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LA CITTA' DI DIO di sant'Agostino - Libri I - VI (1)

Ultimo Aggiornamento: 22/12/2012 19:18
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22/12/2012 18:57

LIBRO II

SOMMARIO

1. Il limite da imporsi alla trattazione anche se indispensabile.

2. Gli argomenti svolti nel primo libro.

3. Si deve consultare la storia per mostrare le sventure capitate ai Romani mentre adoravano gli dèi, prima che apparisse la religione cristiana.

4. Gli adoratori degli dèi non hanno ricevuto da loro alcuna norma di moralità e nelle loro feste hanno compiuto vari riti osceni.

5. Le oscenità con cui era adorata la Madre degli dèi.

6. Gli dèi dei pagani non hanno mai promulgato una dottrina morale.

7. Sono inutili le teorie filosofiche senza l'autorità divina, perché per l'uomo incline al male è più stimolante l'esempio degli dèi che le argomentazioni degli uomini.

8. Negli spettacoli teatrali gli dèi non sono insultati ma resi propizi con la rappresentazione della loro immoralità.

9. I vecchi Romani ritennero di dover frenare la licenza poetica mentre i Greci adeguandosi al giudizio degli dèi la liberalizzarono.

10. Con l'intenzione di far del male i demoni esigono che si narrino i propri delitti falsi o veri.

11. Presso i Greci gli spettacoli furono protetti dallo Stato perché i cantori degli dèi erano ingiustamente vilipesi dagli uomini.

12. I Romani togliendo la libertà ai poeti contro gli uomini e consentendola contro gli dèi hanno mostrato di stimare più se stessi che i propri dèi.

13. I Romani avrebbero dovuto capire che i loro dèi, i quali esigevano di essere onorati con spettacoli osceni, erano immeritevoli della dignità divina.

14. Platone, che non consentì ai poeti un posto in uno Stato ben ordinato, fu migliore degli dèi che pretesero di essere onorati con spettacoli teatrali.

15. I Romani inventarono alcuni loro dèi non con la ragione ma per adulazione.

16. Se gli dèi avessero interesse per la giustizia, i Romani avrebbero dovuto ricevere le norme morali da loro anziché importare le leggi da altri uomini.

17. Il ratto delle Sabine e altre iniquità che si ebbero nella città di Roma anche in tempi eticamente elevati.

18. La storia di Sallustio formula giudizi sui costumi dei Romani o frenati dal timore o resi sfrenati dalla sicurezza.

19. La corruzione dello Stato romano prima che il Cristo abolisse il politeismo.

20. Di quale felicità vogliono godere e quale condotta tenere coloro che aggrediscono la civiltà della religione cristiana.

21. Il parere di Cicerone sullo Stato romano.

22. Gli dèi dei Romani non si presero mai la briga che lo Stato romano non andasse in rovina.

23. L'alternarsi degli eventi storici non dipende dal favore o sfavore dei demoni ma dal giudizio del vero Dio.

24. Atti di Silla di cui i demoni si vantarono collaboratori.

25. Gli spiriti maligni spingono gli uomini alla delinquenza perché fanno valere la supposta autorità divina del loro esempio nel commettere delitti.

26. Alcuni avvertimenti privati dei demoni propongono l'onestà morale, sebbene pubblicamente nei loro misteri si apprende ogni cattiva azione.

27. I Romani hanno dedicato per placare gli dèi gli spettacoli osceni con grande decadimento della pubblica moralità.

28. La sana moralità della religione cristiana.

29. Esortazione ai Romani ad abbandonare il politeismo.


Libro secondo
IMMORALITÀ DEL POLITEISMO



Una irritante categoria di avversari.
1. Se la fiacca capacità dell'esperienza umana non ardisse opporsi al criterio della verità evidente ma sottoponesse la propria malattia alla dottrina salutare come a cura medica fino a guarire mediante l'aiuto di Dio e con l'intervento della fede religiosa, non ci sarebbe bisogno di un lungo discorso per dimostrare l'errore d'una falsa concezione a coloro che pensano rettamente ed esprimono i pensieri con parole appropriate. Ma la più grave e disgustosa malattia di stolte intelligenze è proprio quella di difendere come criterio razionale della verità le proprie impressioni irrazionali, anche dopo che è stato offerto un criterio pienamente razionale, quale si può dare da un uomo a un altro. E lo fanno o per grande accecamento, per cui non si vedono neanche le cose in piena luce, o per ostinata caparbietà, per cui non si vogliono osservare le cose che si vedono. Ne sorge la necessità di ripetere più diffusamente concetti chiari quasi a mostrare non cose da vedersi a chi guarda, ma da toccarsi a chi palpa con gli occhi chiusi. Ma ci sarà allora un termine della discussione e un limite del discorso se ritenessi di dover rispondere a chi non la smette di interloquire? Infatti coloro che o non sono capaci d'intendere ciò che si dice o sono tanto ostinati per opinione contraria che, quantunque abbiano inteso, non si arrendono, costoro interloquiscono e, come è stato scritto, difendono idee ingiustificate e non si stancano di essere insolenti 1. E se volessi confutare le loro obiezioni tutte le volte che aggrottando la fronte ostinata abbiano deciso di non capire quel che dicono, pur di contraddire in qualche modo alle mie argomentazioni, capisci che è un'opera senza limiti, irritante e senza risultati. E per questo vorrei che né tu stesso, o figlio mio Marcellino, né altri, ai quali questo mio lavoro a titolo di proficua cortesia è dedicato nella carità di Cristo, ne siano giudici così fatti da desiderare sempre una risposta ogni volta che si accorgono di una qualche obiezione agli argomenti esposti. Non divengano simili a quelle donnette, di cui dice l'Apostolo che imparano sempre e non arrivano mai alla conoscenza della verità 2.

Riassunto del primo libro.
2. Nel precedente libro, quando ho cominciato a parlare della città di Dio, dal momento in cui tutta l'opera col suo aiuto ha avuto inizio, mi si presentò la necessità di ribattere per primi coloro i quali attribuiscono le guerre, con cui il mondo è devastato, e soprattutto il recente saccheggio di Roma da parte dei barbari, alla religione cristiana, perché a causa sua è stato loro proibito di servire con culto obbrobrioso i demoni. Dovrebbero piuttosto attribuire a Cristo il fatto che per rispetto al suo nome, contro l'abituale usanza della guerra, i barbari abbiano offerto loro perché vi si rifugiassero spaziosi edifici di culto inviolabili e hanno così onorato il servizio, non solo vero, prestato a Cristo ma anche quello simulato per paura, al punto da giudicare che fosse per se stessi illecito di fare ciò che sarebbe stato lecito fare contro di loro agli altri per diritto di guerra. Ne sorse il problema perché questi benefici divini siano giunti anche a miscredenti e ingrati ed egualmente perché le atrocità commesse da parte dei nemici abbiano colpito indistintamente credenti e miscredenti. Il problema si allargò in molti quesiti. Esso infatti, in considerazione dei quotidiani favori divini e sventure umane che, gli uni e le altre, capitano indiscriminatamente ai buoni e ai cattivi, di solito turba molti individui. Per risolverlo secondo l'esigenza dell'opera intrapresa mi sono un po' dilungato principalmente per consolare donne consacrate col voto di castità, giacché contro di esse era stata commessa dal nemico un'azione che ha causato pena al pudore, anche se non ha tolto la fermezza della pudicizia. L'ho fatto perché non abbiano a rincrescersi della vita dal momento che non hanno di che rincrescersi per malcostume. Poi ho detto alcune cose contro coloro che con sfrontata arroganza dileggiano i cristiani afflitti dalle sciagure e soprattutto il pudore delle donne svillaneggiate ma santamente caste. Piuttosto sono essi molto dissoluti e privi di pudore, assai degeneri da quei Romani di cui sono lodate e divulgate nella letteratura azioni nobili, anzi fortemente opposti alla loro dignità. Proprio essi avevano reso Roma, creata e resa illustre dalle fatiche degli antichi, più abietta mentre era in piedi che dopo la caduta perché nel suo saccheggio son caduti pietre e legnami, invece nella loro vita son caduti i sostegni ornati non dei muri ma dei costumi. Bruciava di più il loro cuore di passioni mortali che le case di Roma con le fiamme. Con queste parole ho terminato il primo libro. Poi ho stabilito di parlare delle sventure che la città ha subito dalla sua fondazione sia nel suo interno che nelle province soggette, anche perché le accollerebbero tutte alla religione cristiana se fin d'allora la dottrina evangelica avesse fatto sentire nella loro nobilissima tradizione letteraria una eco contro gli dèi falsi e bugiardi.

Lega anticristiana di dotti e ignoranti.
3. Ricorda che mentre richiamo questi fatti parlo ancora contro gli ignoranti. Dalla loro ignoranza è nato appunto l'aforisma: "Non viene la pioggia, ne sono causa i cristiani" 3. Coloro invece che iniziati agli studi liberali amano la storia, sanno benissimo queste cose, ma per renderci ostili le masse degli indotti fanno finta di non saperlo; e si affannano a ribadire nel volgo che le sciagure da cui ineluttabilmente l'umanità in determinate circostanze di spazio e di tempo è afflitta avvengono per colpa della religione cristiana, giacché a danno dei loro dèi si diffonde con grande fama e illustre rinomanza in tutti i paesi. Richiamino dunque con noi le sciagure con cui lo Stato romano più volte e in vario modo è stato ridotto a nulla, prima che il Cristo venisse nel mondo, prima che il suo nome si rendesse noto ai popoli con la gloria che inutilmente gli contrastano. Difendano poi, se ne sono capaci, anche per questi fatti, i loro dèi se sono adorati appunto perché i loro adoratori non subiscano queste sventure, dal momento che pretendono di addossare a noi quelle che ora hanno sofferto. Perché dunque hanno permesso che accadessero ai loro adoratori i mali che sto per narrare, prima che la predicazione del nome di Cristo li irritasse e facesse proibire il loro culto?

I misteri cartaginesi di Celeste.
4. E prima di tutto per quale ragione i loro dèi non vollero preoccuparsi affinché gli uomini non avessero pessimi costumi? Il vero Dio ha giustamente trascurato individui da cui non era adorato. Ma per quale ragione questi dèi, dato che uomini molto ingrati lamentano che n'è stata loro proibita l'adorazione, non hanno aiutato con leggi i propri adoratori a vivere moralmente? Era giusto che come gli uomini si sono preoccupati dei loro sacrifici, così essi si preoccupassero delle loro azioni. Si risponde che si è cattivi per volontà propria. E chi lo nega? Tuttavia era di dèi provvidi non tenere nascosti ai propri adoratori comandamenti di moralità, ma presentarli in una chiara promulgazione, rimproverare personalmente i trasgressori mediante profeti, minacciare palesemente pene ai malvagi, promettere ricompense agli onesti. Quando mai si è fatta udire con parole espresse e autorevoli una tale promulgazione nei loro templi? Andavamo anche noi da giovanetti qualche volta a osservare le profanazioni di osceni spettacoli, guardavamo gli invasati, ascoltavamo i coristi, ci deliziavamo delle rappresentazioni veramente indecenti che si facevano in onore di dèi e dee, della vergine Celeste e di Cibele madre di tutti loro 4. Davanti al suo trono, nel giorno solenne del suo bagno, erano cantati pubblicamente da mimi pervertiti canzoni tali, quali non era conveniente che udisse, non dico la madre degli dèi, ma neanche la madre di un qualche senatore o di qualsiasi persona onesta, anzi neanche la madre degli stessi mimi. L'umano pudore ha qualche cosa nei confronti dei genitori che neanche la perversità riesce a togliere. Gli stessi mimi si sarebbero vergognati di eseguire a scopo di prova generale nelle loro case davanti alle loro madri lo sconcio di quelle oscene parole e azioni drammatiche. Eppure lo compivano in pubblico davanti alla madre degli dèi, mentre vedeva e udiva una gran calca dell'uno e dell'altro sesso. E se la gente attirata dalla curiosità poté assistere perché confusa nella folla, dovette andarsene confusa almeno per l'offesa alla decenza. Che cosa sono le profanazioni del sacro se quelli sono riti sacri? E che cos'è l'insozzarsi se quello è un bagno? E si chiamavano pietanze, quasi fosse dato un pranzo, durante il quale come a un proprio banchetto mangiassero le immonde divinità. Non si capisce dunque di che razza siano gli spiriti che si dilettano di tali oscenità? A meno che si ignori l'esistenza di spiriti immondi i quali ingannano col titolo di dèi o si conduca una vita in cui si desiderano propizi o si temono irati loro anziché il vero Dio.

Nasica riceve Cibele a Roma.
5. In questo argomento non vorrei avere come giudici costoro, che desiderano esser dilettati anziché lottare contro i vizi di una dannosa usanza, ma lo stesso Nasica Scipione che fu eletto dal senato alla più alta carica e da cui personalmente fu accolta e portata in Roma la statua di quella divinità 5. Ci direbbe se avrebbe voluto che sua madre fosse tanto altamente benemerita dello Stato da esserle tributati onori divini. È noto che i Greci, i Romani e altri popoli li hanno decretati ad alcuni mortali. Avevano tenuto in gran conto i benefici ricevuti e creduto che fossero divenuti immortali e quindi accolti nel numero degli dèi 6. Nasica certamente, se fosse possibile, desidererebbe un destino così alto per sua madre. Chiediamogli poi se desidererebbe che fra gli onori divini per lei si eseguissero quelle rappresentazioni oscene. Griderebbe di preferire che sua madre rimanga morta nella tomba senza conoscenza piuttosto che vivere come dea per ascoltare favorevolmente quelle cose. Un senatore del popolo romano, provvisto di un carattere tale per cui impedì che in una città di uomini forti si costruisse un teatro, non vorrebbe che la madre fosse onorata così da essere resa propizia come dea con riti da cui una matrona sarebbe oltraggiata. E non avrebbe mai supposto che il pudore di una donna onorata fosse dagli attributi divini volto al significato contrario, sicché i suoi adoratori la rendessero propizia con onori corrispondenti ad oltraggi lanciati contro qualcuno. Se, mentre viveva fra gli uomini, non si turava gli orecchi per non udirli, ne sarebbero arrossiti per lei congiunti, marito e figli. Pertanto una madre degli dèi che chiunque, anche il peggiore degli uomini, si vergognerebbe di avere per madre, per impadronirsi delle coscienze dei Romani si servì di un ottimo individuo non per renderlo buono col consiglio e l'aiuto ma per raggirarlo con l'inganno. Fu dunque simile a quella donna di cui è stato scritto: La donna dà la caccia alle anime di valore degli uomini 7. Ne conseguì che quell'uomo di grande temperamento, come sublimato dall'attestazione della dea e reputandosi veramente ottimo non cercò la vera pietà religiosa, senza di cui anche un nobile ingegno si svuota a causa della superbia e si accascia. In che modo dunque se non perfidamente la dea chiese un uomo ottimo? Perché nei propri misteri chiede cose che gli individui ottimi aborriscono di usare nei loro banchetti.

Gli dèi e la moralità umana.
6. Quindi le divinità non si preoccuparono della vita e dei costumi delle città e popoli da cui erano adorate. Permisero anzi non dando alcuna proibizione che divenissero veramente perversi riempiendosi di mali orrendi e detestabili non nel campo e nelle vigne, non nella casa e nella proprietà, non infine nel corpo che è soggetto alla mente, ma nella stessa mente, nello stesso spirito che domina il corpo. Che se lo proibivano si dimostri, si provi. Non ignoro quali bisbigli soffiati agli orecchi di pochissimi e come tramandati da un'arcana religione, con cui s'insegna la moralità, vadano vantando nei nostri confronti 8. Ma siano mostrati o citati i luoghi destinati a queste riunioni. Non si tratti dei luoghi in cui sono eseguiti degli spettacoli con l'oscena rappresentazione drammatica degli attori, non del luogo in cui si celebra la festa della cacciata che si abbandona senza ritegno allo sconcio, e quindi è proprio una cacciata, ma del pudore e dell'onestà. Si mostri cioè il luogo in cui i cittadini possano ascoltare ciò che gli dèi comandano sulla necessità di frenare l'avarizia, spezzare l'ambizione, reprimere la dissolutezza, in cui gli infelici possano imparare ciò che si deve sapere, come altamente afferma Persio: Imparate, o infelici, a conoscere le ragioni ideali delle cose, che cosa siamo, perché siamo generati a vivere, quale ordinamento è dato, quale e da chi è la reciprocità del limite, qual è l'uso moderato della ricchezza, che cosa è possibile desiderare, quale utile apporta il denaro che tormenta, fino a che punto è lecito concedere alla patria, agli amici e congiunti, chi Dio ti ha comandato di essere e da quale parte ti trovi nella realtà umana 9. Si dica in quali luoghi di solito si recitavano simili precetti di dèi che l'avessero insegnati e si udivano dai cittadini loro adoratori adunati in gran numero, allo stesso modo che noi indichiamo le chiese istituite allo scopo, dovunque si diffonda la religione cristiana.

I filosofi e i riti pagani.
7. Ci citeranno forse le scuole e dispute dei filosofi? Prima di tutto non sono romane ma greche. E se ormai sono romane perché la Grecia è divenuta provincia romana, non sono precetti degli dèi ma scoperte degli uomini. Essi comunque, dotati di molto acume, hanno tentato di scoprire col pensiero i segreti della natura, i precetti e divieti nella morale, la conclusione che si trae con determinato nesso logico nelle regole del ragionamento, la deduzione legittima e perfino il sofisma. E alcuni di essi, perché aiutati da Dio, hanno scoperto grandi verità ma in quanto umanamente limitati hanno insegnato errori, soprattutto perché giustamente la divina provvidenza resisteva alla loro altezzosità. Così anche dal raffronto con essi mostrava la via della pietà che dalla terrenità si leva verso l'alto. Si avrà in seguito con l'aiuto di Dio vero Signore l'opportunità di discutere in profondità sull'argomento. Tuttavia se i filosofi hanno scoperto, quanto bastava, i principi dell'azione morale e del conseguimento della felicità, a loro giustamente si sarebbero dovuti attribuire onori divini. È meglio e più onesto che in un tempio a Platone siano letti i suoi libri che nei templi dei demoni siano evirati i sacerdoti di Cibele, siano offerti in voto gli eunuchi, siano mutilati certi pazzi e tutto ciò che di crudele e sconcio o di sconciamente crudele o crudelmente sconcio nei riti di tali divinità si suole celebrare. Era preferibile che per educare socialmente la gioventù si recitassero in pubblico le leggi degli dèi che lodare inutilmente le leggi e istituti degli antenati. Tutti gli adoratori di tali divinità, appena la passione, pitturata, come dice Persio, di ardente veleno 10 li abbia stimolati, pensano di preferenza alle azioni di Giove che agli insegnamenti di Platone o alle censure di Catone. E per questo in Terenzio un libertino guarda una pittura alla parete, nella quale era dipinto il modo con cui Giove, dicono, in quei tempi infuse in grembo a Danae una pioggia d'oro 11. Da un essere tanto autorevole deriva la difesa della propria dissolutezza giacché si vanta di imitare in essa il dio, e quale dio, dice, proprio quello che scuote col tuono i templi del cielo. Ed io, omuccio, non lo farò? Ma l'ho fatto e con soddisfazione 12.

Riti e spettacoli incentivi all'edonismo.
8. Queste cose, obiettano, non sono presentate nei riti degli dèi ma nelle composizioni drammatiche dei poeti. Non intendo dire che i riti siano più osceni delle rappresentazioni teatrali. Dico, come afferma irrefutabilmente la storia contro chi nega, che non sono stati i Romani per un grossolano omaggio ai misteri dei loro dèi a introdurre gli spettacoli in cui dominavano le favole poetiche. Gli stessi dèi han voluto che fossero eseguiti con solennità e dedicati in loro onore ordinandoli imperiosamente e quasi estorcendoli. L'ho detto sommariamente nel primo libro 13. Infatti gli spettacoli furono istituiti a Roma la prima volta d'autorità dei pontefici durante l'infuriare di un'epidemia 14. E chi nella propria condotta non preferisce seguire le parole che si recitano spesso in spettacoli istituiti per autorità del dio, anziché quelle che sono scritte in leggi promulgate dalla giurisprudenza dell'uomo? Se i poeti hanno falsamente indicato Giove come adultero, dèi che fossero casti avrebbero dovuto vendicarsi per ira perché fu rappresentato mediante spettacoli umani un delitto così grosso e non perché fu passato sotto silenzio. E questi sono gli aspetti più sopportabili delle rappresentazioni teatrali, cioè della commedia e della tragedia, ossia della favola poetica da eseguirsi negli spettacoli con grande indecenza dei fatti ma almeno non composte, come molte altre, con parole oscene. Eppure i fanciulli sono costretti dagli anziani a leggerle e impararle negli studi che si dicono umanistici.

La denigrazione nel teatro greco e romano.
9. Che cosa abbiano pensato del fatto i vecchi Romani ce lo attesta Cicerone nell'opera Sullo Stato in cui Scipione, uno dei dialoganti, dice: Le commedie non avrebbero potuto presentare nei teatri la propria infamia se non l'avesse tollerato il modo di vivere 15. I Greci antichi si attennero a una certa coerenza con la cattiva reputazione che ebbero, giacché da loro fu concesso per legge che la commedia manifestasse espressamente il tema e l'individuo cui lo applicava. Perciò, come dice Scipione Africano in quell'opera, chi non ha raggiunto, anzi chi non ha insultato, chi ha risparmiato? E vada pure se ha insultato cittadini disonesti, sediziosi nell'amministrazione, un Cleone, un Cleofonte, un Iperbolo. Ammettiamolo, sebbene cittadini di quella risma è meglio che siano bollati dal censore che da un poeta. Ma che Pericle, dopo essere stato a capo della città in pace e in guerra con grande autorevolezza per molti anni, fosse oltraggiato con composizioni poetiche e che queste poi fossero eseguite in teatro fu meno conveniente che se il nostro Plauto o Nevio avessero detto male di Publio e Gneo Scipione o Cecilio di Marco Catone. E poco dopo: Invece le nostre dodici tavole, nello stabilire le pochissime pene capitali, fra di esse hanno ritenuto di dover porre anche questa: "Per chi satireggia o compone un carme che porta disonore e danno all'altro". Giustissimo. Dobbiamo sottoporre la nostra condotta ai giudizi dei magistrati e agli accertamenti della legge e non al capriccio dei poeti e non ascoltare un'accusa se non in base a una legge per cui si possa rispondere e difenderci in giudizio 16. Ho pensato di citare testualmente queste parole dal quarto libro Sullo Stato di Cicerone con qualche omissione o leggera variante allo scopo di una più facile intelligenza. Il testo è molto pertinente all'argomento che mi accingo a trattare se ne sarò capace. Aggiunge altre parole e tira la conclusione di questo passo per dimostrare che ai vecchi Romani dispiaceva che in teatro si lodasse o insultasse un individuo, mentre era vivo. Ma come ho detto, i Greci, sia pur con minor rispetto e tuttavia con maggior coerenza, stabilirono che era lecito. Essi pensavano che agli dèi fossero gradite nelle rappresentazioni teatrali le azioni disonorevoli non solo degli uomini ma anche degli stessi dèi, tanto se erano inventate dai poeti che se le loro reali azioni scandalose erano ricordate e rappresentate in teatro e sembravano degne ai loro adoratori soltanto, speriamo, di riso e non anche di imitazione. Sembrò troppo altezzoso risparmiare la onorabilità dei primi della città e dei cittadini, quando la divinità non voleva che si risparmiasse la propria.

E' dovuta all'istigazione dei dèmoni.
10. Si adduce a difesa che non erano vere le cose dette contro gli dèi, ma false e immaginarie. Ma proprio questo è più empio se si tenesse presente il rispetto religioso. Se poi si pensa alla malvagità dei demoni, che cosa di più maliziosamente furbo per ingannare? Quando infatti il disonore si getta contro il concittadino più ragguardevole buono e utile alla patria, tanto è più indegno perché è più contrario ed estraneo alla sua condotta. Quali pene dovrebbero dunque applicare quando si fa al dio una ingiuria tanto infamante, tanto evidente? Ma gli spiriti maligni, che essi reputano dèi, vogliono che si dicano di loro anche i misfatti che non hanno compiuti. Così avvolgono come con reti le coscienze umane e le trascinano con sé alla pena prestabilita. Tali misfatti potrebbero averli commessi gli uomini, ma i demoni sono lieti che siano considerati dèi perché sono lieti degli errori degli uomini e perché con le mille arti di nuocere 17 e ingannare si sostituiscono a loro per essere adorati essi stessi. Potrebbe anche essere che quei misfatti siano veri di certi individui, tuttavia gli spiriti ingannatori accettano volentieri che siano attribuiti immaginariamente alla divinità affinché sembri quasi che a commettere azioni crudeli e turpi l'autorità competente si trasferisca dal cielo alla terra. I Greci, sentendosi schiavi di simili divinità, non pensavano che, date le loro infamanti rappresentazioni teatrali, i poeti dovessero risparmiare gli uomini o perché bramavano di essere assimilati ai loro dèi o perché temevano di farli arrabbiare cercando per sé una reputazione più onorata e reputandosi così migliori di loro.

Coerenza greca incoerenza romana.
11. Attiene a questa coerenza che stimarono degni di qualche alta carica nello Stato anche gli attori teatrali di quei drammi. Infatti, come si ricorda anche nel citato libro Sullo Stato, Eschine ateniese, sommo oratore, sebbene da giovane avesse recitato tragedie, ebbe incarichi nello Stato; Aristodemo, anche egli attore tragico, fu più volte mandato ambasciatore a Filippo per importanti problemi riguardanti la pace e la guerra 18. Non era ritenuto compatibile, dal momento che, secondo loro, le arti e gli spettacoli drammatici erano accetti agli dèi, di relegare nel luogo e nel numero di coloro che le eseguivano. I Greci, con disonestà certamente, ma con piena coerenza ai propri dèi, diedero queste disposizioni. Infatti essi che non osarono sottrarre la condotta dei cittadini alla denigrazione della lingua dei poeti e degli attori, poiché vedevano che anche la condotta degli dèi, e con loro consenso e compiacimento, era da essi screditata, pensarono non solo di non disprezzare anzi di onorare nell'amministrazione dello Stato anche gli uomini da cui erano eseguiti spettacoli che ritenevano graditi alle divinità venerate. Che ragione avevano di onorare i sacerdoti giacché per loro mezzo offrivano agli dèi vittime gradite e di disprezzare gli attori dal momento che avevano appreso dietro loro informazione a offrire quel piacere o onore agli dèi che li richiedevano, e se non si faceva, si arrabbiavano? Tanto più che Labeone, che dichiarano buon intenditore in materia 19, distingue le divinità buone dalle cattive proprio dalla diversità del culto. Afferma appunto che gli dèi cattivi sono resi propizi con le stragi e le cerimonie funebri, i buoni con ossequi piacevolmente lieti come, a sentir lui, spettacoli, conviti, banchetti sacri. Come stia tutta questa faccenda, lo discuterò dopo 20, se Dio mi aiuterà. Ora un cenno per quanto riguarda il presente argomento. O gli onori si tributano tutti a tutti in quanto buoni, giacché non è possibile che si diano dèi cattivi, a meno che, essendo spiriti immondi, non siano tutti cattivi; oppure con un certo discernimento, come è sembrato a Labeone, si tributano gli uni ai buoni, gli altri ai cattivi. Comunque sia, con molta coerenza i Greci hanno in onore entrambi, i sacerdoti da cui si offrono vittime, e gli attori per mezzo dei quali si eseguono spettacoli. Così non possono essere incolpati di fare ingiustizia ad alcuno degli dèi se gli spettacoli sono graditi a tutti, ovvero, e sarebbe più riprovevole, a quelli che ritengono buoni se gli spettacoli sono amati soltanto da loro.

Giustizia ed empietà della legge sul teatro
12. Ma i Romani, come Scipione vanta nel citato dialogo Sullo Stato non vollero che la condotta e la reputazione fossero soggette a denigrazioni e insulti dei poeti, perché contemplarono la pena di morte per chi ardisse comporre simile poesia. Hanno stabilito questa sanzione con onestà verso se stessi, ma con superbia e irreligiosità verso i loro dèi. Sapendo che essi non solo sopportano ma gradiscono di essere denigrati dalle ingiurie e le maldicenze dei poeti, han ritenuto se stessi e non gli dèi immeritevoli di quelle calunnie e si sono difesi da esse con una legge, ma hanno perfino inserito queste nefandezze nelle feste degli dèi. E così, o Scipione, lodi che ai poeti romani sia stata negata la licenza di lanciare diffamazioni contro uno dei cittadini, anche se sai che non hanno risparmiato nessuno dei vostri dèi? E così ti è sembrato di dover considerare di più la reputazione della vostra curia che del Campidoglio, anzi della sola Roma che di tutto il cielo? In tal modo si proibì ai poeti anche per legge di menare la lingua maledica contro i tuoi concittadini e poi si permise che lanciassero tranquilli contro i tuoi dèi insulti tanto gravi senza che lo proibisse un senatore, un censore, un imperatore, un pontefice. Era sconveniente, secondo te, che Plauto o Nevio dicessero male di Publio o Gneo Scipione o Cecilio di Marco Catone e fu conveniente che il vostro Terenzio stimolasse il libertinaggio dei giovani con l'adulterio di Giove ottimo massimo.

Onore degli dèi e disonore degli attori.
13. Ma forse, se fosse vivo, mi risponderebbe: "Come potevamo volere che quegli oltraggi non rimanessero impuniti, se gli dèi stessi vollero che fossero riti sacri, quando introdussero nelle usanze romane gli spettacoli teatrali, in cui quei fatti sono esaltati, recitati, messi in azione e ordinarono che fossero dedicati e dati in loro onore?". Dunque perché non si è capito che non sono dèi veri e per niente degni che lo Stato tributasse loro onori divini? Era assolutamente sconveniente e inopportuno onorarli qualora avessero richiesto spettacoli con infamie contro i Romani. E allora, scusate, come si è pensato di doverli onorare, come non si è capito che erano spiriti detestabili dal momento che col desiderio d'ingannare hanno richiesto che fra i loro titoli d'onore si ricordassero i loro misfatti? Parimenti i Romani, sebbene fossero già costretti da una nociva superstizione ad adorare dèi che, come capivano, s'erano fatti dedicare drammi indecorosi, tuttavia memori della propria dignità e decoro, non onorarono gli attori di tali drammi come i Greci. In Cicerone il citato Scipione dice: Poiché consideravano indecorosi l'arte e lo spettacolo teatrale, vollero che gli addetti ad essi fossero privi dei diritti civili e allontanati dalla tribù con nota infamante del censore 21. Nobile principio giuridico e da computarsi fra le benemerenze di Roma, ma vorrei che fosse coerente con se stessa, che imitasse se stessa. A norma di diritto se qualcuno dei cittadini romani avesse scelto di far l'attore, non solo non gli si dava accesso alle cariche ma con nota del censore non gli si consentiva di appartenere alla propria tribù. Oh coscienza amante della civiltà vera e autenticamente romana! Ma mi si potrebbe chiedere di rimando: "Per quale coerente principio gli attori teatrali sono considerati inabili alle cariche e gli spettacoli teatrali sono inseriti nelle onoranze prestate agli dèi? La moralità romana per lungo tempo non conobbe le arti del teatro, giacché se si fossero introdotte come divertimento per la tendenza umana al piacere, si sarebbero insinuate a discapito della morale. E gli dèi richiesero che fossero loro presentate. Perché dunque si rifiuta l'attore se mediante lui si onora il dio? E con quale faccia si bolla l'esecutore della licenziosità teatrale se il promotore è adorato?". In questa contestazione, rispondo io, se la vedano fra di loro Greci e Romani. I Greci ritengono di onorare ragionevolmente gli attori perché onorano gli dèi sollecitatori degli spettacoli teatrali; i Romani non tollerano che dagli attori sia disonorata neanche una tribù della plebe e tanto meno la curia del senato. In questo dibattito il seguente sillogismo coglie l'essenziale del problema: prima premessa dei Greci: se dèi simili si devono adorare, certamente anche uomini simili si devono onorare; seconda premessa dei Romani: ma per niente affatto uomini simili si devono onorare; conclusione dei cristiani: dunque per niente affatto dèi simili si devono adorare.

Platone contro i poeti.
14. 1. Chiedo poi perché anche i poeti autori di drammi di tal fatta, ai quali dalla legge delle dodici tavole è stato proibito di ledere la reputazione dei cittadini, se scagliano insulti così ignominiosi contro gli dèi, non sono considerati infami come gli attori. Per quale ragione è stato stabilito che siano infamati gli attori e onorati gli autori di favole poetiche e di dèi privi di ogni decoro? O si deve piuttosto dare la palma al greco Platone che, figurando con la ragione uno Stato ideale, ritenne che i poeti si devono cacciare dalla città come nemici della verità? Egli non tollerava gli oltraggi contro gli dèi e non voleva che le coscienze dei cittadini fossero corrotte per mollezza dalle favole 22. E adesso confronta l'umanità di Platone che, per non far corrompere i cittadini, caccia i poeti dalla città con la divinità degli dèi che chiede in proprio onore gli spettacoli teatrali. Platone, anche se dialetticamente non convinse, consigliò tuttavia la leggerezza e dissolutezza dei Greci affinché non fossero neanche scritti i drammi; gli dèi estorsero col comando alla ponderatezza e morigeratezza dei Romani che fossero perfino eseguiti. E vollero che non solo fossero eseguiti ma anche dedicati, offerti in voto e presentati loro solennemente. A chi a buon conto lo Stato tributerebbe più onestamente onori divini? A Platone che proibisce queste oscenità e nefandezze o ai demoni che godono di ingannare così uomini ai quali quegli non riuscì a dimostrare irrefutabilmente i veri valori?
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