazioni. Stando alla loro cronologia, Gesù fu arrestato nella notte fra il 14 e il 15 Nisan, e le varie peripezie del suo processo terminate con la condanna e l'esecuzione di questa cominciarono già alle prime ore del 15 Nisan per prolungarsi fino al pomeriggio di quel giorno. Ora, tutto ciò s'imbatté in una difficoltà gravissima ed evidentissima, cioè nel carattere supremamente festivo che aveva quella notte e quel giorno: in quella notte si mangiava l'agnello pasquale col solenne cerimoniale già visto (§ 75) e da turbe innumerevoli affluite a Ge­rusalemme da ogni paese; e in quel giorno poi, che era la Pasqua (15 Nisan), era rigorosamente prescritta l'astensione da ogni lavoro (Esodo, 12, 16; Levitico, 23, 7), e valevano per esso le norme del ri­poso del sabbato anche se in realtà quel giorno non fosse un sabba­to. E’ pertanto storicamente inconcepibile che gli avversari di Gesù, per quanto colmi di odio contro di lui, trascurassero la cena pasquale di quella notte e violassero il riposo festivo di quel giorno per com­piere tutto ciò che era necessario al processo, alla condanna e alla sua esecuzione. E infatti la sconfinata meticolosità che vedemmo più vol­te applicata al riposo sabbatico non avrebbe permesso varie azioni che troviamo compiute in queste poche ore: ad esempio che coloro i quali in quella notte arrestarono Gesù trasportassero armi ed altri oggetti (Matteo, 26, 47), e che accendessero il fuoco proprio in casa del sommo sacerdote (Luca, 22, 55); ovvero che durante quel santis­simo giorno di Pasqua vi fosse un uomo come Simone il Cireneo che veniva dal campo, dove era stato certamente a lavorare (Marco, 15, 21); oppure che si comprasse una sindone, come fece Giuseppe di Arimatea (Marco, 15, 46); o anche che si preparassero aromi ed unguenti, come fecero le pie donne (Luca, 23, 56). Tutte queste azio­ni erano altrettante violazioni del riposo festivo; se perciò si consi­derano sommate tutte insieme, portano alla conclusione che quella notte non era sacra e quel giorno non era santissimo né di riposo per molti Giudei se non per tutti - e quindi che costoro non avevano mangiato l'agnello pasquale la sera del giovedì come Gesù, né cele­bravano la Pasqua il venerdì. Questa conclusione è tanto più impor­tante, in quanto estratta da informazioni offerte dai soli Sinottici.

Si aggiunga a conferma un'altra osservazione. Gesù muore nel pomeriggio del venerdì, che secondo i Sinottici sembra essere il giorno di Pasqua (15 Nisan). Appena egli è morto, Giuseppe di Arimatea si affretta a seppellirlo in quello stesso pomeriggio, perché col tramon­to sarebbe cominciato il riposo del successivo sabbato (Marco, 15, 42 segg); così pure dal canto loro le pie donne prepararono in quel pomeriggio gli aromi e gli unguenti per la venerata salma, ma giun­ta la sera passarono inoperose il sabbato conforme il comandamen­to (Luca, 23, 56). Tutto ciò sarebbe regolarissimo riferendosi al ripo­so del vero sabbato settimanale: ma se in quel venerdì ormai tra­montato, in cui era morto Gesù, era anche caduta la Pasqua, que­sta solennità portava con sé egualmente il riposo festivo; e allora come mai e perché mai affrettarsi tanto nel pomeriggio di quel venerdì, se già in esso vigeva un riposo anche più solenne in virtù del­la solennità pasquale? Quindi anche da questo lato, ed egualmente per notizie offerte dai Sinottici, ritornerebbe la conclusione che pu­re Giuseppe di Arimatea e le pie donne non celebravano la Pasqua in quel venerdì, il quale perciò non era per essi il 15 Nisan. In realtà la divergenza fra i Sinottici e Giovanni, stando ai sempli­ci dati ricavati da essi, è inconciliabile; se si seguono i Sinottici Ge­sù sembra morto il 15 Nisan, se si segue Giovanni è morto il 14 Nisan.

§ 538. I tentativi per comporre la divergenza sono stati molti, seb­bene parecchi di essi non avessero neppure l'ombra di fondamento storico. In tale condizione si ritrova, ad esempio, l'ipotesi secondo cui in quell'anno i Giudei avrebbero ritardato di un giorno la Pa­squa trasportandola al 16 Nisan, per aver agio di processare ed uc­cidere Gesù, mossi unicamente dall'odio contro di lui, mentre Gesù avrebbe mangiato l'agnello pasquale al tempo prescritto; questa ipo­tesi, proposta già in antico da Eusebio di Cesarea e recentemente da alcuni moderni, ha il torto di essere antistorica in quanto dimentica il tenacissimo attaccamento che gli avversari di Gesù avevano alle loro tradizioni, e che non avrebbe ce­duto il passo neppure al loro odio contro Gesù e ciò, senza rile­vare l'assurdità che siffatto spostamento della Pasqua in odio a Gesù sarebbe stato decretato in poche ore, imposto a folle enormi che non conoscevano neppure di nome Gesù, e perfino a persone a lui bene­vole quali Giuseppe di Arimatea e le pie donne. Altra soluzione che non risolve nulla è quella secondo cui Giovanni, allorché dice che i Giudei non entrarono nel pretorio per non conta­minarsi ma per mangiare la Pasqua, alluderebbe alla consumazione delle altre offerte del ciclo pasquale, ma non a quella dell'agnello che i Giudei avrebbero già mangiato nella stessa sera che Gesù.
Senonché, anche astraendo dal fatto che rimarrebbe egualmente la difficoltà del riposo violato, questa soluzione è dimostrata falsa dal­l'uso rabbinico dell'espressione mangiare la Pasqua, la quale si rife­risce costantemente all'agnello pasquale. Fra quegli studiosi moderni che vogliono trovare nel IV vangelo tutte narrazioni allegoriche ha incontrato molta fortuna la soluzione che ritiene come storica soltanto la cronologia dei Sinottici e considera invece la cronologia del IV vangelo come risultato di una accomo­dazione dogmatico-allegorica; Gesù sarebbe morto in realtà il 15 Ni­san, giorno della Pasqua ebraica, giorno dell'immolazione dell'agnel­lo pasquale, soltanto per significare che egli è il simbelico agnello pa­squale del Nuovo Testamento che ha definitivamente sostituito l'an­tica vittima della Pasqua ebraica, conforme al principio dogmatico di S. Paolo: (Quale) nostra Pasqua fu immolato Cristo (I Cor., 5, 7). Senonché, chi non si lasci abbagliare dalle apparenze, questa solu­zione apparirà non meno antistorica di altre. Essa infatti passa sopra, con fallace indifferenza, agli importantissimi accenni che già rilevam­mo dagli stessi Sinottici, i quali su questo argomento sono considerati storici dagli stessi seguaci di tale soluzione. Se Gesù morì il 15 Ni­san e se quel giorno era Pasqua, perché mai molti Giudei non os­servavano in quel giorno il riposo festivo come incidentalmente ma sicuramente abbiamo appreso dai Sinottici? Sarebbero forse allegorici in altra maniera anche i Sinottici? O non piuttosto la presunta cronologia allegorica del IV vangelo è storica non meno di quella dei Sinottici? Quanto all'unica ragione positiva addotta, cioè la coinci­denza della immolazione dell'agnello pasquale con la morte di Gesù, è ragione più speciosa che soda; anzi, esaminata più da vicino, sem­brerebbe piuttosto una difficoltà in contrario che una ragione in fa­vore.
Se Gesù è morto secondo i Sinottici il 15 Nisan ed ha cele­brato la cena pasquale la sera del 14, Giovanni aveva ogni motivo allegorico per conservare questa cronologia e non già per mutarla; in­fatti, secondo essa, Gesù avrebbe istituito l'Eucaristia proprio men­tre i Giudei celebravano la cena pasquale, ed è appunto l'Eucaristia il rito unico e perenne che nella Chiesa cristiana ha sostituito i vari riti sacrificali del giudaismo; perciò Giovanni, che giustamente è ri­conosciuto anche dagli avversari come l'evangelista del Cristo “pane di vita” (§ 373, nota), poteva attenersi tranquillamente alla cronologia dei Sinottici ritrovandovi pienamente appagata la sua inclinazione dogmatico-allegorica. E invece, secondo il suo solito, Giovanni ha ritoccato in parte quella cronologia, mettendo in miglior luce quanto era stato accennato vagamente dai Sinottici stessi. In tal ca­so non parlerebbe in lui il testimonio oculare e prediletto, piuttosto che il presunto allegorizzante?

§ 539. In questa vecchia e intricata questione i recenti e proficui studi degli antichi documenti rabbinici hanno aperto una nuova via, che è forse la buona. Già avemmo occasione di rilevare quanto fos­sero empirici ed incerti i mezzi con cui ai tempi di Gesù si fissava il calendario giudaico, e come questo calendario fosse di una elastici­tà appena concepibile per noi moderni (§ 180); ebbene, appunto da questa elasticità potrebbe dipendere la divergenza fra i Sinottici e Giovanni, consistendo essa nel collocare il venerdì della morte di Gesù o al 14 o al 15 Nisan. Se quel venerdì fu insieme il 14 e il 15 Nisan - ossia se alcuni Giudei lo computavano come il 14 e altri come il 15 - sarebbe conciliata la divergenza, perché i Sinottici si rife­rirebbero ai Giudei che consideravano quel venerdì come 15 Nisan, mentre Giovanni si riferirebbe agli altri che lo consideravano come il 14 Nisan.
Troviamo infatti che, ai tempi di Gesù, si agitava una seria controversia fra Sadducei e Farisei a proposito della data della Pentecoste, e per conseguenza anche della Pasqua essendo le due feste ricollegate fra loro. I partigiani della famiglia di Boeto (§ 33), influentissima nel ceto sacerdotale e sadduceo, sostenevano che la Pentecoste doveva celebrarsi sempre di domenica; ma poiché i 50 giorni d'interstizio fra la Pasqua e la Pentecoste (§ 76) si cominciavano a contare da quel giorno dell'ottava Pasquale nel quale si offriva nel Tempio il primo manipolo di spighe, perciò essi sostenevano che l'offerta del ma­nipolo doveva farsi sempre nella domenica di detta ottava. I Farisei al contrario sostenevano che la Pentecoste poteva celebrarsi in qualunque giorno settimanale; quindi l'offerta del manipolo doveva farsi sempre al giorno immediatamente successivo alla Pasqua, cioè al 16 Nisan, qualunque giorno settimanale esso fosse. Stante questa divergenza i Boetani e in genere i Sadducei usavano spostare il calendario, specialmente nei casi in cui la Pasqua (15 Nisan) fosse caduta di venerdì ovvero di domenica.
Nel caso di Pa­squa al venerdì, essi posticipavano il calendario d'un giorno e face­vano cadere in quel venerdì l'immolazione dell'agnello e la cena pasquale (14 Nisan), nel sabbato la Pasqua (15 Nisan), e nella dome­nica l'offerta del manipolo (16 Nisan). Nel caso di Pasqua alla do­menica anticipavano d'un giorno e facevano cadere in quella dome­nica l'offerta del manipolo (16 Nisan), nel precedente sabbato la Pasqua (15 Nisan), e nel precedente venerdì l'immolazione dell'agnello (14 Nisan). Questo spostamento di calendario si otteneva facil­mente, anche mediante piccoli sotterfugi, approfittando dell'empiri­smo con cui si regolava la fissazione del calendario e di cui già trat­tammo (§ 180). A questa accomodazione dei Sadducei non acconsentivano però i Fa­risei; i quali, non preoccupandosi del giorno settimanale in cui ca­deva la Pentecoste, celebravano il rito dell'agnello, quello della Pa­squa e quello del manipolo, nei giorni in cui effettivamente cade­vano. Si produceva quindi una scissione fra coloro che celebravano questi riti. La gran massa del popolo, dominata dai Farisei, li seguiva an­che nella fissazione cronologica di questi riti. AI contrario le classi aristocratiche, più legate al ceto sacerdotale, seguivano la fissazione dei Boetani e dei Sadducei. Ogni gruppo seguiva la propria crono­logia, non curandosi del gruppo opposto; tuttavia non dovevano mancare molti individui i quali o per ragioni di comodità seguivano la cronologia del gruppo non loro, ovvero non appartenendo a rigo­re a nessun gruppo sceglievano fra le due alternative quella che me­glio piaceva.

§ 540. Ora, applicando questi dati al caso di Gesù, si trova una corrispondenza sorprendente. L'anno in cui Gesù mori, la Pasqua cade­va regolarmente al venerdì. Perciò i Sadducei, conforme alla loro norma, posticiparono il calendario d'un giorno per ottenere che l'of­ferta del manipolo cadesse alla domenica. I Farisei invece si attenne­ro al calendario regolare, respingendo la posticipazione dei Sadducei e celebrando l'offerta del manipolo al sabbato. Il popolo si divise fra le due correnti. La seguente tabella mostrerà nelle prime due colonne la differenza di datazione della festività pasquale tra i Sadducei e i Farisei, nelle ultime due colonne le rispettive posizioni degli evangelisti (cfr. ta­bella al § 536): Si noti come Giovanni concordi col calendario mensile dei Sadducei, e invece i Sinottici concordino con quello dei Farisei. Infatti l'ultima cena di Gesù fu certamente la cena legale dell'agnello, e fu tenuta aI giovedi nello stesso tempo che la tenevano i Farisei e in maggioran­za quei del popolo; i quali consideravano quel giorno come il 14 Nisan, e il seguente venerdì come il 15 ossia la Pasqua. Ma la pre­ponderanza del Sinedrio, che condannò Gesù, era composta di Sad­ducei (§ 58); i quali perciò consideravano quel giovedì come il 13 Nisan, e di conseguenza ritardavano la cena dell'agnello al venerdì seguente e la Pasqua al sabbato seguente. Così si comprende anche perché nel venerdì della morte di Gesù non osservassero il riposo fe­stivo, sebbene quel giorno cadesse la Pasqua; era Pasqua per i Fa­risei, ma non per molti altri che per una ragione o l'altra seguivano il calendario dei Sadducei.

In conclusione, i Sinottici si riferiscono al calendario mensile seguito da Gesù in accordo con i Farisei, pur accennando chiaramente al disaccordo di altri; Giovanni invece si ri­ferisce al calendario seguito dai sinedristi Sadducei; condannatori uffi­ciali di Gesù, pur supponendo già noto che il calendario seguito da Gesù era differente. ~ assolutamente sicura questa spiegazione della vecchia questione? No, giacché rimangono ancora taluni punti oscuri, che qui sarebbe eccessivo elencare. Tuttavia a noi sembra la più fondata storicamen­te, soprattutto perché tiene conto della elasticità del calendario con­temporaneo; la quale elasticità è una realtà storica di primaria im­portanza perché essa, come entra per qualche parte nelle famose controversie sorte nel cristianesimo primitivo a proposito della cele­brazione della Pasqua cristiana, così ancora oggi spiega le divergen­ze cronologiche che si riscontrano a proposito di costumanze islamiche fra Arabi, anche di regioni confinanti, formandosi il loro calendario sull'osservazione diretta della luna.

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06/08/2012 20:40

Denunzia del traditore

§ 541. Che in quella cena pasquale di Gesù sia avvenuto qualcosa di straordinario, Giovanni lo esprime con quella sua maniera singolare fatta di velate allusioni, che però era capita benissimo dagli esperti uditori della sua catechesi: Sapendo Gesu' che venne l'ora di lui affinché passasse da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi, quelli (ch'erano) nel mondo, (sino) in fine (Giov., 13, 1). Queste parole possono considerarsi come un nuovo piccolo prologo che Giovanni premette al racconto della passione: Gesù, che ha sempre amato i suoi, adesso dimostra il suo amore (si­no) in fine, non solo cronologicamente sino alla fine della sua vita, ma molto più intensivamente sino al fine raggiungibile, sino all'estre­mo limite possibile dell'amore stesso. Accennando all'amore (sino) in fine vuole forse l'evangelista spirituale alludere all'istituzione del­l'Eucaristia che egli solo non narra? E’ possibilissimo (§ 545). D'altra parte anche l'evangelista discepolo di Paolo accenna a que­sto amore, quando narra che a principio della cena Gesù, vedendosi circondato dai suoi discepoli, esclamò verso di essi: Di (gran) de­siderio desiderai mangiare questa Pasqua con voi prima che io pa­tisca. Vi dico infatti che piu' non la mangerò fino a che (essa) sia compiuta nel regno d'iddio (Luca, 22, 15-16). Torna qui l'idea che la passione è per il Messia la condizione necessaria per il suo ingresso alla gloria: questa gloria, poi, sarà il trionfo del regno di Dio simboleggiato in un banchetto eterno.

Nell'ultima cena fu certamente seguito il solito rito della cena pa­squale - che descrivemmo altrove (§ 75) - con le quattro coppe ri­tuali di vino, con il pane azimo, le erhe agresti e l'agnello arrostito, sebbene non tutte queste cose siano ricordate dagli evangelisti. Gesù in quella comitiva fungeva da padre di famiglia; perciò benedisse egli la prima coppa, ed aggiunse: Prendete ciò e dividete(lo) fra voi; vi dico, infatti, non berrò da adesso del prodotto della vite fino a che il regno d'iddio sia venuto (ivi, 17-18). In relazione al precedente simbolo del banchetto eterno, il regno di Dio è qui simboleggiato in un simposio eterno. La cena era pertanto cominciata, ma non tutti i convitati erano pienamente soddisfatti: non sarebbero stati uomini della loro nazione e del loro tempo, se parecchi di loro non si fossero mostrati scontenti del posto che occupavano a tavola desiderandone uno più onorifico (§ 457). Quella brava gente aveva tutta una grande stima di sé, e avvenne anche una gara fra loro, riguardo a chi di essi appaia es­ser maggiore (ivi, 24); la disputa non era nuova, ma un vago accen­no di Giovanni (13, 2-5) potrebbe far sospettare che questa volta la disputa fosse provocata da pretensioni di Giuda Iscariota: appunto il traditore avrebbe suscitato la gelosia degli altri Apostoli preten­dendo uno dei posti più onorifici, e ciò conforme a un fenomeno frequente nei traditori che, spinti dalla dissimulazione, pretendono preferenze e particolari riguardi. A quella umiliante scenata Gesù dovette rispondere a parole come più o meno già aveva risposto alle altre contese di preminenza av­venute nel passato fra gli Apostoli (§ § 408, 496), ma questa volta volle aggiungere anche una risposta con i fatti (Giovanni, 13, 4 segg.).
Vedendo che nonostante le sue esortazioni all'umiltà i brontolii rin­ghiosi di quei materialoni non cessavano, egli si leva dal suo divano, depone le vesti, si cinge al grembo d'un pannolino, e preso un cati­no con acqua comincia a lavare i piedi ai commensali: i più umili schiavi erano incaricati di questo ufficio, e potevano compierlo agevolmente perché i commensali erano distesi sui divani col busto verso la tavola e i piedi sporgenti dall'altra parte all'infuori (§ 341). Al vedere il maestro abbassatosi a quel servigio, gli Apostoli rima­sero interdetti e accettarono passivamente la lavanda come un'umi­liazione: neppure Giuda osò protestare. Solo Pietro, che probabilmente fu il primo a cui si rivolse Gesù, protestò dicendo: Signore, tu mi lavi i piedi? -
E Gesù a lui: Ciò che io faccio, tu adesso non sai; lo saprai in seguito. - Ma Pietro non cede: Non mi laverai i piedi in eterno! - Gesù replica: Se non t'avrò lavato, non avrai parte con me. - A questa risposta l'irruen­te Pietro salta all'altro eccesso: Signore, lavami non solo i piedi, ma anche le mani e il capo! - Gesù allora conclude: Chi si è lavato non ha bisogno di lavarsi (se non i piedi), ma è mondo interamente; e voi siete mondi, ma non tutti. Trasalì Giuda a quest'allusione? Forse no; il traditore dovette con­tentarsi all'udire che il suo delitto restava ancora occulto ai suoi colleghi. Ma la cosa non fini li.

§ 542. Terminata la lavanda dei piedi, Gesù indossò nuovamente le sue vesti e riprese posto a tavola sul suo divano. Egli occupava cer­tamente il posto più onorifico, e la contesa testé sorta fra gli Apostoli era stata motivata del desiderio di occupare i divani piu vicini a lui. Poiché la tavola era a semicerchio e i divani erano disposti radial­mente all'esterno del semicerchio, si può ragionevolmente conget­turare che Gesù occupasse il divano centrale al vertice del semicer­chio; ma da quanto accennano gli evangelisti risulta che i divani più vicini a Gesù erano occupati da Pietro, Giovanni e Giuda Iscariota. Immaginandosi pertanto i commensali sdraiati sui divani e appog­giati col gomito sinistro verso la tavola, Gesù ch'era al centro doveva avere alle sue spalle Pietro, che così occupava il secondo posto nel grado onorifico; dall'altro lato, cioè davanti al petto di Gesù, dove­va stare sdraiato Giovanni, che così poteva appoggiare il capo sul petto del maestro; Giuda Iscariota sta subito appresso a Giovanni, di modo che Gesù stendendo il braccio poteva senza difficoltà giun­gere a dargli un boccone di cibo. Schematicamente, dunque, la po­sizione dei commensali attorno alla tavola doveva presentarsi come nella figura della pagina di fronte. Ripresa la cena, non c'era tuttavia serenità fra i commensali: gli Apostoli erano rimasti turbati dall'affermazione di Gesù che essi non tutti erano mondi, e desideravano qualche schiarimento in proposito. Anche Gesù dal canto suo desiderava tornar sopra quell'argomento, non tanto per la giusta curiosità di coloro ch'erano mondi, quanto per la non richiesta purificazione di colui ch'era l'unico immondo: con quell'infelice bisognava ancora fare un tentativo, offrirgli un ul­timo salvataggio. Perciò, quando si riprese a mangiare, Gesù par­lando ancora genericamente citò un passo del Salmo (41, 10 ebr.): Chi mangia il pane mio alzò contro di me il suo calcagno (Giov., 13, 18; cfr. Marco, 14, 18).
E, detto ciò, egli fu turbato nello spirito, aggiungendo senza nominare alcuno: In verità, in verità vi dico, che uno di voi mi tradirà. Fu uno sgomento generale. Proprio in quella serata cosi solenne e così affettuosa, si poteva parlare di tradimento? Proprio fra quei dodici uomini che si erano dati anima e corpo al maestro, si pote­va dissimulare un traditore? Tutti allora con veemenza impetuosa, non senza una punta di sincero risentimento, domandarono a ga­ra al maestro: Sono forse io, Signore? Gesù confermò nuovamen­te senza dir nomi, ma facendo risaltare la qualità particolarissima del traditore: Uno dei dodici! Chi intinge con me nel vassoio! (Marco, 14, 20). Tutti i commensali infatti, stendendosi dal loro divano, in tingevano il pane e le erbe amare in vassoi comuni che contenevano la salsa pasquale (§ 75), e ciascuno poteva servire a cir­ca tre persone: probabilmente quello in cui intingeva Gesù serviva pure a Giovanni e a Giuda. Ma anche quest'ultima indicazione fu interpretata in senso vago dagli Apostoli, quasicché equivalesse alla precedente espressione uno dei dodici e designasse in genere chi in­tingeva in un vassoio qualsiasi della tavola comune: invece, proba­bilmente, Gesù aveva alluso al vassoio suo proprio. Ad ogni modo fra i commensali c'era colui che aveva ben capito, e appunto riferen­dosi a lui Gesù aggiunse parole che vollero essere l'ultimo spasima­to grido di esortazione, l'estrema segnalazione dell'abisso: Poiché il figlio dell'uomo se ne va, conforme e' scritto circa lui: guai però a quell'uomo da cui il figlio dell'uomo e' tradito! Buona cosa (sarebbe) per lui, se non fosse nato quell'uomo!

§ 543. A questo punto Giuda non poteva più tacere; il suo silenzio, fra l'ansia trepidante dei molti, l'avrebbe da se stesso denunziato. Calmo, misurato, ma non senza un leggiero tremito nella voce, egli allora domandò come tutti gli altri: Sono forse io, Rabbi? Il tra­ditore era sdraiato poco distante dal tradito; le teste dei due, rivolte verso la tavola, erano anche più vicine che non il resto dei loro corpi. Alla domanda di Giuda, che dovette passare inosservata ai più dei commensali, Gesù fece il supremo tentativo per la salvez­za di lui; colse forse un momento in cui Giovanni, commensale in­termedio, era sollevato col busto e badava altrove, e allora rispose sommessamente a Giuda: Tu (l')hai detto! Era un modo ebraico per dare una risposta afferrnativa. Oramai non c'era più nulla da fare; il traditore sapeva di essere co­nosciuto come tale. Scegliesse lui: o consumare il tradimento svela­to, o implorare il perdono dal sempre venerato maestro (§ 533). La sommessa risposta data da Gesù a Giuda era sfuggita agli altri commensali, salvo forse a Giovanni. Perciò il desiderio dì sapere qualcosa di preciso sul tradimento e sul traditore era vivissimo in tutti, e specialmente nel generoso Pietro. Costui non osò interrogare Gesù, per timore forse di ricevere una risposta severa come altre volte; tuttavia per giungere al suo intento egli trovò sagacemente la via buona, rivolgendosi a Giovanni. Il discepolo prediletto occupava il divano immediatamente a destra di Gesù cosicché, stando ambe­due sdraiati ed appoggiati sul gomito sinistro, Gesù rivolgeva il seno verso Giovanni e di costui si poteva dire che era adagiato... nel seno di Gesu' (in Giov., 13, 23); Pietro invece stava sul divano a Sinistra di Gesù, e Gesù gli voIgeva le spalle né lo vedeva direttamente. Però Pietro, approfit­tando della sua situazione, fece un cenno a Giovanni incitan­dolo a domandare a Gesù chi fosse il traditore di cui parlava; la manovra del resto era semplicissima, perché Pietro si era alzato sul busto, e attirata cosi l'attenzione di Giovanni gli avrà espresso il proprio desiderio a cenni, fatti più in alto della persona di Gesù ch'era ripiegato sul gomito sinistro.
L'evangelista giovanetto compre­se subito il desiderio di Pietro, e a sua volta fece una piccola manovra suggeritagli dal suo confidente cuore d'amico prediletto; giratosi egli per metà sul suo corpo, si puntò non più sul gomito sinistro ma sul destro, e così ritrovandosi anche più vicino al divano di Gesù appoggiò confidenzialmente la sua testa sul petto del maestro e stette a guardarlo negli occhi dal sotto in su, come un bambino reclinato sul seno del babbo e che aspetti una grazia. Quindi, sommessamente gli domandò: Signore, chi e? La domanda del piccolo amico prediletto fu esaudita, ma per il dsgraziato amico che franava verso l'abisso si ebbe ancora un ultimo riguardo. Nei pasti comuni degli Orientali antichi e anche dei mo­derni - era un gesto di cortesia offrire a un commensale un bocco­ne bell'e preparato, cioè un frammento di pane che, chi usava la cor­tesia, staccava dalla focaccia comune, arrotolava, intingeva nel vas­soio ove tutti intingevano, e così porgeva al convitato avvicinandoglielo alla bocca. Alla richiesta dunque di Giovanni, Gesù rispose: E’ quello a cui io intingerò il boccone e glie(lo) darò. E staccato un pezzo di pane, lo intinse e dette a Giuda. Il traditore ancora non era stato svelato, se non segretamente al fido Giovanni, e a quella cortesia di Gesù egli poteva ancora rinsavire; ma, impassibile, Giuda trangugiò il boccone senza dir nulla, mostran­do con ciò d'aver fatto la sua scelta definitiva. E dopo il boccone - commenta qui il testimonio oculare e consapevole di quella scena - allora entrò in lui il Satana. Tuttavia Giuda stesso non resisté più oltre; si alzò dal suo divano per uscire. Gli dice pertanto Gesu' “Ciò che fai, fa' presto”. Ma nes­suno dei commensali capì ciò, a che (scopo) glie(lo) disse.
Alcuni infatti credevano che, siccome Giuda teneva la cassetta (§ 502), Gesu' gli dicesse “Compra le cose di cui abbiamo bisogno per la festa”, ovvero, che desse qualcosa ai poveri. Preso pertanto il bocco­ne, colui uscì subito. Era notte. E il traditore, uscito fuori, s'immerse nella sua doppia notte.
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06/08/2012 20:45

Istituzione dell'Eucaristia

§ 544. A questo punto, il banchetto pasquale doveva esser molto avanzato, e prossimo alla fine forse la seconda coppa era quasi consumata, e fra poco si doveva mescere la terza coppa (§ 75). A un tratto Gesù compié un'azione insolita, non contemplata dal rito della cena pasquale. Prese egli una focaccia di pane azimo e, dopo aver pronunziata una formula di benedizione, ne staccò dei pez­zi che distribuì agli Apostoli dicendo: Prendete, mangiate; questo e' il corpo mio, che per voi (e') dato. Ciò fate nel mio ri­cordo. Poco dopo, probabilmente quando fu versata alla fine della cena la terza coppa rituale, egli prese un calice pieno di vino temperato e, avendo parimente reso grazie, ne fece bere a tutti dicendo: Bevete da esso tutti. Questo calice (e') il nuovo testamento nel san­gue mio, che per molti (e') versato. Ciò fate, quante volte (ne) bevia­te, nel mio ricordo. Quale impressione facesse personalmente sugli Apostoli questa dop­pia azione di Gesù non ci vien detto dai Sinottici, ma ciò non si­gnifica gran che; d'assai maggior importanza è invece l'impressione e l'effetto permanente che ne ricevette tutta la primissima società cri­stiana, la quale fu l'interprete sotto ogni aspetto più autorevole di quella doppia azione di Gesù e delle parole che l'accompagnarono.
E qui, per riscontrare i fatti storici, abbiamo a nostra disposizione due eccellenti specole d'osservazione, poste a una certa distanza l'una dall'altra. Circa venticinque anni dopo l'ultima cena di Gesù, Paolo scriveva ai cristiani di Corinto quella sua lettera (I Cor., 11, 23-29) ove l'Eu­caristia è presentata come rito stabile e abituale, come rito per cui il fedele che vi partecipava mangiava veramente il corpo e beveva veramente il sangue di Gesù, come rito infine ricollegato direttamente con la doppia azione di Gesù nell'ultima cena e con la sua morte redentrice. Nessun dubbio che questo insegnamento di Paolo, da lui già trasmesso negli anni precedenti ai fedeli di Corinto (ivi, il, 23), fosse stato trasmesso anche alle altre comunità da lui catechizzate e si trovasse in pieno accordo con la catechesi degli altri Apostoli; questa, insomma, era la maniera in cui la catechesi primitiva e la li­turgia primitiva interpretavano e rinnovavano la doppia azione com­piuta da Gesù nell'ultima cena.

Un quarantennio più tardi della lettera di Paolo incontriamo un'al­tra specola che funziona in maniera differente ma non meno pre­cisa: è il IV vangelo, il solo vangelo che non racconti l'istituzione dell'Eucaristia. Già sappiamo che questo silenzio è più eloquente, in qualche modo, di un racconto effettivo (§§ 378-383); ma qui si può aggiungere un'altra considerazione. Anche dato e non concesso che autore del IV vangelo sia, non l'apostolo Giovanni, ma uno sconosciuto mistico solitario, questo autore molto probabilmente cono­sceva la lettera di Paolo, indubbiamente conosceva gli scritti dei Si­nottici, certissimamente era edotto della liturgia eucaristica diffusa alla fine del secolo i ovunque era una comunità cristiana; egli dun­que, della fede dei suoi tempi, è un testimonio silenzioso ma non meno efficace, in quanto serba silenzio sull'istituzione ma ne mette in sommo rilievo gli effetti spirituali col suo discorso sul pane vivo (§ 387 segg.): del resto oggi ciò è ammesso anche da studiosi radicali (§ 373, nota). In conclusione l'autore del IV vangelo concorda pie­namente con la catechesi di Paolo e con quella dei Sinottici, e le conferma accettandole in parte silenziosamente, e in parte mettendole in accurato rilievo.

§ 545. Tornando ora agli Apostoli e all'impressione immediata che ricevettero dalle parole di Gesù, bisogna riconoscere che fu un'impressione meno nuova di quanto sembrerebbe a prima vista; anzi, in qualche modo, essa fu la risoluzione di un vecchio enigma che s'agi­tava nelle menti di quegli uomini. L'antico discorso sul pane vivo non solo non era stato giammai da essi dimenticato, ma piuttosto di tempo in tempo aveva dovuto riaf­facciarsi alle loro menti come un'arcana promessa rimasta tuttora inadempiuta. In verità, in verità vi dico, se non mangiate la carne del figlio dell'uomo e beviate il sangue di lui, non avete vita in voi stessi... La carne mia è vero nutrimento, e il sangue mio e' vera be­vanda: chi mangia la mia carne e beve il mio sangue in me rimane e io in lui... chi mangia me, egli pure vivrà per me. Questo e' il pane disceso dal cielo, ecc. Affermazioni di questo genere aveva fatte Gesù a Cafarnao molti mesi prima, ma fino all'ultima cena egli non aveva offerto maniera ai suoi discepoli di eseguire questo comando cosl essenziale per avere vita in se stessi. E in qual maniera, poi, avreb­be egli reso “molle” un discorso così duro (§ 382)? In qual maniera avrebbe reso umano e spirituale un banchetto che sembrava da an­tiopofagi? La “durezza” delle affermazioni aveva scandalizzato mol­ti discepoli di Gesù, i quali lo avevano abbandonato: i dodici in­vece gli erano rimasti fedeli, perché il maestro aveva parole di vita eterna; tuttavia nei molti mesi trscorsi quelle parole ancora non erano state avverate, e certamente i dodici più d'una volta si saran­no domandati dubbiosi se il maestro non si era dimenticato della piomessa, ovvero in che maniera l'avrebbe mantenuta. Improvvisamente, quella notte, essi vedono il maestro distribuire pa­ne e vino, dicendo “Questo è il mio corpo”;”Questo e' il mio san­gue”. Con tale doppia azione e doppia affermazione il vecchio enig­ma era risolto, l'antica promessa era mantenuta, e il vero significato dell'azione e dell'affermazione appariva mirabilmente chiaro alla luce del discorso sul pane vivo: l'apparente pane e l'apparente vino allora distribuiti erano in realtà il corpo e il sangue del maestro. Chi pertanto abbia presente lo stile sentenzioso e riflesso di Giovanni troverà possibilissimo che, quando egli afferma aver Gesù amato i suoi (sino) in fine, con questa frase alluda appunto all'istituzione dell'Eucaristia da lui non raccontata (§ 541).

§ 546. Un'azione così importante di Gesù, compiuta da lui in circo­stanze cosi solenni, e per dippiù divenuta la base della vita religiosa della Chiesa fin dalla prima generazione cristiana, non poteva non attirare la particolarissima attenzione degli studiosi radicali. Gesù ha realmente compiuto la doppia azione e pronunziato la dop­pia affermazione dell'ultima cena? Ciò che i Sinottici e Paolo narrano su questo argomento è realmente storico, ovvero ha di storico soltanto un piccolo nucleo, ingrandito più tardi e travisato dall'elaborazione della prima generazione cri­stiana? Ebbe Gesù intenzione d'istituire un vero rito stabile da rinnovarsi in seguito dai suoi discepoli, ovvero fece una semplice azione simbolica la quale valeva solo in quanto fatta da lui in quelle circostanze, ma senza ch'egli comandasse di rinnovare l'azione in seguito? Queste ed altre domande concomitanti che furono proposte non ri­guardano soltanto l'Eucaristia in sé ma investono l'intera operosità di Gesù, che sarà valutata differentemente a seconda di come si risponde a queste domande. Se si accetta infatti il racconto dei Si­nottici e di Paolo come sta, bisogna riconoscere che Gesù attribuiva alla sua morte un valore di redenzione (il corpo mio che per voi è dato;... il sangue mio che per molti e' versato); bisogna anche am­mettere che egli intendeva fondare una particolare religione, con un suo ben distinto rito, il quale ricordasse perennemente la morte re­dentrice del fondatore (ciò fate... nel mio ricordo).

Ora, queste ed altre conseguenze smentivano più o meno ampiamente le interpre­tazioni che della figura e opera di Gesù davano le teorie contempo­ranee, da quella della Scuola liberale a quella degli escatologisti il mellifluo predicatore dell'universale paternità divina immaginato dai liberali (§ 204 segg.) non pensava certamente alla sua morte co­me a un vero sacrifizio di redenzione per l'umanità; tanto meno il visionario ritrovato dagli escatologisti poteva preoccuparsi di fon­dare una particolare religione con un ben distinto rito che soprav­vivesse alla catastrofe del « secolo » presente (§ 209 segg.). Per sal­vare dunque le teorie bisognava dimostrare che Gesù non ha affat­to istituito l'Eucaristia; e per ottenere ciò bisognava sottoporre a una vigile interpretazione i racconti dei Sinottici e di Paolo. Ora, noi già sappiamo che le vigili interpretazioni degli studiosi radicali si riducono, immancabilmente, a ripudiare come aggiunti e tardivi quei passi che non s'inquadrano in una preconcetta teoria; ma in questo caso, meglio forse che in ogni altra questione dei vangeli, appare chiaramente la ferrea necessità della logica per cui, quando in siffatti testi si cominci a negare una parte, si finisce inevitabilmente a negare e ripudiare tutto quanto.

§ 547. Si cominciò dunque col negare che Gesù avesse comandato agli Apostoli di rinnovare in seguito il rito, rendendolo un rito pe­renne; poiché infatti il gruppo di Matteo e di Marco non riferisce le parole ciò fate... nel mio ricordo, se ne concluse che tali parole no un'aggiunta posteriore introdotta dal gruppo di Paolo e di Lu­ca, e quindi da ripudiarsi. Rimaneva però ancora molto, cioè che il corpo di Gesù per voi e' dato, che il calice del suo sangue è il nuovo testamento ed è per mol­ti versato: rimaneva insomma l'idea della morte redentrice del Cri­sto. Ma anche questo molto fu man mano ripudiato con lo stesso procedimento: si decretò che erano tutte aggiunte posteriori, dovute all'influenza delle elaborazioni teologiche di Paolo. E vero che pure nel gruppo di Matteo e di Marco si trova che il sangue del Cristo è il sangue del (nuovo) testamento e che per molti e' versato in remissione di peccati. Ma ciò che dimostrava? Nulla. Anche questo era da ripudiarsi, come un'aggiunta dovuta all'influenza di Paolo. Rimane­vano quindi, come primitive, le sole parole Questo e' il corpo mio; Questo è il sangue mio, pronunziate alludendo ai convito messianico, presentando il pane e il vino come simbolo di quel convito, ma sen­za relazione alla sua imminente morte.
Eppure, anche dopo queste amputazioni, restavano ancora seri dub­bi. Erano proprio primitive e genuine ambedue quelle affermazioni risparmiate? Ci si ripensò sopra, e si finì per concludere che non potevano essere risparruiate asnbedue. Alla nuova amputazione offrì pretesto il fatto che, tra la congerie di codici antichissimi e tutti so­stanzialmente uniformi, ve n'era uno - il disputatissimo codice di Beza - suffragato da pochi altri di antiche versioni, nel quale il rac­conto di Luca è ridotto a queste parole: E preso il pane, avendo re­so grazie (lo) spezzò e dette loro dicendo: “Questo e' il corpo mio”; tutto il resto è ivi omesso, compresa la distribuzione del vino e le relative parole. Questo - si disse - era il racconto primitivo: la sola presentazione del pane, senza alcuna contrapposizione del pane-corpo al vino-sangue, ossia senza l'idea della morte, e naturalmente senza il comando di rinnovare il rito in seguito. Rimaneva cosi il pane insieme con la sua presentazione. Eppure an­che questo rudere superstite non soddisfece, se non altro perché trop­po esigno e insignificante.

Che cosa, insomma, aveva Gesù inteso fa­re presentando il pane come suo corpo? Non aveva egli mangiato centinaia di volte il pane insieme con i suoi discepoli? Ovvero quella volta il pasto comune aveva un significato particolare come pasto di haberuth, di « colleganza » (§ 39)? Ma in tal caso il suo significato particolare gli proveniva dalla morte imminente di Gesù, e quindi si ritornava alla già respinta relazione con la morte. No, con tutte le precedenti amputazioni non si era ottenuto nulla di sicuro; per trovare un terreno storico più sodo e spazioso bisognava scendere alla liturgia della Chiesa primitiva, e ricercare che cosa intendessero fare quei primi cristiani compiendo il rito dell'Eucaristia e attribuendone l'istituzione a Gesù. E, in primo luogo, era un rito di provenienza giudaica o straniera? Si ricercò nel giudaismo tardivo, ma non se ne trasse nulla di soddisfacente. Fu applicato il metodo della Storia comparata delle reli­gioni (§ 214). Si pensò a primitivi riti di totemismo e di teofagia; più accuratamente s'investigarono i riti di Iside ed Osiride, e l'emo­fagia dei culti di Sabazio e di Dioniso; un'attenzione anche maggiore si portò ai misteri Eleusini e ai banchetti di Mithra. Certamente si trovarono notizie peregrine e si fecero osservazioni importanti su questi riti pagani; ma quando si giunge al vero nodo della questio­ne, ossia alle loro relazioni col rito eucaristico del cristianesimo pri­mitivo, si presero anche lucciole per lanterne e si affermò che una zanzara è uguale in tutto a un'aquila dal momento che ambedue hanno le ali e volano e si nutrono di sangue. Soprattutto, poi, queste dotte ricerche parvero come tanti voli fatti in aria, lontano dal terreno della realtà storica: prima di pensare a Iside ed Osiride e ad altre infiltrazioni orientali, bisognava infatti fare i conti con S. Paolo e vedere se egli lasciava il tempo materiale al penetrare di tali infil­trazioni nel cristianesimo.

§ 548. S. Paolo infatti scrive la sua lettera ai Corinti nell'anno 56, ma egli stesso dice di avere ammaestrato oralmente i Corinti sul rito eucaristico in precedenza (§ 544), ossia quando aveva fondato quella comunità cristiana. Ciò era avvenuto nell'anno 51. Ma anche que­st'anno è troppo tardivo per la nostra questione, perché in quel tem­po Paolo possedeva gia riguardo all'Eucaristia la sua dottrina ben definita e certamente concorde con la catechesi e con la dottrina del­le altre comunità: ossia egli la possedeva già prima del 50, a meno d'un ventennio dall'ultima cena di Gesù. Ma anche da questo ven­tennio sono da togliersi altri anni. Solo verso il 36 Paolo, fino allora intransigente fariseo, passa nel numero dei perseguitati discepoli del Cristo; ma naturalmente ancora per parecchio tempo egli rimane nella penombra e mena una vita o del tutto solitaria o semipubblica fra l'Arabia, Damasco e Tarso. Soltanto col primo grande viaggio missionario Paolo diventa una figura di primo piano nel cristiane­simo primitivo, ma è il viaggio che comincia tra il 44-45 per termi­nare nel 49; siamo con ciò al periodo, testé accennato, in cui Paolo già possedeva una dottrina ben definita riguardo all'Eucaristia. Ora, troppe e troppo inverosimili cose sarebbero da ammassarsi, secondo l'ipotesi radicale, in questo decennio che va dal 36 al 45 circa, per potersi ammettere quell'ipotesi. In primo luogo che Paolo, indomabile avversario dell'idolatria ieri come Fariseo e oggi come discepolo del Cristo, prenda appunto dal­l'idolatria quello che sarà il fondamentale rito liturgico del cristiane­simo; inoltre che egli abbia, in quei suoi primi anni, tanta autorità da diffonderlo nelle chiese cristiane della più diversa origine; poi, che egli riesca cosi rapidamente in questa diffusione da ottenere che già prima del 50 il rito fosse comune, fondamentale, unico.

No: questa non è storia; sono voli di fantasia, guidata da preconcetti ma non dai documenti. La pagina di Paolo sull'Eucaristia è tale docu­mento da troncare tutti codesti voli; essa, debitamente illuminata dall'operosità dei primi anni cristiani di Paolo, dimostra che l'apo­stolo ha desunto la sua dottrina eucaristica dalla chiesa di Gerusa­lemme, verso la quale egli ha tenuto sempre fisso lo sguardo e nella quale si è recato anche più volte in persona nel decennio suddetto. E la chiesa di Gerusalemme era quella dov'era avvenuta l'ultima ce­na di Gesù. La forza di questo elementare ragionamento è stata sentita anche nel campo degli studiosi radicali, almeno dai più logici e franchi tra essi. E allora non è rimasto altro che fare l'ultimo passo nella via della negazione, ricorrendo al solito metodo di dichiarare aggiunta e tardiva la pagina di Paolo. E anche questo passo è stato fatto: il rac­conto paolino dell'Eucaristia è stato dichiarato falso e interpolato, per la sola ma decisiva ragione che non si accorda con la teoria pre­concetta (§ 219). Qualunque studioso sereno giudicherà sul carattere scientifico di que­sti procedimenti.

Predizione del rinnegamento di Pietro

§ 549. La cena era finita con la recita della seconda parte dell'Hal­leI (cfr. hymno dicto; Matteo, 26, 30; Marco, 14, 26) e con la con­sumazione della quarta coppa. Ma la comitiva s’intrattenne ancora molto tempo nella sala della cena, come si usava nella notte di Pa­squa (§ 75); durante questo lungo indugio avvenne, secondo Luca (22 31 segg.) e Giovanni (13, 36 segg.) la predizione della dispersione degli Apostoli e del rinnegamento di Pietro, che secondo Mat­teo e Marco semhrerebbe avvenuta dopo l'uscita dalla sala. A un certo punto Gesù, rivoltosi agli Apostoli, mestamente dice loro: Voi tutti prenderete scandalo in me in questa notte; sta scritto infatti “Percoterò il pastore, e saranno disperse. le pecore del gregge” (cfr. Zacharia, I 3, 7). Ma dopo che io sia risorto, vi precederò nella Galilea. Era un'altra ancora di quelle tetre previsioni che davano tanto sui nervi agli Apostoli. La loro insofferenza apparve subito sul viso a parecchi, e specialmente all'impetuoso Pietro. Ma Gesù non cambia tono; anzi, voltandosi proprio verso Pietro, soggiunge: Si­mone! Simone! Ecco il Satana cercò di voi (altri), per vagliar(vi) come (si vaglia) il grano. Ma io pregai per te affinché non venga meno la tua fede; e tu, una volta tornato addietro, conferma i tuoi fratelli. Al bravo Pietro queste parole non piacquero affatto: egli voleva un gran bene a Gesù e, qualunque tentativo avesse fatto Satana, non avrebbe mai commesso contro il maestro alcuna vigliac­cheria da cui sarebbe tornato addietro. Il dispiacere di Pietro si colori anche di un certo risentimento, e in un dialoghetto con Gesù di cui gli evangelisti riportano frasi stac­cate egli disse fra altro: Se tutti si scandalizzeranno in te, io non mai mi scandalizzerò! - Signore! Con te sono pronto ad andare in car­cere e a morte! Nessuno, certamente, avrebbe pensato a richiamare in dubbio la sincerità di Pietro quando parlava cosl; tuttavia Gesù, cal­mo e paziente, gli dette la seguente risposta, riportata da Marco (14, 30) che l'avrà udita centinaia di volte da Pietro stesso quando pre­dicava: in verità ti dico che tu oggi, questa notte, prima che il gallo abbia cantato due volte, mi avrai rinnegato tre volte. Questo era troppo per Pietro!

Un fiume di proteste e d'attestazioni eruppe allora dalla sua bocca; Marco, volendo forse usare un certo riguar­do al suo padre spirituale, accenna a questo fiume dicendo che Pietro parla in maniera sovrabbondante e ripeteva che, sep­pure avesse dovuto morire insieme col maestro, non lo avrebbe rin­negato. Altrettanto, più o meno, dicevano anche gli altri Apostoli. Gesù dal canto suo mostrava di non avere troppa fiducia, non già sul­la sincerità, ma sulla sodezza di tutte queste attestazioni, e continuò ad esortarli affinché, come avevano avuto fiducia in lui nel passato, l'avessero anche nella durissima lotta che allora stava per cominciare (Luca, 22, 35-37). A questa esortazione, la focosità bellicosa degli A­postoli divampa anche più. Se è venuto il momento di lottare e com­battere, essi sono tutti pronti: o vinceranno a fianco al maestro, o cadranno tutti con le arini in pugno! E passando subito dalle parole ai fatti, rivolgono al loro capitano ciò che sembra quasi un invito a passare in rivista il loro armamento. C'erano in quella sala, forse a caso, due spade. Mostrandole a Gesù, essi gli dicono: Signore, ecco qui due spade! E Gesù con infinita pazienza, forse con un mesto sor­riso, risponde: Basta (così). Quante cose rimanevano velate sotto quel Basta così! Fino all'ultimo momento, né gli Apostoli smentivano la loro grossezza di men­te nel comprendere, né Gesù abbreviava la sua longanimità di cuore nel tollerare.

Gli ultimi colloqui

§ 550. Il solo Giovanni riferisce questi colloqui, conforme alle sue predilezioni e quasi in compenso di non aver riferito l'istituzione dell'Eucaristia. Né letterariamente né concettualmente questi discorsi potranno mai esser classificati o riassunti. Essi sono un'eruzione impetuosa di sen­timenti che non è contenuta né diretta da alcuna norma, ma solo vien giù come scaturisce da un vulcano di amore; e la lava incande­scente s'avanza ora pianamente e ora a sbalzi, con progressi e con retroversioni, inonda monticelli e burroni, e travolgendo tutto tra­sforma ogni zona sommersa in un lago infiammato. L'amore per il Padre celeste: l'amore per i discepoli terrestri. Il Pa­dre, a cui fra ore Gesù ritorna: i discepoli, da cui fra ore egli si allontana. Ma sebbene tanto sublimi, questi colloqui non astraggono dalla real­tà umana e terrena, bensi in alcuni punti la seguono minutamente con l'intenzione appunto di farla diventare una realtà transumana e ultraterrena. La piena effusione d'amore era trattenuta ancora da un impedimen­to, la presenza di Giuda; ma quando costui uscì, Gesu' disse: “Ades­so fu glorificato il figlio dell'uomo, e Iddio fu glorificato in lui; se Iddio fu glorificato in lui, pure Iddio lo glorificherà in lui (stesso) e subito lo glorificherà. Figliolini, ancora un poco sono con voi. Mi cercherete, e come dissi ai Giudei “dove io vado voi non potete venire'” (§ 419), (così) pure a voi dico adesso. Un comandamento nuovo vi do che vi amiate gli uni gli altri; come (io) vi amai, (comando) che pure voi vi amiate gli uni gli altri.
In ciò conosceranno tutti che siete miei discepoli, qua­lora abbiate amore gli uni agli altri”. Con ciò Gesù ha consegnato la tessera di riconoscimento ai propri di­scepoli. Nell'antichità, sia giudaica sia greco-romana, le varie associa­zioni o religiose o culturali o d'altro genere avevano spesso una nota distintiva che contrassegnava la loro operosità e serviva quasi da tessera 1di riconoscimento ai propri membri: talvolta, anche, essi si servivano di un motto, di un aforisma, che rispecchiava in qualche modo quella nota distintiva. Qui, per Gesù, la nota distintiva che servirà da tessera di riconoscimento per i suoi seguaci dovrà essere, non la scienza della “tradizione” come per i Farisei né la scienza dei numeri come per i Pitagorici né altre scienze o altre pratiche co­me per altre associazioni, bensi la scienza e la pratica dell'amore. Perciò egli ha chiamato questo suo precetto un comandamento nuo­vo, perché in realtà nessun fondatore di precedenti associazioni aveva pensato di assegnarlo e distribuirlo ai propri seguaci come tessera di riconoscimento. Se alla civiltà d'allora Roma aveva contribuito creando la Forza e il Diritto; se, anche prima, la Grecia aveva elargito all'umanità la Bellezza e la Sapienza; se, proprio in quell'epoca, le varie religioni orientali diffondevano nel mondo greco-romano correnti mistiche d'indole varia: nessuno ancora aveva importato come forza sociale l'amore, perché l'”amore”, nel più ampio senso - ossia la carità - ancora non era staton “inventato”. E la novità di questo elemento allora importato fece grande impres­sione sui contemporanei. E’ noto il passo di Tertulliano che, descrivendo questa impressione, riferisce le esclamazioni dei pagani riguardo ai cristiani: “Guarda come si amano fra loro!” (essi in/atti si odiano fra loro). “E come son pronti a morir l'uno per l'altro” (essi infatti sono anche piu' pronti ad ammazzarsi l'un altro). D'ora innanzi la futura società umana dovrà fare i conti con questa novità inventata e importata da Gesù, e il vero progresso umano sarà misurato in ragione di quanto la legge dell'”amore-carità” sarà realmente obbedita.

§ 551. Dopo un dialogo con Pietro e con Tommaso, Gesù continuò: “In verità, in verità vi dico, chi ha fede in me le opere che io faccio anch'egli farà, e maggiori di queste farà perché io vado al Padre; e ciò che chiediate in nome mio lo farò, affinché sia glorificato il Padre nel Figlio: se mi chiederete alcunché in mio nome” io (lo) farò. Se mi amate, custodite i miei comandamenti. E io pregherò il Padre ed (egli) vi darà un altro difensore affinché sia insie­me con voi in eterno, (cioe') lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede nè conosce; voi (invece) lo cono­scete, perché presso voi rimane ed in voi sarà. Non vi lascerò orfani: verrò a voi. Ancora un poco e il mondo non mi vede piu'; voi invece mi vedete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi conoscerete che io (sono) nel Padre mio, e voi in me, e io in voi. Chi ha i miei comandamenti e li custodisce, questi è colui che mi ama; colui poi che mi ama sarà amato dal Padre mio, ed io l'amerò e manifesterò me stesso a lui”. All'udire tutto ciò i poveri Apostoli non potevano non sentirsi quasi del tutto smarriti, e dovevano brancolare fra quei concetti come in mezzo ad una nebbia luminosa. Una nuova domanda, fatta questa volta da Giuda (Taddeo), svia alquanto il discorso; poi Gesù ripren­de: “Pace lascio a voi, la pace mia do a voi: non come il mondo (la) dà, io (la) do a voi. Non si turbi il vostro cuore nè si sgomenti. Udiste che io vi dissi “vado, e (poi) vengo a voi”; se mi amaste, go­dreste che io vado al Padre, perché il Padre e' maggiore di me.
E adesso ve (l')ho detto prima che avvenga, affinché quando sia avvenuto crediate. Non parlerò piti con voi di molte cose, perché il prin­cipe del mondo sta per venire; e in me non ha nulla, bensì (ciò ac­cade) affinché il mondo conosca che io amo il Padre e come il Pa­dre mi comandò cosi faccio. Sorgete: partiamo di qua “ E’ molto probabile che questo invito a partire dal cenacolo non fosse immediatamente eseguito, giacché la vera uscita dalla città è segna­lata molto più tardi, a colloqui finiti (Giov., 18, 1); fu dunque quasi un generico ricordo che bisognava abbandonare quel luogo di cal­da intimità, quell'ultimo convegno di Gesù con i suoi diletti prima della morte. Ma, come suole avvenire in occasione di distacchi su­premi, quel primo appello a partire fu seguito da un altro indugio amoroso in cui Gesù seguitò a parlare, provocato forse da questo o quello dei presenti: frattanto il prediletto dei discepoli attentissima­mente raccoglieva le sue parole e se le imprimeva nella vigile memo­ria, per ripeterle più tardi come evangelista spirituale (§§ 167 segg., 290).

§ 552. Immediatamente infatti dopo l'appello alla partenza, Gesù continua: “Io sono la vite vera, e il Padre mio e' il viticultore... Io sono la vite, voi i tralci; chi rimane in me e io in lui, costui porta molto frutto, perché senza me non potete far niente. Se alcuno non riman­ga in me sarà gettato fuori come il frascame e si disseccherò, e lo raccoglieranno in fasci e getteranno nel fuoco e brucerà; qualora (invece) rimaniate in me le mie parole rimangano in voi, domandate ciò che vogliate e sarà (dato) a voi. In ciò fu glorificato il Padre mio, che portiate molto frutto e siate miei discepoli. Come amò me il Padre, anch'io amai voi: rimanete nel mio amore. Qualora custodiate i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho custodito i comandamenti del Padre mio e rimango nel­l'amore di lui. Di queste cose ho parlato con voi affinché il mio gau­dio sia in voi e il gaudio vostro sia compiuto. Questo e' il coinandamento mio, che vi amiate gli uni gli altri come (io) vi amai: maggiore di questo nessuno ha un amore, che taluno la sua vita (ri)metta in pro dei suoi amici. Voi siete amici miei, qualora facciate ciò che io vi comando. Non vi dico piu' servi, perché il servo non sa che cosa fa il suo signore: vi ho detti invece amici, perché tutte le cose che udii dal Padre mio resi note a voi... Queste cose vi comando” che vi amiate gli uni gli altri. Se il mondo vi odia, conoscete che ha odiato me prima di voi. Se foste dal mon­do, il mondo amerebbe la (sua) proprietà; perché invece non siete dal mondo bensi io vi trassi fuori dal mondo, per questo il mondo vi odia... Di queste cose ho parlato a voi affinché non vi scandatizziate. Vi renderanno privi di sinagoga. (§ 430), anzi verrà un'ora in cui chiun­que vi uccida creda di ofirire culto a Iddio; e faranno tali cose per­ché non conobbero il Padre nè me. Tuttavia vi ho parlato di queste cose, affinché quando venga la loro ora vi rammentiate di esse, che io ve (le) dissi; non vi dissi invece queste cose da principio, perché ero con voi. Ma adesso me ne vado a Colui che m'inviò...”. Dopo altre intertogazioni degli Apostoli, Gesù chiude il colloquio dicendo “Di queste cose vi ho parlato, affinché in me abbiate pace: nel mon­do avete tribolazione. Tuttavia fatevi coraggio: io ho vinto il mondo”.

§ 553. Dopo questi colloqui con gli Apostoli, l'evangelista spirituale soggiunse immediatamente quel colloquio di Gesù col Padre celeste ch'è designato comunemente dagli studiosi come la “preghiera sa­cerdotale” (Giov., 17, 1-26). In essa Gesù prega dapprima il Padre per se stesso, per esser da lui glorificato (17, 1-5); quindi per gli Apostoli, perché siano protetti nella loro futura missione (17, 6-19); infine per tutti coloro che crederanno in lui (17, 20-26). E’ la più lunga preghiera di Gesù riportata nei vangeli; e con fine accortezza provvide Giovanni a far si che questo inestimabile tesoro, tralasciato dai Sinottici, non andasse perduto perché egli lo considerò giusta­mente come riepilogo di tutta l'operosità di Gesù, quasi ultimo fiore di fuoco sbocciato sul sommo vertice della sua vita. Più in su di quel fiore luminoso non c'è che il cielo del Padre: Tali cose parlò Gesu'; ed elevati i suoi occhi al cielo, disse: “Padre” è venuta l'ora. Glorifica il figlio tuo affinché il figlio glorifichi te, conforme gli desti potestà su ogni carne, affinché a tutti coloro che gli hai dati (egli) dia vita eterna. Ora, questa e' la vita eterna, che cono­scano te, il solo vero Dio, e colui che inviasti, Gesu' Cristo. Io ti glo­rificai sulla terra, avendo compiuto l'opera che mi hai data da fare; e adesso tu, Padre, glorifica me presso te stesso con la gloria che avevo, prima che il mondo fosse, presso di te. Manifestai il tuo nome agli uomini che mi desti dal mondo. Tuoi erano e a me li desti, e la tua parola hanno custodita.

Adesso san­no che tutte quante le cose che mi hai date sono da te: poiché le parole che desti a me (io) ho date a loro, ed essi (le) ricevettero e conobbero veramente che da te uscii e credettero che tu m'inviasti. Io per essi prego: non per il mondo prego, ma per quelli che mi hai dati perché sono tuoi; e tutte le cose mie sono tue, e le tue (sono) mie e sono stato glorificato in esse. E (io) non sono piu' nel mondo - mentre essi sono nel mondo - e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel nome tuo che mi hai dato, affinché siano una sola cosa come noi. Quando ero con loro, io li custodivo nel nome tuo che mi hai dato, e feci guardia, e nessuno di essi perì se non il figlio della perdizione affinché s'adempisse la Scrittura. Ma adesso vengo a te, e queste cose parlo nel mondo affinché abbiano il gaudio mio compiuto in se stessi. Io ho dato a loro la tua parola, e il mondo li odiò perché (essi) non sono dal mondo come io non sono dal mon­do. Non prego che (tu) li tolga dal mondo, bensì che li custodisca dal male: dal mondo non sono (essi), come io non sono dal mondo. San­tificali nella verità: la tua parola è verità. Come (tu) inviasti me nel mondo, anch'io inviai essi nel mondo; e per essi io santifico me stesso, affinché siano anch'essi santificati ne(lla) verità. Non prego però per questi soltanto, ma anche per quelli che credono in me mediante la loro parola, affinché tutti siano una sola cosa come tu Padre (sei) in me e io in te, affinché anche essi siano in noi, affinché il mondo creda che tu m'inviasti. Io pure la gloria che mi hai data ho data ad essi, affinché siano una sola cosa come noi (siamo) una sola cosa.
Io in essi e tu in me, affinché siano consumati in uno affinché conosca il mondo che tu inviasti me e amasti essi come amasti me. Padre, quei che mi hai dati vo­glio che dove sono io anch'essi siano come me, affinché vedano la gloria mia che mi hai data, perché mi amasti prima della creazione del mondo. Padre giusto, ancorché il mondo non ti conobbe, io invece ti conobbi, e costoro conobbero che tu m'inviasti; e resi noto ad essi il tuo nome e (lo) renderò noto, affinché l'amore col quale mi amasti sia in essi ed io in essi».

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06/08/2012 20:48

LA SETTIMANA DI PASSIONE. IL VENERDÌ

Il Gethsemani


§ 554. Giovanni, appena ha finito di riferire gli ultimi colloqui, prosegue: Avendo detto queste cose, Gesu' uscì con i discepoli suoi di la' dal torrente del Cedron, ove era un giardino nel quale entrò egli e i discepoli suoi. Sapeva però il luogo anche Giuda, che lo tradiva, perché spesso si era raccolto cola Gesu' con i discepoli suoi (Giov., 18, 1-2). L'indicazione che il prediletto giardino era di là dal torren­te del Cedron già basta per concludere che era nella zona del monte degli Olivi: ciò del resto è affermato esplicitamente dai Sinottici, i quali comunicano anche che il giardino si chiamava Gethsemani. L'appellativo, presuppone un oliveto, munito del suo pressoio e protetto forse da un recinto, il tutto in pieno accordo col nome del monte stesso; una tradizione, che è nettissima già dal secolo IV, indica come il Gethsemani un luogo poco oltre il Cedron e lungo l'odierna strada da Gerusalemme a Bethania, dove sono tuttora superstiti olivi di straordinaria grandez­za e di età milleniaria. Il cammino dal cenacolo al Gethsemani non era piu' che una comoda passeggiata. Nella chiara notte di plenilunio, alla frizzante aria primaverile, i reduci dal cenacolo scesero dalla Città Alta giu' nel Tyropeon, seguendo probabilmente l'antica strada a gradini recen­temente scoperta, attraversarono il quartiere del Siloe (§ 428), usci­rono quindi dalla città per la Porta della Fonte, e risaliti verso il set­tentrione oltrepassarono il Cedron raggiungendo il Gethsemani. Il giardino doveva appartenere a qualche discepolo o ammiratore di Gesù, e questi perciò se ne serviva liberamente. Chi sa che il suo proprietario non fosse lo stesso padrone del cenacolo? Ciò spieghe­rebbe più facilmente come mai fosse presente nel giardino il giovi­netto con la sola sindone, se costui è veramente Marco (§ 561): ma trattandosi di ipotesi poggiata su altre ipotesi, non è il caso di insi­stere.

Come altri poderetti di quel genere, anche il Gethsemani do­veva avere vicino all'ingresso una casipola per riparo dell'ortolano e per deposito di roba; più in là c'era probabilmente pure una grotta scavata nel fianco del monte, e nella grotta era stato collocato (come si preferisce fare anche oggi) il torchio che dava il nome al luogo. In quella notte pasquale la zona era deserta, trattenendosi quasi tutti nell'intimità delle proprie case. Alla solitudine esterna corrispondeva lo stato d'animo della comitiva: come Gesù si mostrava triste lungo il cammino, così gli Apostoli rimasero taciturni e pensierosi. Giunti che furono al giardino, Gesù invitò la comitiva ad allogarsi alla meglio per passare la notte: e fu cosa facilissima per quegli orientali che erano abituati a dormire all'aperto ravvolti nel loro mantello, mentre questa volta trovarono il vantaggio di un ricovero e di foglie secche nella casipola o nella grotta. Al congedarsi da loro Gesù disse: Restate qui, mentre io vado più in là a pregare. Pregate per non entrare in tentazione! - Al momento poi di allontanarsi, egli prese con sé i tre testimoni della trasfigurazione, i prediletti Pietro, Giacomo e Giovanni (§ 403), conducendoli verso il luogo ove voleva pregare.

§ 555. Discostati che furono, i testimoni dell'antica gloria compre­sero subito che adesso avrebbero assistito a ben altra manifestazione, perché a un tratto Gesù cominciò a sgomentarsi ed angosciarsi. Rivolto poi ai tre, allorché avranno tentato di consolarlo, esclamò: Tristissima è l'anima mia fino a morte! Restate qui, e vegliate con me! Anche quella compagnia, però, non gli dava sollievo. Nella sconfi­nata angoscia che l'opprimeva, egli cercò ancora di restar solo per pregare. Facendo uno sforzo immenso, con il volto illividito, le ginocchia va­cillanti, le braccia tese in cerca di sostegno, egli si staccò da essi quanto un lancio di sasso, e alfine stremato cadde sul suo volto pre­gando. Non era il modo di pregare solito ai Giudei, che stavano ritti; era l'accasciarsi a terra di chi non ha più forza di reggersi in piedi e vuole pregare prostrato giù nella polvere. Intanto i tre testimoni, certamente turbati anch'essi, osservavano quello stramazzato gemente: nella serenità plenilunare, alla distanza forse di una quarantina di passi (un lancio di sasso), essi potevano vedere e udire distintamente tutto. Lo stramazzato gemeva: Abba (Padre)! Tutto e' possibile a te! Allontana questo calice da me! Tut­tavia (sia fatto) non ciò che io voglio, ma ciò che (vuoi) tu! Il cali­ce era un'espressione metaforica, frequente negli scritti rabbinici, per designare la sorte assegnata a qualcuno; la sorte qui prevista da Gesù è la suprema prova attraverso la quale il Messia deve perve­nire al trionfo (§ § 400, 475, 495), è l'ora decisiva in cui il chicco di grano caduto in terra si disfà e muore ma per sprigionare nuova vita (§ 508). Quale differenza, pertanto, fra le disposizioni di spirito della dome­nica precedente e quelle di questa notte!
Allora, nel Tempio, Gesù aveva prontamente e risolutamente respinto ogni titubanza davanti alla prova suprema (§ 508); in questa notte, a pochi momenti dal­l'inizio della prova, egli non solo è titubante ma prega esplicitamente il Padre celeste affinché la prova sia risparmiata: tuttavia la preghie­ra è condizionata al beneplacito supremo del Padre e la volontà dell'uomo è subordinata alla volontà di Dio. Non mai, in tutto il resto della sua vita, Gesù appare cosi veracemen­te uomo. Davvero che in quell'ora non già il cavaliere romano Pon­zio Pilato, ma l'umanità intera avrebbe dovuto presentare Gesù al balcone dell'universo proclamando: Ecce homo! D'altra parte in quella stessa ora, più chiaramente forse che in seguito, si può misu­rare la smisurata angoscia che si riversò nello spirito di Gesù durante la sua passione: perciò a quella proclamazione terrestre Ecce homo! avrebbe forse risposto una voce celeste proclamando Ecce Deus!

§ 556. La preghiera al Padre dovette essere ripetuta più e più volte, con l'uniformità di chi non chiede altro, con lo spasimo di chi si ritrova in indigenza estrema. Gli apparve però un angelo dal cielo, confortandolo. Il solo Luca (22, 43), che non è uno dei tre testi­moni oculari ma si è informato da essi, dà questa notizia; egualmente egli solo, da psicologo e da medico, ha raccolto taluni particolari di ciò che allora avvenne: E fatto in agonia, piu' intensamente pregava. E divenne il sudore di lui quasi globuli di sangue scen­denti giu' sulla terra. L'agonia era per i Greci ciò che si svolgeva nell'”agone”, cioè il concorso degli aurighi e la tenzone degli atleti che lottavano per il premio: e la lotta esigeva dalle membra e dagli spiriti i più lace­ranti sforzi, le violenze più spossanti, onde nessuno si avvicinava a quella lotta senza un interno pavore e una trepidazione ansiosa. Più tardi, infatti, agonia significò in genere pavore o trepidazione, ma specialmente di chi è implicato nella somma lotta Contro la mor­te: tale il caso di Gesù. E fatto in agonia, piu' intensamente pregava.
La preghiera, a cui egli sempre aveva fatto particolare ricorso nelle circostanze più solenni della sua vita, diventa suo unico rifugio in quest'ora suprema. E l'agonia si prolunga, e l'agonizzante o lottatore manifesta sul suo corpo gli effetti della lotta: trasuda, e il sudore di lui diviene quasi globuli di sangue scendenti giu' sulla terra. Alla distanza di un lancio di sasso, sotto il chiarore plenilunare que­sto fenomeno poté essere osservato abbastanza bene: anche più di­stintamente poté essere riscontrato dai tre testimoni poco dopo, quan­do Gesù si recò presso di loro avendo tuttora sul volto le rigature rosseggianti, i grumoli e le altre tracce dei globuli di sangue.
Un fenomeno fisiologico, designato come ematidrosi cioè “sudore sanguigno” è noto ai medici: l'osservazione era stata fatta già da Aristotile, che impiega anche il termine là ove dice “taluni sudaro­no un sanguigno sudore”. Il fenomeno avvenuto in Gesù potrà essere oggetto di ricerche scien­tifiche dei fisiologi, pur avendo presenti le singolari circostanze del paziente: il fisiologo Luca, trasmettendo egli solo questa notizia, sem­bra tacitamente invitare a tali ricerche. Ma appunto in questa notizia, che mette tanto in rilievo la realtà della natura umana di Gesù, trovarono scandalo taluni antichi cri­stiani al leggere il vangelo del medico Luca. Essi giudicarono che, sebbene il medico aveva narrato un fatto vero, era meglio che la narrazione non fosse ripetuta, perché sembrava fornire una conferma alle calunnie dei nemici del cristianesimo: probabilmente gli attac­chi di Celso contro la persona di Gesù (§ 195) avevano suscitato tale preoccupazione.

Perciò avvenne che la narrazione del sudore di san­gue, insieme col precedente accenno all'angelo confortatore, comin­ciò a scomparire dai codici del III vangelo, soppressa per questo infondato timore. Oggi essa manca in vari codici unciali, fra cui l'auto­revolissimo Vaticano, in alcuni minuscoli e in altri documenti, e questa mancanza era già stata segnalata nel IV secolo da Ilario e Girolamo. Tuttavia, allorché quella vana preoccupazione si dissipò col cessare degli attacchi contro il cristianesimo, cessò anche la soppres­sione dell'ombroso passo; del resto le testimonianze in suo favore - sia di codici, sia di scrittori antichi a cominciare da Giustino (Dial. cum Tryph., 103) e Ireneo - sono così nume­rose e gravi da non lasciare alcun serio dubbio sulla autenticità del passo.

§ 557. L'agonia frattanto si prolungava: la mezzanotte doveva es­sere già passata. I tre testimoni, da principio turbati per ciò che ve­devano, in seguito erano entrati a poco a poco in una specie di tor­pore fatto di tristezza, di stanchezza e di sonnolenza: alla fine si erano addormentati tutti e tre. A un certo punto Gesù, nella sua sconfinata angoscia spirituale, sentì anche la desolazione della solitudine umana e quindi cercò nuovamente la compagnia dei tre prediletti: forse si riprometteva soltan­to una buona parola, un gesto amichevole, qualcosa che gli facesse sentire di non essere solo sulla terra. Ma giunto presso di loro li tro­vò addormentati tutti e tre, compreso Pietro che poco prima aveva fatto scorrere fiumi di parole per attestare la sua fedeltà (§ 549). Gli disse allora Gesù: Simone, dormi? Non fosti capace di vegliare per una sola ora? Vegliate e pregate, afinché non veniate in tentazione! Lo spirito bensì e' pronto, ma la carne inferma. Tutto qui fu il con­forto che Gesù ritrovò fra i suoi prediletti. E così lo spasimo continuò; ond'egli, lasciati gli uomini, tor­nò nuovamente a Dio. L'unica domanda prima fu rivolta ancora adesso al Padre celeste, e i testimoni da poco ridesti la udirono: Padre mio! Se non può questo (calice passare se (io) non (1') abbia bevuto, sia fatta la volonta' tua! Trascorse ancora del tempo.

La notte era silenziosa e monotona. Dopo qualche resistenza i tre testimoni furono vinti di nuovo dal sonno: Gesù, tornato di nuovo, li trovò dormienti, giacché gli occhi loro erano aggravati, e non sapevano che cosa rispondergli. In quest'ultima osservazione di Marco (14, 40) si riconosce facilmente una confessione del suo informatore, il testimonio Pietro. E lasciatili, di nuovo andatosene pregò per la terza volta, dicendo lo stesso discorso di nuovo (Matteo, 26, 44). Quanto durasse questa terza ripresa della preghiera non sappiamo: forse non molto. A un certo punto Gesù si ripresentò ai tre assonnati, e in tono questa volta diverso disse loro: Dormite ormai e riposate. Basta! Venne l'ora: ecco, il figlio dell'uomo e' consegnato nelle mani dei peccatori. Alza­tevi, andiamo! Ecco, chi mi tradisce si e' avvicinato. Le prime parole Dormite ormai e riposate non sono certamente un invito a fare ciò che dicono; è anche poco probabile che valgano in senso interroga­tivo; più giusto sembra interpretarle come un'antifrasi, quasi una fa­miliare ironia che affermi il contrario di ciò a cui mira, come se di­cesse: « Si, si, dormite pure! Non vedete che giunge il traditc­re?...». Si sentiva infatti rumore di folla che giungeva dalla strada di Geru­salemme: si intravedevano anche, in quella direzione, lumi di lan­terne e fiaccole. Gesù ricondusse i tre sonnolenti testimoni là dove stavano gli altri otto Apostoli, immersi certamente nel più profondo sonno. Svegliò tutti, e rivolgendo loro parole di esortazione rimase in attesa.


[SM=g27998] L'arresto

§ 558. E mentre egli parlava ancora, ecco Giuda uno dei dodici ven­ne, e con lui (era) molta folla con spade e bastoni (mandata) dai som­mi sacerdoti ed anziani del popolo. A questa notizia dei Sinottici, Giovanni aggiunge alcuni particolari riguardo alla molta folla; essa in maggior parte era composta di inservienti del Tempio (cfr. Luca, 22, 52), ma c’era anche una coorte con un tribuno (Giov., 18, 3. 12). Ora, questi armati venivano certamente da parte del procuratore romano (§ 619); come erano andate dunque le cose? Non è arrischiato ricostruirle così. Quando Giuda uscì dal cenacolo (§ 543) si recò dai maggiorenti giudei, i quali l'attendevano e ave­vano compiuto nel frattempo i loro preparativi materiali e morali: materialmente, perché avevano dato ordine ai loro inservienti di te­nersi pronti per una piccola ma delicata spedizione; moralmente, perché erano andati dal procuratore o dal tribuno, e dipingendo quel galileo di Gesù come un mestatore politico circondato da altri me­statori suoi compaesani e tutti pronti a suscitare sommosse nella ca­pitale, avevano ottenuto facilmente una scorta armata. Questa scor­ta non poteva essere l'intera coorte (circa 600 uomini) di stanza a Gerusalemme, ma soltanto una minima parte alla quale qui Giovan­ni dà il nome dell'intero: ad ogni modo la presenza dei soldati di Roma aveva un grande valore morale, tanto più che con essi era venuto anche il tribuno che li comandava. Con questa gente, adunatasi a notte fatta, si trattava di rintracciare ed arrestare Gesù. Dove trovarlo per impadronirsene alla chetichella e senza timore di reazioni popolari?

A tale impresa nessuno poteva servire meglio di Giuda, che era stato pagato soprattutto per questa parte del programma; già udimmo infatti da Giovanni che il luogo del Gethsemani era ben noto anche a Giuda perché spesso si era rac­colto cola' Gesu' con i discepoli suoi (§ 554), e il traditore sapeva bene che Gesù dopo la cena pasquale non poteva essersi recato fino a Be­thania troppo lontana: dunque doveva essere al prediletto Gethse­mani, o giù di lì. Nel prendere gli ultimi accordi con i sommi sacerdoti, Giuda stabilì un segno speciale per far riconoscere Gesù: Quello che io abbia ba­ciato e' lui! Afferratelo! Nell'antico Oriente, infatti, i discepoli bacia­vano per rispetto le mani del maestro: gli amici invece, trattandosi alla pari, si baciavano sulla faccia. Nel segno scelto da Giuda c'era dunque come un avanzo di pudore, per cui il traditore non si sentiva il coraggio di additare palesemente alle guardie il suo maestro ed arnico gridando « E’ lui! »; così avrebbe fatto chi avesse avuto un vero odio per Gesù, perché quel grido già sarebbe stato uno sfogo all'odio: invece il segno convenuto pretendeva salvare le apparenze. Ma anche qui riappare l'enigma di Giuda. Non sapeva egli forse che al maestro il tradimento era noto? Non aveva egli stesso udito quel misericor­dioso Tu l'hai detto! dalla bocca di Gesù poche ore prima (§ 543)? Se tali sconcertanti pensieri s'affacciarono in realtà alla mente di Giuda, egli si sarà rinfrancato ripensando ai 30 sicli e voltandosi per vedersi spalleggiato dai soldati di Roma: ad ogni modo questo pu­dore di finzione era anch'esso un certo avanzo dell'amore per Gesù, amore allora sopraffatto da quello per l'oro; invece, poche ore più tardi, l'amore per l'oro rimarrà soccombente, il tradimento sarà rin­negato, ma l'amore per Gesù non sarà abbastanza puro e forte da ricercare il perdono di lui (§ 534).

§ 559. Avvenne tutto secondo il convenuto. Gesù stava ancora par­lando con gli Apostoli testé risvegliati, quando Giuda entrò nel giardi­no seguito a poca distanza dalle guardie; si avvicinò egli al gruppo dei dodici e sbirciando nella penombra degli olivi riconobbe Gesù. Andatogli allora dappresso, gli pose le mani sulle spalle e lo baciò in faccia esclamando: Salute, Rabbi! Gesù lo guardò, e a mezza voce gli disse: Amico, per che cosa sei qui? E passato qualche istante: Giuda, con un bacio tradisci il figlio dell'uomo? Non venne alcuna risposta; Giuda aveva compiuto l'incarico che si era assunto verso coloro che gli stavano alle spalle. Visto eseguito il segnale convenuto, le guardie vennero avanti alla rinfusa. Gesù allora, staccatosi dal gruppo degli Apostoli, mosse in­contro a loro e domandò: Chi cercate? Risposero: Gesu' il Nazoreo. E Gesù: Sono io. A queste parole i più vicini vacillarono e poi cad­dero all'inverso in terra. Anche di altri personaggi dell'antichità, co­me di Mario e di Marco Antonio, si legge che abbiano atterrito solo con la loro presenza o voce persone inviate ad assassinarli, ma si trat­tava di sicari singoli e di circostanze speciali: nel caso di Gesù può darsi benissimo che le guardie subissero ad un tratto la potenza della sua persona e ne rimanessero sgomentate, forse anche ripensando alla triste fine fatta dagli armati spediti a catturare Elia (II[IV] Re, 1, 10 segg.) o altri antichi profeti; tuttavia è certo che Giovanni, il quale è solo a narrare questo episodio, vuole qui presentarlo come fatto taumaturgico, anche per dimostrare la libertà con cui Gesù accettava la sua cattura. Rialzatisi e ripetuto che cercavano Gesù il Nazoreo, Gesù rispose ancora: Vi dissi che sono io. Se dunque cercate me, lasciate che costoro se ne vadano. Con delicato accorgimento Gesù chiama gli Apostoli costoro, dissimulando cioè la loro qualità di disce­poli particolari per non esporli a violenze. Alla risposta di Gesù le guardie gli misero le mani addosso e l'afferrarono. Coloro che eseguirono l'arresto dovettero essere gli inservienti del Tempio, giacché appunto un servo del sommo sacerdote ne risentì per primo le conseguenze, e Gesù appena arrestato fu condotto avanti al sommo sacerdote e non all'autorità romana; al contrario i soldati della coorte romana rimasero da parte inoperosi, pronti a intervenire solo nel caso che fosse successo qualche tafferuglio grave.

§ 560. La delicatezza di Gesù che si preoccupava per prima cosa di salvare gli Apostoli, e d'altra parte il vedere improvvisamente l'amato maestro caduto in potere di quella gente e così umiliato, risvegliò negli Apostoli quei propositi bellicosi che essi avevano manifestato poche ore prima nel cenacolo e che erano stati senza dubbio soggetti­vamente sinceri (§ 549). Spintisi allora nel tafferuglio fin presso a Gesù gli domandarono: Signore, percoteremo di spada? Ma Pietro non sarebbe stato Pietro se si fosse frenato in attesa della risposta di Gesù; egli invece, senz'al­tro, avendo una spada la sfoderò e colpì il servo del sommo sacerdote e gli mozzò l'orecchio destro: il servo aveva nome Malcho. E’ Solo Giovanni (18, 10) nomina Pietro e Malcho: i Sinottici invece parla­no del ferimento ma senza nominare né il ferito né il feritore, proba­bilmente per quella prudenza suggerita dal tempo in cui scrivevano e che vedemmo applicata altrove (§ 493, 535). Gesù intervenne subito e disse a Pietro: Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quei che impugneranno una spada periranno di spada! Ovvero credi che non posso pregare il Padre mio ed (egli) mi apprestera' subito piu' che dodici legioni di angeli (§ 347)? Come pertanto si compirebbero le Scritture (le quali dicono) che così deve avvenire? Messo a posto il feritore, Gesù mise a posto anche il ferito risanandogli l'orecchio col semplice tocco di mano; anche questa gua­rigione è narrata soltanto dall'evangelista medico (Luca, 22, 51). Dis­se quindi alla turba, fra cui erano sommi sacerdoti, capitani del tem­pio (§ 54) e anziani:” Come verso un ladrone usciste con spade e bastoni? Essendo io ogni giorno con voi nel tempio, non stendeste le mani addosso a me; ma questa e' l'ora vostra e la potestà delle te­nebre” (Luca, 22, 52-53).

§ 561. L'arrestato fu legato; si cominciò a condurlo via. Gli Apostoli, a cui dapprima la sonnolenza e poi il subitaneo sdegno non avevano permesso di rendersi ben conto della realtà dei fatti, soltanto allora compresero il maestro era veramente arrestato, era condotto via come un volgare delinquente. Allora forse, meglio che a tutte le passate affermazioni di Gesù, essi cominciarono a intravedere quale fosse la durissima prova, quali i patimenti supremi, attraverso cui il maestro aveva predetto più volte di dover passare per giungere alla sua gloria. A tale tristissima veduta, a tali mestissimi ricordi, quegli undici si sentirono schiantati. Della futura lontana gloria del Messia essi non si ricordarono affatto; badarono soltanto al tintinnio delle catene, al luccicore delle spade, all'umiliazione del maestro: al­lora, totalmente smarriti, abbandonarono ogni cosa dandosi alla fu­ga, tutti dal primo all'ultimo. E Gesù uscì dal Gethsemani circondato dalla sola sbirraglia: non gli stava dappresso neppure un amico. O meglio, un amico c'era ancora, sebbene non stesse molto dappresso. Qui infatti avviene l'episodio del giovanetto con la sola sindone. Come già vedemmo, è possibile che quel giovanetto fosse l'evangeli­sta Marco (§ 134).
Se egli era figlio o altro parente del proprietario del cenacolo (§ 535), il quale forse era proprietario anche del Geth­semani (§ 554), si può supporre che terminata l'ultima cena egli per simpatia avesse seguito la comitiva di Gesù al Gethsemani ed ivi si fosse intrattenuto per qualche tempo con gli otto Apostoli n­coverati nella casipola o grotta, e dopo un certo tempo anch'egli si fosse messo a dormire. L' importante il particolare che egli fosse avvolto d'una sindone sul nudo: la sindone di lino era infatti usata, stando in letto, soltanto da persone facoltose, mentre i popolani, come gli Apostoli, dormivano ravvolti nelle stesse vesti del giorno; probabilmente, dunque, quel giovanetto era abituato a passar talvolta la notte nella casipola del Gethsemani, ove in un angoletto avrà avuto il suo giaciglio e l'occorrente per dormire da persona agiata. Se queste ipotesi corrispondono alla realtà, tutto diventa chiaro. il giovanetto, risvegliato improvvisamente dal vociar delle guardie e dalle grida del ferito e degli Apostoli, si alza dal giaciglio e balza fuo­ri vestito come si trova: assiste all'ultima scena dell'arresto di Gesù e alla fuga degli Apostoli; allora, sia per la sicurezza d'un padrone che si ritrova sul terreno suo proprio, sia per la vivacità giovanile accresciuta dall'affetto per l'arrestato, egli si mette a seguire le guardie che s'allontanano; le guardie poco dopo s'accorgono di quel giovanet­to che sta pedinando in quello strano abbigliamento, e insospettite lo prendono. Ma afferrano la sola sindone: perché l'agile ragazzo, sgu­sciando dal di sotto, lascia la sindone in mano alle guardie e fugge via tutto nudo. E cosi Gesù fu abbandonato anche da quest'ultimo amico: un adolescente privo di veste.


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06/08/2012 20:52

Il processo religioso davanti al Sinedrio

§ 562. Potevano essere circa due ore dopo la mezzanotte. Il gruppo delle guardie, recando con sé l'arrestato, rifece in senso inverso la stessa strada fatta poche ore prima da Gesù con gli Apostoli, e attra­versato il Cedron risalì sulla collina occidentale della città, ov'era la casa del sommo sacerdote Anna. Giunta ivi la scorta si divise; l'arre­stato e le guardie del Sinedrio rimasero nella casa, mentre i soldati della coorte romana si ritirarono nel loro quartiere sulla fortezza Antonia. Quanto avvenne allora è narrato in maniera diversa dai quattro evan­gelisti. Dei tre Sinottici, Matteo e Marco offrono una narrazione so­stanzialmente uniforme; da essi però si discosta notevolmente Luca, il sinottico che scrive dopo di loro; infine Giovanni, secondo il suo solito, fa precisazioni e integrazioni ai tre racconti precedenti pre­supponendoli già noti. Fra i Sinottici, Matteo e Marco parlano dì una presentazione di Gesù avvenuta di notte, e di un'altra davanti al Sinedrio avvenuta di buon mattino; Luca invece parla soltanto della presentazione mattinale davanti al Sinedrio. Giovanni, per conto suo, distingue una presentazione davanti al sommo sacerdote non più in carica, Anna, della quale tacciono i Sinottici, e una successiva presen­tazione davanti al sommo sacerdote allora in carica, Caifa; egli in­vece non parla di una presentazione davanti al Sinedrio. Per concordare queste varie relazioni basta aver presente quanto ri­levammo più volte nel passato: cioe' che i Sinottici spesso non si preoccupano né dell'integrità della narrazione né della serie crono­logica dei fatti, e che d'altra parte Giovanni evita abitualmente di ripetere il racconto dei Sinottici, pur facendo un tacito assegnamen­to su di esso con la mira di integrano.
Così ad esempio, poiché Anna non era stato neppur nominato dai Sinottici, Giovanni comincia la narrazione precisando che Gesù fu condotto dapprima presso Anna (§ 164), e solo in seguito segnala che fu condotto presso Caifa, che è il sommo sacerdote di cui parlano i Sinottici. Molto probabilmente, a cagione anche della loro parentela, Anna e Caifa abitavano ambedue nello stesso edificio in appartamenti diffe­renti. Una tradizione assai antica, risalendo almeno al secolo IV, col­loca la casa di Caifa sulla collina occidentale della città a poche deci­ne di metri a settentrione del tradizionale cenacolo (§ 535).
Se Gesù fu condotto dapprima presso Anna, la ragione fu probabilmente che costui, non più in carica ma sempre potentissimo (§ 52), aveva sug­gerito la maniera di catturare il Rabbi galileo; quasi in conseguenza di questa sua operosità e per deferenza al suo straordinario potere, il suo genero Caifa aveva dato ordine che l'arrestato fosse condotto di­rettamente presso Anna. A questo punto pertanto si inizia il processo di Gesù, che si svolse in due fasi differenti, presso due sedi differenti, e in forza di argo­menti in parte differenti. La prima fase è religiosa: Gesù, imputato di delitto religioso, compare davanti al tribunale nazionale-religioso del Sinedrio e ivi è dichiarato degno di morte. Ma questa sentenza ha valore soltanto teoretico, perché, come già sappiamo (§ 59), il Sinedrio non poteva eseguire le sentenze capitali da esso pronunziate se non fossero state individualmente ed esplicitamente approvate dal rappresentante dell'autorità di Roma. Allora, per far sì che la pro­pria sentenza non rimanga sterile e inefficace, il Sinedrio si rivolge al procuratore romano e qui si apre la seconda fase del processo: la quale si svolge, non più davanti ai giudici di prima, ma davanti al tribunale civile del procuratore; inoltre i giudici di prima compaiono nel nuovo tribunale in funzione di accusatori, e presentano accuse solo in minor parte religiose e in maggior parte politiche.

§ 563. Il processo religioso cominciò con un interrogatorio a cui An­na sottopose Gesù; ma esso non fu una vera inquisizione ufficiale, fu piuttosto un orientamento giuridico della questione o anche una soddisfazione personale che volle prendersi l'inquirente, in attesa che giudici e testimoni ufficiali fossero convocati in quell'ora notturna e intervenissero personalmente. Anna interrogò Gesù circa i suoi discepoli e il suo insegnamento. Gesù rispose Io palesemente ho parlato al mondo; io sempre inse­gnai in sinagoga e nel tempio dove tutti i Giudei s'adunano, e di na­scosto non parlai (di) nulla. Perché interroghi me? Interroga quei che udirono che cosa parlai loro. Ecco: costoro sanno le cose che dissi io (Giov., 18, 20-21). L'imputato rispondeva in maniera conforme al diritto delle genti: presso tutti i popoli, compreso l'ebraico, un accusato non rendeva te­stimonianza riguardo a se stesso; testimonianze valide erano soltanto quelle rese da testimoni alieni degni di fede, e Gesù con la sua risposta rinvia il giudice appunto a tali testimoni. Egli non è stato fon­datore di società segrete o insegnante d'una sapienza arcana e gelosa: ha parlato in luoghi pubblici e a tutti quei che si presentavano; costoro perciò potranno render testimonianza del suo insegnamento. In maniera analoga si era difeso, cinque secoli prima, Socrate davanti ai giudici ateniesi; anch'egli aveva parlato sempre palesemente, e se qualche testimonio avesse affermato d'aver udito da lui cose che non tutti avevano potuto udire sarebbe stato un mentitore. L'inappuntabile risposta di Gesù dovette provocare in Anna un gesto di dispetto, perché l'inquirente certamente sperava che l'imputato con la sua risposta fornisse argomenti per la sua futura accusa uffi­ciale.
Il gesto stizzoso di Anna fu notato da uno dei presenti, servitore assai zelante, il quale stimò giusto prendere le parti dell'inquirente e andare incontro al suo segreto desiderio; trovandosi perciò vicino a Gesù, gli dette uno schiaffo esclamando scandalizzato:”Così rispondi al sommo sacerdote?”. Rispose a lui Gesti:”Se parlai male, rendi testimonianza circa il male; se invece bene, perché mi percuoti?” (Giov., 18, 22-23). Con questo schiaffo termina ciò che noi sappiamo dell'interrogatorio di Anna, il quale del resto non dovette esser lungo. Visto il contegno misuratissimo che l'imputato teneva e forse anche desiderando di non ingolfarsi nelle vicende del processo, Anna inviò senz'altro Gesù le­gato al sommo sacerdote in carica, il proprio genero Caifa. Il tra­gitto dall'una all'altra abitazione fu brevissimo, perché, come suppo­nemmo (§ 562), consistette nell'attraversare un cortile o atrio a cui facevano capo i vari appartamenti.

§ 564. Nel frattempo in casa di Caifa si erano radunati vari membri del Sinedrio, e quando furono in numero bastevole sottoposero Gesù a un regolare interrogatorio, ove si raccolsero i primi elementi della procedura ufficiale riguardante l'imputato. Tuttavia la seduta del Si­nedrio in vera funzione di tribunale fu tenuta soltanto più tardi, sul far del mattino, quasi per integrare ed applicare i risultati del primo saggio fatto durante la notte. Matteo e Marco sembrano attribuire l'interrogatorio di Gesù alla seduta notturna; Luca, cronologicamente più preciso, lo attribuisce alla seduta mattinale, e indubbiamente la sua attribuzione è da preferirsi. Riportammo altrove le prescrizioni minutissime ed accuratissime che si leggono nel Talmud riguardo ai processi, specialmente a quelli che potevano concludersi con una sentenza capitale (§ 60); ma accen­nammo anche che tutta quella legislazione, così ampia e sapiente, era anche troppo sapiente perché si potesse attuare nella pratica. Essa in realtà fu messa in iscritto soltanto dal secolo II dopo Cr. in poi, e agli storici imparziali appare oggi come una teoria astratta, come una visione ideale della perfetta amministrazione della giustizia, piutto­sto che come un codice normativo da seguirsi nella pratica; senza ri­pensare alle Utopie di Platone e di Tommaso Moro e senza uscire dallo stesso Israele, l'ampia e minuziosa legislazione di Ezechiele (capp. 40-48) riguardo al futuro Tempio aveva già offerto un tipico saggio di siffatte teorie o visioni ideali.

E’ stato osservato giustamente da studiosi moderni, anche Israeliti, che la legislazione talmudica dei processi sembra congegnata in maniera da rendere impossibile una sentenza capitale: è certo poi che essa, fissata in scritto quando la nazione giudaica aveva perduto ogni autonomia politica ed era rap­presentata dai soli Farisei (§ 87), poté essere elaborata senza alcuna aderenza al presente e attribuita arbitrariamente al passato come un prodotto della “tradizione”. Che essa fosse totalmente inventata in occasione di questa sua codificazione, non è verosimile; ma le norme osservate per consuetudine ai tempi dell'autonomia e prima della codificazione dovevano essere rare e scarne e certamente ben lontane da quella precisione e minuziosità che ricevettero poi nello scritto. Ai tempi di Gesù, in mancanza della codificazione, vigevano soltanto norme consuetudinarie, di cui però non possiamo oggi stabilire il nu­mero e l'indole: possiamo ritenere in genere che esse corrispondeva­no solo ad una minima parte di ciò che più tardi risultò codifi­cato. Sarebbe quindi falso metodo confrontare - come si è fatto le dispo­sizioni processuali del Talmud con la pratica seguita nel processo di Gesù, per vedere se e fino a qual punto quelle disposizioni vi furono osservate: di molte di esse, infatti, non sappiamo neppure se allora esistessero. Esisteva certamente, ad esempio, la norma solenne e antica (Numeri, 35, 30; Deuteronomio, 17, 6; 19, 15) secondo cui nessuno poteva esser condannato se non in forza di testimonianze aliene, e non mai di una sola ma almeno di due o tre; al contrario non è si­curo che esistesse la norma codificata più tardi secondo cui in seduta notturna non potevano essere trattati processi criminali, e anche l'altra secondo cui una condanna a morte non poteva essere pronunziata nel giorno stesso della discussione del processo. Certo è che, nel pro-cesso di Gesù, tutte e tre queste norme non risultano osservate.

§ 565. Essendo pertanto stati preparati nella seduta notturna gli ar­gomenti principali per la seduta mattinale, questa fu tenuta appena si fece giorno (Luca, 22, 66), cioè appena cominciarono a diradarsi le tenebre notturne, anche prima della piena alba (§ 576). Dovevano essere circa le nostre ore cinque antimeridiane. Alla seduta notturna saranno intervenuti o i più focosi avversari di Gesù oppure i frequentatori più assidui della casa del sommo sacerdote; a quella mattinale invece intervennero i membri di tutti e tre i gruppi del Sinedrio (Luca, ivi; cfr. § 58). In osservanza pertanto dell'antica e solenne norma suaccennata si cominciò con escutere molti... testimoni, i quali però erano falsi; ma sia che la subornazione di tali testimoni fosse stata fatta in maniera affrettata e vaga, sia che essi riferendosi ad antichi fatti e discorsi di Gesù confondessero particolarità ben diverse, le loro testimonianze non erano concordi (Marco, 14, 56). Con tali deposizioni il processo non faceva un passo avanti e non si salvavano neppure le apparenze della legalità; giacché anche se a quei tempi non vigeva la norma, codificata più tardi, secondo cui il testimone doveva precisare esat­tamente il giorno, l'ora, il luogo, e tutte le altre minute circostanze del delitto attestato (§ 60), si richiedeva evidentemente che le depo­sizioni non si contraddicessero a vicenda. Qui invece si contraddi­cevano.
Alla fine, tuttavia, si presentarono due testimoni che sembrarono con­cordi: il numero legale minimo, di due, c'era, e pareva esserci anche la concordia. Costoro deposero che Gesù aveva pronunziato le se­guenti parole: Posso demolire il santuario d'Iddio e in tre giorni edificar(lo) (Matteo, 26, 61); ovvero secondo l'altra relazione: Io demolirò questo santuario manufatto, e in tre giorni (ne) edificherò un altro non manufatto (Marco, 14, 58). Ma anche questa doppia testimonianza, all'ulteriore inquisizione dei giudici, non risultò con­corde nei suoi particolari: soprattutto, poi, essa non era vera né quan­to allo spirito né quanto alla lettera. La testimonianza infatti si riferiva evidentemente alle parole pro­nunziate da Gesù più di due anni prima, in occasione della cacciata dei mercanti dal Tempio (§ 287); ma già vedemmo cbe quelle parole erano metaforiche e si riferivano, non già al Tempio di Gerusalemme, ma al corpo di Gesù stesso. Inoltre, anche volendo prendere quelle parole come dirette al Tempio di Gerusalemme, Gesù non aveva espresso il proposito di demolire egli stesso il Tempio, bensì aveva sfidato i suoi avversari a demolirlo (Demolite questo santuario, ecc.); dunque egli tutt'al più sarebbe stato il ricostruttore del Tempio, eventualmente demolito dai Giudei, non già il suo demolitore. Ma ri­costruire il Tempio poteva esser titolo di encomio, non già argomento di accusa; una delle pochissime benemerenze che, mezzo secolo avan­ti, Erode il Grande si era procurato agli occhi dei Giudei osservanti era stata appunto quella di aver ricostruito più suntuosamente di prima il Tempio da lui stesso man mano demolito (§ 46). Certamente testimoni e giudici non credevano che Gesù potesse fare quanto Erode il Grande aveva fatto; ma essi in tal caso potevano concludere tutt'al più che l'imputato era un vanesio, un sognatore, un millanta­tore, non già un empio e un bestemmiatore.

§ 566. Senonché la doppia testimonianza riguardo al Tempio era troppo opportuna perché quei giudici, in difetto d'altri capi d'accusa, se la lasciassero sfuggire: essa poteva valere almeno come prova che Gesù aveva ritenuto possibile o aveva profetizzato la distruzione del Tempio. Ora, quando si trattava di quel cumulo di sassi e di travi che costitui­vano il Tempio materiale, i Giudei dei tempi di Gesù perdevano im­mediatamente il lume degli occhi, come l'avevano perso sei secoli prima i Giudei dei tempi di Geremia. L'antico profeta era stato giu­dicato degno di morte perché aveva predetto da parte di Dio che il Tempio sarebbe stato distrutto (Geremia, 7, 4 segg.; 26, 6 segg.); e le scritture di lui, nelle quali si narrava questa predizione insieme col suo puntuale avveramento e con l'empio trattamento fatto al pro­feta, erano tuttora venerate come sacre da coloro che stavano là assisi a giudicare Gesù: ma l'insegnamento che essi ne trassero fu di ripetere in maniera peggiorativa quanto i loro antenati avevano fatto al profeta del Dio d'Israele. Vedendo infatti che pure quest'ultima testimonianza stava per sfu­mare, il sommo sacerdote prese una risoluzione decisiva. Levatosi in piedi, Caifa tentò di ottenere da Gesù qualcosa che in apparenza fosse una sua giustificazione di fronte all'accusa dei testimoni, ma che in realtà avrebbe implicato l'imputato nella discussione inducendolo a confessioni; gli disse perciò: Non rispondi nulla? Che cosa testi­ficano costoro di te?
Ma la desiderata risposta non venne, e Gesù serbò un silenzio assoluto. Allora il sommo sacerdote, assumendo un atteggiamento ispirato e solenne, insistette: Ti scongiuro per il Dio vivente affinché ci dica se tu sei il Cristo (Messia), il Figlio d'iddio. L'atteggiamento del som­mo sacerdote sembrava quello di un uomo che, tutto preso dal desi­derio della verità, aspettasse soltanto una parola d'assicurazione per affidarsi e rendersi totalmente ad essa; udendolo si sarebbe detto che, a una risposta affermativa di Gesù, egli si sarebbe prostrato riverente davanti a lui riconoscendolo come il Messia d'Israele. Si noti inoltre, accuratamente, che Caifa ha scongiurato Gesù a dichiarare se egli sia il Cristo, il Figlio d'iddio. Cosicché i termini dell'interrogazione sono due; Gesù potrà affermare o negare di essere il Cristo, ossia il Messia, e oltre a ciò di essere il Figlio d'iddio. E’ probabile che Caifa, in questo scongiuro, usasse i due termini come praticamente sinonimi; tuttavia egli stesso e gli altri membri del Sinedrio mostreranno in se­guito di saper ben distinguere il preciso significato dei due termini, e attribuiranno al termine il Figlio d'iddio un significato distinto e assai più alto che quello di Messia.

§ 567. Il momento era davvero solenne. Tutta l'operosità, tutta la missione di Gesù apparivano quasi riassunte nella risposta che egli avrebbe data allo scongiuro del sommo sacerdote. Chi interrogava era rivestito dell'autorità somma e ufficiale in Israele; chi rispondeva era colui che nella sua vita aveva serbato quasi costantemente oc­culta la sua qualità di Messia per ragioni d'oculata prudenza, confi­dandola soltanto negli ultimi tempi e soltanto a persone opportune e predisposte. a allora le ragioni di prudenza avevano cessato di esistere: peri­coloso che fosse, era ben giunto il momento di dichiarare apertamente la propria qualità davanti all'intero Israele, rappresentato dal som­mo sacerdote e dal Sinedrio. uttavia la risposta, che Gesù aveva già pronta, sarebbe stata certa­mente oggetto di scandalo per coloro a cui era diretta, a causa delle loro particolari condizioni di spirito: inoltre sarebbe stato necessario dapprima mettere bene in chiaro taluni principii sui quali essi po­tevano equivocare. Gesù quindi prudentemente ammoni: Se io ve (lo) dico, non (mi) crederete; se poi (vi) interrogherò, non (mi) rispon­derete (Luca, 22, 67-68). Questa ammonizione deluse per un momento l'ansiosa aspettativa dell'intera assemblea, i cui membri perciò dovettero esortare l'im­putato a rispondere, ripetendogli alla rinfusa la domanda del sommo sacerdote per ottenere la dichiarazione che essi si aspettavano. Gesù allora, indirizzandosi al sommo sacerdote rispose: Tu (l')hai detto; il che significava: “Io sono ciò che tu hai detto” (§ 543). A questa schematica affermazione l'imputato aggiunse una dichiarazione rivol­ta all'intera assemblea: Senonché vi dico, da adesso vedrete il figlio dell'uomo seduto a destra della “Potenza” e veniente sulle nubi del cielo. Questa aggiunta adduce, fondendoli insieme, due celebri passi messianici (Daniele, 7, 9. 13; Salmo 110 ebr., 1); essa infatti vuole precisare il senso della schematica affermazione di Gesù ricollegandola con le sacre Scritture ebraiche, e nello stesso tempo appellarsi ad una futura prova di quella affermazione due al ritorno glorioso del Messia sulle nubi del cielo, predetto dalle Scritture.

§ 568. Appena udite le parole di Gesù tutti i Sinedristi insorsero protesi e vibranti, e a gara domandarono all'imputato: Tu dunque sei il Figho d'Iddio? (Luca, 22, 70). Dalla precedente risposta di Gesù essi già avevano ottenuto la pre­ziosa confessione che egli si reputava Messia: poteva tuttavia rima­nere un dubbio, cioè se egli si reputasse bensì Messia ma non già “Figho d'iddio” nel senso ontologico dell'appellativo. In realtà, le allusioni fatte da Gesù ai due passi messianici mettevano sufficientemen­te in chiaro anche questo punto; tuttavia i Sinedristi, ansiosi di otte­nere una piena dichiarazione dall'imputato, gliene rivolsero formale domanda: Tu dunque sei oltreché il Messia anche il Figlio d'Iddio? Più precisi ed esatti di così, quei giudici non potevano essere. Più precisa ed esatta non poté essere la risposta di Gesù, la quale nel silenzio palpitante del tribunale risonò: Voi dite che io sono; il che significava: “Io sono ciò che voi dite” cioè il Figlio d'iddio. Ottenuta questa nettissima affermazione, il sommo sacerdote gridò esterrefatto: Ha bestemmiato! Che bisogno abbiamo ancora di te­stimoni? Ecco, adesso avete udito la bestemmia! Che ve (ne) pare? Tutti a gran voce risposero: E’ reo di morte! Per rendere più visivo e più impressionante il suo sdegno, il sommo sacerdote mentre aveva lanciato il primo grido si era anche strappato l'orlo superiore della tunica, com'era usanza di fare quando si assisteva ad una scena di sommo cordoglio; ma in realtà se quell'uomo avesse mostrato palesemente sul volto i veri sentimenti che aveva nel cuore, il suo aspetto sarebbe apparso illuminato di profonda e sincera gioia. Egli infatti credeva d'esser riuscito a far bestemmiare Gesù, e con ciò ad implicano nella sua propria condanna.

§ 569. Senonché l'interrogazione rivolta dal sommo sacerdote a Gesi aveva costituito una procedura del tutto illegale. Poiché fino allora era mancata la prova testimoniale, si era cercato di rendere l'impu­tato testimonio avverso a se stesso, contro la norma stabilita in Sanhedrin, 9 b, e di soiprenderlo in un preteso delitto flagrante; in tal modo non si teneva più conto dei pretesi delitti passati per con­centrarsi unicamente su uno presente, e Gesù non figurava più come un imputato responsabile di antiche colpe ma come un innocente arrestato per esser provocato a bestemmiare. Inoltre Gesù, affermando di essere il Messia, non aveva affatto be­stemmiato: in primo luogo perché egli in quella sua affermazione non aveva impiegato il nome di Dio, bensì aveva prudentemente so­stituito al pronome personale o generico di Dio (Jahveh ovvero Elohtm) l'appellativo di “Potenza” come solevano fare i rabbini; in secondo luogo, perché attribuire a se stesso o ad altri unicamente la qualità di Messia d'Israele non poteva considerarsi una bestemmia. Senza uscire infatti dal rabbinismo più ortodosso, un secolo più tardi il grande Rabbi Aqiba proclamerà Messia quel Bar Kokeba che gui­derà l'ultima e più catastrofica ribellione della Giudea contro Roma; eppure, nonostante questa fallace proclamazione, Rabbi Aqiba non solo non fu giudicato bestemmiatore ma rimase poi sernpre come uno dei più illustri luminari del giudaismo dell'Era Volgare. Perciò l'af­fermazione messianica che Gesù aveva fatta di se stesso, anche se non era accettata, poteva essere giudicata dai suoi avversari tutt'al più vana e millantatrice quale di un allucinato od esaltato come in realtà fu giudicata da alcuni contemporanei l'affermazione di Rabbi Aqiba - ma bestemmia contro la Divinità non era in alcun modo. Perché dunque il presidente gridò, e il tribunale confermò, che Gesù aveva bestemmiato? Evidentemente in forza della risposta afferma­tiva data da Gesù all'ultima interrogazione: Tu dunque sei il Figlio d'iddio? In questa domanda il termine il Figlio d'Iddio certamente non è - nell'intenzione stessa dell'interrogante - un pratico sinonimo del termine Messia, bensì rappresenta in confronto con questo termi­ne un ulteriore progresso, un climax, e riveste un significato assai superiore: gli interroganti volevano sapere da Gesù se egli, nel signi­ficato ontologicamente vero, si riteneva il Figlio d'iddio. Avendo Gesù risposto in maniera affermativa, fu giudicato bestem­miatore.

E cosi il processo religioso era finito e la sentenza era stata data: Gesù era stato giudicato reo di morte come bestemmiatore. La procedura era riuscita al sommo sacerdote in maniera superiore alla sua aspettativa. Visto che era inutile sperare nelle deposizioni dei te­stimoni subornati, egli si era rivolto direttamente all'imputato pren­dendo di mira dapprima la qualità di Messia, perché ottenuta una confessione su questo punto il reo confesso ne avrebbe dovuto rispon­dere poi in sede politica davanti al procuratore romano. Senonché la confessione era stata così ampia e solenne, che aveva portato spon­taneamente all'altra interrogazione se l'imputato fosse - oltreché Messia - anche il Figlio d’Iddio. Questa nuova interrogazione, più deli­cata e decisiva che mai, aveva ottenuto pure essa una risposta piena­mente affermativa. Cosicché, in conclusione, l'inquirente aveva trionfato in ambedue i campi: in quello nazionale-politico, perché l'imputato aveva confes­sato di essere il Messia d'Israele; in quello rigorosamente religioso, perché aveva confessato di essere vero Figlio d'Iddio. Questa seconda confessione era stata decisiva davanti al tribunale del Sinedrio; la prima verrà addotta e sarà egualmente decisiva davanti al tribunale del procuratore romano. Questi fatti avvennero - come già accennammo (§ 564) - nella se­duta mattinale, la quale fu definitiva e incorporò nella sua procedura i risultati provvisori ottenuti nella seduta notturna. Ma nel frattempo erano già avvenuti o tuttora avvenivano altri fatti, che qui raggruppiamo a parte.
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06/08/2012 20:55

Gli oltraggi. I rinnegamenti di Pietro. La fine di Giuda Iscariota

§ 570. Dopo la seduta notturna, allorché la sorte dell'imputato era praticamente già segnata, egli fu consegnato alle guardie del Sinedrio affinché lo custodissero in attesa della seduta mattinale. Padroni di quell'uomo ormai fuori legge, stanchi e irritati per la not­te passata insonne a causa di lui, gli sbirri si compensarono riducen­do il condannato a oggetto dei loro raffinati ludibri e delle loro beffe prolungate. Per forse due ore - circa dalle tre alle cinque del mat­tino (§§ 562, 565) - l'imputato rimase in balia di quei suoi custodi, con i quali da principio si saranno uniti anche taluni più focosi mem­bri del Sinedrio per incitare i beffeggiatori e per gustare lo spetta­colo. Attraverso l'àtrio della casa comune ad Anna ed a Caifa, Gesù fu condotto in qualche oscuro sotterraneo; là egli fu schiaffeggiato, gli fu sputato in faccia, gli furono rivolti insulti e contumelie d'ogni fatta come a bestemmiatore sacrilego. Si passò quindi agli schemi organizzati e sapienti, e si fecero su di lui i giuochi usuali dei bambini ma eseguiti qui in forma dolorosa ed atroce. Gli si bendarono gli occhi, e quindi si cominciò a scaricargli addosso a tutta forza guanciate domandandogli chi fosse il percusso­re. Era il giuoco che, fatto innocentemente dai fanciulli greci, eri chiamato nelle sue varie forme ovvero eseguito qui su Gesù, assumeva un valore sarcastico in quanto quel profeta, che tante volte aveva veduto cose nascoste e pensieri occulti, doveva essere bene in grado di nominare chi lo aveva percosso; ad ogni colpo, infatti, si chiedeva: Profetizzaci, Messia, chi e' che ti ha percosso? Altri poi lo presero a vergate, come si esprime romanamente Marco (§ 133). Nel frattempo sputi, maledizioni, beffe sar­castiche piovevano incessantemente giù alla rinfusa. Quando l'ingegno inventivo di quei custodi esaurì i suoi argomenti e la stanchezza prevalse sull'industriosità, essi si allontanarono man ma­no da Gesù e lo lasciarono accasciato come un cencio sulla panca dei suoi ludibri; si saranno quindi sdraiati li attorno nel sotterraneo a dormire, per continuare la custodia dell'imputato.

§ 571. Poco prima di questa scena era avvenuto un altro fatto di cui furono attori, non nemici, ma amici di Gesù. Vedemmo come al Gethsemani gli Apostoli abbandonassero il loro maestro tutti quanti, salvo Giuda. Dove andarono essi appena datisi alla fuga? Certamente non si allontanarono molto dal luogo dell'arre­sto, e cessarono di correre quando si videro sicuri di non fare li per li la stessa fine del maestro. Acquistata questa momentanea sicurezza, avvenne in essi una spontanea reazione contro l'atto di vigliàccheria commesso; allora, se non tutti, almeno parecchi di essi dovettero tor­nare alla spicciolata a Gerusalemme e rifecero, cauti però e guardin­ghi, la strada fatta poco prima dalle guardie con l'arrestato in mezzo. Più avanti di tutti, ma sempre molto addietro alle guardie, andava Pietro con un altro discepolo (Giov., 18, 15). Probabilmente nel frat­tempo Pietro si era ricordato della promessa fatta qualche ora prima a Gesù, di essergli fedele anche a costo della vita: ma trovando che in quel momento egli invece fuggiva a gambe levate, aveva ricuperato alcun poco dell'antico spirito battagliero, e stava forse almanaccando qualche progetto per poter risapere ciò che sarebbe accaduto all'arrestato. Spiando da lontano i movimenti delle guardie, egli scorse che tutti erano entrati nella casa del sommo sacerdote; allora avendo vicino a sé l'altro discepolo, s'avviò risolutamente verso la porta di quella casa. Qui avvenne un fatto curioso. Quell'altro discepolo era noto ai fa­miliari del sommo sacerdote, e perciò non trovò difficoltà ad entrare nella casa: Pietro invece, essendo sconosciuto, rimase titubante al di fuori. Ma quando l'altro discepolo s'avvide di non esser più seguito da Pietro, tornò indietro all'ingresso, parlò con la fantesca portinaia e ottenne che anche Pietro entrasse.
Chi era quest'altro discepolo, di cui parla soltanto il IV vangelo senza trasmetterci il suo nome? Ragionevolissima per ogni senso sembra la congettura, abbastanza comune fra studiosi antichi e moderni, secon­do cui questo innominato discepolo sarebbe appunto Giovanni, che qui non nomina se stesso per la solita norma per cui nel suo vangelo dissimula costantemente la propria persona. Né deve far meraviglia che egli fosse noto ai familiari del sommo pontefice: saranno state relazioni commerciali tra l'agiata famiglia di Giovanni e il sommo sa­cerdote che non disdegnava trafficare, saranno state altre ragioni che ci sfuggono, è certo che una conoscenza d'indole superficiale fra il giovane e i familiari del sommo sacerdote non era cosa eccezionale. Essa permise ad ambedue i discepoli dell'imputato, ignoti come tali, d'entrare in quella casa.

§ 572. Per renderci esatto conto di quanto allora seguì, bisogna aver presente com'erano disposte le varie parti di un'agiata dimora gerosolimitana. Venendo dalla strada, si trovava dapprima l'uscio con la sua portineria; da cui, inoltrandosi, si passava nel vestibolo che era una specie di corridoio più o meno lungo; percorso questo corridoio si sboccava all'interno di un cortile o atrio, che serviva in comune ai vari appartamenti della casa. Le stanze disposte a pianterreno torno torno a questo atrio erano di solito destinate ai familiari e ai vari servizi; le stanze del piano elevato, poggiate su quelle del pianterre­no, erano riservate al padrone e alle persone di riguardo. Avvenne pertanto questo: quando Pietro fu introdotto mercé l'inter­vento di Giovanni, la fantesca portinaia sbirciò quello strano visita­tore con una curiosità petulante che doveva essere abituale in una donna e in una portinaia, e che era tanto più naturale in quella notte piena di sospetti. Colpita forse dalla figura insolita e dal contegno im­pacciato di lui, la fantesca gli disse parte sul serio e parte forse con ironia investigatrice: Forseché tu pure sei dei discepoli di quest’uomo? (Giov., 18, 17). Pietro, punto sul vivo, rispose pronto ed impai­sibile: Non sono! Dopo questa dichiarazione il capo degli Apostoli, quasi per allontanarsi in fretta dal luogo della sua menzogna e cer­carne un altro meno pericoloso, s'inoltrò nel vestibolo e raggiunse il cortile o atrio, ove trovò un gruppo di guardie raccolte attorno al fuoco; a Gerusalemme infatti, ai primi d'aprile, non è raro aver not­tate assai fredde favorite anche dall'altezza del sito (circa 740 metri 5. m.; § 5), ed essendo tale il caso di quella notte le guardie avevano acceso il fuoco (§ 537) anche per riaversi dal freddo che poco prima avevano preso giù nella valle del Cedron.
Ostentando allora sicurezza ed indifferenza, Pietro s'avvicinò al fuoco mescolandosi con gli altri seduti là attorno. Ma la fantesca non aveva lasciato la sua preda; anche più incuriosita, ella aveva seguito Pietro fin presso al fuoco, e là ripeté ad alta voce davanti a tutto il crocchio il suo sospetto. Le sue parole fecero qualche impressione sugli astanti: il nuovo giunto fu esaminato più attentamente alla luce della fiarnina, e in realtà si trovò che il sospetto della portiaia pote­va avere un serio fondamento. Allora l'interrogazione già rivolta a Pietro dalla fantesca fu ripetuta alla rinfusa da altri, uomini e donne, con la vivacità di chi trova un caso interessante: fu ripetuta diret­tamente e indirettamente, con sicurezza o con ironia, puntando sem­pre sulla possibilità che quel visitatore sconosciuto fosse un discepolo dell'arrestato.

§ 573. Pietro s'avvide che invece di scegliersi un luogo meno peri­coloso, s'era gettato proprio fra le braccia del nemico, e non penso che a salvarsi; parte finse di non udire, parte respinse energicamente il sospetto affermando di non conoscere affatto Gesù. Ma là, alla luoe del fuoco e sotto lo sguardo di tanti scrutatori, la sua difesa era fiacca ed impacciata; meglio era cambiar nuovamente posto. E al­lora Pietro, già sconvolto nei suoi pensieri e anche turbato nella sua coscienza, si allontanò dal gruppo per ritornare verso la porta. In quel momento un gallo lanciò il suo grido mattutino (Marco, 14, 68). Ma nel frattempo la fantesca portinaia era tornata al suo posto di servizio presso l'uscio, cosicché Pietro si ritrovò nuovamente fra i piedi quella malaugurata femmina. Il caso curioso l'aveva divertita, ed ella continuò anche là i suoi assalti comunicando il suo sarcastico dubbio alla gente di servizio che passava; Pietro gironzolò un po' con aria indifferente tra l'uscio e l'atrio, ma messo poi alle strette di nuovo negò con giuramento:”Non conosco (quel)l'uomo!” (Mat­teo, 26, 72). Passò altro tempo, in cui sembrava che la gente si fosse dimenticata di Pietro; egli intanto, scrutando nella penombra e tendendo l'orec­cliio, cercava di vedere o udire qualche cosa di ciò che stava accaden­do a Gesù. Ma ad un certo punto, quando era trascorsa circa un'ora (Luca, 22, 59) dall'ingresso di Pietro in quell'infausta casa, i sospetti si risvegliarono; un gruppetto di gente s'avvicina a Pietro e gli spiat­tella davanti con piena convinzione:”In verita' anche tu sei di quei tali; sei infatti Galileo, giacché la tua parlata ti rende manifesto!” (Matteo, 26, 73; Marco, 14, 70).
I Galilei infatti usavano un dialetto il cui accento particolare li tra­diva appena aprissero la bocca, a un dipresso come un napoletano d'oggi sarebbe immediatamente tradito dal suo accento cominciando a parlare in un crocicchio di toscani: da un aneddoto narrato nel Talmud risulterebbe che un Galileo pronunziava in maniera da confonderle insieme le seguenti parole (asino), (vino), (lana), (agnello). Il colpo era grave per Pietro. Eppure non fu il più grave: giacché appena fatta questa contestazione uno dei presenti, che nel frattempo aveva scrutato attentamente le fattezze di Pietro, saltò su a gridargli in faccia: Non ti ho forse io visto nel giardino insieme con quel (tale)? (Giov., 18, 26). Chi parlava con tanta sicurezza era parente di colui al quale Pietro qualche ora prima nel Gethsemani aveva moz­zato l'orecchio (§ 560). Davanti a prove cosi schiaccianti Pietro si vide perduto. Cercando istintivamente uno scampo qualunque, cominciò a giurare, maledire e imprecare, per convincere quei suoi scrutatori di non aver cono­sciuto giammai al mondo Gesù il Nazazeno e di sentirne parlare allora per la prima volta. Mentre veniva giù questo fiume di esecrazioni, il gallo cantò per la seconda volta (Marco, 14, 72); in quello stesso momento Gesù, lega­to e circondato da sbirri, attraversò l'atrio dov'era acceso il fuoco. Pochi minuti prima era infatti terminata la seduta notturna, e di là l'imputato era adesso condotto nei sotterranei di detenzione in atte­sa della seduta mattinale. Il canto del gallo questa volta colpi Pietro: dimenticandosi a un trat­to dei suoi scrutatori, egli si scosse, guardò più in là, vide Gesù che passava. Gesù a sua volta riguardò verso Pietro con uno di quegli sguardi davanti a cui Pietro si sentiva annientato. Il discepolo si ri­cordò allora di quanto il maestro gli aveva predetto poche ore avanti, che in quella stessa notte prima che il gallo avesse cantato due volte lo avrebbe rinnegato tre volte. Allora il povero ma generoso Pietro abbandonò il campo della sua disfatta, e uscito al di fuori pianse amaramente.

§ 574. Quando la seduta mattinale del Sinedrio fu terminata, si ri­seppe presto e facilmente al di fuori che Gesù vi era stato condan­nato: forse prima di ogni altro estraneo lo riseppe un uomo che aveva sommo interesse a questa sentenza, Giuda Iscariota. L'ultimo risultato del suo tradimento produsse nel suo spirito l'effetto sconvol­gitore a cui già accennammo (§ 533). Il maestro, ch'egli a suo modo amava, era stato condannato a morte. E adesso, avrebbe potuto egli liberarsi? Sarebbe egli ricorso alla sua potenza taumaturgica per rom­pere quella rete dentro cui l'avevano avviluppato i suoi nemici? Il traditore ne dubitò. Forse allora per la prima volta s'avvide che le ultime conseguenze del suo tradimento differivano da quelle da lui previste: certamente allora per la prima volta egli intravide l'abissale ingiustizia da lui commessa. In quell'uomo allora l'amore per Gesù ebbe il soprav­vento su ogni altro suo amore, anche su quello potentissimo per l'oro: ma da amore torbido e impuro qual era non poté assurgere alla speranza di perdono. I 30 sicli, che egli nel frattempo aveva rice­vuto e nei quali la sua cupidigia aveva sperato un pieno appagamento di spirito, gli divennero invece fonte di insopportabile ama­rezza. Sembrava che si fossero arroventati: egli non poteva più tenerseli addosso, parendogli di confermare e ribadire ancora il suo tradimento. Corse quindi dai sommi sacerdoti e davanti ad essi gri­dò: Ho peccato, tradendo sangue innocente! E insieme protese verso loro la borsa dei sicli in atto di riconsegnarla. I membri del Sinedrio, freddi, sicuri di sé, leggermente ironici, risposero al suo grido: A noi che (importa)? Tu (te la) vedrai! La risposta dei prezzolatori risonò nell'anima del prezzolato come beffa sarcastica, la quale mostrava che egli più di ogni altro era rimasto irretito nel tradimento ed egli solo ne era la vera vittima. Per i Sinedristi il tradimento doveva ri­manere e sussistere per sempre, né poteva in alcun modo rinnegar­si; tutto il peso del tradimento ricadesse pure sul traditore, e pen­sasse egli a cavarsi d'impaccio: quanto a loro, avendo pagato regolarmente i 30 sicli pattuiti, erano fuori di tutto l'affare né volevano più saperne. Un furore rabbioso s'impadroni allora del traditore. Vedendo precluse tutte le uscite, sentendosi schiacciato sotto il peso dei sicli, egli corse al vicino Tempio, s'inoltrò quanto gli era possibile verso l'edi­ficio del “santuario” , e di là freneti­camente cominciò a scagliare manciate di sicli verso il luogo santo quasi per liberarsi di un groviglio di vipere che gli mordeva il cuore.
Le monete rotolarono sul lastricato con un tintinnio che sembrava uno sghignazzamento, si sparsero un po' dappertutto davanti al “antuario” giacquero là come in attesa. Ma anche quando quello sghignazzamento si tacque, il traditore non si sentìaffatto sollevato; se la cupidigia sua era dissipata e scompar­sa, in tragico compenso l'amore suo per Gesù credeva scorgere da­vanti a sé una rupe insormontabile per raggiungere la persona sem­pre amata. Da ogni parte il traditore vedeva attorno a sé il vuoto. Una nerissima tenebra avvolse allora la sua mente, ed egli fuggen­do via dal Tempio andò senz'altro ad impiccarsi.

§ 575. Della fine di Giuda abbiamo una doppia relazione con inte­ressanti divergenze, le quali sono di particolare valore nel confer­mare l'identità sostanziale del fatto. Matteo parla soltanto dell'im­piccamento. Luca invece, riportando un discorso di Pietro negli Atti (1, 16-19), ha conservato la tradizione secondo cui Giuda divenuto a capo fitto crepò in mezzo effondendo tutte le sue viscere. Le due relazioni sembrano riferirsi a due momenti diversi dello stesso fatto: dapprima Giuda s'impiccò, quindi il ramo dell'al­bero O la corda a cui egli era appeso si stroncò, forse per le scosse convulsive, e allora il suicida precipitò in basso; è legittimo immaginare che l'albero fosse sull'orlo di qualche burrone, cosicché la caduta produsse nel corpo del suicida le conseguenze di cui parla la relazione di Luca. Una tradizione identificherebbe il luogo dell'impiccamento di Giuda con il campo Haceldama comprato con i sicli di lui e situato nella Geenna (§ 324, nota prima), la valle a mezzogiorno di Gerusalem­me designata fin dai tempi antichi come luogo maledetto. La leggen­da a sua volta fin dai tempi più antichi si è impadronita del fatto, ricamandovi attorno o trasformandolo in mille maniere: già nel secolo IV si affermava che l'albero a cui Giuda si era impiccato era un fico (l'albero delle cui foglie si rivestirono i protoparenti peccatori; Genesi, 3, 7), e questo fico, dopo aver emigrato in vari posti lungo i secoli, era mostrato ancora superstite pochi anni addietro a Geru­salemme. Rimanevano frattanto i sicli gettati dal traditore nel Tem­pio. I puntualissimi Sinedristi si consultarono sulla sorte da assegnare a quel denaro in maniera che la Legge non fosse violata. La Legge infatti (Deuteronomio, 23, 19 ebr.) non permetteva che fosse accet­tato come offerta sacra denaro proveniente da guadagni indecorosi, quale meretricio, omicidio e simili; perciò i Sinedristi, raccolti i sicli, osservarono: Non e' lecito metterli nel “qorban” (tesoro sacro, cfr. § 387), giacché e' prezzo di sangue.
D'altra parte 30 sicli erano una somma considerevole, a cui non sarebbe stato saggio rinunciare: e allora quegli accurati casuisti trovarono una via di mezzo per con­ciliare i due opposti. In occasione di grandi feste ebraiche affluivano a Gerusalemme moltissimi pellegrini dalle varie regioni della Diaspora, e avvenendo che taluni di essi morissero durante la loro perma­nenza nella città santa le autorità locali dovevano provvedere alla loro sepoltura. Ma fino a quel tempo un cimitero riservato a tale scopo non c'era: i Sinedristi quindi deliberarono che con i 30 sicli si comperasse un luogo chiamato comunemente “Campo del vasaio”. forse perché era argilloso e sede di un laboratorio di vasellame, e si destinasse a cimitero dei pellegrini.
Conchiusa la compera, al “Cam­po del vasaio” fu dato usualmente il nome di “Campo di sangue”, in ricordo sia della provenienza del prezzo sia del suicidio di chi ave­va fornito il prezzo; Matteo poi ricorda che il nome “Campo di sangue”, è rimasto fino ad oggi. Una tradizione molto antica colloca l'Hacel­dama nella valle della Geenna di fronte al luogo ove s'apriva un'an­tica porta della città, che era probabilmente quella chiamata “Por­ta del vasellame” da Geremia (19, 2): ivi probabilmente già esiste­vano altri cimiteri. Egualmente Matteo, sempre premuroso nel segnalare l'avveramento delle antiche profezie, rileva che allora s'avverò la profezia di Za­charia (11, 12-13) la quale è citata dall'evangelista in questa ma­niera: E presero le trenta (monete) d'argento, il prezzo di colui che fu messo a prezzo che misero a prezzo, dai figli d'Israele, e le det­tero per il campo del vasaio, come ordinò a me il Signore. Questa citazione ha dato molto da fare agli studiosi, perché Matteo l'attri­buisce al profeta Geremia, sebbene in realtà oggi si ritrovi solo in Zacharia mentre in Geremia si riscontrano soltanto allusioni (Ger., 18, 2-12; 19, 1-15; 32, 6-9). Ma l'attribuzione a Geremia probabil­mente si spiega col fatto che il libro di Geremia occupava a quei tempi il primo posto nella collezione degli scritti profetici, e perciò citando e Geremia, s'intendeva citare un passo qualsiasi di detta collezione; bisogna inoltre aver presente che la citazione non è fatta punto in maniera letterale, cosicché sembra che l'evangelista abbia voluto fare piuttosto una raccolta di allusioni che una vera citazione.
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06/08/2012 20:57

Il processo civile davanti a Pilato ed Erode

§ 576. La condanna pronunziata dal Sinedrio non poteva essere ese­guita se non dopo esplicita approvazione del procuratore romano; perciò se i Sinedristi volevano raggiungere il loro scopo dovevano superare adesso questo nuovo ostacolo. Quale via seguire? L'approvazione del procuratore si poteva ottenere in due maniere: invitando il magistrato di Roma ad accettare la conclusione del processo svoltosi davanti al tribunale supremo del giudaismo e a fidarsi defla sua imparzialità; ovvero deferendo l'imputato al tribu­nale del procuratore per istituire un nuovo processo. Questa seconda maniera fu scelta dai Sinedristi, e astutamente: giac­ché se avessero chiesto a Pilato l'approvazione di una condanna a morte pronunziata per ragioni puramente religiose, egli certamente non avrebbe confermato ad occhi chiusi la sentenza del Sinedrio, ma avrebbe voluto indagare se le accuse erano vere, se la procedura era stata legale, se sotto pretesti religiosi non si nascondessero piuttosto rancori e rivalità personali; e allora c'era pericolo che l'intera procedura che aveva portato alla sentenza di condanna fosse riesaminata, e venissero alla luce molte cose che dovevano invece rimanere nell'om­bra. No, era maniera più facile e più sicura riaprire il processo, im­piantandolo su nuove basi: se poi si deferiva l'imputato al tribunale civile del procuratore, bisognava prender costui dal suo lato debole e presentare il Rabbi galileo quale pericoloso agitatore politico, suscitatore di ribellioni contro l'autorità di Roma. Imboccata tale strada, non c'era alcun dubbio che lo stato d'animo di Pilato e le generiche condizioni politiche avessero influito assai sullo svolgimento del nuo­vo processo, indirizzandolo alla mèta prefissa dai Sinedristi. Confor­me a questo piano, appena terminata la seduta mattinale, il Sine­drio quasi al completo si recò al luogo ov'era il pretorio di Pilato, conducendosi appresso Gesù. L'evangelista testimonio oculare avverte con precisione che era l'al­ba (Giov., 18, 28); dovevano essere circa le nostre ore sei antimeridiane (§ 565). I Romani infatti erano mattinieri: essi cominciavano la trattazione degli affari già all'alba e vi rimanevano occupati fin verso mezzogiorno, mentre riserbavano il pomeriggio e la sera alla cure personali e ai divertimenti; solo più tardi, quando l'Impero fu in­vaso da Barbari infingardi e sonnolenti, si perdette l'uso d'esser mat­tinieri e si rimandò la trattazione degli affari a giornata molto inol­trata. - Giunti pertanto sul limitare del pretorio, gli accusatori di Gesù si fermarono: quella dimora era d'un pagano ed essi non pote­vano entrarvi senza contaminarsi, mentre premeva loro di man­tenersi puri per celebrare la Pasqua che cadeva, secondo il loro computo, alla sera di quel giorno stesso (§ 536). Dov'era il pretorio di Pilato?

§ 577. Per i Romani il praetorium era il luogo ove il praetor stabi­lisse il suo ufficio il qual luogo poteva esser oggi una tenda mili­tare, domani un castello fortificato, un altro giorno il palazzo di un re debellato. Nato sotto la tenda militare, l'ufficio del pretorio con­servò sempre un'austera semplicità, rimanendo costituito essenzial­mente da due principali arredi, il “tribunale” e il seggio curule. Il “tribunale” era un suggesto o predella di forma semicir­oolare, di notevole altezza ed ampiezza, ma tale da potersi facilmen­te trasportare ed impiantare ove fosse opportuno; il seggio curule era l'antico seggio dei magistrati romani, destinato qui al pretore e colIlocato nel centro della predella semicircolare. Dall'alto del “tribu­nale” il pretore amministrava ufficialmente la giustizia, stando assiso sul seggio curule al centro e fiancheggiato ai due lati del semicer­chio dai suoi assistenti o consiglieri; davanti a quella predella dove­vano presentarsi imputati e accusatori, testimoni e difensori, e il pre­tore dopo aver ascoltato tutti e tutto ed essersi consultato con i suoi consiglieri pronunziava la sentenza dal seggio curule. A Cesarea, ove il procuratore della Palestina risiedeva ordinariamente (§ 21), il suo pretorio era impiantato nella reggia di Erode il Grande perché ivi era la su a abituale dimora (cfr. il pretorio di Erode a Cesarea, in Aui,23,35); anche a Gerusalemme, quando il procuratore vi si recava, la sua abituale dimora era la reggia di Erode, tuttavia da ciò non segue - astrattamente parlando - che ivi fosse sempre impianta­to il suo pretorio, giacché egli per ragioni speciali poteva prender dimora altrove, ad esempio nella fortezza Antonia, la quale si prestava molto meglio per sorvegliare le immense folle che accorrevano nell'attiguo Tempio in occasione della Pasqua e delle altre grandi fe­ste ebraiche (§ 49). Per la Pasqua in cui avvenne il processo di Gesù, dove stava impiantato il pretorio di Pilato? Una preziosa indicazione è fornita dal testimonio oculare allorché egli precisa che per pronunziare la sentenza finale Pilato s'assise sul tribunale (Giov., 19, 13). Dunque quel giorno Pilato im­piantò il suo pretorio in un luogo di Gerusalemme ch'era designato comunemente con due nomi diversi: Lithostrotos è nome schiettamente greco, e significa etimologicamente “strato di pietre” ossia “lastricato”; Gabbatha invece è nome aramaico, e significa “luogo eminente”, “altura”. Erano dunque due termini che non si tradu­cevano a vicenda, perché erano di significato etimologico diverso, ma praticamente designavano ambedue lo stesso luogo; tuttavia casi co­me questo si spiegano facilmente con le diverse ragioni che possono dare origine alle varie designazioni, e sono in realtà assai frequenti: basti ricordare soltanto nella Roma odierna Pantheon e Rotonda, Quirinale e Montecavallo, ecc. Per giustificare dal lato etimologico ambedue i nomi qui ricordati dall'evangelista bisognerà rintraccia­ne nella Gerusalemme antica un luogo che fosse geologicamente una ”altura”, e su cui fosse stato disposto un “lastricato” cosi notevole da meritare l'appellativo antonomastico.

§ 578. Avendo presenti queste esigenze dell'indicazione evangelica tutto c'induce a concludere che il pretorio di Pilato fosse impiantato quel giorno nella fortezza Antonia. Questa fortezza, oltre a pre­starsi meglio per la sorveglianza nelle giornate poliziescamente torbi­de, era collocata veramente sopra un'”altrura”, quella del Bezetha (§ 384), chiamata da Flavio Giuseppe la piu' alta di tutte le colline di Gerusalemme (Guerra giud., v, 246); fu dunque naturale che i cittadini riservassero per antonomasia il termine di “altura” a quel­la collina che emineva su tutte le altre, sebbene il termine fosse ge­nerico e risultasse precisato solo dall'uso. Ma quando più tardi fu costruita la massiccia fortezza Antonia, l'e­minenza della collina sembrò quasi scomparire sotto l'enorme mole. Ecco allora avvenire una sostituzione del termine generico di “al­tura” col termine nuovo di “lastricato” provocato dalla nuova co­struzione, sebbene per qualche tempo i due nomi fosse usati promiscuamente, mentre il nome antico e indigeno era usato più dai con servatori e il nuovo e forestiero più dai progressivi. Resta da vedere se nell'edificio dell'Antonia esisteva veramente que sto Lithostrotos, questo “lastricato” cosi' importante da designare per estensione tutta la zona; e qui non si potrà rispondere se non sulla base degli antichi documenti e delle recenti scoperte archeolo­giche. Dalla minuta descrizione che Flavio Giuseppe fa dell'Antonia (§ 49) risulta ch'essa era costituita da un quadrilatero rafforzato agli angoli da quattro potenti torri; ma il quadrilatero non era totalmen­te coperto di costruzioni, bensi racchiudeva nel mezzo un vasto cor­tile a cielo scoperto contornato da portici, da casematte e dai muri del quadrilatero. Il cortile naturalmente era frequentatissimo, passandovi quanti an­davano e venivano; in esso i soldati ivi di guarnigione si saranno schierati a rassegna, avranno fatto taluni esercizi militari, avranno passato lunghe ore in ozio giocando a dadi, a “filetto” e a simili passatempi intuitiva, quindi, la necessità che quel cortile fosse provvisto di un buon “lastricato” che ne proteggesse il suolo. Eb­bene, questo “lastricato” è stato ritrovato e nettamente riconosciuto dalle ricerche archeologiche praticate sul posto in questi ultimi anni. Da calcoli approssimativi fatti sui ruderi si è potuta valutare la su­perficie dell'intero cortile a mq. 2.500. Sul luogo si sono scoperti, oltre ad avanzi di varie costruzioni fiancheggianti la fortezza Anto­nia, anche larghi strati di « lastricato » molto ben conservati nono­stante le successive trasformazioni del luogo. All'esame archeologico il « lastricato » si mostra quale opera tipicamente romana, come usa­va farne Erode il Grande costruttore dell'Antonia. Le lastre di pie­tra, ampie e solide, misurano talvolta fino a 2 metri di lunghezza, su 1,50 di larghezza e 0,50 di spessore; fra le molte tracce che que­ste pietre portano dell'intenso uso che se ne fece lungo i secoli, le piu' curiose sono varie delineazioni o trame di giuochi romani, quali il « filetto » e simili, che furono indubbiamente incise dai soldati per le loro ore di riposo. Si può quindi ritenere come praticamente sicuro che il “lastricato” ritrovato sia il Lithostrotos dell'evangelista, e che in questo luogo chiamato anche Gabbatha fosse impiantato in quel giorno il pre­torio di Pilato.

§ 579. Il procuratore romano, avvertito che i membri del Sinedrio con molta folla s'erano fermati fuori del pretorio e volevano par­largli a proposito di un certo imputato chiamato Gesu' di Nazareth, uscì verso di loro e dato uno sguardo attorno domandò per comin­ciare Quale accusa portate contro quest'uomo? Gli fu risposto: Se costui non fosse un malfattore, non te l'avremmo consegnato. Veramente questa risposta non era un'accusa: voleva esser piutto sto una implicita captatio benevolentia, col suo latente invito a fi­darsi di ciò che gli accusatori affermavano e a rimettersi al giudi­zio dato dal Sinedrio sull'imputato. Stesse pur tranquillo il gover­natore: i suoi governati la pensavano in tutto come lui riguardo alla giustizia e all'equità, e deferivano al suo tribunale quell'imputato perche' era proprio un malfattore assolutamente meritevole di morte. La captatio benevolentia fu interpretata da Pilato per quel che va­leva. Il navigato romano capì subito che si trattava di una delle tante questioni che vertevano su idee religiose giudaiche e nelle quali egli non voleva affatto entrare; richiamandosi quindi alle norme vigenti, rispose: Prendetelo voi, e giudicatelo secondo la vostra legge. Queste parole non significavano certamente che gli accusatori potes­sero fare dell'imputato ciò che volevano, compreso il metterlo a morte: erano soltanto un invito ad applicare le leggi nazionali, sem­pre con la notoria esclusione della pena capitale. Ma precisamente qui era il punto piu' delicato della questione, e gli accusatori lo se­gnalarono direttamente al procuratore dicendogli: A noi non e' leci­to uccidere alcuno. Questa risposta manifestava al pmcuratore l'oc­culto desiderio degli accusatori, facendogli anche intravedere ciò che era avvenuto in quella notte. Se il Sinedrio si era rivolto al rappre­sentante di Roma non aveva fatto ciò per poter infliggere una mul­ta o una scomunica o le 39 staffilate legali (§ 61), tutte pene che esso poteva legittimamente infliggere senza l'approvazione del procuratore: gli accusatori invece volevano il permesso di eseguire la pena capitale, pronunziata in quella notte dal Sinedrio ma rimasta fino allora inefficace. Da questa risposta pertanto Pilato capì che l'impu­tato, nell'intenzione degli accusatori, era già un uomo destinato alla morte.

§ 580. Così veniva impostato il nuovo processo di Gesù davanti all'autorità civile. Ma per convincere il nuovo giudice, che quasi cer­tamente non aveva mai inteso parlare di un Gesù di Nazareth, oc­correvano delle prove; e gli accusatori addussero prove adatte a far impressione sul giudice. Dissero pertanto i Giudei: Noi troviamo co­stui che perturba la nostra nazione ed impedisce di dar tributi a Cesare e dice di essere Cristo (Messia) re (Luca, 23, 2). Questa era un'accusa strettamente politica, e come tale veniva a sostituirsi alle accuse religiose ch'erano state addotte davanti al tribunale del Si­nedrio: qui, davanti al tribunale del magistrato di Roma, Gesù è presentato come un rivoluzionario politico, e più esattamente come un imitatore di Giuda il Galileo (§ 514) nell'impedire il pagamento dei tributi a Cesare, nonché come un condottiero nazionalista che dice di essere il re-messia politico; è certo, infatti, che l'ultimo capo d'accusa si riferisce alla regalità politica. Senonché Pilato non era davvero tanto ingenuo da prender per oro colato tali accuse, e sotto ad esse intravide subito qualcosa di ben diverso. Ad ogni modo il terreno su cui erano scesi gli accusatori era di natura delicatissima per lui, e tale da obbligarlo a scendervi an­ch'egli: a lui, rappresentante di Roma, veniva deferito un imputato sotto l'accusa di congiurare contro Roma ed egli, sebbene avesse ca­pito subito che l'accusa era priva di fondamento, non poteva sot­trarsi all'obbligo di accogliere e discutere tale accusa; se avesse tra­scurato di far ciò, c'era pericolo che gli accusatori delusi inviassero denunzie a Roma, dipingendolo come remissivo e negligente nel re­primere moti politici contro l'autorità da lui rappresentata. Egli perciò, quale uomo di legge, si proponeva di smascherare gl'infingi­menti degli accusatori: ma nello stesso tempo, quale magistrato di Roma, si proponeva di figurare come vigile custode dell'autorità im­periale. Non restava che interrogare l'imputato stesso.

§ 581. Pilato allora rientrò nell'interno del pretorio, ove nel frat­tempo l'imputato era stato condotto mentre gli accusatori rimane­vano scrupolosamente al di fuori, e cominciò con la questione piu' scottante domandando a Gesù: Tu sei il re dei Giudei? Questa in­terrogazione ripeteva materialmente l'ultimo capo d'accusa, ma in hocca a Pilato il termine re dei Giudei assumeva un significato vo­lutamente ambiguo. Andando a fondo, l'interrogazione sonava a un dipresso cosi: Sei tu re dei Giudei in qualcuno di questi sensi ol­tramondani e numinosi impiegati spesso negli scritti della tua nazio­ne; oppure sei re dei Giudei nel senso in cui Numa Pompilio fu re dei miei antenati a Roma, ed Erode figlio di Antipatro era re dei tuoi antenati qui in Palestina mezzo secolo fa? Sei re di un mondo invisibile e ideale, oppure re di questo mondo visibile e materiale? Gesù rispose a Pilato: Da te stesso dici tu questo, oppure altri te (lo) disse di me? A Pilato non sfuggi che la risposta mirava appunto a distinguere quell'equivoco ch'era contenuto nella domanda; ne fu stizzito, e con una certa sdegnosità replicò: Sono io forse un giudeo? La tua na­zione e i sommi sacerdoti ti consegnarono a me. Che cosa hai fatto? La replica di Gesù insistette ancora nel distinguere i due sensi della prima domanda: Il regno mio non è di questo mondo. Se di questo mondo fosse il regno mio, i miei ministri avrebbero lottato affinchè (io) non fossi consegnato ai Giudei. Ora, invece, il mio regno non è da qui. Pilato, alquanto sorpreso da queste parole, intervenne per mettere in chiaro almeno in punto, e replicò: Dunque, tu sei re? aspettandosi senza dubbio che l'imputato respingesse senz'altro l'af­fermazione. Gesù invece l'accettò in pieno, giacché rispose: Tu dici che sono re; il che equivaleva a dire: “Sono veramente re come tu dici” (cfr. § 543, 567). Tuttavia a questa affermazione tenne subito die­tro uno schiarimento, nel senso forse già previsto da Pilato: Io a questo (scopo) sono nato e a questo (scopo) sono venuto nel mondo per render testimonianza alla verità. Chiunque e' dalla verita, ascol­ta la mia voce. Pilato, infastidito, tagliò corto, dicendo: Che cos'e' verita?

§ 582. Queste parole in sostanza non erano una domanda ma una esclamazione, tant'è vero che Pilato appena le ebbe pronunziate non aspettò risposta e si mosse per uscire a parlamentare con i Giudei fuori del pretorio; esse volevano semplicemente segnalare che la di­scussione era uscita dal suo vero campo praginatico per entrare in quello delle idee astratte, che non interessavano affatto il magistrato. Avvedutosi di ciò, egli esclama negligentemente: “Ma che cosa vuoi che sia la verità!”. A Roma Pilato aveva forse assistito centinaia di volte a discussioni di graeculi filosofeggianti nelle case e sulle piazze in cerca di sonanti sesterzi, e si era annoiato mortalmente a udire interminabili disquisizioni sulla verità e sull'errore: ragion per cui, quella mattina, egli non aveva la più lontana voglia di udirne an­cora un'altra da quell'oscuro giudeo. Ad ogni modo, dal breve dialogo avuto con Gesù, Pilato si era sem­pre più convinto che l'imputato era del tutto innocente e che l'inte­ra denunzia era effetto dell'odio che gli portavano i capi della na­zione per loro beghe religiose. E qui vennero ad incontrarsi e som­marsi insieme due spiccati lineamenti del carattere di Pilato: uno, il sentimento del ius che egli certamente possedeva come magistrato romano e che lo spingeva a far rispettare la legge; l'altro, un senti­mento di disprezzo e di scontrosità ch'egli nutriva per quei capi del giudaismo, e che qui trovava un'ottima occasione per impuntarsi a contraddire in nome della legge. Ambedue questi sentimenti del giu­dice esigevano che l'imputato fosse rimandato assolto. Frattanto dal di fuori giungeva un vociare confuso, e a sbalzi si di­stinguevano or l'una or l'altra delle accuse ripetute adesso da tutta la folla. Pilato, che aveva già terminato il dialogo con Gesù, prima di affrontare la folla cercò dall'imputato quasi un suggerimento o un aiuto per la difesa di lui, e ritornatogli vicino gli domandò cori curiosità: Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano? (Marco, 15, 4). Ma colui che poco prima si era proclamato testimo­ne della verità non rispose nulla, e serbò assoluto silenzio.

§ 583. Pilato ne rimase meravigliato; ma non recedette dal propo­sito di difendere quel silenzioso imputato anche senza l'aiuto di lui, e uscito fuori proclamò davanti a Sinedristi e plebei: Io non trovo in lui alcuna colpa! Con questa dichiarazione il processo doveva con­siderarsi terminato. I Sinedristi, più che i plebei, ne rimasero sdegnati. Protestando violentemente, si dettero essi a ripetere alla rinfusa le varie accuse ma specialmente quella politica: Fa insorgere il popolo, insegnando per tutta la Giudea e cominciando dalla Galilea fin qua (Luca, 23, 5). Queste ultime parole colpirono Pilato, perché sembravano offrirgli un elemento nuovo onde risolvere la questione; egli domandò se Ge­sù fosse galileo, ed essendogli risposto ch'era dei dominii del tetrarca Erode Antipa vide in questo particolare un buon appiglio in proprio favore. Egli era sicuro che, anche ad un esame fatto da Erode, Gesù sareb­be risultato innocente come all'esame testé subito al suo proprio tri­bunale: con ciò egli avrebbe avuto un nuovo argomento per ridurre al silenzio gli accusatori di lui, infliggendo inoltre ad essi una lega­lissima umiliazione. Inoltre il caso di quell'imputato offriva al pro­curatore una bell'occasione per riavvicinarsi al tetrarca, col quale egli da tempo era in cattivi rapporti, probabilmente perché Erode faceva la spia a danno dei magistrati romani d'Oriente presso l'imperatore Tiberio (§§ 15, 26). Perciò il procuratore, ostentando deferenza verso il tetrarca, decise d'inviargli il suo suddito affinché lo giudicasse. Veramente Gesù era stato denunziato al tribunale del rappresentante di Roma, e ivi doveva esser giudicato qualunque fos­se il suo paese d'origine; tuttavia Pilato rinunciò volentieri alla pro­pria giurisdizione, per i motivi pratici suddetti.

§ 584. Erode Antipa era appunto a Gerusalemme in quei giorni, per l'occasione della Pasqua. Quando seppe che il procuratore gl'invia­va quell'imputato galileo, fu assai contento, perché era desideroso da molto tempo di vederlo a cagione di ciò che udiva di lui e spe­rava vedere qualche prodigio fatto da lui. Già sappiamo infatti che, per Erode Antipa, Gesù passava come Giovanni il Battista risusci­tato (§ 357), e l'innata superstizione di colui che aveva assassinato il precursore era qui tanto più viva in quanto si riconnetteva col ri­cordo della sua propria vittima. Quando Erode ebbe Gesù alla sua presenza gli rivolse numerose do­mande, ma non ottenne neppure una risposta. Tuttavia se non parlò l'imputato, parlarono abbondantemente gli accusatori di prima che si erano presentati anche al nuovo tribunale: qui, davanti al Giudeo incoronato, essi avranno insistito piuttosto su accuse tipicamente giu­daiche, quali le pretese bestemmie di Gesù, le violazioni del sabba­to, le minacce contro il Tempio, la sua proclamazione d'essere pari a Dio. Il silenzio dell'imputato fu una disillusione per Erode; tutta­via egli aveva giuridicamente la vista più chiara degli accusatori, e nonostante la sua disillusione capi che tutte quelle accuse erano frut­to di livore e che l'imputato era innocente. Sarebbe stato quindi il caso di proclamarlo tale senz'altro, e di rinviarlo libero: ma la tron­fia alterigia del tetrarca volle la sua vendetta per la disillusione patita. Dalle guardie che lo circondavano Erode fece rivestire il silenzioso imputato di una veste sgargiante, uno di quegli indumen­ti vistosi usati in Oriente da persone insigni per occasioni solenni: forse era qualche capo di vestiario, consunto e fuori uso, che il te­trarca fece rimetter fuori per beffeggiare l'imputato, il quale così anche esteriormente figurava da re come si era proclamato. Perciò anche quella beffa con cui si concludeva l'inquisizione fatta da Erode mostrava che a giudizio dell'inquirente l'imputato era uomo, scioc­co e ridicolo bensì, ma tale da non offrire alcun pericolo: la beffa stessa già respingeva implicitamente la tesi degli accusatori, secondo cui l'imputato era un rivoluzionario e un sacrilego. Un delinquente siffatto sarebhe stato punito severamente, non già beffeggiato alle­gramente. Vestito in quella maniera, fra i clamori sarcastici degli accusatori che lo seguivano dappertutto, Gesù fu rinviato da Erode a Pilato. Luca, il solo evangelista che narra questo episodio, conclude dicendo che divennero amici fra loro Erode e Pilato in quello stesso giorno, giac­ché dapprima erano in ostilità fra loro (Luca, 23, 12).

§ 585. Quando Pilato vide che Erode rinviandogli Gesù non voleva immischiarsi nell'affare, s'impensierì e cominciò a capire che si trat­tava di cosa più seria ed imbrogliata di quanto gli fosse apparsa da principio. Tuttavia egli tenne ancora fermamente all'innocenza del­l'imputato: solo che si propose di trovar una via d'uscita cedendo in qualche parte agli accusatori. L'uomo di legge si ritirava alquan­to indietro, e si metteva sulla stessa linea dell'uomo politico. Rivolto quindi agli accusatori, tenne loro questo ragionamento: Mi recaste quest'uomo come pervertitore del popolo; ed ecco che io, interro­gando davanti a voi, nulla trovai di colpevole in quest'uomo di quan­to l'accusate. Ma neppure Erode, giacché lo rinviò a noi. Ed ecco, nulla degno di morte e' stato commésso da lui. Fin qui ha parlato l'uomo di legge, che ha il sentimento del ius. Ma subito appresso si fa avanti l'uomo politico e comincia a parlar lui, togliendo la pa­rola all'uomo di legge; Pilato infatti termina il precedente ragiona­mento con questa inaspettata conclusione: Dopo aver dunque sottoposto lui ad un castigo, (lo) rimanderò (libero). Il vero errore dialettico di questa conclusione sta in quel dunque; se né Pilato né Erode avevano trovato nulla di colpevole e nulla degno di morte, come giustificare quel dunque? Come legittimare quel castigo pro­messo, che certo non sarebbe stato una pena leggiera, ma la terribile flagellatio romana? Ma per il procuratore ciò che non era ammesso dal diritto era ri­chiesto dalla politica.

§ 586. Appena fatta questa concessione, Pilato di rincalzo ofirì agli accusatori un altro motivo per calmarsi. Era consuetudine, in occa­sione della Pasqua, che il procuratore liberasse un carcerato scelto dalla folla; parve pertanto a Pilato che questa volta sarebbe stata cosa equa e insieme opportuna far cadere la grazia su Gesù, cosicché la giustizia sarebbe rimasta salva (almeno in parte) e sarebbero an­che rimasti appagati gli accusatori. Ora, in quei giorni era detenuto un famigerato malfattore chiama­to Barabba (“figlio del padre”), nome abbastanza comune negli scrit­ti rabbinici: secondo poi alcuni codici evangelici, scarsi tuttavia di numero e d'autorità, il nome intero di quest'uomo sarebbe stato Gesu' Barabba, in cui Barabba sarebbe piuttosto un epiteto e Gesu' il vero nome. Costui in una sedizione popolare, suscitata forse da lui stesso, aveva commesso un omicidio: abitualmente, poi era un la­dro. Arrestato, stava in prigione attendendo la sentenza del procu­ratore. Pilato pertanto previde che, se avesse proposto agli accusa­tori la grazia o di Gesù o di Barabba, la scelta sarebbe certamente caduta su Gesù a causa del carattere palesemente infame di Barabba. Si presentò quindi sul limitare del pretorio e fece la proposta: Chi volete che vi dimetta, Barabba oppure Gesu', quello chiamato Cristo? e per meglio specificare aggiunse il re dei Giudei? La previsio­ne di Pilato, che la scelta sarebbe caduta su Gesù, dimostra ch'egli aveva una conoscenza assai difettosa, non tanto della nazione da lui govennata, quanto delle guide spirituali di quella nazione. La pro­posta infatti a bella prima fece impressione sulla folla degli accusa­tori, i quali stavano là davanti al pretorio a gridare ciò ch'era sug­gerito loro dai sommi sacerdoti e dagli anziani, loro guide spirituali; a quel gregge di servitori Gesù era certamente sgradito perché era sgradito ai loro padroni, ma anche per essi Barabba era tale furfante da meritarsi invece della grazia la più severa delle condanne. Ci fu una breve sosta fatta di perplessità, in cui il servitorame vociante non riusciva a decidersi tra la richiesta del fondo onesto della sua coscienza e la richiesta dei suoi inflessibili padroni.

§ 587. Durante questa sosta avvenne un incidente curioso. Mentre lilato credeva d'aver trovato la buona via d'uscita, ricevette priva­tamente un avviso di sua moglie, formulato in questi termini: Non aver nulla (da fare) con quel giusto, poiché molti sogni ho avuti oggi a cagione di lui. La notizia è data soltanto da Matteo, l'accu­rato segnalatore di comunicazioni divine avvenute per mezzo di so­gui (§ 239). Storicamente, poi, risulta che solo da poco tempo era stato permesso ai magistrati dell'Impero romano di recar seco le proprie mogli quando andavano a governare il territorio loro asse­gnato, mentre ai tempi della Repubblica la moglie non poteva se­guire il marito. A Pilato l'avviso della moglie dovette far molta impressione. Scet­tico riguardo a teorie filosofiche e a disquisizioni sulla verità e sull'errore, era certamente assai sensibile a quegli arcani segni che riscotevano tanto credito presso i Romani del suo tempo. Tutta Ro­ma sapeva benissimo che Giulio Cesare avrebbe evitato le 23 pugna­late delle fatali Idi di marzo se avesse dato ascolto alla moglie Cal­purnia che lo aveva pregato di non recarsi quel giorno nella curia, perché essa nella notte precedente lo aveva visto in sogno trafitto da molte ferite. Il caso di Calpurnia poté benissimo venire in mente a Pilato; ad ogni modo egli, oramai implicato nel processo di quel giusto, ricevette certamente dall'avviso della moglie una nuova conferma ad adoperarsi per quanto poteva in favore dell'imputato.

§ 588. Nel frattempo la sosta di perplessità era cessata, perché il servitorame vociante era stato ammaestrato dai suoi padroni e si era deciso ad obbedire ad essi più che al fondo onesto della sua coscien­sommi sacerdoti e gli anziani persuasero le folle che chiedessero Barabba e mandassero in rovina Gesu' (Matteo, 27, 20). Ricorninciava per tanto la battaglia, dopoché ambedue i combatten­ti avevano ricevuto rinforzi: il procuratore dal messaggio della mo­glie, la folla dalle istigazioni dei Sinedristi. Rivolgendosi di nuovo agli accusatori, Pilato ripeté la domanda: Chi volete che vi rimetta dei due? Tutti risposero concordi: Barabba! Meravigliato della scelta, Pilato non si preoccupò del delinquente prescelto ma dell'innocente scartato, e istintivamente richiese: Che farò dunque di Gesu', quello chiamato Cristo? GI'istigatori fecero gridare dalla folla: Sia crocifisso! Il procuratore insisté: Ma che cosa ha fatto di male? Evidentemente la sua mentalità giuridica esigeva una giustificazione alla gravissima pena richiesta; la giustificazione fu data, e consistette nel grido rinnovato più e più volte: Sia crocifisso! (Matteo, 27, 22-23). Da questo modo di ragionare Pilato rimase, non propriamente addo­lorato, ma piuttosto interdetto, sconcertato, nauseato. Con quegli schiamazzanti egli non riusciva a discutere: l'uomo di legge parlava una lingua che quelli non capivano. Ma anche materialmente sa­rebbe stato difficile farsi intendere, perché le alte e continue grida avrebbero ricoperto la voce dell'oratore. Pilato tuttavia volle egual­mente far conoscere ch'egli non condivideva affatto i propositi san­guinari manifestati da loro, e a tale scopo sostituì la comunicazione orale con un'azione rappresentativa percettibile con lo sguardo: fat­tosi portare un catino d'acqua si lavò le mani li in presenza della folla, mentre questa chiedeva a gran voce la morte dell'imputato. L'azione di lavarsi le mani assumeva spontaneamente un senso sim­bolico sia presso gli Ebrei (Deuteronomio, 21, 6-7) sia presso altri popoli antichi (Erodoto, 1, 35; Eneide, Il, 719; ecc.); in quel caso essa mostrava che il procuratore respingeva ogni responsabilità della domanda rivoltagli, qualunque fosse stato l'esito di tutto l'affare. In un momento poi in cui il clamore diminuì alquanto, egli per spie­gare anche meglio il senso simbolico gridò: Sono innocente di questo sangue! Voi (ve la) vedrete! Le sue parole furono udite da parecchi, e la risposta fu data con prontezza e con sicurezza assolute: Il san­gue di lui (sia) sopra noi e sopra i nostri figli!

§ 589. Questo augurio, o voto che fosse, invita ad una breve ed ele­mentare riflessione, che del resto non è estranea al processo di Gesù. L'augurio fu espresso concordemente sia dalle guide spirituali del giudaismo sia da una larga rappresentanza del popolo di Gerusalem­me: era dunque veramente una rappresentativa vox populi, un voto strettamente ufficiale che riassumeva i desideri sia del capo che del­le membra, sia del Sinedrio che del popolo. L'augurio o voto fu indirizzato certamente non al procuratore romano ma ad un giudi­ce ben più alto, ossia a quel giudice tante volte invocato nelle sacre Scritture d'Israele il quale solo poteva far si che quel discusso san­gue ricadesse anche sulle teste dei lontani figli. Solo quel sovreminen­te giudice poteva mutare la vox populi in una vox Dei, accoglien­do quel voto e mostrandolo avverato nella storia. Ora, se tutto ciò sia realmente avvenuto, lo storico odierno riscontrerà per conto suo rivolgendosi appunto alla storia, e non soltanto a quella antica ma anche a quella odierna. E ciò anche perché ai nostri giorni la questione è stata ripresa, e precisamente da quei figli di cui parla il voto. Non esistendo più oggi il Sinedrio che 19 secoli fa condannò Gesù ed espresse il voto che il sangue di lui ricadesse sui più lontani figli d'Israele, questi figli nel 1933 istituirono a Gerusalemme un tribunale ufficioso, com­posto di cinque insigni Israeliti, affinché riprendesse in esame l'an­tica sentenza del Sinedrio. Il verdetto pronùnziato da questo tribunale, con quattro voti favorevoli e uno contrario, fu che l'antica sentenza del Sinedrio doveva essere ritrattata, perché l'innocenza dell'imputato era dimostrata, la sua condanna era stata uno dei piu' terribili errori che gli uomini abbiano commesso, riparando il quale la razza ebraica ne sarebbe onorata.

§ 590. A questo punto del processo Pilato si ritrovò in condizioni di spirito assai contrastanti fra loro. Convintissimo personalmente dell'innocenza di Gesù, egli era stato rafforzato in questa sua convinzio­ne dal misterioso messaggio della moglie; dippiù, la puntigliosità e scontrosità del governatore trovava qui un'opportuna occasione per fare ai suoi govemati uno di quei dispetti di cui egli tanto si com­piaceva, e che questa volta sarebbe stato giustificato dalla legge e dall'equità. Ma, d'altra parte, la pertinacia degli accusatori invece di scemare era andata sempre crescendo, e se fosse stata contrad­detta in maniera totale e definitiva poteva facilissimamente accen­dere uno di quegli incendi popolari ch'erano il sommo spavento d'o­gni governatore romano della Giudea: la previsione di siffatta con­seguenza, nonché la paura di ricorsi inviati a Roma contro di lui, inducevano Pilato a riflettere con massima accortezza sulla decisione da prendere, e mentre annebbiavano sempre più ai suoi occhi l'au­stera visione della giustizia la sostituivano man mano con le lusin­ghiere fattezze del tornaconto politico. Egli quindi cercò di aggirare l'ostacolo, ricorrendo a ripieghi e cer­cando quasi d'illudere gli avversari mediante concessioni minorL In primo luogo, accolse la domanda della folla e graziò Barabba; inol­tre, sempre con la speranza di rendere gli accusatori più remissi­vi, fece eseguire la precedente promessa di sottoporre Gesù alla fla­gellazione.

§ 591. Presso i Romani la flagellatio precedeva ordinariamente la crocifissione, ma alcune volte costituiva una pena a sé e poteva essere inflitta in sostituzione della pena capitale. Era eseguita dai soldati. Il paziente veniva denudato e quindi legato per i polsi ad un palo, in maniera da offrire il dorso ricurvo. I colpi erano dati non già con verghe, riservate al cittadino romano condannato a morte, ma con uno strumento speciale, il fiagellum, ch'era una robusta frusta con mol­te code di cuoio, le quali venivano appesantite da pallottole di me­tallo o anche armate di punte aguzze (scorpione). Mentre presso i Giudei la flagellazione legale era contenuta entro un numero di col­pi ben fisso (§ 61), presso i Romani non era limitata da alcun nu­mero ma solo dall'arbitrio dei flagellatori o dalla resistenza del pa­ziente. Il flagellando, specialmente se destinato alla pena capitale, era considerato come un uomo senza più nulla di umano, un vuoto simulacro di cui la legge non aveva più cura, un corpo su cui si poteva infierire liberamente: e in realtà chi avesse ricevuto la flagella­zione romana era ridotto ad un mostro ripugnante e spaventoso. Ai primi colpi il collo, il dorso, i fianchi, le braccia, le gambe s'illividi­vano, quindi si rigavano di strisce bluastre e di bolle tumefatte; poi man mano la pelle e i muscoli si squarciavano, i vasi sanguigni scop­piavano, e dappertutto rigurgitava sangue; alla fine il flagellato era divenuto un ammasso di carni sanguinolente, sfigurato in tutti i suoi lineamenti. Spessissimo egli sveniva sotto i colpi; spesso vi lasciava la vita. Orazio, che pure non aveva un cuore tenerissimo, chiama lo strumento di questa pena horribile flagellum. A questa pena Pilato sottopose Gesù, pur mirando con questa nuova concessione a scamparlo dalla pena capitale.

§ 592. Terminata la flagellazione, Gesù rimase ancora per qualche tempo in balia dei soldati che lo avevano flagellato, e che fecero con lui quanto si usava fare con i condannati a morte. Verso co­storo, come già cancellati dall'albo del genere umano, era permesso qualunque lubidrio, qualunque lazzo brutale o beffa disumana: per­ciò quando i carnefici ebbero finito di flagellare Gesù e vollero rive­stirlo, chiamarono altri soldati della coorte e radunatisi allegramen­te attorno alla vittima, gli misero addosso una clamide rossa, di quel­le usate dai trionfatori dopo una vittoria; intrecciarono quindi una corona di spine, e gliela misero in testa a guisa di diadema; gl'infi­larono poi fra le mani legate ai polsi una canna, che doveva figu­rare come scettro di comando. Non si era proclamato egli re dei Giudei? Ebbene, apparisse re an­che allo sguardo di essi soldati, col suo scettro, col suo diadema, con la sua clamide. E con tanto maggior gusto si dovevano sfogare in que­gli schemi quei soldati, in quanto essendo non legionari ma auxilia­ res delle coorti dovevano esser reclutati in massima parte tra popo­lazioni vicine ma ostili ai Giudei, specialmente tra i Siri e soprat­tutto fra i Samaritani nemicissimi dei Giudei ma fedelissimi ai Roma­ni (cfr. Flavio Gius., Guerra giud., Jt, 52, 69, 96; ecc.). Per tutti costoro era un divertimento davvero gustosissimo ricoprire di beffe e ludibri un re di quei cialtroni di Giudei. Come ai trionfatori militari si tributavano particolari onoranze, cosi quei beffeggiatori cominciarono a sfilare avanti a Gesù, inginocchian­dosi davanti a lui e ripetendogli umili ed ossequiosi: Salute, re dei Giudei! Ma subito appresso, rialzatisi in piedi, gli sputarono in fac­cia e sfilatagli la canna di tra le mani gliela sbattevano sulla corona di spine.

§ 593. Fra tutti questi fatti era passato parecchio tempo; dalla prima presentazione di Gesù a Pilato avvenuta all'alba (§ 576), erano trascorse non meno di quattro ore fra discussioni del governatore con la folla, invio ad Erocle e ritorno, flagellazione e schemi dei soldati, e a questo punto si doveva essere fra le nostre dieci o undici ore antimeridiane. Intanto Pilato rifletteva sul modo di fare un ultimo tentativo in favore di Gesù, mentre la folla aspettava fuori del pre­torio clamorosa e pertinace. Agli schemi inflitti all'imputato dopo la flagellazione Pilato non at­tribuì importanza alcuna, non avendoli né comandati né proibiti; egli invece fece assegnamento sull'effetto giuridico e morale della flagellazione. Quando Gesù, sfigurato dai colpi e mascherato dagli indumenti burleschi, fu condotto di nuovo alla presenza del procu­ratore, egli decise d'impiegare quest'ultimo argomento sperando sul­l'impressione che avrebbe fatto quel sanguinolento cencio umano; perciò si fece seguir da lui uscendo fuori del pretorio, e preannunciò la sua comparsa alla folla: Ecco, ve lo conduco fuori affinché cono­sciate che nessuna colpa ritrovo in lui! Gesù, malfermo sulle gambe e vacillante nei passi, fu sospinto sul li­mitare del pretorio e comparve, come dice il testimonio oculare (Giov., 19, 5), portando la corona di spine e la veste purpurea. Al­lora, additandolo ai suoi inflessibili e urlanti accusatori, Pilato escla­mò: Ecce homo! In greco quest'esclamazione equivaleva al nostro: “Ecco quel tale”, e non aveva certo un senso di commiserazione; tuttavia, implicita­mente, invitava gli accusatori a riflettere se era ancora il caso di in­veire tanto contro un uomo ridotto in quelle condizioni. E qui è opportuno ricordare che chi invitava era un adoratore di Giove e di Marte, mentre coloro ch'erano invitati erano gli adoratori dello spi­rituale Dio Jahvè.

§ 594. La scena che avvenne dopo questo invito è descritta dal te­stimonio con parole che non potrebbero esser sostituite: Quando per­tanto lo videro i sommi sacerdoti e gl'inservienti, gridarono dicen­do:”Crocifiggi! Crocifiggi!”. Dice ad essi Pilato:”Prendetelo voi e crocifiggete, perché io non ritrovo in lui colpa!”. Risposero a lui i Giudei:”Noi abbiamo una legge, e secondo la legge deve morire perché si fece figlio di Dio!” (Giov., 19, 6-7). Le parole di Pilato non significavano affatto che egli permetteva agli accusatori di cro­cifiggere liberamente l'imputato; erano invece un nuovo invito a ri­flettere ancora una volta che egli non poteva in coscienza pronunziare la sentenza capitale richiesta, e quindi l'imputato non poteva esser messo a morte perché gli accusatori non ne avevano facoltà. Gli accusatori penetrarono sottilmente nel pensiero del procuratore e con la loro replica, che si appellava alla Legge ebraica, attirarono il magistrato su un campo non suo, quello religioso, nel quale Roma era stata sempre rispettosissima con i sottoposti Giudei. In sostanza, essi fecero balenare a Pilato la minaccia che, se non avesse consentito alla pena capitale, egli sarebbe stato considerato come favoreggiatore di empi e di sacrileghi. Anche qui la narrazione dell'evangelista testimone non può essere sostituita: Quando pertanto Pilato udì questo discorso, s'impaurì an­che piu'. Ed entrò nuovamente nel pretorio e dice a Gesu': “Donde sei tu?”. Probabilmente lo sconcertato Pilato s'aspettava dalla rispo­sta di Gesù qualche nuovo elemento per allargare e prolungare il processo e qualche nuova obiezione contro gli accusatori. Ma alla nuova domanda Gesù non rispose affatto. Gli dice dunque Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho potestà di dimetterti e ho potestà di crocifiggerti?». Rispose Gesu':”Non avresti nessuna potestà con­tro di me, se (ciò) non ti fosse stato dato dall'alto; per questo chi mi ha consegnato a te ha un maggior peccato”. Dopo questa risposta, Pilato si ritrovò del tutto solitario nella sua resistenza. L'imputato non gli offriva alcun aiuto per la sua propria salvezza, mentre i Giudei s'irrigidivano sempre più nel richiederne la condanna; egli, il procuratore, era sostenuto nella sua resistenza solo dalla convinzione che l'imputato era innocente e dal desiderio di non cedere ai Giudei, ma la prima ragione non aveva alcuna efficacia sugli accusatori e la seconda non doveva essere comunicata per prudenza ad essi. Egli quindi, titubante, non vedeva maniera di uscire da quella situazione pur non volendo cedere; il quale stato d'animo è riassunto dall'evangelista con quelle generiche parole: Da questo (momento) Pilato cercava di dimetterlo (Giov., 19, 2). Gli accusatori intravidero il pericolo, e per scongiurarlo ricorsero a un argomento che non poteva non essere efficacissimo sul procuratore; si dettero cioè a gridargli: Se dimetti costui, non sei amico di Ce­sare! Chiunque si fa re, contraddice a Cesare!

§ 595. Davanti a quel grido, Pilato, uomo di carne ed ossa, magi­strato romano ignaro di qualunque preoccupazione religiosa e solle­cito soltanto della sua posizione a Roma e della sua carriera poli­tica, non poteva rimaner titubante ancora per lungo tempo; tutta­via non era ancora disposto a cedere. Seccatissimo di vedersi sempre più sopraffatto dai quei suoi odiati sottoposti che strillavano come scimmie, irritato da tutto lo svolgimento del processo, sperò ancora una volta nell'ignoto e volle affron­tare direttamente la conclusione del processo parlamentando di nuovo con gli accusatori. Poco prima essi avevano minacciato di considerarlo come favoreggia­tore di empi e sacrileghi se avesse liberato Gesù. Ma l'imputato non si era forse proclamato re spirituale degli accusatori stessi? Egli, go­vernatore politico, non voleva entrare in questioni religiose; ma punto per questa ragione non poteva agire contro chi si attribuiva una sovreminenza che non aveva nulla di politico ed era puramente religiosa. Sapeva forse egli se, dietro l'imputato, non venisse una lun­ga schiera di seguaci una specie di confraternita come quella degli Esseni (§ 44) - dispostissmi ad accettare quella sua regalità reli­giosa? Poteva egli uccidere il capo di una confraternita puramente religiosa e poi mettersi a perseguitare tutti i membri? No: egli, da magistrato laico neutrale, era in obbligo di rispettare e di far ri­spettare la regalità religiosa dell'imputato. Quest'argomento, nel pen­siero di Pilato, poteva ancor salvare Gesù, ed egli vi fece ricorso co­me all'ultima speranza. Era l'ora quasi sesta (Giov., 19, 14), ossia un poco prima del nostro mezzogiorno. Prevedendo di venire a una conclusione e di pronun­ziare la sentenza finale, Pilato fece impiantare fuori del Lithostrotos, alla presenza degli accusatori, il suo “tribunale” con il seggio cu­rule (§ 577); quindi uscì fuori conducendosi appresso l'imputato, e seduto che fu sul seggio curule riapri la discussione. Additando Gesu', egli esclamò: Ecco il vostro re! Che pensavano gli accusatori di que­sta regalità dell'imputato? Regalità politica certamente non era, co­me risultava indubbiamente al magistrato che se ne intendeva. Era regalità religiosa? Di ciò Pilato non s'intendeva e non voleva immi­schiarvisi. Gli rispondessero quindi gli accusatori. Le parole del procuratore sonarono per la folla come un sarcasmo; tutti risposero a gran voce: Togli via! Togli via! Crocifiggilo! Pilato insistette: Crocifiggerò il vostro re? La risposta questa volta fu da­ta, come espressamente ricorda l'evangelista testimone, dai sommi sacerdoti i quali gridarono: Non abbiamo re se non Cesare! Pilato si vide allora chiusa anche l'ultima strada. La regalità dell'im­putato non poteva essere presa suI serio né dal magistrato né dagli accusatori. Costoro, e precisamente i più insigni fra essi, non rico­noscevano alcuna regalità a Gesù e proclamavano di avere per re uni­co ed esclusivo il Cesare di Roma: evidentemente il rappresentante del Cesare di Roma non poteva esprimere un parere diverso, come per non urtare i sentimenti religiosi degli accusatori doveva croci­figgere quel falso re. Tale, a un dipresso, fu il ragionamento che Pilato dovette fare den­tro di sé: e allora, conclude l'evangelista, egli lo consegnò loro af­finché fosse crocifisso.

§ 596. Finalmente gli accusatori furono appagati; ma fu appagato anche un loro voto a cui li per li non dettero molto peso, sebbene storicamente avesse quasi tanta importanza quanto il loro preceden­te voto che il sangue di Gesù ricadesse sui lontani figli (§ 589). Per riuscire nel loro intento essi proclamarono di non aver re se non Cesare: e ciò proclamarono precisamente i sommi sacerdoti, i quali conoscevano le sacre Scritture ebraiche, e senza dubbio aveva­no letto ivi con quanta “gelosia” il Dio Jahvè teneva ad essere l'uni­co re di Israele e con quanta ritrosia aveva tollerato che fosse eletto un uomo come primo re israelita nella persona di Saul (I Samuele, 8); adesso invece quei rappresentanti ufficiali d'Israele, non solo non pensarono affatto al loro re divino, non solo non si rammentarono dei loro antichi re umani o dei loro superstiti discendenti, ma entu­siasticamente proclamarono loro re colui che si chiamava Tiberio Claudio Nerone Giulio Cesare, straniero di razza, incirconciso di car­ne, idolatra di spirito. Ebbene, furono appagati anche in questo: eb­bero effettivamente per re Tiberio e i suoi successori, i quali però esercitarono in pieno la loro sovranità solo un quarantennio più tar­di, allorché distrussero per sempre il Tempio, la città, e la nazione di cotesti loro sudditi. Lo storico odierno farà bene a riflettere anche su questi avvenimen­ti, tanto più che sono tali realtà storiche da non poter essere richia­mate in dubbio da nessuna teoria critica.

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06/08/2012 20:59

La crocifissione e la morte

§ 597. La sentenza oramai era stata data, e non restava che ese­guirla. Il rappresentante di Roma aveva inflitto seconda la richiesta degli accusatori una pena romana, poiché quando i Giudei avevano gri­dato a Pilato: Crocifiggi! Crocifiggi! avevano chiesto in realtà una pena che originariamente non era giudaica ma romana. Nell'impu­tazione di bestemmia fatta a Gesù nel Sinedrio la pena giudaica nor­male sarebbe stata la lapidazione, che difatti fu applicata a Stefa­no poco dopo; tuttavia la crocifissione, ai tempi di Gesù, era entrata già da molti anni negli usi del giudaismo palestinese, introdottavi al tempo delle sue prime relazioni con i Romani, e specialmente dal 63 av. Cr. quando Pompeo Magno espugnò Gerusalemme e dette un nuovo assetto politico a tutta la regione; prima di quell'epoca l'ebrai­smo aveva conosciuto l'impalamento, pena comunissima negli antichi imperi di Babilonia e d'Assiria e da così più tardi derivò la vera cro­cifissione. Ma anche nella Roma antica la crocifissione non era stata originaria bersì importata; prima che in Roma la crocifissione era praticata in Grecia, in Egitto e in molte altre regioni mediterranee, ove era stata diffusa probabilmente dai Fenici, arditi navigatori e in­stancabili commercianti. Roma ebbe sempre della crocifissione un vero spavento: è il meno che si possa dire, anche restringendosi alle frasi frasi impiegate da Cice­rone quando accenna ad essa nei suoi discorsi contro Verre la chiama ora “supplizio il più crudele e il più tetro”, ora “estremo e sommo supplizio della schiavitù”, o in altre maniere somiglianti. Era infatti la pena riservata ordinariamen­te agli schiavi, e solo per delitti assai gravi; tanto che lo schiavo era talvolta chiamato sarcasticamente “portatore di croce”, e uno di essi poteva esclamare comicamente: So che la croce sarà il mio sepolcro. Là sono collocati i miei antenati, padre, nonno, bi­snonno, trisnonno (Plauto, Miles gloriosus, 2, 4, 372-373). Nessun cittadino romano poteva essere legalmente crocifisso secondo l'opinio­ne di Cicerone, il quale esclama inorridito: Che un cittadino roma­no sia legato, è un misfatto; che sia percosso è un delitto; che sia ucciso, è quasi un parricidio; che dirò, dunque, se è appeso in croce? A cosa tanto nefanda non si può dare in nessun modo un appellativo sufficientemente degno! (In Verrem, II, 5, 66). Tuttavia, in linea di fatto, risulta che più d'una volta cittadini romani furono crocifissi; e anche in linea di diritto sembra che i liberti e taluni provinciali, sebbene cittadini romani, potessero ricevere questo estremo supplizio.

§ 598. Prescindendo da forme più antiche, la croce ai tempi di Gesù aveva le tre seguenti forme: la prima a sinistra era chiamata “croce immissa” o capitata, rife­rendosi al tratto più corto, quello superiore, che faceva da “capo”; la seconda era la “croce commissa”, ed era l'unica che avesse tre soli bracci essendo priva di “capo”; la terza, poco in uso, era la croce decussata o di sghembo, quella detta comunemente “croce di S. Andrea”.

Fra le due prime forme, la croce immissa ha molto maggiore probabilità della croce commissa di essere stata impiegata per Gesù (§ 606). In essa si distinguevano due parti il palo verticale, chiamato stipes o staticulum, da piantarsi in terra; e il palo orizzontale, chiamato patibulum o antenna, che soltanto in un secondo tempo si univa col palo verticale. Ma il palo verticale non era totalmente liscio e piano: verso la sua metà sporgeva un tozzo e robusto zoccolo, chia­mato alla greca pegma o alla latina sedile, su cui veniva a poggiarsi a cavalcioni il corpo del crocifisso; molto esattamente Giustino mar­tire e Tertulliano rassomigliano questa sporgenza a un corno in ge­nere e più particolarmente a quello del rinoceronte. Questo sostegno, del resto, era assolutamente necessario: sarebbe stato infatti impos­sibile che il corpo del condannato si reggesse sulla croce con i quattro chiodi soltanto, perché le mani trafitte si sarebbero strappate ben presto per lo sproporzionato peso, e la ragione è cosi evidente che artisti cristiani antichi raffigurarono la croce di Gesù con un suppe­daneum, su cui poggiano e sono inchiodati i piedi; questo suppeda­neum, di cui non esiste alcun accenno nei documenti antichi, è ar­cheologicamente falso e all'atto pratico neppure sarebbe bastato a so­stenere il corpo, tuttavia lo sbaglio archeologico dimostra la necessità del sedile, archeologicamente giusto.

§ 599. Pronunciata una sentenza di crocifissione, si preparava - se già non era pronto - il luogo dell'esecuzione piantandovi il palo ver­ticale o stipes, privo ancora di quello orizzontale. Il palo verticale ordinariamente non era alto infatti i piedi del condannato resta­vano sollevati dal terreno di solito per l'altezza d'un uomo o anche meno, e perciò l'intero palo non poteva essere più alto di 4 o 5 metri. Quanto al luogo, se ne sceglieva uno assai in vista e frequentato, per­ché si contava sull'effetto esemplare che lo spettacolo doveva produr­re su schiavi ed altri abietti individui punibili di croce; si preferiva­no perciò luoghi di gran transito, subito fuori di città ma vicino a qualche porta delle mura, e possibilmente framezzo a tombe ciò è quanto risulta, oltreché da altre testimonianze, anche dal beffardo racconto della matrona di Efeso di Petronio l'Arbitro (Satiricon, 111-112). A Roma, per esempio, il luogo ordinario delle crocifissioni era il Campus Esquilinus, subito fuori delle mura di Servio Tullio e vicino alla Porta Esquilina: in questo campus, corrispondente circa all'odierna piazza Vittorio Emanuele, erano anche mol­tissime tombe di patrizi e di schiavi; ivi in alto volteggiavano a frot­te i tetri uccelli dell’Esquihno ricordati da Orazio, attirativi dai ca­daveri dei crocifissi che rimanevano insepolti. La crocifissione era preceduta dalla flagellazione del condannato, la quale talvolta gli era inflitta lungo il cammino per recarsi al luogo del supplizio. Il condannato era affidato ai soldati, di solito quattro, comandati da un centurione che aveva l'ufficio di riscontrare la morte del crocefisso. Sulle spalle del condannato si poneva, e talvolta si legava, il palo orizzon­tale della croce; un servo di giustizia portava davanti a lui una tavoletta su cui era scritto in caratteri ben visibili il delitto del condannato che aveva motivato la sentenza: talvol­ta, invece, la tavoletta veniva appesa al collo del condannato stes­so. Avviatosi il corteo verso il luogo del supplizio, si passava a pre­ferenza per le strade più popolose e frequentate, dice in propositò Quintiliano), sempre per dar pubbli­cità all'esecuzione. Lungo il cammino il condannato, anche se non riceveva la flagella­zione, era fatto egualmente segno ad ogni sorta di ludibri da parte della plebaglia incuriosita e inferocita: il crocifiggendo non era più un uomo, ma un fuorilegge e un immondezzaio ambulante.

§ 600. Giunto sul luogo del supplizio, vicino al palo già piantato in terra, il condannato veniva spogliato delle sue vesti, se non era già nudo per aver ricevuto la flagellazione lungo la strada. La nudità to­tale del crocifiggendo era d'uso comune presso i Romani: può darsi tuttavia che, presso qualche popolo più riguardoso su questo punto, il condannato venisse ricoperto alla meglio per pudore col primo straccio che capitava Iì per lì sotto mano. Certamente i Giudei era­no più riguardosi dei Romani e quindi è probabile che la loro delicatezza fosse rispettata dai loro governan­ti: ma la cosa non è storicamente accertata. Così spogliato il condannato veniva disteso a terra supinamente, in modo che sotto di sé lungo le spalle e le braccia aperte avesse il pa­lo orizzontale della croce da lui portato: in tale posizione le mani venivano inchiodate al palo. Compiuto questo primo inchiodamen­to, il condannato - probabilmente per mezzo di una fune che lo ri­cingeva al petto e scorreva poi sull'estremità del palo verticale pian­tato in terra - veniva elevato sul palo verticale in modo da essere collocato a cavalcioni sul sedile. Soltanto se si ha presente l'insie­me di questa manovra si possono spiegare adeguatamente certe frasi usate spesso dagli scrittori romani, quali ascendere crucem, excurrere in crucem, inequitare cruci, o sarcasticamente requiescere in cruce; inoltre, che questa “ascesa” sulla croce fosse fatta dopo che il condannato era già parzialinente inchiodato è dimostrato fra altro dalla frase: patibulo suffixus, crudeliter in crucem erigitur (Fir­mico Materno), ove patibulum designa con esattezza tecnica il palo orizzontale. Sollevato il condannato in questa maniera, il palo orizzontale era congiunto con quello verticale per mezzo di chiodi o di corde; infine s'inchiodavano i piedi. Naturalmente per questa inchiodatura s'im­piegavano due chiodi, non uno solo come ha immaginato spessissi­mo l'arte cristiana, giacché i piedi per la posizione a cavalcioni presa dal condannato finivano per stare quasi ai due lati del palo verti­cale e non avrebbero potuto sovrapporsi l'uno su l'altro; quest'ultima inchiodatura si faceva facilmente dai carnefici ritti in terra, perché come vedemmo i piedi del crocifisso erano all'altezza di una persona.

§ 601. Ridotto in tale stato, il crocifisso aspettava la morte. Esposto qual era in un luogo frequentato, egli vedeva per ore e ore passare sotto di sé gente. d'ogni fatta: patrizi che non lo degnavano d'uno sguardo; bambini che s'incuriosivano del suo corpo livido e tumefatto; mercanti affaccendati che si soffermavano un momento di sfuggita; plebei e schiavi che si divertivano a spiare i segni delle sue sofferenze. Qualche segno di compassione poteva egli scorgere tutt'al più sul viso di qualche parente o di qualche vecchio complice di delitti che s'intrattenesse lì dappresso: ma era sempre una compassione sterile, perché i soldati che stavano di guardia ai piedi del crocifisso impedi­vano a chiunque di avvicinarsi per recare un sollievo qualsiasi; l’uni­ca cosa che potesse raggiungere quell'avanzo umano inchiodato sulla croce era la sassata lanciatagli da lontano per ludibrio dal monello o per vendetta dal rivale in furti. La morte poteva avvenire per dis­sanguamento, per febbre vulneraria, per gli strazi della fame e più ancora della sete, o per altre cause fisiologiche. Spesso non si faceva attendere molto, specialmente a causa della spossatezza prodotta dalla terribile flagellazione che aveva preceduto la crocifissione; ma spesso organismi più robusti resistevano giornate intere sulla croce, spegnendosi a poco a poco in una spaventosa agonia. Talvolta i carnefici acceleravano a bella posta la morte o producendo con un fuoco un denso fumo sotto la croce, o trapassando con un colpo di lancia il corpo del crocifisso, oppure praticandogli il “crurifragio” romano che consisteva nello spezzare i femori dell'agonizzante a colpi di dava. Avvenuta poi la morte, nei tempi più antichi il cadavere rimaneva ancora sulla croce fino alla decomposizione, e fino al totale scempio cbe ne facevano i cani saltando dal basso e gli uccelli calando dal­l'alto; invece, dai tempi circa d'Augusto, si concedeva ordinariamen­te il cadavere ad amici o parenti che l'avessero richiesto alle autorità per seppellirlo. Quanto si è visto fin qui erano le norme generali seguite per tutte le crocifissioni, e furono seguite anche per la crocifissione di Gesù.

§ 602 Quando il procuratore ebbe pronunziato la sentenza e fissatc il suo testo nella tavoletta (titulus; § 599), essa acquistò valore uffi­ciale: come doveva esser trascritta negli archivi del governo per ve­nir poi comunicata all'imperatore di Roma, così anche doveva esser subito eseguita. Del resto l'eseguire una sentenza di crocifissione ri­chiedeva pochi preparativi: un palo verticale stava sempre pronto sul luogo destinato a tale supplizio, o in caso diverso si piantava in pochi minuti; il palo orizzontale da addossare al condannato si pre­parava con pochi colpi d'ascia dati ad una trave qualunque; quindi non restava che radunare la scorta di soldati, affidarle il condannato, ed avviarsi al luogo stabilito. Anche il luogo scelto per la crocifissione di Gesù fu conforme alle nor­me già viste. A settentrione della città, appena fuori le mura, c'era una piccola sporgenza rocciosa, alta pochi metri dal terreno circo­stante: a causa dell'aspetto che aveva questo rialzo, la gente lo chia­mava pittorescamente il Cranio, ossia chi parlava latino diceva Cai­varia e chi parlava aramaico diceva Golgota (ebraico Gulgoleth). Per crocifissioni quel luogo era opportunissimo, giacché la sua piccola altezza bastava a mettere in piena vista il condannato, ed essendo a brevissima distanza da una porta della città passava là sotto molta gente: oltre a ciò, lì presso al Cranio, c'era una tomba e forse più d'una (§ 617), e anche questa circostanza s'accordava con la norma di crocifiggere in luoghi destinati a sepoltura. La città già dal secolo i dopo Cr. si è estesa continuamente verso settentrione, e le radicali trasformazioni ch'essa ha ricevuto nel seco­lo Il hanno fatto scomparire sia il rialzo del Cranio, sia le vicine mura della città e il fossato che le separava dal Cranio i lavori fatti nel secolo IV da Costantino per la costruzione della basilica del Santo Sepolcro livellarono anche più tutta l'area, salvo una piccola porzione del Cranio incorporata e racchiusa nella costruzione. Tut­tavia il nome del rialzo, con la tenacia caratteristica alla toponomastica orientale, si è conservato ancora: pochi anni fa esso è stato sorpreso, sotto la forma araba di Ras (« testa »), nel linguaggio di vecchi indigeni del quartiere per designare la zona circostante alla basilica. Questo era il luogo a cui fu avviato Gesù per esservi crocifisso. Dal punto di partenza, ch'era la fortezza Antonia, il cammino non sarebbe stato lungo perché anche a quei tempi non poteva superare un chilometro seguendo la via più breve; tuttavia non solo quel giorno le strade erano affollatissime per la solennità pasquale, ma probabil­mente si segùirono a bella posta le vie più lunghe e frequentate per la norma già vista di dare la massima pubblicità all'esecuzione. I più interessati a ciò erano i sommi sacerdoti e gli altri Sinedristi, che seguivano trionfanti il condannato e non si sarebbero lasciata sfug­gire l'occasione di prolungare davanti alla folla il trionfo di se stessi e l'umiliazione di lui.

§ 603. Tuttavia anch'essi ebbero, fin da principio, una grave ama­rezza. Per recarsi al luogo del supplizio il corteo fu formato dai sol­dati di scorta, dal principale condannato ch'era Gesù, e da due altri condannati i quali erano due volgari ladroni e per quell'occasione venivano condotti al supplizio; ogni condannato era accompagnato regolarmente dalla sua tavoletta, la quale proclamava pubblicamente il delitto da lui commesso. La tavoletta di Gesù era scritta nelle tre lingue più impiegate nella regione, ossia in ebraico (aramaico), greco e latino, e mostrava in sostanza (§ 122) questo testo dettato da Pilato stesso: Gesu' il Nazareno, il re dei Giudei. I vigili Sinedristi lessero fugacemente questo testo lungo il cammino, e anche più nitidamen­te lo contemplarono quando la tavoletta fu apposta sulla croce di Gesù; da accurati giuristi quali erano, essi vi riscontrarono un enor­me errore: quel condannato veniva crocifisso non già perché fosse il re dei Giudei, come sembrava risultare dalla tavoletta, ma perché si era proclamato il re dei Giudei senza essere effettivamente tale. Punti sul vivo, essi corsero solleciti dal procuratore e con molta pre­mura gli fecero rilevare l'errore, che doveva assolutamente essere cor­retto nell'interesse stesso del governo: il buon popolo poteva offen­dersi a leggere in un documento ufficiale ch'era stato crocifisso il re dei Giudei, tanto più che un'ora prima quello stesso devotissimo po­polo aveva dichiarato pubblicamente e solennemente di riconoscere per suo unico ed amato re il Cesare di Roma (§ 595). Dicevano pertanto a Pilato i sommi sacerdoti dei Giudei: « Non scri­vere - Il re dei Giudei - bensì che egli disse - Sono re dei Giudei ». Rispose Pilato:”Quel che ho scritto ho scritto” (Giov., 19, 21-22). Pi lato ritrovava in parte il suo carattere; adesso che non aveva più paura di denunzie a Roma, si vendicava della sconfitta ricevuta e rispondeva con la scontrosità e il dispetto alle esibizioni di lealismo politico fattegli dai Sinedristi. E questa fu la prima amarezza provata dai trionfatori; i quali in tutto quel giorno, a rileggere la tavoletta ufficiale redatta dal rappresen­tante di Cesare, si sentirono ripetere dallo scritto di lui che Gesù moriva in croce perché era effettivamente il re dei Giudei.

§ 604. Partito dall'Antonia, il corteo avanzava con lentezza lungo le vie affollate della città festante. Molti di coloro che avevano formato la turba vociante davanti al pretorio, dovevano essere tornati alle loro case per fare i preparativi della cena pasquale i Sinedristi, non avendo più bisogno delle loro grida, li avevano rimandati liberi. Tut­tavia parecchi maggiorenti seguirono il corteo, per esser sicuri che tutto procedesse bene e si venisse una buona volta alla conclusione finale. I lazzi e i sarcasmi che la plebaglia riserbava ai condannati non mancarono certamente lungo la strada, ma i ludibri più squisi­tamente feroci furono indirizzati a colui che il gesto sprezzante dei inaggiorenti additava a preferenza alla ferocia del volgo: il Rabbi galileo, molto più che i due ladroni, era degno di quegli osceni dileggi. Gesù, caricato del palo trasversale, camminava a stento. Si era sul mezzogiorno (§ 595), e da prima della mezzanotte egli era passato attraverso un'incessante serie di prove fisiche e morali d'incompara­bile violenza: prima l'amoroso e doloroso congedo dagli Apostoli nel cenacolo, poi il Gethsemani, quindi l'arresto, il processo davanti al Sinedrio, i ludibri in casa di Caifa, il processo davanti a Pilato, infi­ne la spaventosa flagellazione, gli avevano tolto ogni residuo di forze. Sotto il peso della trave egli vacillava, incespicava ad ogni passo, po­teva stramazzare da un momento all'altro per non rialzarsi più. Il centurione che comandava la scorta s'impensierì di questo fatto, il quale poteva far sì che il compito a lui affidato o non fosse condotto a termine oppure subisse un ritardo enorme che gli sarebbe stato rini­proverato. E allora ricorse al ripiego della “requisizione”, che già conosciamo (§ 327, nota prima). Si trovò a passare a caso di là un certo Simone di Cirene, che Marco ama segnalare ai suoi lettori di Roma come podre di Alessandro e di Rufo (§ 133); veniva egli dalla campagna, ove certamente era stato a lavorare (§ 537), ed era indirizzato a casa sua; ma il centurio­ne, data la necessità, lo “requisi” e gli comandò di portare il palo che Gesù non poteva più portare. Nulla c'induce a credere che que­sto Simone conoscesse Gesù o gli fosse discepolo, e quindi l'ordine ri­cevuto dovette essere tutt'altro che gradito al “requisito”: se però suo figlio Rufo diventò più tardi persona insigne nella cristianità di Roma e se la stessa moglie di Simone fu chiamata da Paolo per venerazione col nome di madre (§ 133), si può condudere che il servi­zio prestato a malincuore a Gesù produsse, in maniera a noi scono­sciuta, ottimi effetti.

§ 605. Ma Simone non fu il solo ad aiutare Gesù: un altro conforto, questa volta spontaneo, gli venne da donne e chi lo racconta è il solo Luca, l'evangelista della pietà femminile (§144). Forse proprio quan­do Gesù fu scaricato del palo e si raddrizzò un pochino rinfrancato, scorse fra la moltitudine ostile od oziosa che lo seguiva anche un gruppo di donne che facevano cordoglio su lui piangendo e lamentan­dosi: erano figlie di Gerusalemme, cioè cittadine della capitale, sebbene con esse si fossero potute unire talune di quelle donne galilee che seguivano ordinariamente Gesù (§ 343). Da una notizia rabbinica (Sahnedrin, 43 a) sembrerebbe risultare che si era formata in Ge­rusalemme come una pietosa associazione di nobili donne per assistere in qualche modo i condannati a morte, in particolare somministran­do loro liberalmente del vino con un po d'incenso mescolatovi den­tro, ch'era stimata bevanda stupefacente e anestetica: forse quelle gerosolimitane che andarono incontro a Gesù appartenevano a tale associazione, e anche più cordialmente avranno compiuto l'atto beni­gno se già conoscevano almeno di fama Gesù. La loro pietà fu contraccambiata da Gesù con pietà di egual genere. Spingendo nuovamente lo sguardo verso la prossima distruzione di Gerusalemme (§§ 454, 526), Gesù contemplò lo strazio che avrebbero sofferto le donne e le madri durante quella catastrofe, e si accomunò per pietà al dolore materno preammonendone le future vittime; per­ciò disse alle sue consolatrici: Figlie di Gerusalemme, non piangete su me, piuttosto su voi stesse piangete e sui vostri figli, perché ecco vengono giorni in cui si dirà:”Beate le sterili, e i ventri che non generarono e le mammelle che non nutrirono!”. Allora si a dire alle montagne: « Cadete su noi! » e alle colline: « Ricopriteci! » (cfr. Osea, 10, 8). Poiché se in un legno umido si fanno queste cose, in quello secco che avverrà? (Luca, 23, 28-31). Se nel condan­nato innocente avvenivano quei fatti che le pie donne deploravano in quel giorno, che cosa sarebbe avvenuto un quarantennio più tardi quando la catastrofe di Gerusalemme avrebbe travolto una nazione peccatrice, un popolo aggravato d'iniquità, una stirpe di malvagi, figli di perdizione, come si era espresso Isaia (1, 4)? Quando il corteo giunse al luogo del Cranio si procedette senz'altro alla crocifissione dei condannati. A Gesù, e certamente anche ai due ladroni, fu offerto del vino mescolato con mirra ch'era giudicato adatto a intorpidire i sensi; ma egli appena vi ebbe apposte le lab­bra lo rifiutò, volendo con piena coscienza bere fino all'ultima goccia il calice assegnatogli dal Padre celeste.

§ 606. Quindi tutti e tre furono spogliati delle loro vesti; è possihile, per le ragioni gia viste, che si lasciasse un piccolo riparo al loro pudo­re (§ 600). Le vesti dei crocifissi erano un provento dei soldati di guardia, che se le spartivano fra loro. Così fecero anche quella volta con Gesù, e il testimone oculare è in grado di narrare esattamente come avvenne la spartizione. Gli indumenti usuali di un giudeo erano formati da due principali capi di vestiario: l'indumento esterno o mantello e quello interno o tunica. Il mantello era formato da più pezze di stoffa cucite insieme: la tunica invece poteva essere priva di cuci­ture perché intessuta dall'alto in basso tutta d'un pezzo: tale era il caso della tunica del sommo sacerdote di cui parla Flavio Giuseppe (Antichità giud., II, 161), e tale fu il caso della tunica di Gesù. I soldati pertanto, quand'ebbero crocifisso Gesu', presero le vesti di lui e (ne) fecero quattro parti, una parte per ciascun sol­dato, e (presero) la tunica. Ma la tunica era priva di cuciture, intessuta dall'alto d'un pezzo. Dissero pertanto fra di loro:” Non la dividiamo, ma tiriamola a sorte di chi sarà” (Giov., 19, 23-24). Il mantello infatti poteva, senza grave scapito, esser di­viso lungo le sue cuciture; ma la tunica tutta d'un pezzo, avrebbe perduto la massima parte del suo pregio, qualora fosse stata tagliata in quattro parti. Perciò i soldati s'accordarono nell'assegnarla a chi di loro fosse stato favorito dai dadi, che essi avevano por­tati con sé per ingannare le ore di guardia alle tre croci. Ma in ciò che fecero allora i soldati, l'evangelista scorge l'avveramento della profezia messianica contenuta nel Salmo 22, 19 (ebr.) che dice:”Si spartirono i miei indumenti fra loro, e sulla mia veste gettarono la sorte”. Spogliato delle vesti, Gesù fu disteso a terra. Le sue braccia furono allungate sopra il palo da lui portato: ivi furono inchiodate le sue mani. Così confitto a metà, il suo corpo fu innalza­to sul palo verticale già piantato in terra: lassù fu collocato a cavaI­cioni sul sostegno (sedile). Infine furono inchiodati i piedi (§ 600). La sua croce stava nel mezzo; ai due lati quelle dei due ladroni. Sulla sua croce fu apposta la tavoletta di condanna; se essa fu collocata - come sembra risultare da Matteo, 27, 37 - sulla cima del palo verti­cale, la croce era immissa e non commissa (§ 598). Le operazioni della crocifissione terminarono quando il mezzogiorno era passato di poco.

§ 607. Su quest'ultimo punto sembrerebbe che vi fosse contraddizio­ne fra quanto dice Giovanni, che Pilato pronunziò la condanna all'ora quasi sesta ossia un poco prima del nostro mezzogiorno (§ 595), e quanto dice Marco (15, 25): Era l'ora terza e lo crocifissero. Varie ipotesi furono proposte per concordare queste due notizie. Già S. Girolamo, seguito da alcuni moderni, suppose che nella trasmis­sione dei due numeri espressi in greco con le lettere dell'alfabeto fosse incorso per colpa degli amanuensi uno scambio fra la lettera gamma (I', che esprimeva il 3) e la lettera digamma (F, che espri­meva il 6): perciò in Marco bisognerebbe leggere “ora sesta” appun­to come in Giovanni; senonché questa soluzione, che dal punto di vista paleografico è astrattamente possibile, dal punto di vista documentario non è in alcun modo suffragata dai codici. - Altri studiosi supposero che Giovanni conti le ore a cominciare dalla mezzanotte secondo la computazione civile degli Occidentali, e che invece Marco conti a cominciare dalle prime luci dell'alba secondo la computazione degli Orientali; ma anche questa soluzione ha guadagnato pochi se­guaci perché, oltre il resto, si aspetterebbe che appunto Marco il qua­le scriveva a Roma seguisse la computazione occidentale, e Giovanni invece quella orientale perché scriveva in Oriente. La soluzione più ragionevole sembra pertanto quella che si riporta ai tempi e alle usan­ze del paese. Il tempo dall'alba al tramonto era diviso in 12 ore (di ampiezza variabile a seconda delle stagioni), ma questa divisione era più teorica che pratica; in paesi come la Giudea, ove gli strumenti meccanici per misurare il tempo erano estremamente rari, la gente si regolava di solito con l'osservazione della luce solare, e perciò aveva finito col raggruppare le 12 ore diurne in quattro periodi che di­videvano la giornata solare in quattro parti uguali, due prima del mezzogiorno e due dopo: ogni periodo infatti, essendo più lungo del­la singola ora, aveva il vantaggio di distinguersi assai più facilmente per l'intensità della luce solare dal periodo vicino. Cosicché dall'alba fino alle nostre ore 9 antimeridiane correva sempre il mattino o il periodo dell'ora prima; dalle nostre 9 antimeridiane fino al mezzo­giorno correva il periodo dell'ora terza; dal mezzogiorno fino alle nostre 3 pomeridiane correva il periodo dell'ora sesta; dalle nostre 3 pomeridiane fino al tramonto correva il periodo dell'ora nona. Ra­rissimamente i Sinottici escono da questa denominazione (Matteo, 20,1-6); Giovanni invece più facilmente nomina altre delle 12 ore in­tennedie (Gion., 1, 39; 4, 6.52; 11, 9), ma fa ciò perché vuole come al solito precisare, e quindi abbandona gli ampi gruppi o periodi di ore e nomina le singole ore numericamente. Secondo ogni verosimi­glianza la discordia fra Marco e Giovanni riguardo all'ora della crc­cifissione di Gesù consiste tutta in questo: che Marco parla dell'ora terza in quanto gruppo o periodo di ore, il quale perciò s'estendeva fino all'ora sesta ossia al mezzogiorno, mentre Giovanni intende l'ora sesta numericamente ossia il preciso mezzogiorno.

§ 608. Mentre si svolgevano le operazioni della crocifissione Gesù serbò, a quanto sembra, un silenzio assoluto: il suo corpo sfigurato e disfatto non racchiudeva quasi più energia fisica, la sua mente era assorta nel pensiero del Padre celeste a cui stava offrendo il sacrificio di se stesso. Tuttavia la prima frase da lui pronunziata, che ci venga trasmessa, è un pensiero che pur rivolgendosi al Padre nei cieli si preoccupa di quei che stanno giù in terra attorno a lui; forse proprio mentre gli inchiodavano le mani o i piedi egli esclamò: Padre, per­dona ad essi, perché non sanno che cosa fanno! (Luca, 23, 34). i loro a cui s'invoca quel perdono non sono tanto gl'incoscienti soldati che martellano sui chiodi, quanto quegli altri che scientemente ave­vano predisposto tutto affinché accadesse quanto stava accadendo. Anche a quegli altri Gesù impartisce il suo perdono e implora quello del Padre, perché non sanno adesso ciò che dapprima hanno rifiutato di sapere: la conseguenza della colpa passata è addotta benignamen­te a scusa del delitto presente. Innalzato che fu sul palo verticale Gesu' continuò a guardare con gli occhi languenti, ma ancora penetranti, ciò che avveniva in basso e a fianco a lui. In basso i sommi sacerdoti e gli altri Sinedristi s'in­trattenevano da trionfatori; veramente sarebbe stato più urgente per essi tornare alle loro case, onde sorvegliare da buoni Israeliti gli ultimi preparativi per la cena pasquale; tuttavia preferivano rimandare sempre più il ritorno, per trattenersi ancora un poco gioiosi e gongolanti sul posto del loro trionfo. Passavano essi e ripassavano sotto le tre croci: ora lanciavano oc­chiate sdegnose alla croce di mezzo; ora l'additavano sprezzanti a gente di loro conoscenza che passava là sotto, e poi con le mani die­tro la schiena si piantavano in faccia a quel crocifisso e l'apostrofavano direttamente: Ohe'! Quello che demolisce il santuario e in tre giorni (lo) ricostruisce! Salva te stesso, se sei figlio d'iddio, e discendi dalla croce! La gente, intimidita dall'autorità di chi l'aveva fermata, ripeteva l'apostrofe e rinnovava le beffe. Altri Sinedristi invece preferivano un argomento ad hominem, che insieme voleva essere un'apologia del proprio operato: Salvò altri; se stesso non può salvare! E’ re d'israele: discenda adesso dalla croce e crederemo in lui! Ha confidato in Dio, (Dio lo) liberi adesso se si compiace in lui (cfr. Salmo 22, 9 ebr.). Disse infatti: “Sono figlio di Dio!”. Ma da quella croce non scese né l'apostrofato né una risposta qualsiasi, perché ambedue le discese sarebbero state inutili per gli apostrofanti.

§ 609. A fianco a Gesù stavano i due ladroni crocifissi, e anche di qui partivano ingiurie. Matteo e Marco parlano al plurale, di ladroni che ingiuriavano: ma è un “plurale di categoria” (cfr. § 625, nota), per significare che ingiurie partivano anche dalla categoria dei ladroni senza precisare se faceva ciò l'intera categoria o solo una sua parte. Luca invece precisa, e dice che uno solo ingiuriava mentre l'altro si raccomandava. Il ladrone che ingiuriava, forse per ottenere una qualsiasi rivincita in quello sfacelo della propria esistenza, forse per vendicarsi di una vaga speranza svanita, ripeteva verso Gesù: Non sei tu il Cristo (Messia)? Salva te stesso e noi! Ma l'altro ladrone non condivideva tali sentimenti, anzi ne rimproverava il compagno ripetendogli: Nemmeno temi iddio tu, giacché sei nella medesima condanna? E noi poi giustamente, poiché riceviamo cose degne di quanto facemmo; ma costui non fece nulla di male. La forza del rimprovero è su quei temi, a cui si riferisce il nemmeno; se non hai riverenza per Iddio, abbi almeno timore giacché subi­sci la medesima pena di Gesù innocente. Probabilmente il buon ladro­ne conosceva di fama Gesù di Nazareth e aveva inteso parlare della sua bontà, dei suoi miracoli e del regno di Dio da lui predicato: certamente poi aveva, nonostante i suoi misfatti, un residuo di coscienza onesta. Nell'imminenza della morte quel residuo riaffiora e ricopre tutto il passato; il morituro si aggrappa all'unica speranza che gli resta e che è rappresentata da quel giusto ingiustamente ucciso. Ri­volgendosi allora a lui gli dice: Gesu', ricòrdati di me quando (tu) venga nel tuo regno, ossia quando verrai gloriosamente regnante in quel regno da te annunziato. Gesù gli risponde: in verita' ti dico, oggi sarai con me nel paradiso. Sebbene non sia facile determinare con precisione il senso che si dava al termine “paradiso” ai tempi di Gesù, è certo che designa la dimora delle anime giuste dopo morte, analogo perciò al seno di Abramo (§ 472).

§ 610. Fra le persone che Gesù vedeva dall'alto della croce solo un piccolo gruppo, che stava a pochi passi da lui, gli dava qualche con­forto. Ma era poi un conforto, e non piuttosto un aumento di dolore? Il gruppo infatti era formato da persone familiari od amiche, a cui la legge romana non proibiva di assistere allo spettacolo, purché non si avvicinassero ad offrire soccorsi al crocifisso che sarebbero stati im­pediti dai soldati di guardia. I nomi di questo piccolo gruppo più vicino alla croce ci sono stati trasmessi dal testimonio oculare, il qua­le tuttavia tralascia il suo proprio nome designandosi come il disce­polo che (Gesu') amava (§ 155); oltre a Giovanni, dunque, facevano parte di questo gruppo la madre di lui (Gesù), e la sorella della ma­dre di lui, Maria di Cleofa (Alfeo), e Maria la Magdalena (Giov., 19, 25). Alla loro volta i Sinottici, dopo aver narrato la morte di Gesù, ricordano che era presente un altro gruppo, più numeroso ma più lontano, formato di donne che piangevano e si lamentavano: era­no le donne che avevano assistito Gesù nel suo ministero (§ 343) e l'avevano seguito dalla Galilea a Gerusalemme (Matteo, 27, 55-56; Marco, 15, 40-41). Fra le donne di questo secondo gruppo sono nomi­nate Maria la Magdalena (come nel primo gruppo), Maria la madre di Giacomo il Minore (§ 313) e di Giuseppe (e anche questa Maria appare nel primo gruppo come Maria di Cleofa, inoltre una Salome e la madre dei figli di Zebedeo (§ 496), e queste due ultime sono una stessa persona. Che almeno due donne siano nominate in ambedue i gruppi non fa meraviglia, perché è diverso il momento in cui ciascun gruppo è nominato cioè prima della morte di Gesù il gruppo piu' vicino, e dopo la morte quello più lontano - e talune potevano esser passate nel frattempo da un gruppo all'altro. Nel gruppo più vicino stava dunque, insieme al discepolo prediletto, la madre di Gesù. Era un conforto quella vista per il crocifisso? Come a lei era impedito dai soldati di avvicinarsi a lui, così a lui i chiodi impedivano ogni gesto verso di lei. Potevano comunicare fra loro solo con lo sguardo: a Maria la voce era impedita dal pianto, a Gesù dall'estrema debolezza. La madre guardava il figlio, e forse pen­sava che quelle membra si erano formate nel seno di lei in maniera unica al mondo, mentre adesso erano divenute oggetto di sommo spavento: il figlio guardava la madre, e forse pensava che quella donna era stata proclamata benedetta fra le donne, mentre adesso era divenuta oggetto di somma pietà. Ma ad un certo punto il crocifisso, raccolte alquanto le forze e accennando alla madre con la testa, dis­se: Donna (§ 283), ecco il tuo figlio; poi accennando al discepolo prediletto: Ecco la tua madre. In questo suo testamento il morituro univa per sempre i suoi più grandi amori terreni, la donna di Beth-lehem e il giovane che aveva sentito battere il cuore di lui nell'ultima cena. Da quel giorno Giovanni prese in casa sua Maria (§ 156).

§ 611. Il crocifisso declinava rapidamente. Attorno a lui, all'improv­viso, cominciò a declinare anche la luce solare: dall'ora sesta si fece tenebra su tutta la terra fino all'ora nona (Matteo, 27, 45), ossia dal mezzogiorno alle tre pomeridiane. L'espressione tutta la terra designa qui la Giudea, come altre volte nella Bibbia ebraica. In che maniera avvenisse questo oscuramento del giorno, non è detto: certamente non fu un'eclisse solare, la quale non può avvenire du­rante il plenilunio in cui allora si stava. Ciò era già stato osservato nell'antichità da Origene, Girolamo e Giovanni Crisostomo; è vero che lo pseudo Dionigi Areopagita narrò d'aver assistito egli stesso in Eliopoli all'oscuramento di tutto il mondo per la morte di Gesù, e spiegò quell'oscuramento con un moto anormale della luna che avreli­be retroceduto per collocarsi davanti al sole (Epist. vii, ad Polycar­pum); ma la sua narrazione è pura fantasia, perché oggi è assicurato che questo ignoto autore non ha scritto prima del secolo v, e la sua spiegazione ha il torto di non conoscere le sensate osservazioni dei precedenti scrittori accennati. Anche l'eclisse segnalata da Flegone, liberto d'Adriano, e ricordata da qualche Padre (Origene, Contra Celsum, II, 33), sarebbe avvenuta l'anno 32, e quindi non può entrare in discussione. Senza dubbio gli evangelisti intendono questo oscu­ramento come un fatto miracoloso avvenuto per la morte di Gesù,in corrispondenza con i segni miracolosi che avevano accompagnato la sua nascita: ma se l'oscuramento fosse prodotto da densa nuvolaglia che intercettasse la luce o in altra maniera, non è possibile dire. In quell'oscurità della natura fisica Gesù si andò man mano spegnen­do in una agonia durata circa tre ore sulla quale gli evangelisti sten­dono un velo di riverente mistero. Il corpo perdeva incessantemente sangue e forza vitale attraverso gli squarci delle mani e dei piedi e attraverso le vaste lacerazioni prodotte dalla flagellazione: il capo era crivellato dalle punture delle spine; nessun muscolo trovava ripo­so nella posizione sulla croce. I tormenti si accavallavano e s’accre­scevano sempre più atroci, senza un istante di requie. In quel tenebroso oceano di spasimi solo la più alta vetta dell'anima era serena, sublimata nella contemplazione del Padre. L'agonizzante era in silenzio.

§ 612. A un tratto, vicino all'ora nona, Gesù gettò un alto grido dicendo in aramaico: “Eli’, Eli’, lema’ shebaqtani”. Più che un'esclama­zione in proprio, queste parole erano una citazione: esse costituiscono l'inizio del Salmo 22 ebr., e precisamente secondo la versione ara­maica del Targum significano, co­me aggiungono in greco anche Matteo e Marco, Dio mio, Dio mio, perché mi abbandonasti? Essendo una citazione, il loro senso pieno è dato dall'intera composizione di cui sono l'inizio. Quel salmo infatti si riferisce al futuro Messia, di cui preannunzia i supremi dolori, e Ge­sù recitandone l'inizio sulla sua croce intendeva applicarlo a se stesso. L'antico salmo, fra l'altro, aveva detto: Dio mio, Dio mio, perché mi abbandonasti? Lungi dalla mia salvezza sono gli accenti del mio lamento. Dio mio! Grido di giorno, e non rispondi, pur di notte, né v'ha requie per me! io sono un verme, e non un uomo, obbrobrio della gente e spregiato dal volgo. Tutti quei che mi vedono si fan beffa di me, spalancan le labbra, scuotono il capo (esclamando):”Si rivolga a Jahvè”: Egli lo scampi, Egli lo salvi, perché di lui si compiace!”. Si, m'han circondato dei cani, un'accolta di malvagi m'hanno attorniato, hanno forato le mie mani e i miei piedi, io posso contare tutte le mie ossa. Essi mi rimirano, mi guardano, si spartiscono i miei indumenti fra loro e sulla mia veste gettano la sorte. Gesù dunque, affermando nuovamentte con la sua esclamazione di essere il Messia, ne offriva una nuova prova nel confronto fra la pro­fezia citata e l'avveramento di essa ch'egli mostrava in se stesso. Ma appunto le prime parole dell'esclamazione, “Elì, Elì” dettero oc­casione ad un equivoco. I dotti Scribi presenti vi riconobbero certa­mente la citazione del salmo; non così altri meno esperti, i quali intesero quelle parole come un'invocazione all'antico profeta Elia (§ 404), seppure non finsero d'intenderle in quella maniera per beffeggia­re ancora una volta l'agonizzante quasicché fosse entrato in delirio. Cominciarono ad esclamare, tra incuriositi e sarcastici : Guarda! Co­stui invoca Elia!

§ 613. Nell'attesa, il crocifisso pronunciò un'altra parola: Ho sete! L'arsura, nelle condizioni di dissanguamento e di spossatezza in cui si trovava Gesù, era un fatto naturalissimo. Ma non consisteva tutto qui; infatti il salmo testé citato da Gesù aveva anche detto: inaridito come coccio il mio palato, e la mia lingua s'e' attaccata alle mie fauci! Anche la sete, dunque, entrava nella visione del Messia sofferente; e perciò Giovanni (19, 28) fa rilevare che Gesù, affinchè s’adempisse la Scrittura, disse:”Ho sete!”.La suprema implorazione dell'agonizzante trovò questa volta un cuore pietoso disposto ad accoglierla: fu certamente uno dei soldati di guardia alle croci. I soldati romani usavano dissetarsi, in mancanza di meglio, con una mescolanza di acqua ed aceto ch'è usata spesso anche oggi dai mietitori delle nostre campagne: anche il suo nome latino, posca, è tuttora superstite nel contado d'alcune regioni ita­liane. Prevedendo una lunga guardia ai piedi delle croci, quei sol­dati si erano provvisti portando con sé un vaso di posca. Udendo l'implorazione del crocifisso, uno di essi inzuppò di posca una spugna e mettendola in cima a un'asta l'appressò alle labbra dell'assetato. L'azione del soldato non piacque a coloro che avevano parlato di Elia, i quali perciò lo dissuadevano esclamando: Lascia: vediamo se viene Elia a salvarlo! (Matteo, 27, 49). Nel pensiero di costoro Elia, come salvatore, avrebbe provveduto a estinguere la sete del sal­vato. Sembra poi che la stessa esclamazione fosse ripetuta dal solda­to, in risposta a coloro che lo dissuadevano (Marco, 15, 36) La­sciate, stiamo a vedere, se venga Elia a distaccarlo), quasi per mo­strare che piuttosto era bene confortare il crocifisso in attesa della venuta di Elia. Gesù, che qualche ora prima aveva rifiutato il vino mirrato, adesso succhiò dalla spugna il liquido. Con particolare intenzione gli evan­gelisti chiamano quel liquido aceto, mirando essi al passo del Salmo 69, 22 (ebr.) che dice: Nella mia sete mi fecero bere aceto (cfr. § 605, nota). Quand'ebbe succhiato la posca, mormorò: E finito! Poco tempo più tardi l'agonizzante ebbe come un fremito; lanciò un alto grido; esclamò: Padre, nelle tue mani commetto il mio spirito! (cfr. Salmo 31, 6 ebr.). Quindi abbassò il capo. Era morto.

§ 614. Nella città ottenebrata avvennero in quel momento fatti stra­ordinari. Nell'interno del Tempio pendevano due grandi cortine ri­camate: una più esterna (masak) che separava il vestibolo dal « san­to » e un'altra più interna (paroketh) che separava il « santo » dal « santo dei santi » (§ 47); servivano da memoriale, rammentando l'inaccessibilità e invisibilità del Dio che dimorava nel « santo dei santi ». Sull'ora nona, quando moriva Gesù, una di queste cortine (probabilmente la più interna) si scisse in due parti dall'alto in basso, quasicché volesse significare che il suo ufficio era finito essendo abolita l'inaccessibilità del Dio invisibile. Avvennero anche scosse telluriche, le rocce si spaccarono, e le tombe s'aprirono, e molti corpi dei santi addormentati si ridestarono: e usci­ti dalle tombe dopo la resurrezione di lui entrarono nella città santa e apparvero a molti (Matteo, 27, 51-53). Questa resurrezione dei de­funti è narrata qui in anticipo, e sembra essere avvenuta dopo la re­surrezione di Gesù con cui è collegata. Quale conseguenza dello scon­volgimento tellurico, si mostrava già nel secolo iv (Luciano martire, Cirillo di Gerusalemme) una fenditura visibile ancora oggi lungo la parte rocciosa del Cranio incorporata nella basilica del Santo Sepol­cro: questa fenditura è lunga circa metri 1,70 e larga 0,25 e contra­riamente alle solite spaccature sismiche che corrono lungo le vena­ture della roccia corre trasversalmente ad esse. Il centurione e i soldati di guardia, al vedere sia i fenomeni straordinari che accompagnavano quella morte sia la maniera calma e insolitamente rapida in cui era avvenuta, ripensarono al contegno sin­golare tenuto da Gesù durante il processo, e mettendo le due cose in relazione fra loro si convinsero che un imputato di quel genere era non solo innocente ma anche persona straordinaria; cominciarono quindi ad esclamare: Realmente quest'uomo era giusto (Luca, 23, 47), e con particolare riguardo all'imputazione contestata a Gesù: Veramente quest'uomo era figlio di Dio (Marco, 15, 39). Anche la folla mutò contegno. Appena morto Gesù, i Sinedristi che avevano spadroneggiato da trionfatori sotto la croce di lui non ave­vano più nulla da temere, almeno per il momento, e quindi se ne andarono alle loro case a preparare la cena pasquale; perciò la folla non ebbe più chi le suggeriva imperiosamente lazzi e schemi contro il crocifisso, e libera così da timore reverenziale poté manifestare i propri sentimenti. Anche su di essa fecero impressione il giorno ot­tenebratosi e la terra sussultante, e ripensando a quanto era avvenuto nel processo si allontanava man mano dalla croce battendosi il petto (Luca, 23, 48). I due gruppi di persone familiari o amiche di Gesù - il gruppo vicino alla croce e quello lontano - ricevettero mutamenti dopo la morte di Gesù, passando alcune persone da un gruppo all'altro (§ 610).

§ 615. I Sinedristi, mentre tornavano alle loro case, ripensarono a una prescrizione legale: essi ripetevano a se stessi di aver compiuto una santissima azione facendo crocifiggere Gesù, ma quella santità non sarebbe stata perfetta se la salma del crocifisso fosse rimasta ap­pesa ed esposta anche durante la notte seguente; no, doveva essere calata dal patibolo e seppellita quel pomeriggio stesso prima del tra­monto come prescriveva la Legge (Deuteronomio, 21, 23), tanto più che col tramonto cominciava la solennissima Pasqua. Essi perciò, stra­da facendo, si recarono dal procuratore e l'invitarono ad osservare questa prescrizione suggerendogli anche la maniera più semplice: ba­stava praticare sui crocifissi il “crurifragio” (§ 601), e con ciò in pochi minuti tutti e tre sarebbero stati pronti per la sepoltura. Senonché l'invito dei Sinedristi fu quasi contemporaneo ad un altro invito rivolto al procuratore egualmente da un Sinedrista. La morte di Gesù aveva avuto come primo effetto l'infondere alquanto corag­gio nei disanimati discepoli. Fra costoro era un certo Giuseppe, nativo di Arimatea (l'antica Ramathaim, oggi Rentis, a nord-est di Lyd­da), uomo ricco e stimato, membro del Sinedrio e insieme discepolo di Gesu' ma occulto per la paura dei Giudei (Giov., 19, 38): spiri­tualmente, dunque, rassomigliava un po' a Nicodemo, membro an­ch'egli del Sinedrio (§ 288), tuttavia Giuseppe aveva osato dissentire dai suoi colleghi Sinedristi quando avevano condannato Gesù (Luca, 23, 51). Questa volta. egli osò anche di più; pregato forse dai fami­liari ed amici di Gesù che ricorsero volentieri alla sua autorità, egli ti presentò a l'ilato e gli chiese la salma di Gesù per seppellirla come permetteva la legge romana (§ 601). Pilato accolse la domanda, ma si meravigliò che il condannato fosse morto così presto, giacché egli s’aspettava un'agonia più lunga; chiamò pertanto il centurione exac­tor mortis, e quando costui lo accertò della morte concesse la salma.

§ 616. Quasi insieme giunsero gli altri Sinedristi, e Pilato accogliendo anche la loro richiesta inviò altri soldati, diversi da quelli che stavano tuttora di guardia alle croci, affinché praticassero sui crocifissi il “crurifragio” e quindi li deponessero dalle croci. Chi era presente all'arrivo dei soldati narra cosi: Vennero pertanto i soldati, e spezza­rono le gambe del primo e dell'altro crocifisso insieme con lui; venuti poi presso Gesu', come lo videro già morto, non gli spezzarono le gam­be, ma uno dei soldati con la lancia gli ferì il costato ed uscì subito sangue ed acqua (Giov., 19, 32-34). I due ladroni dunque sopravvis­sero a Gesù e furono spacciati dal “crurifragio”; questo invece non fu praticato a Gesù perché era con tutta evidenza già morto, e così i soldati risparmiarono anche a se stessi una certa fatica: tuttavia uno gli dette un colpo di lancia in direzione del cuore, giusto per non lasciare alcun dubbio sulla morte di lui. La ferita prodotta dalla lan­cia fu molto larga, un vero squarcio in cui poteva quasi entrare una mano (cfr. Giovanni, 20, 25.27), e dallo squarcio uscì sangue ed acqua. Dotti fisiologi inglesi credettero spiegare la fuoruscita di sangue ed acqua supponendo una rottura del cuore anteriore al colpo di lancia: nei casi di tale rottura si produrrebbe un'emorragia al pericardio e una successiva decomposizione del sangue, i cui globuli rossi fanno deposito in basso mentre il siero acquoso resta sospeso in alto; cosic­ché, quando il pericardio è aperto poco dopo la morte, l'elemento sanguigno e quello acquoso ne escono separati fra loro. Perciò la ra­pida morte di Gesù si spiegava - nel pensiero di questi fisiologi - con una rottura del cuore prodotta da cause morali. Gesù sarebbe morto col cuore spezzato, in senso vero, dal dolore. Checché sia di questa spiegazione, l'evangelista testimonio scorge ragioni arcane più profonde in ambedue gli eventi: Avvennero in­fatti queste cose affinché s'adempisse la Scrittura (che dice): “Osso non sarà spezzato di lui”; e nuovamente un'altra Scrittura (che) dice: “Rimireranno in chi trafissero”. La prima citazione è da Eso­do, 12, 46 (Numeri, 9, 12), e si riferisce all'agnello pasquale di cui gli Ebrei non dovevano spezzare alcun osso, quando lo mangiavano nella cena di Pasqua: l'evangelista vede in questa prescrizione una confer­ma che Gesù fu la vera vittima redentrice adombrata dall'antico agnello pasquale. La seconda citazione è da Zacharia, 12, 10, il quale scorge nel futuro la nazione giudaica far cordoglio su un trafitto come si fa cordoglio per la morte dell'unigenito. L'evangelista infine non dice il nome del soldato che trafisse il petto di Gesù, ma la leggenda cristiana gli ha dato il nome inconfondi­bile, chiamandolo Lanciere. In greco infatti lancia si dice lonche; perciò il soldato fu chiamato Longino.

§ 617. Il lugubre lavoro dei soldati dovette svolgersi quando Giuseppe di Arimatea era già sul posto, pronto a servirsi del permesso con­cessogli da Pilato. La richiesta della salma di Gesù era stata motiva­ta dal desiderio, di Giuseppe e di quanti lo avevano spinto ad agire, che la venerata salma non fosse gettata nella fossa comune dei giusti­ziati insieme con i cadaveri dei due ladroni; ottenuta quindi la salma, Giuseppe si dette subito a prepararle un sollecito e decoroso seppelli­mento, che doveva esser terminato prima del tramonto perché allora cominciava il riposo legale (§ 537). Nel suo lavoro Giuseppe fu coadiuvato da altri: è ricordato nomina­tamente il suo fratello spirituale Nicodemo, che venne... portando una mescolanza di mirra ed abe, circa cento libbre (Giov., 19, 39); è facile immaginare che nella pietosa cura i due uomini fossero assistiti anche dalle pie donne presenti alla morte di Gesù, e in primo luogo dalla madre di lui che certamente non rinunziò alla dolorosa gioia di accogliere fra le sue braccia la salma appena fu calata dalla croce. Come Nicodemo aveva portato gli aromi da spargere sulla salma, così per involgerla Giuseppe aveva comprato una sindone (§ 561); il quale termine deve avere qui non il suo senso tecnico di leggiera veste notturna ma quello più generico di ampio ammanto, quasi di lenzuolo, tessuto di fine lino. A causa della ristrettezza di tempo la preparazione della salma fu sommaria: presero dunque il corpo di Gesu' e lo rilegarono con fasce insieme con gli aromi, com'è costume ai Giudei di seppellire (Giov., 19, 40), e come infatti era stato praticato anche con la salma di La­zaro (§ 491); infine la salma, così composta, fu avvolta nella sindone. Egualmente per la ristrettezza di tempo non si poteva trasportare la salma in qualche tomba lontana, per il pericolo di essere sorpresi durante il trasporto dal tramonto del sole e dal riposo legale. Ma questa difficoltà fu superata facilmente grazie alla generosità di Giu­seppe, che cedette a tale scopo la sua propria tomba. Egli se l'era preparata appunto nel luogo del Cranio: ivi era un giardino, e nel giardino un sepolcro nuovo in cui nessuno ancora era stato posta (ivi, 41). Il giardino si stendeva ai piedi del Cranio, e il sepolcro era stato scavato dalla roccia (Marco, 15, 46), la quale era un prolungamento della roccia che costituiva il piccolo rialzo del Cranio. Pro­babilmente, come Giuseppe si era preparata colà la propria tomba, anche se l'erano preparata nella stessa zona altri facoltosi abitanti di Gerusalemme: e ciò s'accorda ottimamente con la norma di sce­gliere i luoghi di crocifissione a preferenza presso tombe (§ 599).

§ 618. La tomba ceduta da Giuseppe per la salma di Gesù aveva la solita disposizione interna delle tombe giudaiche (§ 491). Penetran­dovi dall'esterno, si trovava prima l'atrio e poi la camera funeraria con il loculo per la salma; atrio e camera comunicavano fra loro mediante un piccolo uscio sempre aperto, mentre l'atrio comunicava con l'esterno attraverso una porta che veniva sbarrata applicandovi una grossa pietra circolare simile a un'enorme macina da molino. Questa pietra poggiava sull'apertura impedendone l'accesso; ma quando si voleva entrare, bastava far rotolare non senza considere­vole sforzo - la pesante pietra o verso destra o verso sinistra, ed essa si spostava scorrendo su un canaletto scavato nella roccia a destra o a sinistra dell'apertura. Giuseppe, assistito dagli altri, portò a termine il seppellimento di Ge­sù prima del tramonto. Essendo avvenuta la morte verso le ore tre pomeridiane, tutto era compiuto verso le ore sei, allorché Giuseppe rotolata una grande pietra alla porta del sepolcro andò via (Mat­teo, 27, 60). Ma la tomba non rimase subito solitaria: era poi cola' Maria la Mag­dalena e l’altra Maria (la madre di Giacomo e Giuseppe) sedute di­rimpetto alla tomba (ivi, 61). Anche le altre pie donne s'avvicinarono a vedere il sepolcro e come fosse stata deposta la venerata salma; poi tornate in città, approfittarono dell'ultimo scorcio della giornata la­vorativa e prepararono aromi e unguenti (§ 537): evidentemente alla loro devozione non bastava l'abbondante provvista di aromi portata da Nicodemo, e si ripromettevano di curare meglio l'affrettata com­posizione della salma e di tornare perciò al sepolcro quando fosse trascorso il sabbato col suo riposo legale (Luca, 23, 55-56). Fra tutte queste pietose cure non è nominato alcuno degli Apostoli: il solo Giovanni, nel riserbo del suo scritto, s'intravede facilmente mentre assiste la madre di Gesù e la conduce alla sua propria abita­zione per curarla da figlio adottivo. Colà ambedue aspettavano.
§ 619. Quella notte fra il venerdì e il sabbato fu una gran bella nottata per i Sinedristi trionfatori. Celebrarono essi la cena pasquale non solo con la tradizionale giocondità esteriore ma anche con una particolare soddisfazione interiore, sebbene questa non avesse - o al­meno alle apparenze sembrasse di non avere - nulla da fare con la solennità pasquale. Quel Galileo se n'era proprio andato: era morto, sicuramente morto! Non c'era più pericolo di sentir di nuovo le sue invettive, e di rimanere ancora screditati da lui presso il popolo! Quei quattro di­scepoli ch'egli s'era portato appresso, si sarebbero senz'altro dispersi alla morte del loro maestro, e nessuno ne avrebbe parlato più. Tutto era riuscito bene, grazie all'assistenza non tanto di Mosè o di Elia, quanto di quell'incirconciso di Pilato: ad ogni modo, circon­cisione o no, era stato un bel successo e il ripensarvi sembrava dav­vero accrescere il sapore della cena pasquale. Eppure, a forza di ripensarvi, quei sagaci uomini s’avvidero che nel rilucente cristallo del loro trionfo appariva una piccola incrinatura. Cosa da poco, certamente, ma che non doveva esser trascurata. Si ricordarono essi che Gesù, quand'era ancora in vita, aveva predetto che tre giorni dopo la sua morte sarebbe risuscitato (§ 446). Ora, è vero che quest'annunzio era una pura millanteria, anche perché essi erano in gran parte Sadducei convinti, e perciò giudicavano impos­sibile la resurrezione dei morti (§ 515); tuttavia quella falsa predi­zione poteva dare occasioni ad imposture, a dicerie e ad altre noiose conseguenze. Era quindi opportuno prevenire il male, saldando quel­la piccola incrinatura riscontrata. Perciò alcuni di essi il giorno se­guente, sebbene fosse per loro il giorno di Pasqua, fecero una piccola e lecita passeggiata per recarsi da Pilato a fornirgli un consiglio uti­lissimo: Signore, ci ricordammo che quell'imbroglione disse essendo ancora vivo “Dopo tre giorni risorgo”. Comanda dunque che la tomba sia assicurata fino al terzo giorno, ché per caso venuti i discepoli non lo rapiscano e dicano al popolo “Risorse dai morti”, e (cosi) l'ultimo imbroglio sara' peggiore del primo. Pilato ri­spose rudemente: Avete un (corpo di) guardia: andatevene, e assicurate come sapete. La rudezza del procuratore era soltanto apparente e niente affatto reale, servendo soltanto a dissimulare a se stesso una nuova conces­sione ch'egli faceva. Egli cedette in realtà alla nuova richiesta, e per­mise anche questa volta ai Sinedristi di servirsi del (corpo di) guar­dia che egli era solito mettere a loro disposizione e ch'era formato da soldati romani (Matteo, 28, 14; cfr. Giov., 18, 12): insomma il procuratore, mentre parlava con la faccia ringhiosa, diceva poi sem­pre di si ai Sinedristi. Costoro non chiesero altro, e in quello stesso sabbato condussero i soldati sul posto. Ma nessuno avrebbe potuto superare per accortezza quegli insigni Giudei, cosicché essi si premunirono anche contro un caso a cui altri difficilmente avrebbe pensato: previdero cioè che i soldati, pur ri­manendo di guardia al sepolcro, potevano lasciarsi corrompere per denaro dai discepoli di Gesù permettendo loro l'ingresso nella tom­ba. Non si sapeva mai quel che poteva succedere: adesso che due loro colleghi del Sinedrio, Giuseppe e Nicodemo, avevano spinto la audacia fino a curare il seppellimento del crocifisso c'era da aspettarsi che i due imitassero il Sinedrio comperando a suon di sicli i soldati di guardia, come il Sinedrio aveva comperato Giuda. Perciò essi apposero i loro sigilli sulla pietra circolare che rotolava davanti all'ingresso della tomba, e l'assicurarono alla viva roccia. Con questa saggia precauzione nessuno sarebbe potuto entrare senza rompere i sigilli, di cui erano responsabili i soldati, e il morto non sarebbe risorto giammai.

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06/08/2012 21:03

LA SECONDA VITA

§ 620. Gli stessi documenti, le stesse testimonianze storiche che han­no narrato fin qui i fatti di Gesù non si fermano alla sua morte, ma con la stessa autorevolezza e col medesimo grado d'informazione di prima proseguono a narrare una resurrezione e una seconda vita di lui. Ciò è più che sufficiente perché coloro che non ammettono la possibilità del soprannaturale - e non soltanto i moderni ma anche gli antichi (cfr. Atti, 17, 32) - respingano senz'altro tutt'intera questa seconda parte del racconto evangelico. Facendo ciò questi negatori si mostrano logici, dati i principii filosofici da cui essi partono: ma l'importanza è di mettere bene in rilievo ch'essi sono determinati alla negazione solo e unicamente da quei principli filosofici, non già da deficienze o dubbiezze di documenti. I documenti in realtà esistono, e provengono dagli stessi informatori di prima: ma poiché qui più che mai essi contraddicono a quei principii, i documenti dovranno essere “interpretati” alla luce dei principii, ossia subordinati a que­sti. Del resto il lavorio pratico sulla seconda vita di Gesù non è che un prolungamento, e in senso più radicale, di quello praticato sulla prima vita: riguardo alla prima vita il compito era di fare una sele­zione dei fatti di Gesù, accettando una sua predica o un suo viag­gio in barca come cose naturali, ma respingendo la guarigione d'un cieco nato o la resurrezione d'un morto come cose soprannaturali ep­perciò impossibili; riguardo invece alla seconda vita non c'è nulla da selezionare, perché tutto è soprannaturale epperciò tutto impossibile, e il compito è soltanto di spiegare come sia sorta nei discepoli imme­diati di Gesù la fede in una seconda vita di lui. Ma questo metodo, sebbene logico, non è abbastanza logico: si ferina infatti a mezza strada, e non tira le ultime e più decisive conseguen­ze dai suoi principii filosofici.

A voler essere veramente logici fino in fondo bisognerebbe negare non soltanto la seconda vita di Gesù ma anche la prima, ed affermare ch'egli non è mai esistito sulla faccia della terra. Così hanno cominciato a fare taluni recentissimi studie­si, ai quali certamente si avvicineranno sempre più quelli dell'avveni­re. Parlando di questi recentissimi (§ 221) rilevammo la loro dirit­tura dialettica ed accennammo alle ragioni per cui, quando si vuole subordinare in questi argomenti la realtà documentaria a certi principi filosofici, si finisce logicamente per negar tutto. Qui abbiamo vo­luto soltanto ricordare le rispettive posizioni degli studiosi perché l'argomento in cui entriamo esige più che mai di attribuire unicuique suum, alla storia ciò ch'è storia e a teorie filosofiche ciò che proviene da loro.
Anche nel racconto della seconda vita di Gesù i quattro evangelisti procedono secondo il loro metodo che abbiamo più volte fatto osser­vare. Essi non pretendono di dare una relazione minuta e integrale dei fatti, né secondo un rigoroso ordine cronologico: essi scelgono dalla serie dei fàtti soltanto quella parte che sembra loro più oppor­tuna, e non senza trasposizioni cronologiche la dispongono nella ma­niera che meglio s'adatta allo scopo di ciascuno. Nel raccontare come fu ritrovata la tomba di Gesù vuota, i due primi Sinottici, Mat­teo e Marco, sono abbastanza paralleli fra loro, come si poteva già presumere: Luca è più reticente riguardo ai nomi, ma non si disco­sta molto dal racconto di Marco; Giovanni infine è schematico per­ché, presupponendo come al solito già noti i racconti dei Sinottici, vuole anche qui precisare e supplire solo alcuni punti con la sua par­ticolare autorità di testimonio dei fatti.

[SM=g27998] Le apparizioni nella Giudea

§ 621. Nell'atto del risorgere Gesù non fu visto da alcuno. Nessun evangelista riferisce in qual maniera egli uscisse dal sepolcro; uno di essi fa conoscere implicitamente che l'uscita dal sepolcro avvenne rimanendo intatta a suo posto la pietra circolare che sbarrava l'apertura, pur essendo la resurrezione accompagnata da segni straordina­ri: Ecco avvenne un gran terremoto: infatti un angelo del Signore, disceso dal cielo ed avvicinatosi, rotolò via la pietra e si sedette su di essa: era poi il suo aspetto (abbagliante) come lampo, e il suo in­dumento bianco come neve (Matteo, 28, 2-3). La pietra dunque fu rotolata via dall'angelo, ma il sepolcro era già vuoto e appunto per questo fu rimossa come oggetto ormai inutile. Tutti e quattro gli evangelisti pongono il ritrovamento del sepolcro vuoto alle primissime ore della domenica. I soldati messi dai Sine­dristi stavano là di guardia dal giorno precedente, e certamente a quell'ora mattutina erano ancora sdraiati li intorno dormendo; il trabalzo del terremoto, e subito appresso la vista dell'angelo e del sepolcro spalancato, li sgomentò a tal punto che si dettero senz'altro alla fuga cercando scampo nella vicina porta della città. Ritrovan­dosi allora nell'abitato e riavutisi alquanto dallo spavento, ripensa­rono che la loro fuga era un formale abbandono di posto, passibile delle più severe pene secondo la disciplina militare romana (cfr. Guerra giud., v, 482). Essi allora provvidero ai ripari, e astutamente compresero subito che il riparo migliore poteva essere offerto loro dai Sinedristi, i più interessati nell'affare. Si recarono perciò difilati a trattare con essi (§ 627). Il sepolcro non rimase a lungo solitario. Un gruppo di pie donne si era già mosso di città per recarsi al sepolcro; erano quelle donne che già sullo scorcio del venerdì avevano preparato aromi per curare anche meglio la venerata salma, cessato che fosse il riposo del sab­bato (§ 618); qui dall'uno o dall'altro degli evangelisti sono nominate Maria la Magdalena, l'altra Maria madre di Giacomo, Salome, Gio­vanna, e le altre insieme con esse (Luca, 24, 10).
Quanto al tempo in cui queste donne vennero al sepolcro, è indicato in maniera curio­sissima da Marco (16, 2): Assai di buon'ora, nella prima (giornata) della settimana (ossia nella domenica) vengono al sepol­cro, essendo sorto il sole. E’ difficile a prima vista accordare l'indicazione assai di buon'ora con l'altra essendo sorto il sole, perché la prima si riferisce ai primissimi chiarori dell'alba, a poco dopo le no­stre ore quattro del mattino, mentre la seconda si riferisce a parecchio tempo dopo, a non prima delle sei. Ma è uno dei soliti casi dello stile grezzo e duro di Marco (§ 132), che qui ha condensato troppo i concetti: tutto infatti diventa chiaro se, aggiungendo espli­citamente un concetto che vi è sottinteso, si legge Assai di buona ora... vengono al sepolcro (e vi giungono) essendo sorto il sole. Certamente il viaggio al sepolcro non era molto lungo, ma la ragione per cui le donne v'impiegarono parecchio tempo è stata comunicata dal­lo stesso Marco (16, 1) immediatamente prima, dicendo che le pie donne trascorso il sabbato, cioè in quella stessa mattina, comprarono aromi per venire ad ungerlo; la loro devozione non era soddisfatta degli aromi che talune di esse avevano già preparati due sere prima, e altre per proprio conto vollero accrescerne la provvista impiegando nelle compere un certo tempo.

§ 622. Questi femminili indugi furono troppo gravosi per la più generosa e ardente di quelle donne, Maria la Magdalena, la sola di cui parli Giovanni e la prima nominata dai tre Sinottici. Ella ad un certo punto si staccò dalle compagne affaccendate e niente, e por­tata dal suo affetto corse da sola verso il sepolcro; vi giunse, come dice Giovanni in pieno accordo con la prima indicazione di Marco, di buon'ora essendo ancora tenebra (Giov., 20, 1). Ma da ciò che vide appena giunta, restò costernata. Niente sapeva ella dei soldati messi durante il sabbato, e quindi non si meravigliò della loro assenza; vide però che la pietra circolare era stata rotolata da una parte e che l'entrata era spalancata: forse, nel suo ardore, si spinse fin presso l'ingresso del sepolcro e le bastò uno sguardo fugace dal di fuori per riconoscere che era vuoto. Che era avvenuto? Chi avrebbe potuto darle informazioni? Non cer­to le compagne indugianti, disperse per la città alla ricerca di aromi ormai inutili; bisognava rivolgersi ai discepoli: essi, e specialmente Pietro e Giovanni, forse sapevano come il sepolcro fosse stato aperto e la salma asportata. Corre dunque e viene a Simone Pietro e all'altro discepolo che Gesù amava, e dice loro: « Tolsero il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove lo misero » (Giov., 20, 2). Quel plurale sappiamo conservatoci da Giovanni è un ottimo collegamento fra lui e i Sinottici; costoro parlano di più donne recatesi al sepolcro, egli parla della sola Maria di Magdala ma le fa impiegare quel plurale sappiamo che conferma implicitamente quanto dicono i Si­nottici. Maria parlava anche a nome delle compagne ritardatarie.

§ 623. Frattanto costoro avevano terminato i loro acquisti di aromi e si erano incamminate direttamente verso il sepolcro. Ma in questo ultimo tratto del cammino si rammentarono di un'altra difficoltà a cui prima non avevano pensato; e dicevano fra se stesse: “Chi ci ro­tolerà via la pietra dalla porta del sepolcro?” (Marco, 16, 3). Sap­piamo infatti che quelle pietre circolari erano grandi e pesanti, e le donne non avrebbero certamente potuto da sole rimuover quella del sepolcro di Gesù. Ma giunte dappresso e avendo riguardato, vedono che la pietra e' stata rotolata via, giacché era grande assai (ivi, 4). Stupefatte non meno di Maria la Magdalena ma meno ardenti di lei, si spingono dentro, ed entrate nel sepolcro videro un giovanetto seduto a destra, ravvolto in veste bianca; e si sgomentarono (ivi, 5). Luca, più accuratamente, dice che l'apparizione era di due uomini.,. in veste sfolgorante (Luca, 24, 4). Il giovanetto di Marco dice alle donne: Non vi sgomentate! Cercate Gesu' il Nazareno, il crocifisso: risorse, non e' qui: ecco il luogo dove lo posero. Ebbene andate, dite ai discepoli di lui e a Pietro che vi precede nella Galilea. Cola' lo vedrete, conforme (a ciò che) vi disse (Marco, 16, 6-7; cfr. Matteo, 28, 5-7). Parole simili, con maggiore ampiezza dell'ultimo concetto, dicono i due apparsi di Luca; ma il risultato è differente. Secondo Marco le donne fuggirono via dal se­polcro: le aveva prese infatti tremore e sbalordimento. E a nessuno dissero nulla: temevano infatti; e con questo infatti s'interrompe bru­scamente il racconto di Marco e ivi anche termina il suo vangelo, salvo una breve appendice che non si riconnette immediatamente col racconto interrotto. Invece secondo Luca le donne tornate dal se­polero annunziarono tutte queste cose agli undici e a tutti gli altri; e ciò è confermato anche da Matteo (28, 8).
Probabilmente il racconto di Marco si riferisce soltanto alla prima impressione avuta dalle donne, che sbalordite si racchiusero dapprima in assoluto silenzio: se però il racconto di Marco, invece della brusca interruzione, avesse avuto il suo regolare svolgimento, probabilmente il narratore avrebbe soggiunto qualche precisazione specificando come le donne riavutesi dalla prima impressione fecero quanto narrano gli altri due Sinotti­ci. Ad ogni modo l'annunzio che le donne andavano a comunicare le avrebbe certamente esposte ad accoglienze non molto piacevoli: il che è un'altra ragione della ritrosia ch'esse ebbero da principio, se condo Marco. Infatti quando esse, tornate in città, dicevano agli apostoli queste cose, parvero ad essi questi discorsi come una ciancia e non credevano ad esse (Luca, 24, II).

§ 624. Maggiore impressione produsse invece in Pietro e Giovanni la comunicazione che nel frattempo avevano ricevuta da Maria di Magdala. Appena udito il racconto della donna agitata ed ansante, uscì Pietro e l'altro discepolo e venivano al sepolcro. Correvano i due insieme. E l'altro discepolo corse avanti piu' presto di Pietro, e venne primo al sepolcro: e curvatosi vede giacenti le bende, ma non entrò. Viene pertanto anche Simone Pietro al seguito di lui, ed entrò nel sepolcro: e vede le bende giacenti, ed il sudano - ch'era sulla te­sta di lui - non giacente insieme con le bende ma avvoltolato da par­te in un certo luogo. Allora pertanto entrò anche l'altro discepolo, che era venuto primo al sepolcro, e vide... Se ne andarono dunque di nuovo i discepoli a casa loro (Giov., 20, 3-10). Ciò che videro i due bastò a convincerli che la salma non era stata involata, come Maria di Magdala aveva supposto ed annunziato ad essi: nel caso d'invola­zione non c'era alcun motivo per liberare la salma dalle bende o per avvoltolare con cura il sudano e riporlo da parte. Trovando poi che sul posto non c'era più nulla da fare e riflettendo su quanto avevano visto, i due ritornarono subito in città, desiderosi di consultarsi in proposito con gli altri discepoli.

§ 625. Maria di Magdala, ch'era ritornata al sepolcro o con essi o poco dopo, non si allontanò insieme con loro, ma stava presso il se­polcro, di fuori, piangendo (Giov., 20,11). Dopo qualche tempo si curvò per dare ancora uno sguardo fino al loculo della camera mor­tuaria, attraverso lo stretto uscio che metteva in comunicazione la camera con l'atrio, giacché il suo desolato affetto la spingeva a sperare ancora nell'insperabile: ma inaspettatamente questa volta scorse due angeli assisi uno alla testa e l'altro ai piedi del loculo ove era stata la salma. Le dicono essi: Donna, perché piangi? Ella ri­sponde: Tolsero il Signore mio, e non so dove lo misero! Detto ciò, ella si rivolge dall'altro lato quasi per cercare ancora, e vede ritto un uomo su cui neppure fissa lo sguardo, tutta presa com'è daI suo pensiero, e lo crede il giardiniere del luogo. Le dice l'uomo: Donna, perché piangi? Chi cerchi? Ella risponde: Signore, se tu l'hai portato via, dimmi dove lo mettesti e io lo prenderò. L'uomo era Gesù. Le dice Gesu':”Maria!”. Voltatasi quella, gli dice in ebraico:”Rabboni!”, che significa “Maestro!”. Era la prima volta che il risorto era visto e riconosciu­to da persona umana, salvo ch'egli fosse già apparso alla madre sua, senza però che gli evangelisti ci dicano alcunché di tale apparizione. Riconosciuto il maestro, Maria si getta ad abbracciarne i piedi; ma Gesù le dice: Non mi toccare, poiché non sono ancora asceso al Pa­dre. Ma va' dai miei fratelli e di' loro: “Ascendo al Padre mio e Pa­dre vostro, e Dio mio e Dio vostro” (Giov., 20, 17). Era urgente av­vertire i discepoli di Gesù, da lui chiamati fratelli, che egli fra breve sarebbe asceso al Padre e Dio di lui e di loro, e quindi la giusta ef­fusione d'affetto non doveva esser prolungata affinché l'annunzio ai fratelli non subisse ritardi. L'ordine fu subito eseguito: Viene Maria la Magdalena annuncian­do ai discepoli:”Ho veduto il Signore!” e queste cose (che egli) disse a lei (Giov., 20, 18). Senonché l'effetto dell'annunzio pieno di tripudio fu addirittura umiliante: Quelli, udito che (Gesù) vive e che fu visto da lei, non prestarono fede (Marco, 16, 11).

§ 626. Le donne infatti ebbero sempre pessima accoglienza come testimoni della resurrezione di Gesù presso i primi cristiani. Quando le pie donne tornate dal sepolcro riferirono di averlo trovato vuoto e ripeterono l'annunzio degli angeli, i loro discorsi furono stimati una ciancia (§ 623). Qui Maria di Magdala, che riferisce di aver visto Gesù vivo e di avergli parlato, non trova egualmente alcuna fede. Ma anche più tardi, quando gli Apostoli e tutta la Chiesa furono incrol­labilmente ed ufficialmente convinti della resurrezione di Gesù, ri­mase sempre una certa inclinazione a non fare appello a testimonian­ze di donne; nessuna donna infatti è nominata nel celebre passo in cui Paolo adduce, certo non tutti, ma molti testimoni della resurrezione del Cristo: Risorse al terzo giorno secondo le Scritture, e fu visto da Cefa e in seguito dai dodici; poi fu visto da più che cinque­cento fratelli insieme, dei quali i più sono superstiti fino ad oggi men­tre taluni s'addormentarono; poi fu visto da Giacomo, quindi da tutti gli apostoli; ultimo fra tutti, come da un abortivo, fu visto anche da me (I Cor., 15, 4-8). Tutte testimonianze maschili: nessuna femmi­nile. E’ prohabile che questo contegno della Chiesa ufficiale fosse det­tato da una accorta prudenza, per non dare a Giudei e a idolatri la impressione che troppo leggermente si era creduto sull'attestazione di donne fantasiose e visionarie. E’ certo ad ogni modo che gli stessi discepoli immediati di Gesù, come apparirà sempre meglio in segui­to, erano tutt'altro che proclivi a prestar fede a chi avesse asserito - uomo o donna che fosse - d'aver visto Gesù redivivo.

§ 627. Al contrario, ben pronti a credere si mostrano i Sinedristi a cui si presentarono i soldati fuggiti via dal sepolcro (§ 621). Nel rac­conto fatto dai soldati ancora affannati dalla corsa e sconvolti dalla paura, quei maggiorenti giudei non trovarono nulla d'inverosimile e vi prestarono piena fede; ma naturalmente anch'essi, come già i sol­dati, provvidero ai ripari per salvare insieme se stessi e i soldati. Come al solito, essi cominciarono a stendere pannicelli davanti al sole affinché la luce non trapelasse. I sommi sacerdoti, radunatisi insieme con gli anziani e preso consiglio, dettero molte (monete) d'argento ai soldati dicendo:”Dite: - I discepoli di lui, venuti di notte, lo ruba­rono mentre noi dormivamo! - e se ciò sia udito dal governatore, noi lo persuaderemo e ti renderemo indisturbati”. Quelli allora, pre­se le (monete) d'argento, fecero com'era stato loro insegnato. E si divulgò questo discorso presso i Giudei fino al giorno d'oggi (Matteo, 28,12-15). Il suggerimento dato dai Sinedristi ai soldati fuggiaschi, lo rubarono mentre noi dormivamo, non era un portento d'acutezza; è infatti tut­tora decisiva la replica di S. Agostino, che rivolgendosi in maniera oratoria al Sinedrio gli chiede lepidamente: Ma come? Porti dei te­stimoni addormentati? Molto più efficaci furono le monete d'argento, estratte dallo stesso forziere da cui provenivano quelle di Giuda. Ad ogni modo la calunnia attecchì, e ai tempi in cui scriveva Mat­teo era diventata presso i Giudei la spiegazione ufficiosa del sepol­cro rimasto vuoto: anzi si può vedere in essa il primo seme di quel­la fioritura di calunnie che nei secoli successivi fornì il materiale al giudaismo ufficiale per la biografia di Gesù (§ § 88-89).

§ 628. Esiste nei documenti profani qualche riecheggiamento di que­sta calunnia? Nel 1930 fu pubblicata un'iscrizione greca che porta il titolo di Rescritto di Cesare e che in sostan­za vuole impedire il delitto della violatio sepukhri; in essa l'impe­ratore ordina che le tombe rimangano immutabili in perpetuo, e che chiunque abbia manomesso tombe o esumato salme, o le abbia tra­sportate in altri luoghi per dolo malvagio o abbia asportato iscrizioni, ecc., sia citato in giudizio; termina poi con que­sta conclusione: Assolutamente a nessuno sia lecito fare traslazioni; altrimenti costui io voglio che sia condannato nel ca­po a causa di violazione di sepolcro. L'iscrizione, che già faceva parte di una collezione privata (Froehner), è a Parigi; dall'inventario ma­noscritto del defunto collezionista risulterebbe ch'essa fu inviata da Nazareth nel 1878. Il nome di Nazateth e il contenuto dell'iscrizione dettero occasione a una seducente ipotesi. L'innominato Cesare sarebbe Tiberio, che invia nella Giudea istruzioni per un caso particolare. Questo caso, delicato e pericoloso, è il sepolcro di Gesù rimasto vuoto, perché se­condo la calunnia dei Sinedristi i discepoli ne hanno asportato il cadavere: appena sparsa la calunnia, che può recare anche gravi con­seguenze politiche, Pilato ha inviato una relazione particolareggiata a Tiberio (cfr. Giustino, I ApoL, 35; Tertulliano, Apolog., 21; Euse­bio, Hist. eccl., it, 2) sia sul processo di Gesù sia sulla scomparsa della sua salma. La relazione di Pilato provoca in risposta il rescritto imperiale, il quale viene scolpito su marmo ed esposto pubblicamente a Nazareth, patria di Gesù. L'ipotesi, come abbiamo detto, è seducente, ma appunto per questo bisogna guardarsi dalle lusinghe della sedu­zione.
Appena l'iscrizione e questa sua interpretazione furono pub­blicate, cominciarono le discussioni: si esaminarono minutamente ra­gioni pro e contro, e si trovò che l'ipotesi suppone sicuri e dimostrati vari punti che sono ben lungi dall'essere tali. E in primo luogo l'iscrizione proviene proprio da Nazareth? Lo dice unicamente una breve annotazione del defunto collezionista (Froeh­ner), e ciò è troppo poco per fidarsi ciecamente: l'iscrizione sarà an­che stata spedita in Europa da Nazareth, ma il vero posto del suo ritrovamento può essere stato benissimo altrove, giacché si sa per esperienza che i beduini palestinesi portano in giro di luogo in luogo gli antika capitati sotto la loro zappa, finché non trovano un compra­tore. Oltre a ciò, chi è il Cesare del rescritto? E’ certamente un imperatore che governa province sue proprie, in contrapposto a quelle senatorie, e quindi non si può risalire più in su dal 27 av. Cr. (§ 20); ma da questa data si può discendere per lungo tratto, senza che un'allusione del testo o la forma delle lettere scolpite offrano un ar­gomento solido per fissarne l'età. Augusto, Tiberio, Caligola, Clau­dio? Tutti questi imperatori sono stati nominati in proposito, e perfino Vespasiano e Adriano, e si sono portate in favore di ciascun nome ragioni più o meno fondate. Perciò, senza entrare qui in discus­sioni tecniche sul carattere dell'epigrafe, sembra molto arrischiato volersi restringere al solo Tiberio, e alla sola Nazareth, e al solo caso del sepolcro di Gesù. Astrattamente parlando l'iscrizione può rice­vere molte interpretazioni tutte verosimili, ma essa purtroppo non ci fornisce elementi per afferrare l'unica interpretazione vera.

§ 629. Si era pertanto ancora alla domenica successiva alla morte di Gesù, e fra l'andare e il tornare delle varie persone al sepolcro erano trascorse due o tre ore; nel frattempo tra i discepoli di Gesù, affluiti in città per la Pasqua, ma tuttora timorosi e guardinghi per la do­lorosa fine del maestro, si era diffusa la voce che le pie donne andate sul far del giorno al sepolcro lo avevano trovato vuoto e vi avevano visto degli angeli: la testimonianza di Maria la Magdalena, che as­seriva di aver visto anche Gesù e parlato con lui, non si era ancora diffusa, certamente perché era mancato il tempo. Ma tutto ciò era una ciancia di donne (§ 623) alla quale non bisogna­va dar peso. D'altra parte la festività pasquale non tratteneva i pelle­grini per tutti gli otto giorni, e molti in quel giorno 16 Nisan successivo alla Pasqua si mettevano già in cammino per tornare alle loro case. Tale determinazione fu presa quella domenica anche da due discepoli di Gesù, uno dei quali si chiamava Cleofa: sfiduciati per quanto era accaduto, si misero da soli in viaggio per Emmaus dove abitavano. Dovevano essere circa le nove di mattina. Il racconto che lo psicologo Luca fa del loro viaggio è di tale finezza da sembrare un idillio e il sostituirlo sarebbe grave scapito. Cammin facendo, essi conversavano fra loro di tutte queste cose che erano accadute. E avvenne, mentr'essi conversavano e discutevano, che proprio Gesu' avvicinatosi camminava insieme con essi, ma gli occhi loro erano trattenuti si da non riconoscerlo. Disse pertanto ad essi:” Che discorsi sono cotesti che vi scambiate l'un l'altro cammi­nando?”. E chi era quello strano viandante che faceva quella do­manda, toccandoli sul vivo della ferita? La sorpresa interruppe un momento il cammino. E si fermarono rattristati.
Ma rispondendo uno di nome Cleofa gli disse:” Tu solo sei forestiero a Gerusalemme, e non sai le cose che sono accadute in essa in questi giorni?”. E (Gesù) disse loro:”Quali?”. Essi gli dissero:”I fatti di Gesu' il Nazareno, che fu uomo profeta possente in opera e parola davanti a Iddio e a tutto il popolo, e come i sommi sacerdoti e i maggiorenti nostri lo consegnarono a condanna di morte e lo crocifissero. Noi invece spe­ravamo ch 'e gli sarebbe stato colui ch'e' per affrancare Israele”. A quale “affrancamento” pensa qui Cleofa? E’ difficile escludere il senso messianico-nazionalista, per cui Gesù avrebbe do­vuto liberare sia pur con l'intervento taumaturgico del Dio d'Israe­le - il popolo santo da ogni dominazione straniera. Ma con la morte di Gesù la speranza è svanita, e quindi Cleofa prosegue: “Eppure, con tutto ciò, e' il terzo giorno dacché queste cose avvennero. Ci fe­cero bensì stupire talune donne d'in mezzo a noi, ch'essendo state di buon'ora al sepolcro e non avendo trovato il corpo di lui, vennero a dire d'aver visto un'apparizione d'angeli i quali affermano ch'egli e' vivo; andarono poi al sepolcro alcuni di quei che sono con noi, e trovarono (le cose) così come dissero anche le donne, non videro però lui”.

§ 630. Queste ultime parole mostrano che i due erano partiti da Ge­rusalemme prima che Maria di Magdala annunziasse di aver visto Gesù, altrimenti anche questo annunzio sarebbe stato rammentato, se non altro per gettare discredito pure su di esso. Ma quando Cleofa ebbe terminato, lo sconosciuto improvvisamente mutò contegno, e da ignaro ch'era apparso fin li si mostrò informatissimo. Ed egli disse loro:”O stolti e lenti di cuore nel credere a tutte le cose di cui parlarono i profeti! Non doveva forse patire queste cose il (Messia), e (cosi) entrare nella sua gloria?”. E cominciando da Mosè e da tutti i Profeti, ossia dalle due prime parti della Bibbia ebraica, interpretò ad essi in tutte le Scritture le cose che riguardavano lui Cosicché la cura che mostrano gli evangelisti in genere, ma special­mente Matteo e Giovanni, di rilevare nei fatti di Gesù l'adempimen­to delle antiche profezie bibliche non è in realtà che la continuazione di quanto fece Gesù in quella lezione peripatetica. La lezione veramente fu lunga com'era lungo il cammino, ma agli scolari l'uno e l'altra sembrarono troppo corti quando si fu alla fine. Prosegue infatti il racconto: E s'avvicinarono alla borgata dov'erano incamminati, ed egli fece vista di proseguire piu' oltre; ma gli fecero forza dicendo:”Rimani con noi, perché e' verso sera e il giorno e' già inclinato”. Ed entrò per rimanere con loro. Non è necessario credere che già calassero le ombre della notte; l'e­spressione ch'era verso sera poteva impiegarsi già da circa il mezzo­giorno (cfr. Giudici, 19, 9 con 14), se quindi i due erano partiti verso le nove del mattino e avevano percorso una trentina di chilometri si doveva stare verso le due o le tre pomeridiane. E avvenne, mentre egli era reclinaio (a mensa) con loro, che preso il pane benedisse e spezzato (lo) dava a loro.
S'aprirono però gli occhi loro e lo riconob­bero; ed egli divenne invisibile ad essi. E dissero fra loro:”Non era forse bruciante il nostro cuore in noi quando ci parlava per la strada, quando ci dischiudeva le Scritture?”. La circostanza che i due disce­poli riconobbero Gesù allo spezzare del pane fu riavvicinata talvolta nel passato alla frase “spezzare il pane”, che nella Chiesa primitiva designava l'Eucaristia, e se ne concluse che Gesù aveva rinnovato a Emmaus questo rito. Ma la conseguenza non è storicamente giustifi­cata, giacché non risulta se i due discepoli avevano saputo che Gesù tre giorni prima aveva istituito l'Eucaristia, se Gesù ne aveva parlato loro lungo la strada e se era disposto a celebrare il rito per chi non ne aveva alcuna idea: stando anzi alla lettera del racconto, i disce­poli riconobbero Gesù all'atto dello spezzare il pane ossia prima di mangiare, seppure in seguito mangiarono effettivamente fra la me­raviglia del riconoscimento.

§ 631. La meraviglia e la commozione fu tanta, che i due si misero subito in cammino: E levatisi su in quella stessa ora ritornarono a Gerusalemme, e trovarono adunati gli undici e quelli che erano con essi, i quali dicevano:”Realmente risorse il Signore e fu visto da Simone!”. Essi poi raccontarono le cose (avvenute) nella via, e co­me fu conosciuto da loro allo spezzar del pane (Luca, 24, 14-35). Se i due ripartirono da Emmaus fra le due e le tre pomeridiane, pren­dendo la strada più corta e servendosi di una cavalcatura, poterono trovarsi di nuovo a Gerusalemme verso le otto o le nove di sera. Ma anche giunti in città non fu facile ad essi rintracciare gli Apc­stoli, perché nessuno li aveva visti e nessuno sapeva dove stessero; fi­nalmente li scovarono in un ben sicuro nascondiglio, ove si trattene­vano con gli usci accuratamente sbarrati per la paura dei Giudei (Giov., 20, 19). Ma nonostante la paurosa cautela esterna, tutti là dentro erano eccitati e commossi. Appena i due viandanti ancora coperti di polvere si spinsero dentro, sicuri di dare una notizia strabiliante, rimasero invece interdetti e non ebbero neppure il tempo di parlare; tutti si affollarono attorno a loro annunziando a gara: Realmente risorse il Signore e fu visto da Simone! Dunque in quella stessa giornata, dopo la partenza dei due da Gerusalemme e dopo l'apparizione a Maria di Magdala, Gesù era apparso anche a Simo­ne Pietro; e costui si era affrettato a darne l'annunzio agli Apostoli e ai discepoli, infondendo loro quella fede che non era stata infusa dall'annunzio di Maria di Magdala. Ora, tale apparizione di Gesù a Simone Pietro in questa domenica successiva alla morte non è narrata nei suoi particolari da nessun evangelista, ma è certo quella accennata da Paolo che la mette per prima nella serie delle apparizioni del risorto (§ 626); Luca disce­polo di Paolo l'ha appresa dal suo maestro, e costui a sua volta l'a­veva appresa, oltreché da altri, certamente anche da Pietro stesso quando ancor nuovo nella fede, era salito a Gerusalemme per vedere Cefa (GaIa II, 1,18). La Roccia della Chiesa era stata privilegiata fra gli altri Apostoli in virtù del suo ufficio: il rinnegatore di Gesù era stato ampiamente perdonato in virtù di quel suo pianto ch'era man­cato a Giuda. Quando i due viandanti ebbero la possibilità di parlare narrarono alla loro volta l'apparizione da essi avuta; ma, inaspettatamente, il loro annunzio fu accolto con molta freddezza. Sarà stata una certa diffi­denza che si aveva per i due abitanti di Emmaus, sarà stata una cer­ta ombrosità a sentire che due oscuri discepoli avevano ricevuto lo stesso privilegio concesso a Simone Pietro e tuttora negato agli altri Apostoli, certo è che se non tutti almeno parecchi dei presenti neppure ad essi prestarono fede (Marco, 16, 12). E’ facile supporre che, fra i due che insistevano ad affermare e gli altri che continuavano a negare, sorgessero animate discussioni che si prolungarono in quel­la serata.

§ 632. Ma quel giorno doveva chiudersi, non con tali discussioni, bensì con la sicurezza generale. Ora, mentre essi parlavano di queste cose, egli (Gesù) stette in mezzo a loro e dice ad essi:”Pace a voi!”. Divenuti sgomenti e impauriti, credevano di vedere uno spirito. Ed (egli) disse loro: “Perché siete turbati e perché pensieri (dubbiosi) sorgono nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi, giacché sono proprio io! Palpatemi e vedete, giacché uno spirito non ha carne e ossa come vedete che ho io”. E detto ciò mostrò loro le ma­ni e i piedi. Tuttavia, poiché essi ancora non credevano per la gioia e stavano ammirati, disse loro:”Avete qualcosa da mangiare qui?”. Essi allora gli dettero una parte di pesce arrostito, e preso(lo), man­giò davanti a loro (Luca, 24, 36-43). Si ricordi che questa scena è nar­rata da un medico e da uno psicologo; la stessa scena narrata da Giovanni (20, 19-23) non concederà tanto campo alle osservazioni sperimentali che sembrano quelle d'un gabinetto di fisica, nè farà sottilmente rilevare che gli Apostoli non credevano per la gioia, ossia per il timore d'ingannarsi, giacché ciò che piace si crede anche troppo facilmente. I dubbi sono dissipati dalla realtà fisica: Gesù nella sua seconda vita ha l'identico corpo della prima vita; può an­che mangiare egualmente come prima. Non è un'ombra vaporosa ri­salita dalla Sheol (§ 79): è un corpo fisico risuscitato, riunito alla sua anima. Assicurato il presente, Gesù provvide al futuro, e di ciò riferisce ufficialmente Giovanni: “Come il Padre inviò me, anch'io invio voi”. E detto ciò, insuffiò e dice loro:”Ricevete Spirito San­to. Qualora rimettiate i peccati di taluni, sono stati rimessi loro; e qualora (li) riteniate, sono stati ritenuti” (Giov., 20, 21-23). L'antica promessa fatta agli Apostoli per il futuro governo della Chiesa (§ §397, 409) era qui mantenuta.

§ 633. Ma quella sera, in quel cauto ritiro degli Apostoli, non era presente Tommaso, l'uomo diffidente e sfiduciato (§ § 372, 489). La sua assenza era forse una nuova manifestazione del suo carattere? Sdegnava egli perfino di discutere le affermazioni di Maria la Mag­dalena e di Pietro, e perciò aveva evitato di trovarsi insieme con gli altri Apostoli? Non sappiamo, e qualunque risposta sarebbe con­getturale; certo è che, quando poco dopo si ritrovò con gli Apostoli ed essi gli assicurarono: Abbiamo visto il Signore, egli scrollò quasi scandalizzato la testa e sentenziò con la massima energia: Se io non vedo nelle mani di lui l'impronta dei chiodi e metto il mio dito nel posto dei chiodi e metto la mia mano nel costato di lui, non cre­derò! Bisognava pur essere ragionevoli! Come poteva risorgere un uomo crocifisso, ridotto a un ammasso di carni lacerate e stracciate, con i piedi e le mani traforate e il petto squarciato? L'aveva visto Maria di Magdala? Ma che fede meritava una isterica qualunque, una fem­mina da cui nientemeno erano usciti sette demonii (§ 343)? L'ave­vano visto gli altri Apostoli, che avevano puntato gli occhi sulle ma­ni e sui piedi di lui? Si, brava gente quegli Apostoli, ma avevano la testa un po' accesa e troppo facilmente s'immaginavano di vedere ciò che piace! Lui, Tommaso, era l'uomo calmo, ponderato, fatto appe­sta per certi casi: e in casi come quello non bastava affatto vedere - o piuttosto immaginarsi di vedere - bisognava toccare, palpare, in­figgere il dito; solo a questo patto egli avrebbe creduto. Il principe dei positivisti e degli ipercritici rimase incrollabile per otto giorni, e nessun ragionamento degli altri Apostoli riuscì a scuo­terlo dalla sua opinione. Ma otto giorni dopo, nuovamente erano dentro i discepoli di lui (Gesù) e Tommaso con loro. Viene Gesu', essendo sbarrate le porte, e stette nel mezzo e disse: « Pace a voi! ». Poi dice a Tommaso: “Stendi il tuo dito qui e vedi le mie mani, e stendi la tua mano e metti(la) nel mio costato e non essere incredulo ma credente”. Rispose Tommaso e gli disse: « Signore mio e Iddio mio! ». Gli dice Gesu': « Perché mi hai veduto, hai creduto? Beati quei che non videro e credettero! ». Mantenne Tommaso il suo pre­posito di palpeggiare il corpo del risorto? Tutto c'induce a credere di no. Il positivismo e l'ipercritica di lui crollarono, come avviene sempre, non tanto per disquisizioni intellettuali quanto per mutate condizioni di spirito.


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06/08/2012 21:05

Le apparizioni nella Galilea

§ 634. Le apparizioni di Gesù fin qui narrate avvennero tutte a Gerusalemme o nei dintorni, ossia nella Giudea; altre, narrate egual­mente dagli evangelisti, avvennero poco appresso nella Galilea: quel­le ricordate da Paolo (§ 626) dovettero avvenire parte nella Giudea e parte nella Galilea. La diversità della regione ha la sua importanza. Gli angeli apparsi al sepolcro avevano incaricato le pie donne di comandare ai discepoli e a Pietro che si recassero in Galilea ove avrebbero visto il risorto (§ 623); ciò narrano concordemente Matteo e Marco, che difatti si attengono a questo comando e riferiscono soltanto apparizioni nella Galilea (salvo Matteo, 28, 9-10, e l'appendice di Marco, 16, 9-20). Il comando dato ai discepoli non è invece riportato da Luca e Gio­vanni; perciò essi riferiscono ampiamente apparizioni nella Giudea sebbene non omettano quelle nella Galilea (ad es. Giovanni, 21). Ma la preferenza dell'una o dell'altra regione non è che una conseguenza del particolare scopo propostosi da ciascun evangelista; infatti le ap­parizioni del risorto davanti a gruppi più numerosi di testimoni, e in cui furono impartite norme più ampie e disposizioni più fondamen­tali riguardo al regno dei cieli, avvennero in Galilea (cfr. Matteo, 28, 16-17, e I Cor., 15, 6), ed a queste accennano - più che narrarle esplicitamente - Matteo e Marco: per tale motivo essi, volendo ri­chiamare l'attenzione del lettore su quelle apparizioni, premettono l'appuntamento in Galilea dato ai discepoli dagli angeli. Ma questa preferenza dei due primi Sinottici non esclude la tradizione delle apparizioni nella Giudea, prescelta per i loro scopi da Luca e in par­te da Giovanni; sappiamo infatti per vecchia esperienza che nessun evangelista pretende esaurire l'argomento, e di ciò abbiamo qui una chiarissima conferma da Luca. Egli, dopo aver narrato le apparizioni della domenica di resurrezione (Luca, 24, 1-49), passa a narrare sen­za alcun distacco cronologico l'ascensione del risorto (ivi, 50-53), co­sicché a leggere soltanto il suo vangelo si potrebbe legittimamente concludere che l'ascensione sia avvenuta nello stesso giorno della resurrezione; senonché il medesimo Luca, poco dopo il vangelo, scri­ve anche gli Atti ove (1, 3) più distintamente ricorda che Gesù dopo la resurrezione apparve agli Apostoli dimostrandosi vivente con molte prove e parlando loro per quaranta giorni del regno di Dio. Abbiamo pertanto due tradizioni rispecchiate nel Nuovo Testamento, una sulle apparizioni nella Galilea e l'altra su quelle nella Giudea: nessuna delle due tradizioni vuol essere esauriente e tanto meno escludere l'altra, bensì ogni scrittore preferisce o l'una o l'altra, e talvolta (Pao­lo, Giovanni) le impiega promiscuamente.

§ 635. Terminato il ciclo delle feste pasquali, gli Apostoli tornarono nella Galilea; a tale ritorno li spingeva, oltre il comando dato loro da Gesù (§ 623; Matteo, 26, 32), anche il pensiero che là sarebbero Stati lontani dalla sorveglianza immediata del Sinedrio, e quindi più liberi nell'attesa che il risorto si mostrasse come e quando avesse voluto. La promessa di Gesù, infatti, aveva fissato il luogo ma non il tempo, e perciò non restava che attendere. Forse la partenza da Gerusalemme seguì di poche ore l'apparizione a Tommaso, la quale poté avvenire quando gli Apostoli erano già riuniti in carovana per partire. Qualche giorno dopo, sulle rive del lago di Tiberiade, sta­vano di nuovo Simone Pietro, Tommaso, Nathanael (Bartolomeo), Giacomo e Giovanni, e due altri Apostoli innominati che forse erano Andrea e Filippo. Il piccolo gruppo probabilmente viveva ancora di proventi messi in comune, come quando era insieme con Gesù e la cassetta comune era tenuta da Giuda. Può darsi che in quei due giorni, dopo la fuga di Giuda con la cassetta e dopo le spese sostenute a Gerusalemme e nel viaggio, il gruppo si trovasse in strettezze economiche; ad ogni modo quei pescatori non potevano restarsene oziosi in vista del lago, e pur aspettando di giorno in giorno l'apparizione del risorto ripresero le antiche occupazioni per procurarsi il sostentamento. Una sera Si­mone Pietro dice agli altri: Vado a pescare. Gli rispondono: Ve­niamo anche noi con te. La pesca notturna riusciva meglio a essere in molte braccia, perché potevano impiegare le reti lunghe a stra­scico. Saliti in barca e gettate le reti, quella fu una nottataccia e allo spuntar dell'alba ancora non avevano preso nulla: del resto, già nel passato Simone Pietro aveva conosciuto di simili nottatacce (§ 303). Accostarono quindi alla riva per sbarcare.
Quando furono vicini un 200 cubiti, ossia un centinaio di metri, in­travidero a terra tra la foschia una figura che non si distingueva be­ne ma sembrava un uomo che li aspettasse: forse era un rivenditore che voleva acquistare il pesce. Giunti poi a tiro di voce, l'uomo do­mandò: Ragazzi, che avete qualcosa da mangiare? Dopo una notte di fatiche sprecate, la domanda arrivava come una celia e perciò non fu gradita. Dalla barca gli fu risposto con un No! secco, che non ammetteva replica. E invece la replica venne; l'uomo gridò ancora attraverso la nebbia mattutina: Gettate la rete dalla parte destra della barca, e troverete! E chi era quello sconosciuto che dava consigli con tanta sicurezza? Parlava a vanvera o per esperienza? Tutti e due i casi erano possi­bili; ma, tante volte, pescatori esperti sanno trarre preziose indica­zioni da segni minimi dell'acqua, e forse quello sconosciuto aveva visto dalla spiaggia qualche buon segno: ad ogni modo un nuovo tentativo, dopo tanti inutili, costava poco, e fu subito fatto. La rete fu gettata dove lo sconosciuto aveva detto, e non riuscivano piu' a tirarla per la moltitudine dei pesci. Questo risultato fece riaffiorare vecchi ricordi nella memoria di quei pescatori (§ 303). Dopo un attimo di trepidante dubbiezza, il disce­polo che Gesù amava, scattando, balzò vicino a Pietro e gridò con l'indice teso verso lo sconosciuto: E’ il Signore! Tutto allora diventò chiaro e naturale per quegli uomini.

§ 636. Simone Pietro, udito che é il Signore, si cinse attorno il ca­miciotto giacché era nudo, e si gettò nel mare; ma gli altri discepoli vennero con la barca - giacché non erano lontani dalla terra ma (soltanto) circa duecento cubiti - trasci­nando la rete dei pesci. Il focoso Pietro, conforme al suo carattere, non può aspettare e si getta in acqua per far più presto; per nuotare più agevolmente si strinse bene ai fianchi l'ampio camiciotto, che indossava a carne durante il lavoro in luogo della tunica: era dun­que nudo in quanto privo dell'usuale tunica, ma già aveva indossato il camiciotto che egli al grido di Giovanni strinse bene alla vita per poter nuotare. Il nuotatore superò in poche bracciate il cen­tinaio di metri che lo separavano dalla riva, e presto fu ai piedi del risorto; ma gli altri rimasti in barca vennero lenti perché dovevano trascinare il grosso peso. Quando poi scesero, videro sulla riva un focherello acceso, con pe­sci che arrostivano e pane preparato. Dice loro Gesu':”Portate dei pesci che prendeste adesso”. Pietro risalì in barca e aiutato dagli al­tri tirò a terra la rete: conteneva 153 grossi pesci, ed essendo tanti non si squarciò la rete. Dice loro Gesu': “Venite a far colazione”. Nessuno però dei discepoli osava interrogarlo:”Tu chi sei?” sa­pendo ch'e' il Signore. Sentivano quegli uomini un certo timore re­verenziale, quasi un pudore mistico, che li tratteneva dal rivolgere al maestro redivivo qualsiasi domanda circa la sua persona. Per es­ser lui, era lui, da non poterne dubitare; ma quanto volentieri gli avrebbero rivolto domande come queste Come hai fatto a risor­gere da morte? Dove sei stato in tutti questi giorni? Come sei ve­nuto qui? Dove stai quando non stai con noi? Ma tutte siffatte domande erano impedite dalla riverenza, e nessu­no osava interrogarlo.

§ 637. La riverenza non impedì però l'appetito, e tutti mangiarono gioiosamente il pane e i pesci distribuiti loro da Gesu'. Rifocillati gli stomachi, si passò alle anime. Quando dunque ebbero fatto cola­zione, dice Gesu' a Simone Pietro:”Simone (figlio) di Giovannini? mi ami più di costoro?”. Dice (Pietro) a lui:”Si, Signore, tu sai che io ti voglio bene”. Gli dice (Gesu'): « Pasci i miei agnelli ». Dice a lui. di nuovo per la seconda volta: « Simone di Gio­vanni, mi ami? ». Dice a lui: « Sì', Signore, tu sai che ti voglio be­ne ». Gli dice: « Pasci le mie pecorelle ». Gli dice per la terza volta: « Simone di Giovanni, mi vuoi bene? ». Pietro s'attristò perché gli disse per la terza volta: « Mi vuoi bene? » e disse a lui: « Signore, tu sai tutto: tu conosci che ti voglio bene ». Gli dice Ge­su': « Pasci le mie pecorelle...». La triplice domanda di Gesù non fa­ceva allusioni al passato per caritatevole delicatezza, ma con un do­loroso passato era ben collegata mediante la sua triplice ripetizione tre volte aveva' Pietro rinnegato il maestro nell'ora delle tenebre, e adesso tre volte in compenso gli professava amore nell'ora della luce. Ma anche per un'altra ragione la triplice domanda si ricollegava col passato. Nel giorno di Cesarea di Filippo lo stesso Simone era stato da Gesù proclamato Roccia fondamentale della Chiesa, con l'incari­co di governarla come un pastore governa il suo gregge (§ 397); ebbene, si ricordi Simone Pietro che questo suo ufficio dovrà essere una cura d'amore, una conseguenza di quell'affetto ch'egli ha pro­fessato a Gesù.
Il pastore supremo s'allontanerà dal suo gregge ma non lo lascerà incustodito: in sua vece stabilisce egli un pastore vi­cario, il quale dovrà agire con quello stesso amore e per quello stes­so amore con cui ha agito il pastore supremo. Per quell'amore il pastore supremo è stato ucciso: è quindi possibile che la stessa sorte spetti al pastore vicario. Per Pietro personalmen­te questa sorte è predetta come sicura da Gesu', il quale perciò pro­segue: “.... In verita, in verita' ti dico, quando eri più giovane ti cin­gevi da te stesso” come aveva fatto in realtà Pietro poco prima per gettarsi in acqua «e camminavi dove volevi; ma quando (tu) sia in­vecchiato, stenderai le tue mani e un altro ti cingera' e condurra' dove non vuoi». Ora, disse questo significando con qual morte (Pie­tro) glorificherà Iddio. Quando Giovanni scriveva quest'ultima proposizione, già da parecchi anni Pietro era stato ucciso per la fede di Gesù e per l'amore dell'ufficio affidatogli: altri Io aveva veramente cinto di vincoli e condotto al supplizio, facendo sì che il pastore vicario anche nella morte seguisse il pastore supremo. Perciò Gesù conchiuse il suo discorso a Pietro dicendogli, a guisa di esortazione e insieme di conforto: Seguimi!

§ 638. Ma questa, e certo anche altre apparizioni di Gesù nella Ga­lilea, non ebbero la solennità di quella a cui accenna Matteo (28, 16 segg.). Essa avvenne su una montagna la quale, come ci si dice qui occasionalmente, era già stata stabilita da Gesù come luogo di convegno agli Apostoli. Naturalmente con questa sola notizia è im­possibile riconoscere di quale montagna si tratti: che fosse quella delle Beatitudini, ossia del Discorso della montagna (§ 316), si po­trebbe congetturare solo in forza dell'analogia fra le due scene. ben possibile che al principio o alla fine di questa apparizione, che dovette essere lunga, fossero presenti anche altri discepoli di Gesù oltre agli Apostoli: ma è del tutto incerto che appunto ad essa alluda Paolo quando ricorda occasionalmente che il risorto fu visto da piu' che cinquecento fratelli insieme, dei quali i piu' sono superstiti fino ad oggi (§ 626). Le particolarità dell'apparizione questa volta non ci sono narrate: perciò non sappiamo a quali circostanze della scena o a quali delle persone presenti si riferisce l'accenno alcuni poi dubitarono; forse questi dubitanti non erano gli Apostoli, e se erano essi il loro dubbio si riferì non al fatto della resurrezione ma a ta­lune circostanze che dovevano garantire l'identità del risorto. Ricono­sciuto con certezza dagli Apostoli, Gesù disse loro: Mi fu data ogni. potestà in cielo e sulla terra. Messivi dunque in cammino, rendete discepole tutte le genti, battezzando essi nel nome del Padre e del Figlio e del santo Spirito, insegnando loro ad osservare tutte quante le cose che comandai a voi. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo (cfr. § 525).

La Chiesa fondata da Gesu' entrava oramai in un nuovo periodo, che si sarebbe prolungato sino alla fine del mondo.

In luogo del pastore supremo stava il pastore vicario; il gregge doveva esser formato da tutte le genti di ogni regione e stirpe, e non dalla sola nazione eletta d'Israele; tutti i nuovi entrati nel gregge sarebbero stati discepoli di Gesù, come erano stati i discepoli immediati che lo avevano co­nosciuto di persona; nel gregge si doveva entrare per mezzo del battesimo e della fede nel nome del Padre e del Figlio e del santo Spi­rito; compito dei nuovi discepoli era di osservare quanto Gesù aveva comandato di osservare ai vecchi discepoli; soprattutto, poi, il gregge sarebbe stato assistito e protetto dal pastore supremo, il quale in maniera invisibile ma non meno efficace sarebbe rimasto in mezzo ai suoi futuri discepoli fino alla fine del mondo. Qui perciò finisce la vita di Gesu', e comincia quella della Chiesa: si chiude la storia del Cristo secondo la carne, e comincia quella del Cristo mistico (Efes., 5, 23; Coloss., 1,18).

L'ascensione

§ 639. Tutti presi da questa idea, che la storia del Cristo secondo la carne è semplicernente il primo capitolo della storia della Chiesa, gli evangelisti hanno dato pochissimo rilievo alla scomparsa materia­le di lui dalla terra, ossia alla sua ascensione; la materialità visibile, infatti, contava poco quando si era ben certi della presenza invisibile di lui e della sua assistenza dall'alto dei cieli. Troviamo perciò che l'ascensione di Gesù non è affatto narrata da Matteo; in Marco (16, 19) essa è fugacemente accennata nell'appendice; in Giovanni (20, 17) è appena ricordata in forma di predizione; l'unico evange­lista che la narri con una certa ampiezza è Luca (24, 50 segg.), ma appunto perché egli, terminando nel vangelo la storia del Cristo se­condo la carne, si è proposto di scrivere subito appresso anche la storia del Cristo mistico: i suoi Atti di (degli) Apostoli sono infatti una storia episodica della Chiesa, e perciò essi cominciano ripetendo l'ascensione (Atti, 1, 1-11) come con l'ascensione si era chiuso il suo vangelo. Essa avvenne presso Gerusalemme sul monte degli Olivi, nelle vici­nanze di Bethania, quaranta giorni dopo la resurrezione. Poiché gli Apostoli partirono da Gerusalemme per la Galilea quando erano pas­sati non meno di otto giorni dalla resurrezione (§ 635) e si ritrovaro­no a Gerusalemme alquanto prima dell'ascensione, la loro permanen­za nella Galilea sarà stata di meno di un mese.
A questo tempo par­ticolarmente vanno assegnate le molte altre apparizioni vagamente accennate da Paolo (§ 626), e anche da Luca quando dice che il ri­sorto apparve agli Apostoli dimostrandosi vivente con molte prove, parlando del regno di Dio e trattando abitualmente con essi (Atti, 1, 3-4). Trasferitisi quindi nuovamente a Gerusalemme per ordine senza dubbio di Gesù, ivi avvenne l'ultimo convegno; in esso il ri­sorto impartì le ultime disposizioni, fra cui quella che non si allon­tanassero dalla città per aspettarvi “la promessa del Padre che udiste di me: poiché Giovanni battezzò in acqua, ma voi sarete battezza­ti in Spirito santo fra non molti (di) questi giorni” (Atti, 1, 4-5).

§ 640. La promessa si riferiva a quanto avvenne poco dopo, nel giorno della pentecoste giudaica (§ 76), con la discesa dello Spirito santo. Ma anche in quest'ultimo convegno col maestro risorto, gli Apostoli sentivano vagamente che stava per compiersi qualche cosa di straordinario: perciò nelle loro menti riaffiorarono le antiche idee di messianismo nazionalista, le quali erano cosi radicate in quegli spiriti giudaici che vi si erano conservate in parte anche attraverso i fatti della morte e della resurrezione. I convenuti si avvicinarono quindi pieni di speranze a Gesù e con un dolce sorriso invitatorio, quasi per ottenere una confidenza da lungo tempo bramata, gli chiesero: Signore, che forse in questo tem­po ristabilisci il regno ad Israele? Il povero Israele, infatti, stava là da tanti anni privo di qualunque potere politico e sottoposto dapprima a quei bastardi di Erodi e poi a quegli incir­concisi di Romani: proprio questo, dunque, sarebbe stato il tempo opportuno per creargli un bel regno, il cui monarca sarebbe stato naturalmente Gesù stesso, che però si sarebbe servito degli Apostoli come di ministri; con un'organizzazione di tal genere sarebbe stato facilissimo spedire eserciti alle quattro parti del mondo per sbaraglia­re i Romani e insieme predicare la dottrina di Gesù. Che male ci sarebbe stato a compiere i due uffici insieme, di conquistatori po­litici e di missionari del vangelo con la spada alla mano?
L'antico salmo aveva ben glorificato i santi d'Israele che avevano le laudi di Dio nella loro bocca e una spada a due tagli nella loro mano. Salmo 149, 6. Ora Gesù, che aveva risuscitato se stesso dai morti, poteva ben com­piere quest'altro miracolo, risuscitando a nuova vita di gloria poli­tica il morto Israele! Ma, purtroppo, la risposta del risorto fu come tante altre date da lui su questo argomento prima della morte, cioè tale da agghiacciare all'istante i bollenti spiriti degli Apostoli: Non spetta a voi conoscere i tempi o i momenti che il Padre stabilì col suo potere; bensì riceverete possanza, sopravvenuto che sia su voi il santo Spirito, e mi sarete testimoni tanto in Gerusalemme quanto in tutta la Giudea e Samaria e fino all'estremitò della terra (Atti, 1, 7-8). Non si preoccupino gli Apostoli del palese trionfo del regno di Dio: l'ora di questo trionfo è stabilita dal Padre celeste e verrà quand'egli vuole. Invece di pensare ad altisonanti conquiste politi. che, si propongano gli Apostoli di conquistare alla dottrina di Gesù il mondo intero, ebraico e non ebraico, e tale conquista essi otterranno non per mezzo d'astuzie militari o politiche ma unicamente in virtu' di quella possanza che riceveranno quando scenderà su loro lo Spiri­to santo. Questa raccomandazione fu il congedo di Gesù dai suoi prediletti. Termonato ch'egli ebbe di parlare, uscì con essi da Gerusalemme e li condusse lungo la nota e cara via che portava a Bethania. Giunti che furono verso la sommità del monte degli Olivi, egli li riunì vi­cino a sé e alzò le mani per benedirli: e avvenne che, mentre egli li benediceva, si allontanò da loro ed era portato su nel cielo (Luca, 24, 51); stando essi a riguardare, fu sollevato e una nube lo sottrasse agli occhi loro (Atti, 1, 9).

I quattro biografi ufficiali di Gesù non salgono oltre la terra, e ter­minano con l'ascensione o poco prima. Soltanto l'appendice di Mar­co (16, 19) dà un fugace sguardo oltre il cielo, e afferma che Gesù fu assunto nel cielo e s'assise alla destra d'iddio. Queste ultime pa­role, con cui s’annunzia che l'uomo Gesù fu associato alla gloria e al­la potenza del Padre celeste, sono dettate più che mai dal sensus Ecclesia'; ma questo sensus che ci ha trasmesso le quattro delineazio­ni della biografia terrestre di Gesù, è rifuggito dal delineare una so­la biografia celeste di lui, enunciandone soltanto il tema generico con l'affermazione: S'assise alla destra d'iddio.

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06/08/2012 21:11

SGUARDO RETROSPETTIVO

Gesù è il paradosso più grandioso che conosca la storia.


Appare egli in una regione secondaria dell'Impero romano, presso una nazione che i dominatori d'allora definivano volentieri come la più tetra di tutte (Tacito) e perniciosa alle altre (Quintiliano), conside­randola quale una spregiatissima accolta di schiavi (Tacito). Da questa sua gente egli non esce giammai in tutta la sua vita, né giammai mostra desiderio di conoscere il mondo dei sapienti, degli esteti, dei politici, dei guerrieri che hanno in pugno la società civile d'allora. Nella sua stessa regione egli passa almeno nove decimi della vita segregato in un umilissimo villaggio, proverbialmente noto soltanto per la sua meschi­nità: là non frequenta scuole, non maneggia dotte pergamene, non man­tiene relazioni con lontani sapienti della sua nazione; fa soltanto il carpentiere. Per trent'anni nessuno sa chi egli sia, salvo due o tre per­sone mute al par di lui.

A un tratto, passati i trent'anni, esce in pubblico e comincia ad agire. Non dispone di mezzi umani di nessun genere : non ha armi, non denaro, non sapienza accademica, non potenza estetica, non argomenti politici. S'aggira poi quasi sempre fra povera gente, pescatori e con­tadini: cerca con particolare premura i publicani, le meretrici e gli altri reietti della buona società. Fra cotesta gente opera miracoli, in gran numero e di vario genere. S'associa un gruppetto di pescatori che lo seguono costantemente come suoi particolari discepoli. Agisce per meno di tre anni.

La sua azione consiste nel predicare una dottrina che non è né filosofica né politica, ma esclusivamente religiosa e morale. Questa dottrina è quanto di più inaudito sia stato affermato nel mondo. Sem­brerebbe una dottrina costituita con gli scarti ripudiati concordemente da tutte le filosofie, con ciò che il mondo intero ha sempre in tutti i paesi gettato lungi da sé. Ciò che per il mondo è male, per Gesù è bene: ciò che per il mondo è bene, per Gesù è male. La povertà, l'umiltà, la sottomissione, il sopportare silenziosamente le ingiurie, il ritirarsi addietro per far posto agli altri, come sono sommi mali per il mondo così sono sommi beni per Gesù : e viceversa le ricchezze, gli onori, il dominio su altri, e tutte le altre cose che formano la felicità per il mondo, rappresentano per Gesù un discapito o almeno un peri­colo gravissimo. Gesù è l'antitesi del mondo.

Il mondo infatti vede solo ciò che si scorge: Gesù invece afferma di vedere anche ciò che non si scorge. Il mondo vede esclusivamente la terra, e la vede dal basso: Gesù invece vede specialmente il cielo, e contempla la terra dal cielo. Per Gesù la terra non ha senso in se stessa, è un episodio doloroso e transitorio che non contiene in sé un risolvimento adeguato: per lui la terra si risolve adeguatamente nel cielo e riceve senso soltanto dal cielo. La vita presente in tanto ha valore in quanto è preparazione a una vita futura: è una dimora travagliosa e instabile, ma che ha valore come punto d'appoggio onde spiccare il volo verso una dimora gioiosa e stabile. Gl'inquilini della dimora instabile che ripongono tutte le loro speranze in essa e non vogliono distaccarsi da essa, costituiscono il regno del mondo; gl'in­quilini invece che dimorano in essa solo per rassegnazione ma anelando alla dimora stabile e preparandosi a spiccare il volo verso questa, co­stituiscono il regno di Dio.

Fra i due regni è guerra implacabile sia nel presente sia nel futuro: nessuno dei due cesserà di guerreggiare se non quando avrà debellato l'altro. La forza d'ambedue i regni consiste in due amori, per due oggetti differenti. I sudditi del regno del mondo amano soltanto se stessi, o ciò ch'è utile e piacevole a se stessi: per tutti gli altri esseri della terra e del cielo essi hanno o formale odio o fredda noncuranza. I sudditi del regno di Dio amano in primo luogo Dio, poi scendendo giù giù lungo la gerarchia degli esseri hanno particolare amore per gli uomini malefici o disutili, e cercano di fare il bene a chi fa il male o non sa fare il bene: per essi il dare è un guadagnare, e perciò non co­noscono l'odio che è l'avarizia somma. Di questo regno di Dio, che ha per sua forza l'amore di Dio.e degli uomini, Gesù è il banditore.

Il regno di Dio è quello preannunziato dagli antichi profeti d'Israele, il cui banditore sarebbe stato il Messia promesso al popolo eletto. Gesù nel predicare la sua dottrina antimondana ha coscienza di agire come Messia; tuttavia non si dichiara tale fin dal principio per evitare che le turbe, tutte vibranti di speranze messianico-politiche, lo accolgano come condottiero nazionale e interpretino la sua dottrina come' un proclama politico. Diffìcilissima è quindi la sua missione: egli deve ammaestrare turbe su argomenti che saranno indubbiamente fraintesi, giacché quando egli parlerà di vittoria sul male le turbe in­tenderanno la vittoria sui Romani e quando nominerà il regno di Dio intenderanno il reame d'Israele. Eppure egli deve parlare di quegli argomenti ed usare quei precisi termini, perché essi sono già fissati nelle sacre Scritture del popolo di Dio: e Gesù, come Messia, è venuto a compiere quelle Scritture non ad abolire, ad integrare non ad abbat­tere. La sua missione è rivolta direttamente al solo popolo eletto depo­sitario delle antiche promesse di Dio; tuttavia, quando siano adempiute quelle promesse, gli effetti della sua missione s'effonderanno su tutti i popoli della terra.

A tale scopo Egli istituisce una società stabile, la Chiesa.

Ma la maggior parte del popolo eletto non accoglie la sua pre­dicazione, e i più ostili contro di lui sono appunto i dirigenti di quel popolo, ossia i sommi sacerdoti dal Tempio e i Farisei dalle sinagoghe. Nella Galilea la sua operosità produce scarsissimi frutti, e perciò egli l'abbandona e si trasferisce nella Giudea e nella capitale Gerusalemme. Qui i frutti non sono maggiori che nella Galilea, mentre assai maggiori sono le ostilità incontrate. I sommi sacerdoti e i Farisei sono convinti della sua potenza taumaturgica, e su molti punti della sua dottrina non dissentirebbero da lui: non gli perdonano però la sua franchezza nel denunziare le ipocrisie dei ceti dirigenti e la sua fermezza nel con­dannare il vacuo formalismo che inaridisce la vita religiosa. Dopo averlo tollerato a malincuore per qualche tempo, lo arrestano a tra­dimento, lo condannano nel tribunale della nazione per imputazioni religiose, e lo fanno ricondannare nel tribunale del rappresentante di Roma per imputazioni civili.

Gesù muore crocifisso.

Dopo tre giorni i condannatori sono convinti ch'egli è risorto. I discepoli dapprima non ne sono convinti; ma in seguito si arrendono all'evidenza, avendolo visto e toccato con mano più volte e avendo par­lato con lui come avevano fatto prima della sua morte.

* * *

Ma il paradosso di Gesù continua, tale quale, anche dopo la sua morte. Come egli nella sua prima vita è stato l'antitesi del mondo, così l'istituzione da lui fondata continuerà ad essere nella maniera più inverosimile la negazione del mondo.

Nessuna risonanza egli ha lasciato negli alti ceti della società contemporanea: in tutto l'Impero romano gli storici lo ignorano, i sapienti non conoscono le sue dottrine, gli uomini di governo hanno tutt'al più annotato nei registri la morte di lui come di uno schiavo rivoluzionario e non ci hanno pensato più; gli stessi maggiorenti della sua nazione, soddisfatti della sua scomparsa, sono dispostissimi a dimenticarlo del tutto. L'istituzione di lui sembra ridotta nello stato d'agonia in cui si trovava il corpo di lui quand'era inchiodato sulla croce: di fronte all'istituzione di Gesù sta il mondo a contemplare da trionfatore quel­l'agonia, come da trionfatori erano stati i sommi sacerdoti ai piedi della croce di lui.

E invece, con un balzo repentino, l'istituzione agonizzante sorge ed avvince fra le sue braccia il mondo intero : passano bensì tre secoli fra persecuzioni e stragi, e sembrano tre secoli che prolunghino l'agonia della croce o che rinnovino i tre giorni della dimora nel sepolcro, ma dopo il terzo secolo la società civile è ufficialmente seguace di Gesù.

Il regno del mondo non è però debellato, e la guerra prosegue con forine alquanto mutate ma con la stessa tenacia di prima. Gesù, ossia la sua istituzione, diventa sempre più nella storia della civiltà umana il «segno di contraddizione». La sua paradossale e gravosissima dot­trina è accettata da infiniti uomini e praticata da essi con amore im­menso fino all'ultimo sacrificio: infiniti altri uomini la respingono con tenacia inflessibile e la odiano con avversione furibonda. Si direbbe che attorno a questo «segno di contraddizione» siano concentrati gli sforzi della parte più civile del genere umano, gli uni per esaltarlo gli altri per calpestarlo.

Nella furiosa battaglia avvengono anche insidie e simulazioni: spesso appaiono schiere che agitano vessilli ricopiati dal «segno di contraddizione», e innalzando grida intonate ai precetti di Gesù pro­clamano fratellanze ed altruismi ignoti ai sudditi del mondo; ma l'in­sidia non regge a lungo e la simulazione finisce per tradire la diversità di voce e di accento.

Certo è che Gesù, oggi, è più vivo che mai fra gli uomini. Tutti hanno bisogno di lui, o per amarlo o per bestemmiarlo: ma farne a meno, non possono. Molti uomini furono amati intensissimamente nei tempi andati. Socrate dai suoi discepoli, Giulio Cesare dai suoi legionari, Napoleone dai suoi soldati: ma oggi questi uomini sono inesora­bilmente trapassati, nessun cuore palpita più per le loro persone, nes­sun uomo darebbe la sua vita o anche solo le sue ricchezze per essi, anche se i loro ideali siano ancora propugnati da altri; se poi i loro ideali siano avversati, nessuno pensa a bestemmiare né Socrate né Giu­lio Cesare né Napoleone, perché le loro persone non hanno più efficacia e sonò trapassate. Gesù, no; Gesù è tuttora amato e tuttora bestem­miato; si rinunzia tuttora alle ricchezze e perfino alla vita sia per suo amore sia anche per odio contro di lui.

Nessun vivente è tanto vivo quanto Gesù.

* * *

Egli è «segno di contraddizione» anche come fatto storico. È vero che i grandi storici del gran mondo ufficiale d'allora lo ignorano: ciò è regolare, perché quegli storici abbagliati dal fulgore della Roma d'Augusto non avevano l'acutezza di vista — e neppure i documenti sto­rici — per rintracciare un oscuro barbaro di una spregiatissima ac­colta di schiavi. Ma ciò non vuoi dire che la figura di Gesù sia stori­camente meno documentata e sicura di quella di Augusto e dei suoi più famosi contemporanei. Certamente sarebbe oggi nostro ardente desiderio sapere di lui molte più cose di quelle che sappiamo; ma se troppo poche per il nostro desiderio sono le cose narrateci, in compenso gli scrittori che le narrano godono di primissima autorità. Di questi quattro scrittori, due sono testimoni oculari che rimasero a fianco di Gesù giorno e notte per quasi tutta la sua vita pubblica; gli altri due conobbero e interrogarono ampiamente testimoni di tal fatta. Tutti e quattro, poi, narrano con semplicità e rudezza preziose, e con quella «impassibilità» davanti ai fatti sia piacevoli sia atroci la quale non rinnega affatto l'adesione ma sa elevarsi più in alto di essa. Senza dub­bio i quattro scrittori hanno scopo di propaganda, perché mirano a far conoscere la figura di Gesù e a diffondere la fede in lui; ma ap­punto per raggiungere tale meta era necessario seguire la strada dell'obiettività e veracità, allorché migliaia di testimoni interessati pote­vano sorgere e contestare narrazioni che fossero state fantasiose e ten­denziose. La garanzia storica che noi abbiamo per i fatti e per le dot­trine di Gesù non è uguagliata neppure da quella per Augusto e i suoi più famosi contemporanei.

Ma anche qui, come nel resto, il «segno di contraddizione» è contraddetto. Il Gesù presentatoci dai quattro storici non è vero, non può esser vero, perché è soprannaturale : bisogna ridurre razionalmente la sua figura delineata dagli evangelisti a proporzioni naturali, spo­gliandola del miracoloso. È il programma della critica razionalista.

Comincia il Reimarus, ed afferma che gli evangelisti sono volgari ciurmadori e mentitori. — Segue il Paulus e difende gli evangelisti: essi sono in perfetta buona fede, soltanto che sono degli entusiasti inesperti e non comprendono bene ciò che vedono. — Continua lo Strauss: gli evangelisti non pretendono narrare vera storia ma solo espongono dei miti, dei concetti astratti espressi in forma di fatti storici. — II Baur vede le cose diversamente: i racconti evangelici sono il risultato di contrasti nella vita sociale della Chiesa e contengono ben poco di storico. — Anzi, soggiunge poco dopo il Bauer, non conten­gono nulla affatto di storico, e Gesù non è mai esistito ma è una creazione mitica. — Viene poi la Scuola liberale, per cui Gesù è una specie di pastore protestante, predicatore rugiadoso di una morale di pietà per gli uomini e di sentimento religioso per Iddio. — Ma si fa avanti la Scuola escatologica, e trova che Gesù è un visionario esaltato il quale scorge imminente la fine del mondo, e perciò predica la sua paradossale dottrina di rinuncia e d'abnegazione. — Si ritorna infine all'idea del Bauer, e si afferma che Gesù è un essere mitico giammai esistito sulla faccia della terra.

Ebbene, tutte queste varie interpretazioni sorgono immancabil­mente per reazione dell'una contro l'altra, e quella posteriore rinnega in pieno ciò che ha detto quella anteriore. In un solo punto esse s'ac­cordano perfettamente fra loro, ed è nel sostenere che i racconti evan­gelici non corrispondono alla realtà storica e quindi che il Gesù della tradizione è falso.

Di qui una conseguenza pratica eloquentissima. Se il Gesù della tradizione è falso, e se d'altra parte ancora non si è trovato il modo di dimostrare in qual maniera e misura sia falso, ne consegue che una biografia scientifica di Gesù oggi non si può scrivere. E di fatti così avviene: le grandi Vite di Gesù di cui fu feconda specialmente la Scuola liberale oggi non compaiono più, e tutt'al più si delineano bre­vissimi schizzi della figura di Gesù in cui i tratti sicuramente storici sono ridotti a quasi nulla. Un Gesù storico evanescente e inafferrabile, somigliantissimo in pratica al Gesù dèi tutto mitico: ecco l'ultima pa­rola della critica razionalista applicata ai vangeli.

Ora, tutto ciò non è che un episodio della millenaria lotta fra Gesù e il mondo. Dicemmo che la lotta non cesserà se non quando uno dei due awersari abbia totalmente debellato l'altro: perciò il mondo debella Gesù nel campo storico cancellando quanto più può la sua figura.

La tattica è vecchia. Anche i Farisei volevano cancellare di Gesù tutto quanto, fatti, dottrine e istituzione; perfino della sua fredda salma ebbero essi paura, e la sigillarono nella tomba collocandovi da­vanti delle guardie. Dopo i Farisei mille altre volte Gesù è stato can­cellato dalla faccia della terra e sigillato nella tomba, e a seconda dei tempi sono stati collocati davanti la sua tomba a far la guardia lo Stato o la Religione, la Filosofia o la Scienza, la Democrazia o l'Aristocrazia, il Proletariato o la Nazione.

Ma che è avvenuto nel passato? Che avverrà nel futuro?

* * *

I vangeli narrano che il Gesù sigillato nella tomba dai Farisei è risorto. La storia narra che il Gesù ucciso in seguito mille volte si è dimostrato ogni volta più vivo di prima. Ora, trattandosi della stessa tattica, v'è ogni motivo di credere che lo stesso avverrà al Gesù rimesso in croce dalla critica storica.

Cotesti critici, infatti, sono privi d'ogni originalità: non fanno che ripetere la stessa e medesima tattica, ricopiare gli stessi e medesimi metodi. Hanno plagiato il metodo dei Farisei: hanno plagiato anche il demonio.

Il Renan, appena narrata la morte di Gesù, si esprime così: Riposa nella tua gloria, o nobile iniziatore! La tua opera è compiuta, è fondata la tua divinità. Non temere più di veder crollare per qualche errore l'edificio che hai eretto; d'ora in poi, immune da fragilità, tu assisterai dall'alto della pace divina alle conseguenze infinite dei tuoi atti... Per migliaia d'anni il mondo obbedirà a te: bandiera delle nostre con­traddizioni, tu sarai il segno attorno a cui si combatterà la più fiera battaglia. Mille volte più vivo, mille volte più amato dopo la tua morte che nei giorni del tuo passaggio quaggiù, tu diverrai la pietra angolare dell'umanità a tal punto che itrappare il tuo nome dal mondo sarebbe lo stesso che scuoterlo dalle fondamenta. Fra te e Dio non si distinguerà più, ecc. ecc.

Ora, questa è pura retorica: è una semplice tirata oratoria che non ha né sincerità né sentimento vero. Peggio ancora, la tirata è tutta un plagio ed ha plagiato precisamente il demonio. Narra infatti Luca (4, 41) che al comando di Gesù uscivano anche demonii da molti, gridando e dicendo: «Tu sei il figlio d'Iddio!». Ebbene, si diluisca questa sobria e sostanziosa dichiarazione del demonio in pochi periodi di prosa lambiccata, e si otterrà la tirata oratoria del Renan.

Fra i due, in questo caso, è da preferirsi il demonio. Il «padre della menzogna» è assai più competente, e soprattutto è più veritiero.

* * *

E la lotta attorno al «segno di contraddizione» continuerà, fino a che siano su questo mondo i figli dell'uomo.

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