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Ultimo Aggiornamento: 06/08/2012 21:11
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06/08/2012 19:36

I Sadducei e la Resurrezione

§ 515. L'insidiosa questione del tributo a Cesare era finita con una sconfitta dei Farisei interroganti, i quali avendo udito furono presi d'ammirazione e lasciatolo se n'andarono (Matteo, 22, 22). Di questa sconfitta si compiacquero i rivali Sadducei, i quali si fecero subito avanti a ritentare per proprio conto una nuova partita; questa avrebbe riguardato l'argomento della resurrezione dei corpi, tenacemente negata dai Sadducei (§ 34) e oggetto di vecchie dispute fra loro e i Farisei. Si presentarono pertanto a Gesù per sottoporgli non la questione astratta della resurrezione, ma un caso concreto, uno di quei “casi” che formavano la delizia delle accademie giudaiche. Cominciarono col citare la legge del “levirato”, con cui Mosè pre­scrive che, se un Ebreo muoia non lasciando figli, il fratello del morto sposi la vedova di lui per procurare una discendenza al defunto (Deu­teronomio, 25, 5 segg.).

Ricordata questa legge, essi presentarono il “caso”. C'erano stati sette fratelli, il primo dei quali era morto non lasciando figli, cosicché il secondo fratello aveva sposato la vedova del primo; ma anche costui era morto non lasciando figli, e la don­na era stata sposata dal terzo; altrettanto era avvenuto con tutti i successivi fratelli fino al settimo, e dopo la morte del settimo era mor­ta anche la donna. Ora - chiedevano quei Sadducei - di chi sareb­be stata moglie quella donna, quando fosse risorta insieme con tutti e sette contemporaneamente? Tutti e sette, infatti, avevano egual diritto su di lei. Il caso era tipicamente accademico; ma in fatto d'astruseria e di manierismo si andava oltre, come appare dal seguente “caso” conser­vato nel Talmud. - C'erano 13 fratelli, e 12 di essi morirono senza figli. Le 12 vedove citarono allora il superstite fratello davanti al Rabbi (Giuda I, morto sui primi del sec. III) affinché le sposasse in forza della legge del “levirato”; ma il superstite dichiarò che non aveva rnezzi finanziari per mantenere le 12 aspiranti.
Esse allora, tutte d'accordo, dichiararono che ciascuna avrebbe provveduto al mantenimento durante un mese all'anno, e così si sarebbe provve­duto a tutti e 12 i mesi. Senonché il futuro marito delle 12 aspiranti fece cautamente osservare che nel calendario ebraico i mesi dell'an­no erano talvolta 13: ciò infatti avveniva circa ogni 3 anni, quando si intercalava un tredicesimo mese per eguagliare l'ufficiale anno lu­nare con l'anno solare; ma il generoso Rabbi rispose che nel caso di mese intercalato egli avrebbe provveduto al mantenimento. E così avvenne. Dopo 3 anni le 12 vedove rimaritate si presentarono alla casa del Rabbi recando complessivamente 36 bambini, e il Rabbi li mantenne tutti per quel mese.

§ 516. I Sadducei che proposero il loro “caso” a Gesù non s'interessavano di questioni finanziarie, ma di quella della resurrezione. Secondo essi il caso proposto dimostrava che la resurrezione era impossibile, giacché risorta che fosse quella donna avrebbe dovuto essere nello stesso tempo moglie di tutti e sette i risorti mariti: ma poiché ciò era manifestamente una sconcezza e un'assurdità, per questo la resurrezione si dimostrava impossibile. Se poi Gesù avesse tentato di difendere la resurrezione, nello sciogliere il caso proposto si sarebbe cacciato in un ginepraio di ridicolaggini perdendo così ogni credito sulla folla. Questo modo di ragionare presupponeva un concetto della resurrezione molto crasso e materialesco, il quale anche per tale ragione era respinto dai Sadducei mentre tra i Farisei era predominante seb­bene non universale; questo concetto immaginava la resurrezione come il ridestarsi di un dormiente, il quale svegliato che sia si ri­trova nelle stesse condizioni naturali di prima che s'addormentasse. Perciò ai risorti si assegnavano le antiche attività di mangiare, bere, dormire, generare, ecc.; anzi sembrava conveniente che queste atti­vità fossero accresciute e rafforzate, tanto che un cinquantennio dopo Gesù l'autorevole Rabban Gamaliel sentenziava che nella vita futura le donne partoriranno ogni giorno come le galline. Gesù taglia corto a tali fantasticherie puerili, e risponde: Errate, non sapendo le Scritture né la potenza d'iddio.
Nella resurrezione infatti (i risorti) né sposano né sono spòsati, ma sono come angeli nel cielo. I risorti saranno bensì gli stessi uomini di prima, ma non già nelle stesse condizioni di prima: la loro nuova condizione sarà come quel­la degli angeli nel cielo. Continuò poi Gesù: Riguardo alla resurrezione dei morti, non leggeste ciò che fu detto a voi da Iddio affermante “io sono il Dio di Abramo e il Dio d'isacco e il Dio di Gia­cobbe”? (Esodo, 3, 6) Non è Dio di morti ma di viventi. Il passo citato da Gesù fa parte della Torah, l'unica Scrittura sacra accettata dai Sadducei (§ 31); questa sembra la ragione come notò già S. Girolamo - per cui Gesù, tralasciando altri passi delle Scritture che attestano più chiaramente le fede nella resurrezione dei morti (§ 80), argomenti da questo passo che a differenza degli altri non poteva essere rifiutato dai Sadducei. Ad ogni modo l'argomentazione è condotta secondo i metodi delle scuole rabbiniche, e presuppone il patrimonio ideale dell'ebraismo il Dio dei patriarchi ebrei è Dio non di morti ma di viventi; dunque quei patriarchi vivono anche dopo la loro morte corporea, e la resurrezione è attestata dalle sacre Scritture.

Il massimo comandamento. Il Messia figlio di David

§ 517. L'alternativa di Farisei e Sadducei continuò ancora in quel giorno operosissimo per Gesù. La risposta data ai Sadducei piacque a uno Scriba presente alla discussione, il quale perciò si fece avanti e propose a Gesù una questione che corrispondeva bene ai metodi rab­binici: Qual e' il comandamento primo di tutti? (Marco, 12, 28) o come è riportata da Matteo (22, 36): Qual (e' il) comandamento (piu') grande della Legge? La Legge scritta infatti, ossia la Torah, con­teneva secondo i rabbini 613 precetti (§ 30), dei quali 248 erano po­sitivi perché comandavano una data azione, e 365 erano negativi per­ché proibivano di fare alcunché: gli uni e gli altri, poi, eran ripartiti in precetti “leggieri” e precetti “gravi” a seconda dell'importanza che si attribuiva loro.
Ora, fra tutti questi comandamenti vi sarà pure stata una specie di gerarchia, e fra i precetti “gravi” ve ne sarà stato uno gravissimo che superava per importanza tutti gli al­tri. Ciò appunto voleva sapere da Gesù questo Scriba. La risposta di Gesù fu quella già data al dottore della Legge per cui fu pronunziata la parabola del buon Samaritano: Gesù recitò l'inizio dello Shema' (§ 438). Il primo (comandamento) e': “Ascolta Israele! Il Signore Iddio nostro e' Signore unico; e amerai il Signore Iddio tuo con tutto il cuore tuo, e con tutta l'anima tua, e con tutta la mente tua, e con tutta la forza tua”. (Il) secondo (comandamento e') questo:”Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Maggiore di que­sti, altro comandamento non e'. Veramente lo Scriba aveva interro­gato circa un solo comandamento, il massimo fra tutti; Gesù ha ri­sposto recitando il comandamento dell'amore di Dio, ma quasicché tale comandamento non sia da solo integro e pieno - almeno nel campo pratico - vi aggiunge l'altro dell'amore del prossimo: questi due precetti, che si riconnettono l'un l'altro, formano per Gesù il comandamento “massimo”. Le stesse idee erano già state espresse nel Discorso della montagna (§§ 327, 332). Lo Scriba approvò cor­dialmente la risposta di Gesù riscontrando da parte sua che il doppio amore di Dio e del prossimo valeva più che tutti gli olocausti e i sacrifizi del Tempio. In premio di questa sua replica Gesù gli disse: Non sei lontano dal regno d'Iddio. Gli mancava, in fatti, soltanto di credere nella missione di Gesù ad imitazione di Pietro, di Giovanni, e di tanti altri. Se ciò poi avvenisse, non sappiamo. Dopo questa discussione finita con l'accordo dei due ci si dice che nessuno piu' osava interrogarlo (Marco, 12, 34).
Gesù però venne per conto suo alla riscossa. Avvicinatosi nel Tempio stesso a un altro gruppo di Farisei, intavolò una questione riguardo ai Messia: Da quale stirpe sarebbe disceso il Messia? Di chi sarebbe egli stato figlio? Gl'interrogati, d'accordo con tutta la tradizione ebraica, risposero: Di David. Gesù allora fece osservare che nella sacra Scrittura Da­vid stesso, il cui nome figura nell'iscrizione in cima al Salmo 110 ebr. (Vulg. 109), si esprime ivi cosi: Oracolo di Jahvè al mio Signore: “Siedi alla mia destra, finchè Io ponga i tuoi nemici (quale) sgabello per i tuoi piedi!”. Da questo passo Gesù argomentò: Se dunque David lo chiama “Si­gnore”, come e' figlio di lui?
La forza dell'argomentazione poggiava su due punti ammessi anche dai Farisei: in primo luogo, che nel Salmo parlava David come mostrava la sua iscrizione; in secondo luogo, che il Salmo trattava del futuro Messia, come risulta dal largo impiego in questo senso che se ne fa nel Nuovo Testamento (più di quindici volte) e che presuppone il consenso della parte avversaria. Perché mai, dunque, David chiamava “Signore” il futuro Messia che era suo discendente? Ciò dimostrava, secondo Gesù, che il Mes­sia era più che un semplice “figlio di David” e racchiudeva in sé qualità che lo rendevano piu' che Giona e piu' che Salomone (§ 446) e anche più che David; ma Gesù voleva avere dai Farisei la spiega­zione di questa apparente incongruenza. Quei Farisei però non po­terono rispondere nulla. Più tardi, dal secolo II in poi, i rabbini risolsero la questione sostenendo che il Salmo non si riferiva al Messia, bensì ad un altro personaggio: che di solito era creduto Abramo, talvolta David stesso (!),e secondo la solitaria notizia di Giustino (Dial. cum Tryph., 33 e 38) il re Ezechia. Questa mutazione di riferimento fu evidentemente determinata dalla polemica anticristiana.

[SM=g27998] L’”Elenchos” contro Scribi e Farisei. L'offerta della vedova

§ 518. I Greci antichi avevano chiamato e'lenchos quella parte dell'orazione forense in cui, esponendosi le accuse addotte contro l'avversario, si corredavano delle rispettive prove; era dunque un biasi­mo dimostrativo del disonore altrui, come nei tempi più antichi (presso Omero) e'lenchos aveva significato sia “biasimo” sia “diso­nore”. In quel tempestoso martedì, consumato da Gesù in buona parte a battagliare contro Scribi e Farisei, non poteva mancare un e'lenchos contro questi avversari che riassumesse ed integrasse le accuse già formulate in precedenza. Difatti tutti e tre i Sinottici riportano tale requisitoria di Gesù in questo giorno, ma con le solite divergenze: Marco (12, 38-40) è brevissimo; cosi pure Luca (20, 4647), il quale però ha già riferito un ampio formulario d'accuse in occasione del pranzo offerto a Gesù dal Fariseo (§ 447). Lunghissimo è invece Matteo (cap. 23), il quale incorpora quasi tutto il formulario di Lu­ca accrescendolo di altre accuse. E’ probabile che Matteo, come ha già fatto per il Discorso della montagna (§ 317), abbia riunito qui per motivi redazionali alcune sentenze di Gesù pronunziate occasionalmente altrove: e questa conclusione è suggerita anche dall'esame let­terario dell'e'lenchos, ch'è diviso simmetricamente in tre parti (23, 1-12; 23,13-32; 23, 33-39), ed ha la seconda parte suddivisa in set­te Guai a voi!... (§ 125); tuttavia la collocazione di Matteo è nel suo complesso preferibile a quella di Luca, e il nucleo principale del di­scorso dovette esser pronunziato da Gesù appunto in questo scorcio di sua vita come del resto confermano vagamente gli altri due Sinot­tici. Riproduciamo qui integralmente l'e'lenchos di Matteo, rinviando per le parti già viste a quanto già se ne disse in precedenza. Sulla cattedra di Mose' si sedettero gli Scribi ed i Farisei. Perciò tut­te quante le cose che vi dicano fate ed osservate, ma conforme alle opere loro non fate, giacche' dicono e non fanno. Legano infatti cari­chi pesanti e (li) impongono sulle spalle degli uomini, ma essi col loro dito non vogliono rimuoverli. Fanno poi tutte le opere loro per esser rimirati dagli uomini: allargano infatti le loro filatterie e ingrandiscono le loro frange, amano poi il primo divano nei conviti e i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze e l'esser chiamati “Rabbi” dagli uomini. - Voi invece non vi lasciate chiamare “Rabbi”: uno solo infatti e' il vostro maestro, e voi siete tutti fratel­li. E non chiamate “padre” vostro (alcuno) sulla terra: uno solo infatti e' il Padre vostro, quello celeste. E non vi lasciate chiamare “direttori” perché direttore vostro e' uno solo, il Cri­sto. invece chi di voi e' maggiore, sara' inserviente di voi; chiunque poi s'innalzera' sara abbassato, e chiunque s'abbassera sarà innalzato. In questa prima parte del discorso Gesù traccia i lineamenti caratte­ristici dei Farisei, e tornano perciò alcuni tratti delle sue precedenti discussioni con essi: parlando qui egli alla folla deI Tempio, passa subito appresso ad esortare affinché quelle caratteristiche non siano imitate e si faccia precisamente il contrario. La vanagloria dei Fa­risei si esercitava fra l'altro nelle filatterie, le quali consistevano in bossoletti ove stavano arrotolate strisce di pergamena su cui erano scritti alcuni passi dei Libri sacri (cioè Esodo, 13, 1-10; 13, 11-16; Deuteron., 6, 4-9; 11, 13-21): du­rante la preghiera l'Israelita applicava (ed applica ancora) le strisce sulla fronte e sul braccio sinistro, intendendo di eseguire letteralmen­te la prescrizione contenuta in Deuteron., 6, 8 (cfr. Esodo, 13, 9). I vanagloriosi si procuravano strisce più ampie e vistose, per dare più sull'occhio; altrettanto facevano con le frange del mantello che avevano anch'esse un significato religioso ed erano portate pure da Gesù, come già vedemmo (§ 349).

§ 519. La seconda parte del discorso costituisce il vero e'lenchos: Guai però a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché rinserrate il regno dei cieli in faccia agli uomini: voi infatti non entrate, né gli entranti lasciate entrare. Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché girate per mare e per terra per fare un solo proselita, e quando sia divenuto (tale) lo ren­dete figlio di Geenna il doppio di voi. Guai a voi, guide cieche che dite:”Chi abbia giurato per il santua­rio, e' nulla; ma chi abbia giurato per l'oro del santuario, e' obbliga­to”. Stolti e ciechi! Chi e' infatti maggiore, l'oro oppure il santuario che ha santificato l'oro? E (dite anche):”Chi abbia giurato per l'al­tare, e' nulla; ma chi abbia giurato per il dono che (sta) sopra a quello, e' obbligato”. Ciechi! Che cosa infatti e' maggiore, il dono oppu­re l'altare che santifica il dono? Chi dunque ha giurato per l'altare, giura per esso e per tutte le cose che (stanno) sopra a quello; e chi ha giurato per il santuario, giura per esso e per chi l'abita; e chi giurato per il cielo, giura per il trono d'Iddio e per chi vi è assiso sopra1 Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché pagate la decima della menta e della finocchiella e del comino, e lasciate le cose piu' gravi della Legge, il giudizio e la misericordia e la fede! Invece, queste cose bisognava fare e quelle non tralasciare. Guide cieche, che filtrate il moscerino e inghiottite invece il camello! Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché mondate l'esterno della coppa e del vassoio, mentre l'interno e' riempito di rapina e sfrena­tezza! Fariseo cieco, monda dapprima l'interno della coppa affinché diventi puro anche l'esterno di essa! Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché rassomigliate a sepolcri imbiancati, i quali al dì fuori appaiono belli, al dì dentro invece sono ripieni d'ossa di morti e d'ogni impurità! Così anche voi all'esterno apparite giusti agli uomini, all'interno invece siete colmi d'ipocrisìa e d'iniquità. Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché costruite i sepolcri dei profeti ed abbellite le tombe dei giusti, ed esclamate.”Se fossimo stati ai giorni dei padri nostri, non saremmo stati loro complici nel sangue dei profeti!”. Cosicché attestate a voi stessi che siete figli di quei che uccisero i profeti. E voi colmate la misura dei padri vo­stri! L'e'lenchos ha denunziato i fatti; tale denunzia serviva già da prova, perché tutti gli uditori sapevano per esperienza che i casi mentovati corrispondevano alla realtà. Un quarantennio più tardi, dopo la ca­tastrofe del 70, lo stato delle cose cambierà alquanto: i Farisei rimar­ranno le guide sole e incontrastate del residuo della nazione e molti­plicheranno a piacer loro norme e prescrizioni; ma rinunceranno del tutto all'ansioso proselitismo qui accennato, e di cui già vedemmo al­cuni risultati ottenuti fra i Greci (§ 508).

§ 520. Ma l'annunzio che i Farisei hanno colmato la misura dei padri loro segue la deplorazione, come nella procedura forense alla dimo­strazione del delitto seguiva la pena; è la terza parte del discorso: Serpenti, razza di vipere, come (avverrà che) sfuggiate al giudizio (condanna) della Geenna? Per questo ecco io invio a voi profeti e sa­pienti e scribi: di essi ucciderete e crocifiggerete, e di essi flagellerete nelle vostre sinagoghe (§ 64) e perseguiterete di città in città, affin­ché venga su voi tutto il sangue giusto versato sulla terra, dal sangue di Abele il giusto fino al sangue di Zacharia figlio di Barachia che uccideste fra il santuario e l'altare. in verità vi dico, verranno tutte queste cose su questa generazione! - Gerusalemme, Gerusalemme, uccidente i profeti e lapidante gl'inviati ad essa! Quante volte volli coadunare insieme i tuoi figli, alla maniera che una gallina coaduna i pulcini sotto le ali, e (voi) non voleste! Ecco, e lasciata a voi la vo­stra casa deserta. Vi dico infatti, non (sarà che) mi vediate da adesso fino a che diciate: “Benedetto il Veniente in nome del Signore!”. Questa ultima parte, più che una minaccia, è in realtà una deplora­zione. Gesù deplora che i suoi reiterati tentativi di salvare città e nazione siano stati frustrati, e che l'intero edificio costruito man ma­no da Dio per la salvezza d'Israele venga demolito man mano dalla pervicacia degli uomini: ciò ch'è avvenuto a al tempo della Legge quando i profeti di Jahvè finivano lapidati, avverrà anche al tempo del Messia i cui inviati finiranno in maniera analoga; ma in tal modo tutto il peso dei delitti anche più antichi graverà su quei che compiono l'ultimo delitto, perché costoro scalzano le ultime fonda­menta dell'edificio di Dio, e colmando la misura attireranno su se stessi la vendetta totale. E dunque una minaccia salutare, un supre­mo angoscioso grido affinché le guide cieche della nazione eletta s'arrestino sull'estremo orlo dell'abisso. Dei delitti antichi sono ricordati per nome solo due, l'uccisione di Abele e quella di Zacharia, probabilmente perché erano narrate l'una al principio del primo libro della Bibbia ebraica che è il Genesi (4, 8), e l'altra sulla fine dell'ultimo libro che sono le Cronache (II Cron., 24, 20-22). Vecchia, poi, è l'altra difficoltà offerta dall'appellativo paterno di Zacharia chiamato qui figlio di Barachia, mentre nelle Cronache è chiamato figlio di Jojada; al contrario appare come figlio di Barachia il profeta Zacharia (Zach., 1, 1. 7), che è tutt'altra persona dallo Zacharia qui ricordato. E notevole però che l'appellativo paterno manca nel passo parallelo di Luca (11, 51) e anche nell'autorevolis­simo codice Sinattico di Matteo: ciò potrebbe far sospettare che fi­glio di Barachia sia un'antica glossa infiltratasi nel testo greco ma assente nell'originale semitico di Matteo (§ 121), salvo che la divergen­za si fondi su altre ragioni che a noi oggi sfuggono. I due Sinottici, che soli riportano quest'apostrofe di Gesù a Geru­salemme, mostrano con ciò di conoscere i reiterati tentativi di Gesù per salvare la città e quindi i suoi ripetuti viaggi alla capitale, seIbbene questi viaggi siano oggetto della narrazione di Giovanni e non dei Sinottici: quindi la tradizione sinottica implicitamente conosce quella giovannea, sebbene non se ne serva (§ 165).

§ 521. Ma con questo appello, angoscioso e minaccioso, i tentativi di Gesù finiscono. Quando sia avvenuta l'ultima ripulsa e consumato l'ultimo delitto, la loro casa sarà abbandonata ad essi deserta, priva dell'aiuto di colui che hanno respinto. Né essi rivedranno mai più lui, se non in tempi d'un futuro remotissimo allorché l'aberrante na­zione si sarà ravveduta del suo errore e farà ricerca del respinto: Una voce sulle nude colline si ode, il pianto supplichevole dei figli d'Israele: ché aberrarono dalla loro via, dimenticarono Jahvè loro Dio; saranno giorni, quelli, in cui non si esclamerà più oltre “O Arca dell'alleanza di Jahvè!”, non starà (piu') a cuore, non si penserà ad essa, non sarà rimpianta nè costruita piu' oltre; e agli aberranti sarà rivolto un invito: Ritornate, o figli ribelli, guarirò io le vostre ribellioni! ed essi risponderanno: Eccoci, noi veniamo a te, perché tu sei Jahvè nostro Dio!... Davvero, in Jahvè nostro Dio sta la salvezza d'Israele! Geremia, 3, 16... 23, con inversioni. Questa visione dell'antico profeta è contemplata nuovamente da Ge­sù ma sullo sfondo d'un tempo del tutto nuovo ed ancor più remoto, quello dell'ultima parusia; allora Israele, riconciliato col già respinto Messia, potrà nuovamente vederlo perché gli andrà incontro rivol­gendogli l'acclamazione già rivoltagli nel breve trionfo di due giorni prima Benedetto il Veniente in nome del Signore! (§ 504). Qualche anno più tardi il fariseo Paolo di Tarso, divenuto “schiavo del Cristo Gesù”, contemplerà anch'egli il remotissimo tempo in cui i suoi connazionali, presentemente accecati, riacquisteranno la vista e cosi l'intero israele sarà salvato (Romani, 11, 25-26). Dopo l'e'lenchos contro Scribi e Farisei, ci è dato assistere ad una umile ma nobilissima scenetta che è precisamente l'opposto del mon­do spirituale degli Scribi e dei Farisei: la scenetta è descritta da Luca (21, 1-4) ma anche più vividamente da Marco (12, 41-44); Matteo invece, inaspettatamente, la omette. Forse si tratta di un elemento della catechesi di Pietro, trasmesso a Luca per mezzo di Marco.
§ 522. Quel martedì era quasi trascorso; Gesù, terminata l'accorata deplorazione contro i suoi avversari, entrò nelle parti interne del Tempio spingendosi fino all'”atrio delle donne”, e ivi si sedette di fronte all'attigua aula del Tesoro (§ 47). All'ingresso di questa erano collocate, per raccogliere le offerte, tredici casse chiamate “trombe” dalla forma allungata dell'imboccatura nella quale si gettavano le monete; in occasione di grandi feste, come questa di Pasqua, le of­ferte erano abbondantissime perché molti pellegrini approfittavano di questa loro venuta per pagare il tributo prescritto per il Tempio (§ 406) e tutti in genere facevano oblazioni spontanee: perciò vicino al­le casse stavano di guardia alcuni sacerdoti, che certificavano il pa­gamento del tributo e sorvegliavano il regolare svolgimento delle operazioni. Seduto lì di fronte, Gesù guardava. Molti ricchi venivano alle casse e con molta ostentazione gettavano dentro manciate di monete, sicuri con ciò di essere apprezzati assai, oltreché dagli uomini, anche da Dio; framezzo a costoro, non avvertita né curata da alcuno, venne una povera strascicata di vedova che lasciò cadere nella cassa soltanto due minuzzoli che e' (un) quadrante (§ 133), cioè neppure due centesimi. Allora Gesù, chiamati a sé i suoi discepoli disse loro: In verità vi dico che questa vedova, povera, gettò piu' di tutti quei che gettano nel tesoro; tutti infatti gettarono (traendo) dal sovrab­bondante ad essi: questa invece (traendo) dalla sua indigenza gettò tutto quanto aveva, l'intera sua sussistenza (Marco, 12, 43-44). Anche con questa osservazione il maestro dello spirito si opponeva ai maestri dell'esteriorità, suoi avversari.

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