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Ultimo Aggiornamento: 06/08/2012 21:11
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06/08/2012 20:59

La crocifissione e la morte

§ 597. La sentenza oramai era stata data, e non restava che ese­guirla. Il rappresentante di Roma aveva inflitto seconda la richiesta degli accusatori una pena romana, poiché quando i Giudei avevano gri­dato a Pilato: Crocifiggi! Crocifiggi! avevano chiesto in realtà una pena che originariamente non era giudaica ma romana. Nell'impu­tazione di bestemmia fatta a Gesù nel Sinedrio la pena giudaica nor­male sarebbe stata la lapidazione, che difatti fu applicata a Stefa­no poco dopo; tuttavia la crocifissione, ai tempi di Gesù, era entrata già da molti anni negli usi del giudaismo palestinese, introdottavi al tempo delle sue prime relazioni con i Romani, e specialmente dal 63 av. Cr. quando Pompeo Magno espugnò Gerusalemme e dette un nuovo assetto politico a tutta la regione; prima di quell'epoca l'ebrai­smo aveva conosciuto l'impalamento, pena comunissima negli antichi imperi di Babilonia e d'Assiria e da così più tardi derivò la vera cro­cifissione. Ma anche nella Roma antica la crocifissione non era stata originaria bersì importata; prima che in Roma la crocifissione era praticata in Grecia, in Egitto e in molte altre regioni mediterranee, ove era stata diffusa probabilmente dai Fenici, arditi navigatori e in­stancabili commercianti. Roma ebbe sempre della crocifissione un vero spavento: è il meno che si possa dire, anche restringendosi alle frasi frasi impiegate da Cice­rone quando accenna ad essa nei suoi discorsi contro Verre la chiama ora “supplizio il più crudele e il più tetro”, ora “estremo e sommo supplizio della schiavitù”, o in altre maniere somiglianti. Era infatti la pena riservata ordinariamen­te agli schiavi, e solo per delitti assai gravi; tanto che lo schiavo era talvolta chiamato sarcasticamente “portatore di croce”, e uno di essi poteva esclamare comicamente: So che la croce sarà il mio sepolcro. Là sono collocati i miei antenati, padre, nonno, bi­snonno, trisnonno (Plauto, Miles gloriosus, 2, 4, 372-373). Nessun cittadino romano poteva essere legalmente crocifisso secondo l'opinio­ne di Cicerone, il quale esclama inorridito: Che un cittadino roma­no sia legato, è un misfatto; che sia percosso è un delitto; che sia ucciso, è quasi un parricidio; che dirò, dunque, se è appeso in croce? A cosa tanto nefanda non si può dare in nessun modo un appellativo sufficientemente degno! (In Verrem, II, 5, 66). Tuttavia, in linea di fatto, risulta che più d'una volta cittadini romani furono crocifissi; e anche in linea di diritto sembra che i liberti e taluni provinciali, sebbene cittadini romani, potessero ricevere questo estremo supplizio.

§ 598. Prescindendo da forme più antiche, la croce ai tempi di Gesù aveva le tre seguenti forme: la prima a sinistra era chiamata “croce immissa” o capitata, rife­rendosi al tratto più corto, quello superiore, che faceva da “capo”; la seconda era la “croce commissa”, ed era l'unica che avesse tre soli bracci essendo priva di “capo”; la terza, poco in uso, era la croce decussata o di sghembo, quella detta comunemente “croce di S. Andrea”.

Fra le due prime forme, la croce immissa ha molto maggiore probabilità della croce commissa di essere stata impiegata per Gesù (§ 606). In essa si distinguevano due parti il palo verticale, chiamato stipes o staticulum, da piantarsi in terra; e il palo orizzontale, chiamato patibulum o antenna, che soltanto in un secondo tempo si univa col palo verticale. Ma il palo verticale non era totalmente liscio e piano: verso la sua metà sporgeva un tozzo e robusto zoccolo, chia­mato alla greca pegma o alla latina sedile, su cui veniva a poggiarsi a cavalcioni il corpo del crocifisso; molto esattamente Giustino mar­tire e Tertulliano rassomigliano questa sporgenza a un corno in ge­nere e più particolarmente a quello del rinoceronte. Questo sostegno, del resto, era assolutamente necessario: sarebbe stato infatti impos­sibile che il corpo del condannato si reggesse sulla croce con i quattro chiodi soltanto, perché le mani trafitte si sarebbero strappate ben presto per lo sproporzionato peso, e la ragione è cosi evidente che artisti cristiani antichi raffigurarono la croce di Gesù con un suppe­daneum, su cui poggiano e sono inchiodati i piedi; questo suppeda­neum, di cui non esiste alcun accenno nei documenti antichi, è ar­cheologicamente falso e all'atto pratico neppure sarebbe bastato a so­stenere il corpo, tuttavia lo sbaglio archeologico dimostra la necessità del sedile, archeologicamente giusto.

§ 599. Pronunciata una sentenza di crocifissione, si preparava - se già non era pronto - il luogo dell'esecuzione piantandovi il palo ver­ticale o stipes, privo ancora di quello orizzontale. Il palo verticale ordinariamente non era alto infatti i piedi del condannato resta­vano sollevati dal terreno di solito per l'altezza d'un uomo o anche meno, e perciò l'intero palo non poteva essere più alto di 4 o 5 metri. Quanto al luogo, se ne sceglieva uno assai in vista e frequentato, per­ché si contava sull'effetto esemplare che lo spettacolo doveva produr­re su schiavi ed altri abietti individui punibili di croce; si preferiva­no perciò luoghi di gran transito, subito fuori di città ma vicino a qualche porta delle mura, e possibilmente framezzo a tombe ciò è quanto risulta, oltreché da altre testimonianze, anche dal beffardo racconto della matrona di Efeso di Petronio l'Arbitro (Satiricon, 111-112). A Roma, per esempio, il luogo ordinario delle crocifissioni era il Campus Esquilinus, subito fuori delle mura di Servio Tullio e vicino alla Porta Esquilina: in questo campus, corrispondente circa all'odierna piazza Vittorio Emanuele, erano anche mol­tissime tombe di patrizi e di schiavi; ivi in alto volteggiavano a frot­te i tetri uccelli dell’Esquihno ricordati da Orazio, attirativi dai ca­daveri dei crocifissi che rimanevano insepolti. La crocifissione era preceduta dalla flagellazione del condannato, la quale talvolta gli era inflitta lungo il cammino per recarsi al luogo del supplizio. Il condannato era affidato ai soldati, di solito quattro, comandati da un centurione che aveva l'ufficio di riscontrare la morte del crocefisso. Sulle spalle del condannato si poneva, e talvolta si legava, il palo orizzon­tale della croce; un servo di giustizia portava davanti a lui una tavoletta su cui era scritto in caratteri ben visibili il delitto del condannato che aveva motivato la sentenza: talvol­ta, invece, la tavoletta veniva appesa al collo del condannato stes­so. Avviatosi il corteo verso il luogo del supplizio, si passava a pre­ferenza per le strade più popolose e frequentate, dice in propositò Quintiliano), sempre per dar pubbli­cità all'esecuzione. Lungo il cammino il condannato, anche se non riceveva la flagella­zione, era fatto egualmente segno ad ogni sorta di ludibri da parte della plebaglia incuriosita e inferocita: il crocifiggendo non era più un uomo, ma un fuorilegge e un immondezzaio ambulante.

§ 600. Giunto sul luogo del supplizio, vicino al palo già piantato in terra, il condannato veniva spogliato delle sue vesti, se non era già nudo per aver ricevuto la flagellazione lungo la strada. La nudità to­tale del crocifiggendo era d'uso comune presso i Romani: può darsi tuttavia che, presso qualche popolo più riguardoso su questo punto, il condannato venisse ricoperto alla meglio per pudore col primo straccio che capitava Iì per lì sotto mano. Certamente i Giudei era­no più riguardosi dei Romani e quindi è probabile che la loro delicatezza fosse rispettata dai loro governan­ti: ma la cosa non è storicamente accertata. Così spogliato il condannato veniva disteso a terra supinamente, in modo che sotto di sé lungo le spalle e le braccia aperte avesse il pa­lo orizzontale della croce da lui portato: in tale posizione le mani venivano inchiodate al palo. Compiuto questo primo inchiodamen­to, il condannato - probabilmente per mezzo di una fune che lo ri­cingeva al petto e scorreva poi sull'estremità del palo verticale pian­tato in terra - veniva elevato sul palo verticale in modo da essere collocato a cavalcioni sul sedile. Soltanto se si ha presente l'insie­me di questa manovra si possono spiegare adeguatamente certe frasi usate spesso dagli scrittori romani, quali ascendere crucem, excurrere in crucem, inequitare cruci, o sarcasticamente requiescere in cruce; inoltre, che questa “ascesa” sulla croce fosse fatta dopo che il condannato era già parzialinente inchiodato è dimostrato fra altro dalla frase: patibulo suffixus, crudeliter in crucem erigitur (Fir­mico Materno), ove patibulum designa con esattezza tecnica il palo orizzontale. Sollevato il condannato in questa maniera, il palo orizzontale era congiunto con quello verticale per mezzo di chiodi o di corde; infine s'inchiodavano i piedi. Naturalmente per questa inchiodatura s'im­piegavano due chiodi, non uno solo come ha immaginato spessissi­mo l'arte cristiana, giacché i piedi per la posizione a cavalcioni presa dal condannato finivano per stare quasi ai due lati del palo verti­cale e non avrebbero potuto sovrapporsi l'uno su l'altro; quest'ultima inchiodatura si faceva facilmente dai carnefici ritti in terra, perché come vedemmo i piedi del crocifisso erano all'altezza di una persona.

§ 601. Ridotto in tale stato, il crocifisso aspettava la morte. Esposto qual era in un luogo frequentato, egli vedeva per ore e ore passare sotto di sé gente. d'ogni fatta: patrizi che non lo degnavano d'uno sguardo; bambini che s'incuriosivano del suo corpo livido e tumefatto; mercanti affaccendati che si soffermavano un momento di sfuggita; plebei e schiavi che si divertivano a spiare i segni delle sue sofferenze. Qualche segno di compassione poteva egli scorgere tutt'al più sul viso di qualche parente o di qualche vecchio complice di delitti che s'intrattenesse lì dappresso: ma era sempre una compassione sterile, perché i soldati che stavano di guardia ai piedi del crocifisso impedi­vano a chiunque di avvicinarsi per recare un sollievo qualsiasi; l’uni­ca cosa che potesse raggiungere quell'avanzo umano inchiodato sulla croce era la sassata lanciatagli da lontano per ludibrio dal monello o per vendetta dal rivale in furti. La morte poteva avvenire per dis­sanguamento, per febbre vulneraria, per gli strazi della fame e più ancora della sete, o per altre cause fisiologiche. Spesso non si faceva attendere molto, specialmente a causa della spossatezza prodotta dalla terribile flagellazione che aveva preceduto la crocifissione; ma spesso organismi più robusti resistevano giornate intere sulla croce, spegnendosi a poco a poco in una spaventosa agonia. Talvolta i carnefici acceleravano a bella posta la morte o producendo con un fuoco un denso fumo sotto la croce, o trapassando con un colpo di lancia il corpo del crocifisso, oppure praticandogli il “crurifragio” romano che consisteva nello spezzare i femori dell'agonizzante a colpi di dava. Avvenuta poi la morte, nei tempi più antichi il cadavere rimaneva ancora sulla croce fino alla decomposizione, e fino al totale scempio cbe ne facevano i cani saltando dal basso e gli uccelli calando dal­l'alto; invece, dai tempi circa d'Augusto, si concedeva ordinariamen­te il cadavere ad amici o parenti che l'avessero richiesto alle autorità per seppellirlo. Quanto si è visto fin qui erano le norme generali seguite per tutte le crocifissioni, e furono seguite anche per la crocifissione di Gesù.

§ 602 Quando il procuratore ebbe pronunziato la sentenza e fissatc il suo testo nella tavoletta (titulus; § 599), essa acquistò valore uffi­ciale: come doveva esser trascritta negli archivi del governo per ve­nir poi comunicata all'imperatore di Roma, così anche doveva esser subito eseguita. Del resto l'eseguire una sentenza di crocifissione ri­chiedeva pochi preparativi: un palo verticale stava sempre pronto sul luogo destinato a tale supplizio, o in caso diverso si piantava in pochi minuti; il palo orizzontale da addossare al condannato si pre­parava con pochi colpi d'ascia dati ad una trave qualunque; quindi non restava che radunare la scorta di soldati, affidarle il condannato, ed avviarsi al luogo stabilito. Anche il luogo scelto per la crocifissione di Gesù fu conforme alle nor­me già viste. A settentrione della città, appena fuori le mura, c'era una piccola sporgenza rocciosa, alta pochi metri dal terreno circo­stante: a causa dell'aspetto che aveva questo rialzo, la gente lo chia­mava pittorescamente il Cranio, ossia chi parlava latino diceva Cai­varia e chi parlava aramaico diceva Golgota (ebraico Gulgoleth). Per crocifissioni quel luogo era opportunissimo, giacché la sua piccola altezza bastava a mettere in piena vista il condannato, ed essendo a brevissima distanza da una porta della città passava là sotto molta gente: oltre a ciò, lì presso al Cranio, c'era una tomba e forse più d'una (§ 617), e anche questa circostanza s'accordava con la norma di crocifiggere in luoghi destinati a sepoltura. La città già dal secolo i dopo Cr. si è estesa continuamente verso settentrione, e le radicali trasformazioni ch'essa ha ricevuto nel seco­lo Il hanno fatto scomparire sia il rialzo del Cranio, sia le vicine mura della città e il fossato che le separava dal Cranio i lavori fatti nel secolo IV da Costantino per la costruzione della basilica del Santo Sepolcro livellarono anche più tutta l'area, salvo una piccola porzione del Cranio incorporata e racchiusa nella costruzione. Tut­tavia il nome del rialzo, con la tenacia caratteristica alla toponomastica orientale, si è conservato ancora: pochi anni fa esso è stato sorpreso, sotto la forma araba di Ras (« testa »), nel linguaggio di vecchi indigeni del quartiere per designare la zona circostante alla basilica. Questo era il luogo a cui fu avviato Gesù per esservi crocifisso. Dal punto di partenza, ch'era la fortezza Antonia, il cammino non sarebbe stato lungo perché anche a quei tempi non poteva superare un chilometro seguendo la via più breve; tuttavia non solo quel giorno le strade erano affollatissime per la solennità pasquale, ma probabil­mente si segùirono a bella posta le vie più lunghe e frequentate per la norma già vista di dare la massima pubblicità all'esecuzione. I più interessati a ciò erano i sommi sacerdoti e gli altri Sinedristi, che seguivano trionfanti il condannato e non si sarebbero lasciata sfug­gire l'occasione di prolungare davanti alla folla il trionfo di se stessi e l'umiliazione di lui.

§ 603. Tuttavia anch'essi ebbero, fin da principio, una grave ama­rezza. Per recarsi al luogo del supplizio il corteo fu formato dai sol­dati di scorta, dal principale condannato ch'era Gesù, e da due altri condannati i quali erano due volgari ladroni e per quell'occasione venivano condotti al supplizio; ogni condannato era accompagnato regolarmente dalla sua tavoletta, la quale proclamava pubblicamente il delitto da lui commesso. La tavoletta di Gesù era scritta nelle tre lingue più impiegate nella regione, ossia in ebraico (aramaico), greco e latino, e mostrava in sostanza (§ 122) questo testo dettato da Pilato stesso: Gesu' il Nazareno, il re dei Giudei. I vigili Sinedristi lessero fugacemente questo testo lungo il cammino, e anche più nitidamen­te lo contemplarono quando la tavoletta fu apposta sulla croce di Gesù; da accurati giuristi quali erano, essi vi riscontrarono un enor­me errore: quel condannato veniva crocifisso non già perché fosse il re dei Giudei, come sembrava risultare dalla tavoletta, ma perché si era proclamato il re dei Giudei senza essere effettivamente tale. Punti sul vivo, essi corsero solleciti dal procuratore e con molta pre­mura gli fecero rilevare l'errore, che doveva assolutamente essere cor­retto nell'interesse stesso del governo: il buon popolo poteva offen­dersi a leggere in un documento ufficiale ch'era stato crocifisso il re dei Giudei, tanto più che un'ora prima quello stesso devotissimo po­polo aveva dichiarato pubblicamente e solennemente di riconoscere per suo unico ed amato re il Cesare di Roma (§ 595). Dicevano pertanto a Pilato i sommi sacerdoti dei Giudei: « Non scri­vere - Il re dei Giudei - bensì che egli disse - Sono re dei Giudei ». Rispose Pilato:”Quel che ho scritto ho scritto” (Giov., 19, 21-22). Pi lato ritrovava in parte il suo carattere; adesso che non aveva più paura di denunzie a Roma, si vendicava della sconfitta ricevuta e rispondeva con la scontrosità e il dispetto alle esibizioni di lealismo politico fattegli dai Sinedristi. E questa fu la prima amarezza provata dai trionfatori; i quali in tutto quel giorno, a rileggere la tavoletta ufficiale redatta dal rappresen­tante di Cesare, si sentirono ripetere dallo scritto di lui che Gesù moriva in croce perché era effettivamente il re dei Giudei.

§ 604. Partito dall'Antonia, il corteo avanzava con lentezza lungo le vie affollate della città festante. Molti di coloro che avevano formato la turba vociante davanti al pretorio, dovevano essere tornati alle loro case per fare i preparativi della cena pasquale i Sinedristi, non avendo più bisogno delle loro grida, li avevano rimandati liberi. Tut­tavia parecchi maggiorenti seguirono il corteo, per esser sicuri che tutto procedesse bene e si venisse una buona volta alla conclusione finale. I lazzi e i sarcasmi che la plebaglia riserbava ai condannati non mancarono certamente lungo la strada, ma i ludibri più squisi­tamente feroci furono indirizzati a colui che il gesto sprezzante dei inaggiorenti additava a preferenza alla ferocia del volgo: il Rabbi galileo, molto più che i due ladroni, era degno di quegli osceni dileggi. Gesù, caricato del palo trasversale, camminava a stento. Si era sul mezzogiorno (§ 595), e da prima della mezzanotte egli era passato attraverso un'incessante serie di prove fisiche e morali d'incompara­bile violenza: prima l'amoroso e doloroso congedo dagli Apostoli nel cenacolo, poi il Gethsemani, quindi l'arresto, il processo davanti al Sinedrio, i ludibri in casa di Caifa, il processo davanti a Pilato, infi­ne la spaventosa flagellazione, gli avevano tolto ogni residuo di forze. Sotto il peso della trave egli vacillava, incespicava ad ogni passo, po­teva stramazzare da un momento all'altro per non rialzarsi più. Il centurione che comandava la scorta s'impensierì di questo fatto, il quale poteva far sì che il compito a lui affidato o non fosse condotto a termine oppure subisse un ritardo enorme che gli sarebbe stato rini­proverato. E allora ricorse al ripiego della “requisizione”, che già conosciamo (§ 327, nota prima). Si trovò a passare a caso di là un certo Simone di Cirene, che Marco ama segnalare ai suoi lettori di Roma come podre di Alessandro e di Rufo (§ 133); veniva egli dalla campagna, ove certamente era stato a lavorare (§ 537), ed era indirizzato a casa sua; ma il centurio­ne, data la necessità, lo “requisi” e gli comandò di portare il palo che Gesù non poteva più portare. Nulla c'induce a credere che que­sto Simone conoscesse Gesù o gli fosse discepolo, e quindi l'ordine ri­cevuto dovette essere tutt'altro che gradito al “requisito”: se però suo figlio Rufo diventò più tardi persona insigne nella cristianità di Roma e se la stessa moglie di Simone fu chiamata da Paolo per venerazione col nome di madre (§ 133), si può condudere che il servi­zio prestato a malincuore a Gesù produsse, in maniera a noi scono­sciuta, ottimi effetti.

§ 605. Ma Simone non fu il solo ad aiutare Gesù: un altro conforto, questa volta spontaneo, gli venne da donne e chi lo racconta è il solo Luca, l'evangelista della pietà femminile (§144). Forse proprio quan­do Gesù fu scaricato del palo e si raddrizzò un pochino rinfrancato, scorse fra la moltitudine ostile od oziosa che lo seguiva anche un gruppo di donne che facevano cordoglio su lui piangendo e lamentan­dosi: erano figlie di Gerusalemme, cioè cittadine della capitale, sebbene con esse si fossero potute unire talune di quelle donne galilee che seguivano ordinariamente Gesù (§ 343). Da una notizia rabbinica (Sahnedrin, 43 a) sembrerebbe risultare che si era formata in Ge­rusalemme come una pietosa associazione di nobili donne per assistere in qualche modo i condannati a morte, in particolare somministran­do loro liberalmente del vino con un po d'incenso mescolatovi den­tro, ch'era stimata bevanda stupefacente e anestetica: forse quelle gerosolimitane che andarono incontro a Gesù appartenevano a tale associazione, e anche più cordialmente avranno compiuto l'atto beni­gno se già conoscevano almeno di fama Gesù. La loro pietà fu contraccambiata da Gesù con pietà di egual genere. Spingendo nuovamente lo sguardo verso la prossima distruzione di Gerusalemme (§§ 454, 526), Gesù contemplò lo strazio che avrebbero sofferto le donne e le madri durante quella catastrofe, e si accomunò per pietà al dolore materno preammonendone le future vittime; per­ciò disse alle sue consolatrici: Figlie di Gerusalemme, non piangete su me, piuttosto su voi stesse piangete e sui vostri figli, perché ecco vengono giorni in cui si dirà:”Beate le sterili, e i ventri che non generarono e le mammelle che non nutrirono!”. Allora si a dire alle montagne: « Cadete su noi! » e alle colline: « Ricopriteci! » (cfr. Osea, 10, 8). Poiché se in un legno umido si fanno queste cose, in quello secco che avverrà? (Luca, 23, 28-31). Se nel condan­nato innocente avvenivano quei fatti che le pie donne deploravano in quel giorno, che cosa sarebbe avvenuto un quarantennio più tardi quando la catastrofe di Gerusalemme avrebbe travolto una nazione peccatrice, un popolo aggravato d'iniquità, una stirpe di malvagi, figli di perdizione, come si era espresso Isaia (1, 4)? Quando il corteo giunse al luogo del Cranio si procedette senz'altro alla crocifissione dei condannati. A Gesù, e certamente anche ai due ladroni, fu offerto del vino mescolato con mirra ch'era giudicato adatto a intorpidire i sensi; ma egli appena vi ebbe apposte le lab­bra lo rifiutò, volendo con piena coscienza bere fino all'ultima goccia il calice assegnatogli dal Padre celeste.

§ 606. Quindi tutti e tre furono spogliati delle loro vesti; è possihile, per le ragioni gia viste, che si lasciasse un piccolo riparo al loro pudo­re (§ 600). Le vesti dei crocifissi erano un provento dei soldati di guardia, che se le spartivano fra loro. Così fecero anche quella volta con Gesù, e il testimone oculare è in grado di narrare esattamente come avvenne la spartizione. Gli indumenti usuali di un giudeo erano formati da due principali capi di vestiario: l'indumento esterno o mantello e quello interno o tunica. Il mantello era formato da più pezze di stoffa cucite insieme: la tunica invece poteva essere priva di cuci­ture perché intessuta dall'alto in basso tutta d'un pezzo: tale era il caso della tunica del sommo sacerdote di cui parla Flavio Giuseppe (Antichità giud., II, 161), e tale fu il caso della tunica di Gesù. I soldati pertanto, quand'ebbero crocifisso Gesu', presero le vesti di lui e (ne) fecero quattro parti, una parte per ciascun sol­dato, e (presero) la tunica. Ma la tunica era priva di cuciture, intessuta dall'alto d'un pezzo. Dissero pertanto fra di loro:” Non la dividiamo, ma tiriamola a sorte di chi sarà” (Giov., 19, 23-24). Il mantello infatti poteva, senza grave scapito, esser di­viso lungo le sue cuciture; ma la tunica tutta d'un pezzo, avrebbe perduto la massima parte del suo pregio, qualora fosse stata tagliata in quattro parti. Perciò i soldati s'accordarono nell'assegnarla a chi di loro fosse stato favorito dai dadi, che essi avevano por­tati con sé per ingannare le ore di guardia alle tre croci. Ma in ciò che fecero allora i soldati, l'evangelista scorge l'avveramento della profezia messianica contenuta nel Salmo 22, 19 (ebr.) che dice:”Si spartirono i miei indumenti fra loro, e sulla mia veste gettarono la sorte”. Spogliato delle vesti, Gesù fu disteso a terra. Le sue braccia furono allungate sopra il palo da lui portato: ivi furono inchiodate le sue mani. Così confitto a metà, il suo corpo fu innalza­to sul palo verticale già piantato in terra: lassù fu collocato a cavaI­cioni sul sostegno (sedile). Infine furono inchiodati i piedi (§ 600). La sua croce stava nel mezzo; ai due lati quelle dei due ladroni. Sulla sua croce fu apposta la tavoletta di condanna; se essa fu collocata - come sembra risultare da Matteo, 27, 37 - sulla cima del palo verti­cale, la croce era immissa e non commissa (§ 598). Le operazioni della crocifissione terminarono quando il mezzogiorno era passato di poco.

§ 607. Su quest'ultimo punto sembrerebbe che vi fosse contraddizio­ne fra quanto dice Giovanni, che Pilato pronunziò la condanna all'ora quasi sesta ossia un poco prima del nostro mezzogiorno (§ 595), e quanto dice Marco (15, 25): Era l'ora terza e lo crocifissero. Varie ipotesi furono proposte per concordare queste due notizie. Già S. Girolamo, seguito da alcuni moderni, suppose che nella trasmis­sione dei due numeri espressi in greco con le lettere dell'alfabeto fosse incorso per colpa degli amanuensi uno scambio fra la lettera gamma (I', che esprimeva il 3) e la lettera digamma (F, che espri­meva il 6): perciò in Marco bisognerebbe leggere “ora sesta” appun­to come in Giovanni; senonché questa soluzione, che dal punto di vista paleografico è astrattamente possibile, dal punto di vista documentario non è in alcun modo suffragata dai codici. - Altri studiosi supposero che Giovanni conti le ore a cominciare dalla mezzanotte secondo la computazione civile degli Occidentali, e che invece Marco conti a cominciare dalle prime luci dell'alba secondo la computazione degli Orientali; ma anche questa soluzione ha guadagnato pochi se­guaci perché, oltre il resto, si aspetterebbe che appunto Marco il qua­le scriveva a Roma seguisse la computazione occidentale, e Giovanni invece quella orientale perché scriveva in Oriente. La soluzione più ragionevole sembra pertanto quella che si riporta ai tempi e alle usan­ze del paese. Il tempo dall'alba al tramonto era diviso in 12 ore (di ampiezza variabile a seconda delle stagioni), ma questa divisione era più teorica che pratica; in paesi come la Giudea, ove gli strumenti meccanici per misurare il tempo erano estremamente rari, la gente si regolava di solito con l'osservazione della luce solare, e perciò aveva finito col raggruppare le 12 ore diurne in quattro periodi che di­videvano la giornata solare in quattro parti uguali, due prima del mezzogiorno e due dopo: ogni periodo infatti, essendo più lungo del­la singola ora, aveva il vantaggio di distinguersi assai più facilmente per l'intensità della luce solare dal periodo vicino. Cosicché dall'alba fino alle nostre ore 9 antimeridiane correva sempre il mattino o il periodo dell'ora prima; dalle nostre 9 antimeridiane fino al mezzo­giorno correva il periodo dell'ora terza; dal mezzogiorno fino alle nostre 3 pomeridiane correva il periodo dell'ora sesta; dalle nostre 3 pomeridiane fino al tramonto correva il periodo dell'ora nona. Ra­rissimamente i Sinottici escono da questa denominazione (Matteo, 20,1-6); Giovanni invece più facilmente nomina altre delle 12 ore in­tennedie (Gion., 1, 39; 4, 6.52; 11, 9), ma fa ciò perché vuole come al solito precisare, e quindi abbandona gli ampi gruppi o periodi di ore e nomina le singole ore numericamente. Secondo ogni verosimi­glianza la discordia fra Marco e Giovanni riguardo all'ora della crc­cifissione di Gesù consiste tutta in questo: che Marco parla dell'ora terza in quanto gruppo o periodo di ore, il quale perciò s'estendeva fino all'ora sesta ossia al mezzogiorno, mentre Giovanni intende l'ora sesta numericamente ossia il preciso mezzogiorno.

§ 608. Mentre si svolgevano le operazioni della crocifissione Gesù serbò, a quanto sembra, un silenzio assoluto: il suo corpo sfigurato e disfatto non racchiudeva quasi più energia fisica, la sua mente era assorta nel pensiero del Padre celeste a cui stava offrendo il sacrificio di se stesso. Tuttavia la prima frase da lui pronunziata, che ci venga trasmessa, è un pensiero che pur rivolgendosi al Padre nei cieli si preoccupa di quei che stanno giù in terra attorno a lui; forse proprio mentre gli inchiodavano le mani o i piedi egli esclamò: Padre, per­dona ad essi, perché non sanno che cosa fanno! (Luca, 23, 34). i loro a cui s'invoca quel perdono non sono tanto gl'incoscienti soldati che martellano sui chiodi, quanto quegli altri che scientemente ave­vano predisposto tutto affinché accadesse quanto stava accadendo. Anche a quegli altri Gesù impartisce il suo perdono e implora quello del Padre, perché non sanno adesso ciò che dapprima hanno rifiutato di sapere: la conseguenza della colpa passata è addotta benignamen­te a scusa del delitto presente. Innalzato che fu sul palo verticale Gesu' continuò a guardare con gli occhi languenti, ma ancora penetranti, ciò che avveniva in basso e a fianco a lui. In basso i sommi sacerdoti e gli altri Sinedristi s'in­trattenevano da trionfatori; veramente sarebbe stato più urgente per essi tornare alle loro case, onde sorvegliare da buoni Israeliti gli ultimi preparativi per la cena pasquale; tuttavia preferivano rimandare sempre più il ritorno, per trattenersi ancora un poco gioiosi e gongolanti sul posto del loro trionfo. Passavano essi e ripassavano sotto le tre croci: ora lanciavano oc­chiate sdegnose alla croce di mezzo; ora l'additavano sprezzanti a gente di loro conoscenza che passava là sotto, e poi con le mani die­tro la schiena si piantavano in faccia a quel crocifisso e l'apostrofavano direttamente: Ohe'! Quello che demolisce il santuario e in tre giorni (lo) ricostruisce! Salva te stesso, se sei figlio d'iddio, e discendi dalla croce! La gente, intimidita dall'autorità di chi l'aveva fermata, ripeteva l'apostrofe e rinnovava le beffe. Altri Sinedristi invece preferivano un argomento ad hominem, che insieme voleva essere un'apologia del proprio operato: Salvò altri; se stesso non può salvare! E’ re d'israele: discenda adesso dalla croce e crederemo in lui! Ha confidato in Dio, (Dio lo) liberi adesso se si compiace in lui (cfr. Salmo 22, 9 ebr.). Disse infatti: “Sono figlio di Dio!”. Ma da quella croce non scese né l'apostrofato né una risposta qualsiasi, perché ambedue le discese sarebbero state inutili per gli apostrofanti.

§ 609. A fianco a Gesù stavano i due ladroni crocifissi, e anche di qui partivano ingiurie. Matteo e Marco parlano al plurale, di ladroni che ingiuriavano: ma è un “plurale di categoria” (cfr. § 625, nota), per significare che ingiurie partivano anche dalla categoria dei ladroni senza precisare se faceva ciò l'intera categoria o solo una sua parte. Luca invece precisa, e dice che uno solo ingiuriava mentre l'altro si raccomandava. Il ladrone che ingiuriava, forse per ottenere una qualsiasi rivincita in quello sfacelo della propria esistenza, forse per vendicarsi di una vaga speranza svanita, ripeteva verso Gesù: Non sei tu il Cristo (Messia)? Salva te stesso e noi! Ma l'altro ladrone non condivideva tali sentimenti, anzi ne rimproverava il compagno ripetendogli: Nemmeno temi iddio tu, giacché sei nella medesima condanna? E noi poi giustamente, poiché riceviamo cose degne di quanto facemmo; ma costui non fece nulla di male. La forza del rimprovero è su quei temi, a cui si riferisce il nemmeno; se non hai riverenza per Iddio, abbi almeno timore giacché subi­sci la medesima pena di Gesù innocente. Probabilmente il buon ladro­ne conosceva di fama Gesù di Nazareth e aveva inteso parlare della sua bontà, dei suoi miracoli e del regno di Dio da lui predicato: certamente poi aveva, nonostante i suoi misfatti, un residuo di coscienza onesta. Nell'imminenza della morte quel residuo riaffiora e ricopre tutto il passato; il morituro si aggrappa all'unica speranza che gli resta e che è rappresentata da quel giusto ingiustamente ucciso. Ri­volgendosi allora a lui gli dice: Gesu', ricòrdati di me quando (tu) venga nel tuo regno, ossia quando verrai gloriosamente regnante in quel regno da te annunziato. Gesù gli risponde: in verita' ti dico, oggi sarai con me nel paradiso. Sebbene non sia facile determinare con precisione il senso che si dava al termine “paradiso” ai tempi di Gesù, è certo che designa la dimora delle anime giuste dopo morte, analogo perciò al seno di Abramo (§ 472).

§ 610. Fra le persone che Gesù vedeva dall'alto della croce solo un piccolo gruppo, che stava a pochi passi da lui, gli dava qualche con­forto. Ma era poi un conforto, e non piuttosto un aumento di dolore? Il gruppo infatti era formato da persone familiari od amiche, a cui la legge romana non proibiva di assistere allo spettacolo, purché non si avvicinassero ad offrire soccorsi al crocifisso che sarebbero stati im­pediti dai soldati di guardia. I nomi di questo piccolo gruppo più vicino alla croce ci sono stati trasmessi dal testimonio oculare, il qua­le tuttavia tralascia il suo proprio nome designandosi come il disce­polo che (Gesu') amava (§ 155); oltre a Giovanni, dunque, facevano parte di questo gruppo la madre di lui (Gesù), e la sorella della ma­dre di lui, Maria di Cleofa (Alfeo), e Maria la Magdalena (Giov., 19, 25). Alla loro volta i Sinottici, dopo aver narrato la morte di Gesù, ricordano che era presente un altro gruppo, più numeroso ma più lontano, formato di donne che piangevano e si lamentavano: era­no le donne che avevano assistito Gesù nel suo ministero (§ 343) e l'avevano seguito dalla Galilea a Gerusalemme (Matteo, 27, 55-56; Marco, 15, 40-41). Fra le donne di questo secondo gruppo sono nomi­nate Maria la Magdalena (come nel primo gruppo), Maria la madre di Giacomo il Minore (§ 313) e di Giuseppe (e anche questa Maria appare nel primo gruppo come Maria di Cleofa, inoltre una Salome e la madre dei figli di Zebedeo (§ 496), e queste due ultime sono una stessa persona. Che almeno due donne siano nominate in ambedue i gruppi non fa meraviglia, perché è diverso il momento in cui ciascun gruppo è nominato cioè prima della morte di Gesù il gruppo piu' vicino, e dopo la morte quello più lontano - e talune potevano esser passate nel frattempo da un gruppo all'altro. Nel gruppo più vicino stava dunque, insieme al discepolo prediletto, la madre di Gesù. Era un conforto quella vista per il crocifisso? Come a lei era impedito dai soldati di avvicinarsi a lui, così a lui i chiodi impedivano ogni gesto verso di lei. Potevano comunicare fra loro solo con lo sguardo: a Maria la voce era impedita dal pianto, a Gesù dall'estrema debolezza. La madre guardava il figlio, e forse pen­sava che quelle membra si erano formate nel seno di lei in maniera unica al mondo, mentre adesso erano divenute oggetto di sommo spavento: il figlio guardava la madre, e forse pensava che quella donna era stata proclamata benedetta fra le donne, mentre adesso era divenuta oggetto di somma pietà. Ma ad un certo punto il crocifisso, raccolte alquanto le forze e accennando alla madre con la testa, dis­se: Donna (§ 283), ecco il tuo figlio; poi accennando al discepolo prediletto: Ecco la tua madre. In questo suo testamento il morituro univa per sempre i suoi più grandi amori terreni, la donna di Beth-lehem e il giovane che aveva sentito battere il cuore di lui nell'ultima cena. Da quel giorno Giovanni prese in casa sua Maria (§ 156).

§ 611. Il crocifisso declinava rapidamente. Attorno a lui, all'improv­viso, cominciò a declinare anche la luce solare: dall'ora sesta si fece tenebra su tutta la terra fino all'ora nona (Matteo, 27, 45), ossia dal mezzogiorno alle tre pomeridiane. L'espressione tutta la terra designa qui la Giudea, come altre volte nella Bibbia ebraica. In che maniera avvenisse questo oscuramento del giorno, non è detto: certamente non fu un'eclisse solare, la quale non può avvenire du­rante il plenilunio in cui allora si stava. Ciò era già stato osservato nell'antichità da Origene, Girolamo e Giovanni Crisostomo; è vero che lo pseudo Dionigi Areopagita narrò d'aver assistito egli stesso in Eliopoli all'oscuramento di tutto il mondo per la morte di Gesù, e spiegò quell'oscuramento con un moto anormale della luna che avreli­be retroceduto per collocarsi davanti al sole (Epist. vii, ad Polycar­pum); ma la sua narrazione è pura fantasia, perché oggi è assicurato che questo ignoto autore non ha scritto prima del secolo v, e la sua spiegazione ha il torto di non conoscere le sensate osservazioni dei precedenti scrittori accennati. Anche l'eclisse segnalata da Flegone, liberto d'Adriano, e ricordata da qualche Padre (Origene, Contra Celsum, II, 33), sarebbe avvenuta l'anno 32, e quindi non può entrare in discussione. Senza dubbio gli evangelisti intendono questo oscu­ramento come un fatto miracoloso avvenuto per la morte di Gesù,in corrispondenza con i segni miracolosi che avevano accompagnato la sua nascita: ma se l'oscuramento fosse prodotto da densa nuvolaglia che intercettasse la luce o in altra maniera, non è possibile dire. In quell'oscurità della natura fisica Gesù si andò man mano spegnen­do in una agonia durata circa tre ore sulla quale gli evangelisti sten­dono un velo di riverente mistero. Il corpo perdeva incessantemente sangue e forza vitale attraverso gli squarci delle mani e dei piedi e attraverso le vaste lacerazioni prodotte dalla flagellazione: il capo era crivellato dalle punture delle spine; nessun muscolo trovava ripo­so nella posizione sulla croce. I tormenti si accavallavano e s’accre­scevano sempre più atroci, senza un istante di requie. In quel tenebroso oceano di spasimi solo la più alta vetta dell'anima era serena, sublimata nella contemplazione del Padre. L'agonizzante era in silenzio.

§ 612. A un tratto, vicino all'ora nona, Gesù gettò un alto grido dicendo in aramaico: “Eli’, Eli’, lema’ shebaqtani”. Più che un'esclama­zione in proprio, queste parole erano una citazione: esse costituiscono l'inizio del Salmo 22 ebr., e precisamente secondo la versione ara­maica del Targum significano, co­me aggiungono in greco anche Matteo e Marco, Dio mio, Dio mio, perché mi abbandonasti? Essendo una citazione, il loro senso pieno è dato dall'intera composizione di cui sono l'inizio. Quel salmo infatti si riferisce al futuro Messia, di cui preannunzia i supremi dolori, e Ge­sù recitandone l'inizio sulla sua croce intendeva applicarlo a se stesso. L'antico salmo, fra l'altro, aveva detto: Dio mio, Dio mio, perché mi abbandonasti? Lungi dalla mia salvezza sono gli accenti del mio lamento. Dio mio! Grido di giorno, e non rispondi, pur di notte, né v'ha requie per me! io sono un verme, e non un uomo, obbrobrio della gente e spregiato dal volgo. Tutti quei che mi vedono si fan beffa di me, spalancan le labbra, scuotono il capo (esclamando):”Si rivolga a Jahvè”: Egli lo scampi, Egli lo salvi, perché di lui si compiace!”. Si, m'han circondato dei cani, un'accolta di malvagi m'hanno attorniato, hanno forato le mie mani e i miei piedi, io posso contare tutte le mie ossa. Essi mi rimirano, mi guardano, si spartiscono i miei indumenti fra loro e sulla mia veste gettano la sorte. Gesù dunque, affermando nuovamentte con la sua esclamazione di essere il Messia, ne offriva una nuova prova nel confronto fra la pro­fezia citata e l'avveramento di essa ch'egli mostrava in se stesso. Ma appunto le prime parole dell'esclamazione, “Elì, Elì” dettero oc­casione ad un equivoco. I dotti Scribi presenti vi riconobbero certa­mente la citazione del salmo; non così altri meno esperti, i quali intesero quelle parole come un'invocazione all'antico profeta Elia (§ 404), seppure non finsero d'intenderle in quella maniera per beffeggia­re ancora una volta l'agonizzante quasicché fosse entrato in delirio. Cominciarono ad esclamare, tra incuriositi e sarcastici : Guarda! Co­stui invoca Elia!

§ 613. Nell'attesa, il crocifisso pronunciò un'altra parola: Ho sete! L'arsura, nelle condizioni di dissanguamento e di spossatezza in cui si trovava Gesù, era un fatto naturalissimo. Ma non consisteva tutto qui; infatti il salmo testé citato da Gesù aveva anche detto: inaridito come coccio il mio palato, e la mia lingua s'e' attaccata alle mie fauci! Anche la sete, dunque, entrava nella visione del Messia sofferente; e perciò Giovanni (19, 28) fa rilevare che Gesù, affinchè s’adempisse la Scrittura, disse:”Ho sete!”.La suprema implorazione dell'agonizzante trovò questa volta un cuore pietoso disposto ad accoglierla: fu certamente uno dei soldati di guardia alle croci. I soldati romani usavano dissetarsi, in mancanza di meglio, con una mescolanza di acqua ed aceto ch'è usata spesso anche oggi dai mietitori delle nostre campagne: anche il suo nome latino, posca, è tuttora superstite nel contado d'alcune regioni ita­liane. Prevedendo una lunga guardia ai piedi delle croci, quei sol­dati si erano provvisti portando con sé un vaso di posca. Udendo l'implorazione del crocifisso, uno di essi inzuppò di posca una spugna e mettendola in cima a un'asta l'appressò alle labbra dell'assetato. L'azione del soldato non piacque a coloro che avevano parlato di Elia, i quali perciò lo dissuadevano esclamando: Lascia: vediamo se viene Elia a salvarlo! (Matteo, 27, 49). Nel pensiero di costoro Elia, come salvatore, avrebbe provveduto a estinguere la sete del sal­vato. Sembra poi che la stessa esclamazione fosse ripetuta dal solda­to, in risposta a coloro che lo dissuadevano (Marco, 15, 36) La­sciate, stiamo a vedere, se venga Elia a distaccarlo), quasi per mo­strare che piuttosto era bene confortare il crocifisso in attesa della venuta di Elia. Gesù, che qualche ora prima aveva rifiutato il vino mirrato, adesso succhiò dalla spugna il liquido. Con particolare intenzione gli evan­gelisti chiamano quel liquido aceto, mirando essi al passo del Salmo 69, 22 (ebr.) che dice: Nella mia sete mi fecero bere aceto (cfr. § 605, nota). Quand'ebbe succhiato la posca, mormorò: E finito! Poco tempo più tardi l'agonizzante ebbe come un fremito; lanciò un alto grido; esclamò: Padre, nelle tue mani commetto il mio spirito! (cfr. Salmo 31, 6 ebr.). Quindi abbassò il capo. Era morto.

§ 614. Nella città ottenebrata avvennero in quel momento fatti stra­ordinari. Nell'interno del Tempio pendevano due grandi cortine ri­camate: una più esterna (masak) che separava il vestibolo dal « san­to » e un'altra più interna (paroketh) che separava il « santo » dal « santo dei santi » (§ 47); servivano da memoriale, rammentando l'inaccessibilità e invisibilità del Dio che dimorava nel « santo dei santi ». Sull'ora nona, quando moriva Gesù, una di queste cortine (probabilmente la più interna) si scisse in due parti dall'alto in basso, quasicché volesse significare che il suo ufficio era finito essendo abolita l'inaccessibilità del Dio invisibile. Avvennero anche scosse telluriche, le rocce si spaccarono, e le tombe s'aprirono, e molti corpi dei santi addormentati si ridestarono: e usci­ti dalle tombe dopo la resurrezione di lui entrarono nella città santa e apparvero a molti (Matteo, 27, 51-53). Questa resurrezione dei de­funti è narrata qui in anticipo, e sembra essere avvenuta dopo la re­surrezione di Gesù con cui è collegata. Quale conseguenza dello scon­volgimento tellurico, si mostrava già nel secolo iv (Luciano martire, Cirillo di Gerusalemme) una fenditura visibile ancora oggi lungo la parte rocciosa del Cranio incorporata nella basilica del Santo Sepol­cro: questa fenditura è lunga circa metri 1,70 e larga 0,25 e contra­riamente alle solite spaccature sismiche che corrono lungo le vena­ture della roccia corre trasversalmente ad esse. Il centurione e i soldati di guardia, al vedere sia i fenomeni straordinari che accompagnavano quella morte sia la maniera calma e insolitamente rapida in cui era avvenuta, ripensarono al contegno sin­golare tenuto da Gesù durante il processo, e mettendo le due cose in relazione fra loro si convinsero che un imputato di quel genere era non solo innocente ma anche persona straordinaria; cominciarono quindi ad esclamare: Realmente quest'uomo era giusto (Luca, 23, 47), e con particolare riguardo all'imputazione contestata a Gesù: Veramente quest'uomo era figlio di Dio (Marco, 15, 39). Anche la folla mutò contegno. Appena morto Gesù, i Sinedristi che avevano spadroneggiato da trionfatori sotto la croce di lui non ave­vano più nulla da temere, almeno per il momento, e quindi se ne andarono alle loro case a preparare la cena pasquale; perciò la folla non ebbe più chi le suggeriva imperiosamente lazzi e schemi contro il crocifisso, e libera così da timore reverenziale poté manifestare i propri sentimenti. Anche su di essa fecero impressione il giorno ot­tenebratosi e la terra sussultante, e ripensando a quanto era avvenuto nel processo si allontanava man mano dalla croce battendosi il petto (Luca, 23, 48). I due gruppi di persone familiari o amiche di Gesù - il gruppo vicino alla croce e quello lontano - ricevettero mutamenti dopo la morte di Gesù, passando alcune persone da un gruppo all'altro (§ 610).

§ 615. I Sinedristi, mentre tornavano alle loro case, ripensarono a una prescrizione legale: essi ripetevano a se stessi di aver compiuto una santissima azione facendo crocifiggere Gesù, ma quella santità non sarebbe stata perfetta se la salma del crocifisso fosse rimasta ap­pesa ed esposta anche durante la notte seguente; no, doveva essere calata dal patibolo e seppellita quel pomeriggio stesso prima del tra­monto come prescriveva la Legge (Deuteronomio, 21, 23), tanto più che col tramonto cominciava la solennissima Pasqua. Essi perciò, stra­da facendo, si recarono dal procuratore e l'invitarono ad osservare questa prescrizione suggerendogli anche la maniera più semplice: ba­stava praticare sui crocifissi il “crurifragio” (§ 601), e con ciò in pochi minuti tutti e tre sarebbero stati pronti per la sepoltura. Senonché l'invito dei Sinedristi fu quasi contemporaneo ad un altro invito rivolto al procuratore egualmente da un Sinedrista. La morte di Gesù aveva avuto come primo effetto l'infondere alquanto corag­gio nei disanimati discepoli. Fra costoro era un certo Giuseppe, nativo di Arimatea (l'antica Ramathaim, oggi Rentis, a nord-est di Lyd­da), uomo ricco e stimato, membro del Sinedrio e insieme discepolo di Gesu' ma occulto per la paura dei Giudei (Giov., 19, 38): spiri­tualmente, dunque, rassomigliava un po' a Nicodemo, membro an­ch'egli del Sinedrio (§ 288), tuttavia Giuseppe aveva osato dissentire dai suoi colleghi Sinedristi quando avevano condannato Gesù (Luca, 23, 51). Questa volta. egli osò anche di più; pregato forse dai fami­liari ed amici di Gesù che ricorsero volentieri alla sua autorità, egli ti presentò a l'ilato e gli chiese la salma di Gesù per seppellirla come permetteva la legge romana (§ 601). Pilato accolse la domanda, ma si meravigliò che il condannato fosse morto così presto, giacché egli s’aspettava un'agonia più lunga; chiamò pertanto il centurione exac­tor mortis, e quando costui lo accertò della morte concesse la salma.

§ 616. Quasi insieme giunsero gli altri Sinedristi, e Pilato accogliendo anche la loro richiesta inviò altri soldati, diversi da quelli che stavano tuttora di guardia alle croci, affinché praticassero sui crocifissi il “crurifragio” e quindi li deponessero dalle croci. Chi era presente all'arrivo dei soldati narra cosi: Vennero pertanto i soldati, e spezza­rono le gambe del primo e dell'altro crocifisso insieme con lui; venuti poi presso Gesu', come lo videro già morto, non gli spezzarono le gam­be, ma uno dei soldati con la lancia gli ferì il costato ed uscì subito sangue ed acqua (Giov., 19, 32-34). I due ladroni dunque sopravvis­sero a Gesù e furono spacciati dal “crurifragio”; questo invece non fu praticato a Gesù perché era con tutta evidenza già morto, e così i soldati risparmiarono anche a se stessi una certa fatica: tuttavia uno gli dette un colpo di lancia in direzione del cuore, giusto per non lasciare alcun dubbio sulla morte di lui. La ferita prodotta dalla lan­cia fu molto larga, un vero squarcio in cui poteva quasi entrare una mano (cfr. Giovanni, 20, 25.27), e dallo squarcio uscì sangue ed acqua. Dotti fisiologi inglesi credettero spiegare la fuoruscita di sangue ed acqua supponendo una rottura del cuore anteriore al colpo di lancia: nei casi di tale rottura si produrrebbe un'emorragia al pericardio e una successiva decomposizione del sangue, i cui globuli rossi fanno deposito in basso mentre il siero acquoso resta sospeso in alto; cosic­ché, quando il pericardio è aperto poco dopo la morte, l'elemento sanguigno e quello acquoso ne escono separati fra loro. Perciò la ra­pida morte di Gesù si spiegava - nel pensiero di questi fisiologi - con una rottura del cuore prodotta da cause morali. Gesù sarebbe morto col cuore spezzato, in senso vero, dal dolore. Checché sia di questa spiegazione, l'evangelista testimonio scorge ragioni arcane più profonde in ambedue gli eventi: Avvennero in­fatti queste cose affinché s'adempisse la Scrittura (che dice): “Osso non sarà spezzato di lui”; e nuovamente un'altra Scrittura (che) dice: “Rimireranno in chi trafissero”. La prima citazione è da Eso­do, 12, 46 (Numeri, 9, 12), e si riferisce all'agnello pasquale di cui gli Ebrei non dovevano spezzare alcun osso, quando lo mangiavano nella cena di Pasqua: l'evangelista vede in questa prescrizione una confer­ma che Gesù fu la vera vittima redentrice adombrata dall'antico agnello pasquale. La seconda citazione è da Zacharia, 12, 10, il quale scorge nel futuro la nazione giudaica far cordoglio su un trafitto come si fa cordoglio per la morte dell'unigenito. L'evangelista infine non dice il nome del soldato che trafisse il petto di Gesù, ma la leggenda cristiana gli ha dato il nome inconfondi­bile, chiamandolo Lanciere. In greco infatti lancia si dice lonche; perciò il soldato fu chiamato Longino.

§ 617. Il lugubre lavoro dei soldati dovette svolgersi quando Giuseppe di Arimatea era già sul posto, pronto a servirsi del permesso con­cessogli da Pilato. La richiesta della salma di Gesù era stata motiva­ta dal desiderio, di Giuseppe e di quanti lo avevano spinto ad agire, che la venerata salma non fosse gettata nella fossa comune dei giusti­ziati insieme con i cadaveri dei due ladroni; ottenuta quindi la salma, Giuseppe si dette subito a prepararle un sollecito e decoroso seppelli­mento, che doveva esser terminato prima del tramonto perché allora cominciava il riposo legale (§ 537). Nel suo lavoro Giuseppe fu coadiuvato da altri: è ricordato nomina­tamente il suo fratello spirituale Nicodemo, che venne... portando una mescolanza di mirra ed abe, circa cento libbre (Giov., 19, 39); è facile immaginare che nella pietosa cura i due uomini fossero assistiti anche dalle pie donne presenti alla morte di Gesù, e in primo luogo dalla madre di lui che certamente non rinunziò alla dolorosa gioia di accogliere fra le sue braccia la salma appena fu calata dalla croce. Come Nicodemo aveva portato gli aromi da spargere sulla salma, così per involgerla Giuseppe aveva comprato una sindone (§ 561); il quale termine deve avere qui non il suo senso tecnico di leggiera veste notturna ma quello più generico di ampio ammanto, quasi di lenzuolo, tessuto di fine lino. A causa della ristrettezza di tempo la preparazione della salma fu sommaria: presero dunque il corpo di Gesu' e lo rilegarono con fasce insieme con gli aromi, com'è costume ai Giudei di seppellire (Giov., 19, 40), e come infatti era stato praticato anche con la salma di La­zaro (§ 491); infine la salma, così composta, fu avvolta nella sindone. Egualmente per la ristrettezza di tempo non si poteva trasportare la salma in qualche tomba lontana, per il pericolo di essere sorpresi durante il trasporto dal tramonto del sole e dal riposo legale. Ma questa difficoltà fu superata facilmente grazie alla generosità di Giu­seppe, che cedette a tale scopo la sua propria tomba. Egli se l'era preparata appunto nel luogo del Cranio: ivi era un giardino, e nel giardino un sepolcro nuovo in cui nessuno ancora era stato posta (ivi, 41). Il giardino si stendeva ai piedi del Cranio, e il sepolcro era stato scavato dalla roccia (Marco, 15, 46), la quale era un prolungamento della roccia che costituiva il piccolo rialzo del Cranio. Pro­babilmente, come Giuseppe si era preparata colà la propria tomba, anche se l'erano preparata nella stessa zona altri facoltosi abitanti di Gerusalemme: e ciò s'accorda ottimamente con la norma di sce­gliere i luoghi di crocifissione a preferenza presso tombe (§ 599).

§ 618. La tomba ceduta da Giuseppe per la salma di Gesù aveva la solita disposizione interna delle tombe giudaiche (§ 491). Penetran­dovi dall'esterno, si trovava prima l'atrio e poi la camera funeraria con il loculo per la salma; atrio e camera comunicavano fra loro mediante un piccolo uscio sempre aperto, mentre l'atrio comunicava con l'esterno attraverso una porta che veniva sbarrata applicandovi una grossa pietra circolare simile a un'enorme macina da molino. Questa pietra poggiava sull'apertura impedendone l'accesso; ma quando si voleva entrare, bastava far rotolare non senza considere­vole sforzo - la pesante pietra o verso destra o verso sinistra, ed essa si spostava scorrendo su un canaletto scavato nella roccia a destra o a sinistra dell'apertura. Giuseppe, assistito dagli altri, portò a termine il seppellimento di Ge­sù prima del tramonto. Essendo avvenuta la morte verso le ore tre pomeridiane, tutto era compiuto verso le ore sei, allorché Giuseppe rotolata una grande pietra alla porta del sepolcro andò via (Mat­teo, 27, 60). Ma la tomba non rimase subito solitaria: era poi cola' Maria la Mag­dalena e l’altra Maria (la madre di Giacomo e Giuseppe) sedute di­rimpetto alla tomba (ivi, 61). Anche le altre pie donne s'avvicinarono a vedere il sepolcro e come fosse stata deposta la venerata salma; poi tornate in città, approfittarono dell'ultimo scorcio della giornata la­vorativa e prepararono aromi e unguenti (§ 537): evidentemente alla loro devozione non bastava l'abbondante provvista di aromi portata da Nicodemo, e si ripromettevano di curare meglio l'affrettata com­posizione della salma e di tornare perciò al sepolcro quando fosse trascorso il sabbato col suo riposo legale (Luca, 23, 55-56). Fra tutte queste pietose cure non è nominato alcuno degli Apostoli: il solo Giovanni, nel riserbo del suo scritto, s'intravede facilmente mentre assiste la madre di Gesù e la conduce alla sua propria abita­zione per curarla da figlio adottivo. Colà ambedue aspettavano.
§ 619. Quella notte fra il venerdì e il sabbato fu una gran bella nottata per i Sinedristi trionfatori. Celebrarono essi la cena pasquale non solo con la tradizionale giocondità esteriore ma anche con una particolare soddisfazione interiore, sebbene questa non avesse - o al­meno alle apparenze sembrasse di non avere - nulla da fare con la solennità pasquale. Quel Galileo se n'era proprio andato: era morto, sicuramente morto! Non c'era più pericolo di sentir di nuovo le sue invettive, e di rimanere ancora screditati da lui presso il popolo! Quei quattro di­scepoli ch'egli s'era portato appresso, si sarebbero senz'altro dispersi alla morte del loro maestro, e nessuno ne avrebbe parlato più. Tutto era riuscito bene, grazie all'assistenza non tanto di Mosè o di Elia, quanto di quell'incirconciso di Pilato: ad ogni modo, circon­cisione o no, era stato un bel successo e il ripensarvi sembrava dav­vero accrescere il sapore della cena pasquale. Eppure, a forza di ripensarvi, quei sagaci uomini s’avvidero che nel rilucente cristallo del loro trionfo appariva una piccola incrinatura. Cosa da poco, certamente, ma che non doveva esser trascurata. Si ricordarono essi che Gesù, quand'era ancora in vita, aveva predetto che tre giorni dopo la sua morte sarebbe risuscitato (§ 446). Ora, è vero che quest'annunzio era una pura millanteria, anche perché essi erano in gran parte Sadducei convinti, e perciò giudicavano impos­sibile la resurrezione dei morti (§ 515); tuttavia quella falsa predi­zione poteva dare occasioni ad imposture, a dicerie e ad altre noiose conseguenze. Era quindi opportuno prevenire il male, saldando quel­la piccola incrinatura riscontrata. Perciò alcuni di essi il giorno se­guente, sebbene fosse per loro il giorno di Pasqua, fecero una piccola e lecita passeggiata per recarsi da Pilato a fornirgli un consiglio uti­lissimo: Signore, ci ricordammo che quell'imbroglione disse essendo ancora vivo “Dopo tre giorni risorgo”. Comanda dunque che la tomba sia assicurata fino al terzo giorno, ché per caso venuti i discepoli non lo rapiscano e dicano al popolo “Risorse dai morti”, e (cosi) l'ultimo imbroglio sara' peggiore del primo. Pilato ri­spose rudemente: Avete un (corpo di) guardia: andatevene, e assicurate come sapete. La rudezza del procuratore era soltanto apparente e niente affatto reale, servendo soltanto a dissimulare a se stesso una nuova conces­sione ch'egli faceva. Egli cedette in realtà alla nuova richiesta, e per­mise anche questa volta ai Sinedristi di servirsi del (corpo di) guar­dia che egli era solito mettere a loro disposizione e ch'era formato da soldati romani (Matteo, 28, 14; cfr. Giov., 18, 12): insomma il procuratore, mentre parlava con la faccia ringhiosa, diceva poi sem­pre di si ai Sinedristi. Costoro non chiesero altro, e in quello stesso sabbato condussero i soldati sul posto. Ma nessuno avrebbe potuto superare per accortezza quegli insigni Giudei, cosicché essi si premunirono anche contro un caso a cui altri difficilmente avrebbe pensato: previdero cioè che i soldati, pur ri­manendo di guardia al sepolcro, potevano lasciarsi corrompere per denaro dai discepoli di Gesù permettendo loro l'ingresso nella tom­ba. Non si sapeva mai quel che poteva succedere: adesso che due loro colleghi del Sinedrio, Giuseppe e Nicodemo, avevano spinto la audacia fino a curare il seppellimento del crocifisso c'era da aspettarsi che i due imitassero il Sinedrio comperando a suon di sicli i soldati di guardia, come il Sinedrio aveva comperato Giuda. Perciò essi apposero i loro sigilli sulla pietra circolare che rotolava davanti all'ingresso della tomba, e l'assicurarono alla viva roccia. Con questa saggia precauzione nessuno sarebbe potuto entrare senza rompere i sigilli, di cui erano responsabili i soldati, e il morto non sarebbe risorto giammai.

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