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LA CITTA' DI DIO di sant'Agostino - Libri I - VI (1)

Ultimo Aggiornamento: 22/12/2012 19:18
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22/12/2012 18:58

Platone e la legge romana.
14. 2. Labeone ha pensato di computare Platone fra i semidei come Ercole e Romolo. Considera i semidei superiori agli eroi ma li colloca entrambi fra le divinità. Tuttavia io non dubito di considerare Platone, che Labeone chiama semidio, non soltanto superiore agli eroi ma anche agli stessi dèi. Le leggi dei Romani sono vicine alla speculazione di Platone poiché egli condanna tutte le favole poetiche ed essi tolgono ai poeti la libertà di dir male per lo meno degli uomini; egli priva i poeti della stessa cittadinanza ed essi privano dei diritti civili per lo meno gli attori delle favole drammatiche e se ardissero opporsi agli dèi che richiedono gli spettacoli, forse li priverebbero di tutto. Dunque i Romani non potrebbero mai ricevere o aspettare dai propri dèi leggi per difendere la moralità e reprimere l'immoralità perché di gran lunga li superano con le proprie leggi. Gli dèi in proprio onore richiedono spettacoli teatrali, i Romani rifiutano agli attori tutti gli onori. Gli dèi comandano che si celebrino in loro onore con le immaginazioni poetiche gli oltraggi contro se stessi, i Romani distolgono la sfrontatezza dei poeti dall'oltraggio contro gli uomini. Platone considerato semidio si oppose alla licenziosità di dèi così fatti e mostrò che cosa si doveva stabilire con un temperamento come quello dei Romani, giacché addirittura non voleva che in uno Stato ben costituito esistessero i poeti stessi che favoleggiassero a capriccio o proponessero da imitare ad uomini infelici i misfatti degli dèi. Io non ritengo Platone né un dio né un semidio e non lo metto alla pari né con un angelo del sommo Dio né con un profeta veritiero né con un apostolo né con un martire del Cristo né con un qualsiasi cristiano. Con l'aiuto di Dio tratterò a suo luogo il motivo di questa mia opinione 23. Ma giacché i pagani pensano che sia un semidio, ritengo che forse non si può considerarlo superiore a Romolo ed Ercole. E lo si potrebbe anche perché di lui né storico ha scritto né poeta ha immaginato che abbia ucciso il fratello o compiuto qualche azione criminosa. Ma è certamente superiore a Priapo o ad Anubi dalla testa di cane e al limite anche a Febbre, divinità queste che i Romani in parte ricevettero dal di fuori, in parte divinizzarono come indigeti. Dèi simili non potevano in alcun modo impedire con sani ordinamenti e leggi i grandi mali spirituali e morali che sovrastavano o provvedere ad estirpare quelli già introdotti. Anzi essi provvidero a far nascere e crescere i misfatti perché desideravano far conoscere alle masse mediante solenni spettacoli teatrali azioni malvagie o loro o presentate come loro, di modo che, data l'autorità divina, spontaneamente si accendesse la passione umana. E invano gridava Cicerone che trattando dei poeti ha detto: Appena loro sono giunte la richiesta e l'approvazione della massa come se fosse un autorevole e saggio maestro, addensano folte tenebre, introducono grandi timori, accendono dannose passioni 24.

Romolo dio Quirino.
15. Vi fu un criterio nella scelta degli dèi, sia pure falsi, o è piuttosto adulazione? Perché intanto non ritennero Platone neanche degno di un tempietto, pur considerandolo semidio? Eppure si era impegnato con eccellenti opere filosofiche a non far decadere la moralità con i mali spirituali che più degli altri si devono evitare. E poi hanno ritenuto Romolo superiore a molti loro dèi, sebbene una loro dottrina esoterica lo presenti non dio ma semidio 25. Gli hanno perfino destinato un sacerdote flamine. Questo tipo di sacerdozio nella religione romana fu, come dimostra il berretto, tanto in onore che si ebbero soltanto tre flamini destinati a tre divinità, il Diale a Giove, il Marziale a Marte, il Quirinale a Romolo 26. Per gratitudine dei cittadini egli accolto in cielo fu chiamato Quirino. Dunque Romolo in questo onore ebbe la prelazione su Nettuno e Plutone, fratelli di Giove e anche su Saturno loro padre. Così tributarono a lui un sacerdozio analogo a quello grande tributato a Giove e a Marte, che poi ne era il padre. Fu forse per riguardo a lui.

Gli dèi romani non danno leggi.
16. Se i Romani avessero potuto ricevere leggi morali dai propri dèi, non avrebbero dopo alcuni anni dalla fondazione di Roma preso in prestito dagli Ateniesi le leggi di Solone 27. Tuttavia non le conservarono come le avevano ricevute ma si sforzarono di renderle migliori e più perfette. Eppure Licurgo aveva fantasticato di avere stabilito le leggi per gli Spartani con l'autorità di Apollo 28. I Romani da saggi che erano non vollero crederlo e per questo non le derivarono da lui. Si tramanda che Numa Pompilio, successore di Romolo nel regno, stabilì alcune leggi che non erano affatto sufficienti per amministrare lo Stato 29. Egli organizzò anche molti riti religiosi ma non si dice che abbia ricevuto le leggi dalle divinità. Dunque gli dèi non si preoccuparono affatto che capitassero ai loro adoratori mali spirituali, mali sociali, mali morali; eppure sono mali tanto grandi che, secondo l'affermazione di alcuni loro uomini dottissimi, pur rimanendo le città, gli Stati sono annientati. Anzi, come è stato detto dianzi, gli dèi si diedero da fare perché i mali aumentassero.

Ingiustizia romana contro i Sabini, Collatino e Camillo.
17. Ma forse non sono state stabilite dalle divinità leggi per il popolo romano, perché, come dice Sallustio, il diritto e la morale presso di loro non avevano efficacia in virtù delle leggi ma della natura 30? Da tale diritto e morale suppongo che derivi il ratto delle Sabine. Che cosa di più giuridico e morale che le figlie di altri, richiamate col pretesto di uno spettacolo, non fossero date in matrimonio dai genitori ma prese con la violenza ad arbitrio di chi voleva? Se i Sabini agivano contro il diritto nel rifiutare le fanciulle richieste, molto più contro il diritto era rapirle senza che fossero date in matrimonio. Era più giusto far guerra con una popolazione che aveva rifiutato a corregionali e confinanti le proprie figlie chieste come mogli che con una popolazione che le richiedeva perché rapite. Era preferibile che avvenisse una guerra simile. Allora Marte avrebbe aiutato il figlio che combatteva per vendicare con le armi il rifiuto delle unioni coniugali e avere così le donne che desiderava. Come vincitore poteva forse giustamente per diritto in tempo di guerra prendere le fanciulle che gli erano state negate ingiustamente, ma senza alcun diritto rapì in tempo di pace le fanciulle rifiutate e condusse una guerra ingiusta contro i loro genitori giustamente indignati. Ma il fatto si verificò con un risultato favorevole. Infatti sebbene a ricordo di quell'inganno si perpetuò lo spettacolo dei giochi del circo, non piacque nella città e nei popoli dominati l'esempio di quel crimine. I Romani dunque hanno sbagliato piuttosto nel divinizzare Romolo dopo quella ingiustizia che nel concedere con qualche legge o usanza d'imitarne l'esempio nel rapire donne. In base a questo diritto e morale, dopo l'espulsione del re Tarquinio e figli, dato che un suo figlio aveva violentato Lucrezia, il console Giunio Bruto costrinse a rinunciare alla carica e fece esiliare, a causa del nome e parentela con i Tarquini, il marito della stessa Lucrezia e suo collega Lucio Tarquinio Collatino, uomo moralmente incolpevole. E commise questo delitto col favore o per lo meno con la tolleranza del popolo, sebbene proprio dal popolo Collatino e lo stesso Bruto avessero ricevuto il consolato. Di questo diritto e morale fu vittima anche Marco Camillo, l'uomo più grande di quel tempo. Egli sconfisse con molta bravura i Veienti, nemici temibili del popolo romano e occupò la loro città ricchissima dopo una guerra durata dieci anni, durante la quale l'esercito romano per errori di strategia era stato più volte gravemente battuto, quando già Roma trepidava nell'incertezza di scampare. Eppure fu chiamato in giudizio per l'invidia dei denigratori del suo valore e per l'impertinenza dei tribuni della plebe. Capì l'ingratitudine della città che aveva salvata al punto che certo della condanna andò in volontario esilio e fu anche condannato in contumacia all'ammenda di diecimila assi di rame. Poco dopo avrebbe di nuovo salvato l'ingrata patria dai Galli. Non mi va di addurre altri fatti immorali e ingiusti, da cui era messo in subbuglio lo Stato quando i patrizi tentavano di sottomettere la plebe e questa rifiutava di sottomettersi e i fautori dell'uno e dell'altro partito agivano per amore di dominare senza pensare affatto al giusto e all'onesto.

L'immoralità romana...
18. 1. M'impongo un limite dunque e preferisco addurre come testimone Sallustio che a difesa dei Romani ha espresso quel giudizio da cui ha avuto inizio questo nostro discorso: Il diritto e la morale presso di loro non avevano efficacia in virtù delle leggi, ma della natura 31. Lodava quel tempo in cui, dopo l'espulsione dei re, lo Stato fece rapidi progressi in un periodo di tempo incredibilmente breve. Tuttavia nel primo libro della sua storia e quasi all'inizio di esso ammette che anche allora, quando l'amministrazione dello Stato passò dai re ai consoli, dopo poco tempo nella città si ebbero le ingiustizie dei potenti, il dissidio fra plebe e patrizi e altre discordie civili. Egli ricorda, è vero, che il popolo romano visse con grande moralità e massima concordia fra la seconda e l'ultima guerra cartaginese ma dice che causa di questa moralità non fu l'amore della giustizia ma il timore di una pace malsicura perché Cartagine era ancora in piedi. Per questo anche il grande Nasica per reprimere la dissolutezza e conservare i buoni costumi in modo che i vizi fossero repressi dal timore non voleva che Cartagine fosse distrutta. Il citato Sallustio soggiungeva: Ma la discordia, l'amore alle ricchezze e al potere e gli altri mali che di solito provengono dal benessere, dopo la distruzione di Cartagine, crebbero a dismisura 32. Ci fa capire dunque che anche prima di solito sorgevano e crescevano. E adducendo le ragioni del suo pensiero prosegue: Infatti le ingiustizie dei potenti e a causa di esse il dissidio della plebe con i patrizi e le altre discordie si ebbero in città fin dal principio e soltanto durante l'espulsione dei re, quando si ebbero il timore da parte di Tarquinio e la difficile guerra con l'Etruria, si amministrò con legislazione giusta e moderata 33. Puoi notare per quale motivo abbia detto che il timore fu la causa per cui, per breve tempo, con la cacciata ossia espulsione dei re, si amministrò in certo senso con legislazione giusta e moderata. Si temeva la guerra che il re Tarquinio, estromesso dal regno e da Roma e alleatosi con gli Etruschi, conduceva contro i Romani. Ascolta dunque che cosa soggiunge: In seguito i patrizi trattarono la plebe come schiava, ne disposero della vita e dell'opera con diritto regio, la privarono della proprietà dei campi e amministrarono da soli con l'esclusione di tutti gli altri. La plebe, oppressa dalle vessazioni e soprattutto dalle tasse giacché doveva subire l'imposta e insieme il servizio militare per le continue guerre, occupò armata il monte sacro e l'Aventino e così rivendicò i tribuni della plebe e gli altri diritti. Fine delle discordie e della lotta fra le due parti fu la seconda guerra punica 34. Puoi notare da quale tempo, e cioè dal breve tempo dopo la cacciata dei re, come siano vissuti i Romani di cui ha detto: Il diritto e la morale presso di loro non avevano efficacia in virtù delle leggi ma della natura.

...denunziata da Sallustio...
18. 2. Ora se si costata che quel periodo si deve giudicare favorevolmente perché si ritiene che allora lo Stato romano fu eticamente perfetto, che cosa dovremmo dire e pensare del periodo successivo? Infatti lo Stato, trasformatosi a poco a poco, per usare le parole del medesimo storico, da eticamente perfetto è divenuto eticamente depravato 35, cioè, come ha già detto, dopo la distruzione di Cartagine. Si può leggere nella sua Storia come Sallustio narra e giudica in succinto quei tempi e in considerazione di quali mali, provenienti dal benessere, dimostra che si è giunti alle guerre civili. Da quel tempo, egli dice, i costumi dei nostri antenati andarono alla rovina, non un po' alla volta come prima, ma con l'impeto di un torrente, la gioventù divenne talmente dissipata dall'amore del fasto e del denaro tanto da poter dire giustamente che erano stati messi al mondo individui incapaci di avere un patrimonio e insofferenti che altri lo avessero 36. Sallustio aggiunge molte osservazioni sui vizi di Silla e sulla depravazione dello Stato e gli altri scrittori sono d'accordo, sebbene con uno stile molto inferiore.

...è dovuta alla carenza di una norma morale.
18. 3. Si può osservare tuttavia, come penso, e se si riflette facilmente si può giudicare fino a qual punto con il dilagare dell'immoralità lo Stato fosse decaduto prima della venuta del nostro re celeste. I fatti avvennero non solo prima che Cristo presente nel mondo avesse cominciato a insegnare ma anche prima che fosse nato da una vergine. In definitiva i Romani non osano imputare tanti e così gravi mali di quei tempi, o sopportabili prima o insopportabili e orribili dopo la distruzione di Cartagine, ai propri dèi che con malvagia astuzia istillano nelle coscienze umane dei pregiudizi per cui tali vizi infittiscono. E allora perché imputano i mali presenti a Cristo che con una dottrina di salvezza vieta di adorare dèi falsi e bugiardi e denunziando e condannando con divina autorità le dannose e criminose passioni umane, gradualmente in ogni dove riscatta da questi mali la propria famiglia e la sottrae al mondo che rovina nel malcostume? Da essa fonderà una città eterna veramente gloriosa non per lo strepito della vanagloria ma per il giudizio della verità.

La moralità e la tradizione cristiana.
19. Dunque lo Stato romano, trasformandosi un po' alla volta, da eticamente perfetto è divenuto eticamente molto depravato. Non lo dico io per primo ma i loro scrittori, da cui lo abbiamo appreso pagando, lo hanno detto tanto tempo prima della venuta di Cristo. Dunque prima della venuta di Cristo e dopo la distruzione di Cartagine i costumi dei nostri antenati andarono alla rovina non un po' alla volta come prima, ma con l'impeto di un torrente, tanto la gioventù era divenuta depravata per amore del fasto e del denaro 37. Ed ora ci leggano i comandamenti dei loro dèi al popolo romano contro l'amore del fasto e del denaro. E magari gli avessero celato continenza e moderazione e non gli avessero richiesto anche incontinenza e depravazione, alla quale davano una dannosa autorizzazione con una falsa autorità divina. Leggano poi attraverso i profeti, il santo Vangelo, gli Atti e le Lettere degli Apostoli, i nostri numerosi comandamenti contro l'amore al denaro e al piacere. Essi non sono proposti con frastuono come nelle controversie dei filosofi ma risuonano con divina autorevolezza attraverso le parole di Dio quasi provenienti da oltre le nubi agli uomini di ogni nazione adunati in assemblea a questo scopo. Eppure i Romani non imputano ai loro dèi che lo Stato prima della venuta di Cristo era eticamente decaduto a causa dell'amore al fasto e al denaro e di costumi crudeli e depravati, ma rimbrottano alla religione cristiana ogni sciagura che in questo tempo la loro superbia e mollezza hanno potuto subire. Ma se i re della terra e tutti i popoli, i magistrati e tutti i giudici della terra, ragazzi e ragazze, anziani e giovani 38, ogni età capace di ragionare ed entrambi i sessi e perfino i gabellieri e i soldati, cui si rivolge Giovanni il Battezzatore 39, si preoccupassero di ascoltare insieme i suoi comandamenti di giusta e onesta moralità, lo Stato abbellirebbe col proprio benessere la piattezza della vita presente e scalerebbe la vetta della vita eterna per regnare in una perfetta felicità. Ma poiché un tale ascolta, l'altro disprezza e molti sono più amici dei vizi i quali lusingano al male che della vantaggiosa asprezza delle virtù, ai servi di Cristo, siano essi re, magistrati o giudici, siano soldati o abitanti delle province, siano ricchi o poveri, liberi o schiavi, d'entrambi i sessi, si comanda di sopportare perfino uno Stato moralmente corrotto e, se è necessario, anche ingiusto e di prepararsi anche con questa sopportazione un luogo distinto nell'assemblea veramente santa e augusta degli angeli e nello Stato del cielo, in cui è legge la volontà di Dio.

Brillante codice di vita dissoluta.
20. Ma simili adoratori e amatori di questi dèi, che si vantano anche di imitare nei delitti e azioni infami, non si preoccupano affatto che la società sia corrotta e depravata. Basta che si regga, dicono, basta che prosperi colma di ricchezze, gloriosa delle vittorie ovvero, che è preferibile, tranquilla nella pace. E a noi che ce ne importa?, dicono. Anzi ci riguarda piuttosto se aumentano sempre le ricchezze che sopperiscono agli sperperi continui e per cui il potente può asservirsi i deboli. I poveri si inchinino ai ricchi per avere un pane e per godere della loro protezione in una supina inoperosità; i ricchi si approfittino dei poveri per le clientele e in ossequio al proprio orgoglio. I cittadini acclamino non coloro che curano i loro interessi ma coloro che favoriscono i piaceri. Non si comandino cose difficili, non sia proibita la disonestà. I governanti non badino se i sudditi sono buoni ma se sono soggetti. Le province obbediscano ai governanti non come a difensori della moralità ma come a dominatori dello Stato e garanti dei godimenti e non li onorino con sincerità, ma li temano da servi sleali. Si noti nelle leggi piuttosto il danno che si apporta alla vigna altrui che alla propria vita morale. Sia condotto in giudizio soltanto chi ha infastidito o danneggiato la roba d'altri, la casa, la salute o un terzo non consenziente, ma per il resto si faccia pure dei suoi, con i suoi o con altri consenzienti ciò che piace. Ci siano in abbondanza pubbliche prostitute o per tutti coloro che ne vogliono usare ma principalmente per quelli che non si possono permettere di averne delle proprie. Si costruiscano case spaziose e sontuose, si tengano spesso splendidi banchetti, in cui, secondo il piacere e le possibilità di ciascuno, di giorno e di notte si scherzi, si beva, si vomiti, si marcisca. Strepitino da ogni parte i ballabili, i teatri ribollano di grida di gioia malsana e di ogni tipo di piacere crudele e depravante. Sia considerato pubblico nemico colui al quale questo benessere non va a genio. La massa sia libera di non far parlare, di esiliare, di ammazzare l'individuo che tenti di riformare o abolire questo benessere. Siano considerati veri dèi coloro che hanno concesso ai cittadini di raggiungerlo e una volta raggiunto di conservarlo. Siano adorati come vorranno, chiedano gli spettacoli che vorranno e che possano avere assieme o mediante i loro adoratori; concedano soltanto che per tale benessere non si debba temer nulla dal nemico, dalla peste, dalla sventura. Chi, se è sano di mente, potrà paragonare questa società civile non dirò all'impero romano ma alla casa di Sardanapalo? Costui, re nei tempi andati, fu così dedito ai piaceri da far scrivere nel suo sarcofago che da morto aveva soltanto le cose che la sua libidine aveva delibato mentre era vivo 40. E se i Romani di oggi lo avessero per re che consente loro i piaceri e non frastorna con la severità alcuno dall'averli, a lui più volentieri dedicherebbero il tempio e il flamine che i Romani di una volta dedicarono a Romolo.

Politeismo e giustizia sociale (21-29)

La società romana secondo Cicerone, non fu giusta...
21. 1. Ma forse si disprezza chi ha giudicato la società romana eticamente molto depravata e costoro non si preoccupano che sia coperta dalla piaga nauseante di costumi moralmente pervertiti, ma soltanto che si conservi e rimanga. Sappiano allora che non solo è divenuta moralmente molto depravata come narra Sallustio, ma che era già finita fin d'allora e che non esisteva più una società civile come sostiene Cicerone. Egli sulla società fa parlare Scipione, quello che aveva distrutto Cartagine, quando si prevedeva che stesse per finire con quella scostumatezza che descrive Sallustio. Il dialogo si teneva in quel periodo in cui era già stato ucciso uno dei Gracchi; e proprio da quel tempo, come scrive Sallustio, cominciarono le gravi sedizioni 41. In quell'opera si fa menzione appunto della morte del Gracco. Dice dunque Scipione alla fine del secondo libro dell'opera citata: Negli strumenti a corda o a fiato ed anche nel canto vocale si deve produrre dai vari suoni un determinato accordo. Se esso non varia o discorda, l'udito di un intenditore non può sopportarlo. L'accordo in parola inoltre risulta armonico e proporzionato dalla regolata intensità di suoni di diversa altezza. Allo stesso modo lo Stato si armonizza mediante ceti alti, bassi e mediani, a guisa di suoni, in moderata proporzione dall'accordo di elementi molto differenti; e quella che dai musici nel canto si chiama armonia è nello Stato la concordia che è eticamente il più profondo vincolo di sopravvivenza in ogni società civile e non si può avere assolutamente senza la giustizia 42. E avendo dimostrato con un po' di ampiezza e di ricchezza di osservazioni quanto è utile allo Stato la giustizia e quanto nociva la sua mancanza, prese a parlare Filo, uno di quelli che era presente al dialogo. Egli chiese che il problema fosse approfondito e che si parlasse più diffusamente della giustizia a causa del già diffuso pregiudizio popolare che la società non si può governare senza l'ingiustizia. Scipione fu d'accordo che il problema fosse da discutere e da svolgere e precisò che, a suo modo di vedere, sulla società civile non erano ancora stati esposti dei concetti da cui sviluppare ulteriormente. Era stato però accertato che non solo è falso che la società non si può amministrare senza ingiustizia ma è assolutamente vero che non lo si può senza una grande giustizia 43. Ed essendo stata differita la trattazione al giorno seguente, nel terzo libro l'argomento fu svolto in un acceso dibattito. Filo si incaricò di sostenere il parere di coloro i quali ritenevano che la società non si può reggere senza l'ingiustizia, affermando con insistenza che non si ritenesse come sua opinione e si batté con vigore per l'ingiustizia contro la giustizia nel simulato tentativo di dimostrare con argomentazioni verosimili ed esempi che la ingiustizia è utile, la giustizia è disutile. Allora Lelio, poiché tutti lo pregavano di difendere la giustizia, cominciò con l'affermare, quanto gli riuscì, che niente è tanto avverso allo Stato come l'ingiustizia e che la società civile può essere amministrata e conservata soltanto con una grande giustizia 44.

...non fu società civile o cosa del popolo.
21. 2. Trattato il problema per il tempo che si ritenne opportuno, Scipione tornò ai concetti accennati, richiamò e difese la propria breve definizione della società civile. Aveva detto che è lo stato del popolo 45. Stabilì che popolo non è un qualsiasi gruppo d'individui ma un gruppo associato dalla universalità del diritto e dalla comunanza degli interessi. Mostrò poi quanto sia grande nel discutere l'utilità della definizione e dalle sue definizioni dedusse che allora soltanto si ha la società civile, cioè lo stato del popolo, quando si amministra con onestà e giustizia, sia da un monarca o da pochi ottimati o da tutto il popolo. Se invece il re è ingiusto, e secondo la terminologia greca lo chiamò tiranno, o ingiusti gli ottimati, e considerò fazione il loro accordo, o ingiusto il popolo, e non trovò la denominazione abituale, a meno di considerarlo, anche esso, tiranno, allora la società civile non solo sarebbe guasta, come il giorno avanti era stato sostenuto, ma come avrebbe dimostrato la logica conseguenza da quelle definizioni, è inesistente perché non sarebbe lo stato del popolo. Al contrario la occuperebbero il tiranno o la fazione; il popolo stesso, se fosse ingiusto, non sarebbe più un popolo perché non sarebbe una moltitudine associata dall'universalità del diritto e dalla comunanza degli interessi, come il popolo era stato definito 46.

Deviò dall'antico costume...
21. 3. Quando dunque la società romana era nelle condizioni in cui la descrive Sallustio, non era ancora eticamente molto depravata, come la descrive lui, ma del tutto inesistente secondo il criterio dichiarato nel dialogo sulla società tenuto dai suoi cittadini più eminenti. Così pensa anche Cicerone non fingendo di esprimersi con le parole di Scipione o di altri, ma a nome proprio, al principio del quinto libro. Cita prima di tutto un verso del poeta Ennio che diceva: Lo Stato romano è saldo in virtù dei costumi e uomini antichi 47. Mi sembra, continua Cicerone, che per la brevità e la verità egli abbia derivato quel verso come da un oracolo. Infatti né gli uomini, se la cittadinanza non fosse stata di buoni costumi, né i costumi, se non fossero stati a capo quegli uomini, avrebbero potuto fondare o conservare tanto a lungo una società civile tanto grande e che domina su regioni tanto estese. Quindi nel periodo anteriore al nostro ricordo lo stesso costume patrio adoperava uomini eccellenti e questi conservavano l'antico costume e gli istituti degli antenati. La nostra età avendo avuto in consegna una società come una pittura perfetta, ma un po' stinta dall'antichità, non solo ha trascurato di restaurarla con i colori originali, ma non si è preoccupata neanche di conservare almeno il modellato e il disegno. Che cosa rimane dei costumi antichi con cui, come Ennio ha detto, stava saldo lo Stato romano se li vediamo talmente in disuso per dimenticanza che non solo non sono conservati ma perfino ignorati? E che dire degli uomini? I costumi sono scomparsi per carenza di uomini. E di un così grande male non solo dovremmo render conto ma in certo senso essere accusati di delitto capitale. E a causa dei nostri vizi e non per una eventualità qualsiasi conserviamo il nome di società civile ma in realtà l'abbiamo perduta da tempo 48.

...quindi infondate le accuse dei pagani.
21. 4. Cicerone confessava questo stato di cose molto tempo dopo la morte dell'Africano che nei suoi libri ha fatto disputare sulla società, ma prima ancora della venuta di Cristo. Se questi mali fossero noti al pubblico e dichiarati esplicitamente quando la religione cristiana era conosciuta e vigorosa, chi non avrebbe ritenuto di doverli imputare ai cristiani? Perché i loro dèi non si preoccuparono che non andasse del tutto in rovina la società civile che Cicerone, molto tempo prima che Cristo venisse, lamenta con tanta tristezza ormai perduta? Si informino i panegiristi della società romana in quale condizione era anche con quegli antichi uomini e costumi, se cioè in essa era in vigore la vera giustizia ovvero se neanche allora era viva nei costumi ma dipinta con colori. L'ha detto inconsapevolmente lo stesso Cicerone nel lodarla. Ma altrove, se Dio vorrà, esamineremo questo argomento 49. Cicerone ha presentato brevemente con le parole di Scipione che cos'è la società civile e che cos'è il popolo aggiungendo molte opinioni sue e di coloro che ha fatto parlare in quel dialogo. Ed io mi sforzerò a suo tempo di dimostrare in base alla definizione dello stesso Cicerone che quella non fu mai una società civile perché non si ebbe mai in essa la vera giustizia. In base a definizioni abbastanza probabili fu per certi suoi aspetti una società civile e fu meglio amministrata dagli antichi che da quelli che seguirono. Ma la vera giustizia si ebbe soltanto nella società, di cui Cristo è fondatore e sovrano, se è ammesso di considerare anche essa uno Stato pubblico, perché non si può negare che è uno Stato del popolo. Se poi questo nome, che si usa diversamente nei vari luoghi, è forse meno adatto al nostro modo di parlare, v'è certamente giustizia in quella città, di cui la sacra Scrittura dice: Azioni gloriose sono state narrate di te, o città di Dio 50.

La depravazione civile mostra che...
22. 1. Ma per quanto attiene al problema in esame, comunque esaltino che fosse o che sia la società romana, secondo i loro più autorevoli scrittori molto prima della venuta di Cristo era divenuta moralmente molto depravata; anzi non esisteva affatto ed era andata in rovina per costumi molto degenerati. Ma affinché non andasse in rovina, i suoi dèi protettori dovevano dare al popolo che li onorava soprattutto comandamenti di vita morale. Da esso erano appunto onorati con tanti templi, tanti sacerdoti e tante forme di sacrifici, con numerosi e vari misteri, con tante solennità festive e con celebrazioni di tanti e grandi spettacoli. Ma i demoni con queste cose fecero soltanto il proprio interesse non preoccupandosi come vivevano, anzi preoccupandosi che vivessero sfrenatamente perché, soggiogati dal terrore, offrissero in loro onore tutte quelle manifestazioni. E se le hanno date, si renda noto, si mostri, si scriva, quali leggi degli dèi date allo Stato trasgredirono i Gracchi per turbare tutti gli istituti con le sedizioni, quali leggi trasgredirono Mario, Cinna e Carbone per giungere anche alle guerre civili, iniziate per motivi ingiusti, condotte con crudeltà e con maggior crudeltà portate a termine 51, che trasgredì infine lo stesso Silla 52. Perché ogni uomo anzi deve detestare la sua vita, costumi e azioni narrati da Sallustio e da altri scrittori, ognuno deve ammettere che la società allora era in sfacelo.

...gli dèi non si curarono di Roma.
22. 2. Ma in considerazione dei costumi dei cittadini di tal fatta ardiranno forse, come di solito, addurre a difesa dei loro dèi, i versi di Virgilio: Abbandonando templi e altari si sono allontanati tutti gli dèi col cui aiuto questo regno si reggeva 53? Prima di tutto, se è così, non hanno di che lamentarsi della religione cristiana per il fatto che offesi da essa i loro dèi li abbiano abbandonati. Già da prima i loro antenati con i propri costumi scacciarono come mosche dagli altari di Roma una pleiade di piccoli dèi. Ma dove era questa frotta di divinità quando, prima ancora che fossero depravati gli antichi costumi, Roma fu presa e incendiata dai Galli? Pur presenti dormivano? Caduta tutta la città in potere dei nemici, era rimasto soltanto il colle capitolino; ma anche esso sarebbe stato occupato se, mentre gli dèi dormivano, non fossero rimaste sveglie le oche 54. Per questo fatto, celebrando feste solenni all'oca, Roma era quasi caduta nella superstizione degli Egiziani che adorano bestie e uccelli. Ma per adesso non discuto di mali occasionali, e piuttosto fisici che spirituali, che provengono dalle guerre o altre sventure. Ora parlo della decadenza dei costumi. Dapprima si sbiadirono un po' alla volta, poi rovinarono con l'impeto di un torrente. Ne seguì una così grave rovina della società, pur rimanendo intatte case e mura, che i loro grandi scrittori non esitarono ad affermare che fin d'allora era perduta. Era giusto che tutti gli dèi, abbandonando templi e altari, si allontanassero affinché fosse perduta, se lo stato avesse trasgredito i loro precetti di moralità e giustizia. E allora, scusate, che razza di dèi erano se non volevano vivere con un popolo che li onorava dal momento che, poiché si comportava male, non gli avevano insegnato a comportarsi bene?

I successi e gli insuccessi della vita...
23. 1. E che dire del fatto che, come sembra, li hanno assistiti a sfogare le loro passioni smodate e che, come si afferma, non s'imposero per reprimerle? Gli dèi infatti aiutarono Mario, uomo arrivato da poco e popolano, iniziatore e continuatore di guerre civili, a divenire console per sette volte e a morire durante il suo settimo consolato, ormai vecchio, in modo che non cadesse nelle mani di Silla che fra breve l'avrebbe vinto 55. Se poi gli dèi non lo aiutarono per questi scopi, i Romani devono ammettere, e non sarebbe poco, che anche senza il favore degli dèi può verificarsi per l'uomo quel grande successo temporale che tanto desiderano. Gli individui, come Mario, malgrado l'indignazione degli dèi, possono essere pienamente appagati e godere di salute, forze, ricchezze, onori, rispetto e lunga vita. Altri, come Regolo, malgrado la benevolenza degli dèi, sono afflitti e muoiono nella prigionia, nella schiavitù, di miseria, di sonno e di sofferenze. E se concedono che è così, ammettono che gli dèi non servono a niente per determinati vantaggi e si onorano senza profitto. Infatti hanno sollecitato il popolo ad imparare piuttosto i vizi contrari alle virtù spirituali e all'onestà morale, le cui ricompense si devono sperare dopo morte. Inoltre anche nei beni passeggeri e temporali non puniscono quelli che odiano e non favoriscono quelli che amano. E allora a quale scopo sono adorati, a quale scopo si chiede con tanto zelo che siano adorati? Perché si mormora che in tempi travagliati e tristi si siano allontanati come se fossero indignati e a causa loro si offende la religione cristiana con ingiurie veramente immeritate? Se hanno negli avvenimenti del mondo il potere di fare del bene e del male, perché hanno protetto l'indegno Mario e sono mancati al degnissimo Regolo? Si deve pensare forse che anche essi sono ingiusti e cattivi? E se si pensa che proprio per questo si devono maggiormente temere e onorare, non lo si pensi di loro, perché è noto che Regolo non li ha meno onorati di Mario. E non sembri per questo che si debba scegliere una condotta moralmente indegna perché si giudica che gli dèi hanno aiutato più Mario che Regolo. Infatti Metello, il più illustre dei Romani, che ebbe cinque figli consoli, fu fortunato anche nei beni terreni, e Catilina, il peggiore dei Romani, fu oppresso dalla povertà e cadde miseramente nella guerra del suo tradimento. Infine i buoni che onorano Dio si distinguono per vero e sicuro successo che soltanto da lui può esser dato.

...non dipendono dai dèmoni ma da Dio.
23. 2. Dunque mentre la società andava in sfacelo a causa dell'immoralità, i loro dèi non fecero nulla per regolare o riformare i costumi perché non decadesse, anzi contribuirono a depravarli e guastarli per farla decadere. Non si fingano dunque persone dabbene come se si siano allontanati perché offesi dalla dissolutezza del popolo. Certamente erano presenti, si sono traditi, sono smascherati; non sono riusciti né ad aiutare col loro potere né a nascondersi nel silenzio. Tralascio che Mario fu raccomandato dai compassionevoli abitanti di Minturno alla dea Marica nel suo boschetto sacro perché gliele mandasse tutte buone 56. Ed egli che aveva perduto ogni speranza tornò incolume a Roma e guidò da crudele qual era un esercito crudele. I volenterosi possono leggere gli autori che hanno narrato quanto la sua vittoria fu disumana, incivile e più spietata di quella di un nemico. Ma, come ho detto, tralascio questi fatti e non attribuisco il successo efferato di Mario a non saprei quale Marica ma piuttosto a un'occulta provvidenza di Dio per chiudere la bocca dei nostri avversari e liberare dall'errore individui che non agiscono per passione ma riflettono saggiamente sulle cose. Infatti, sebbene i demoni abbiano un certo potere su questi fatti, ne hanno tanto quanto è loro concesso dal volere nascosto di Uno che tutto può. Non dobbiamo perciò sopravvalutare il successo terreno che spesso viene accordato a malvagi come Mario e non reputarlo un male perché osserviamo che in esso sono stati eccellenti anche molti individui religiosi, onesti e adoratori del vero Dio, nonostante l'opposizione dei demoni. Così non dobbiamo credere che i medesimi spiriti immondi si devono propiziare o temere in vista di beni o mali terreni. Anche essi, come gli uomini malvagi nel mondo, non hanno il potere di fare tutto ciò che vogliono, ma solamente quanto è consentito dalla disposizione di colui, di cui nessuno comprende pienamente i giudizi, nessuno giustamente li riprende.

I successi di Silla mostrano...
24. 1. I tempi di Silla furono tali che al paragone si dovevano rimpiangere i precedenti, di cui egli sembrava il vendicatore. Dunque quando egli per la prima volta mosse l'accampamento verso Roma contro Mario, mentre immolava una vittima, le viscere gli apparvero, come scrive Livio 57, di tanto buon auspicio che l'aruspice Postumio volle essere messo in prigione per subire la pena di morte se Silla non avesse conseguito con l'aiuto degli dèi quello che si era proposto. Ecco un caso in cui gli dèi non si allontanarono abbandonando templi e altari, poiché predicevano un avvenimento e non si curavano affatto del ravvedimento di Silla. Promettevano col presagio un grande successo e non reprimevano con minacce una malvagia passione. In seguito mentre conduceva in Asia la guerra mitridatica, gli fu fatto dire da Giove mediante Lucio Tizio che avrebbe sconfitto Mitridate e così avvenne. Poi mentre si apprestava a tornare a Roma e a vendicare con una guerra civile le ingiustizie fatte a lui e a suoi partigiani, per mezzo di un soldato della sesta legione sempre da Giove gli fu mandato a dire che prima gli aveva predetto la vittoria su Mitridate e che adesso prometteva di dargli il potere con cui riavere dai nemici, con molto spargimento di sangue, il governo dello Stato. Allora Silla chiese quale figura fosse apparsa al soldato. Questi gliela descrisse ed egli ricordò che era la stessa descrittagli precedentemente da colui che gli aveva riferito l'annuncio di Giove riguardo alla vittoria su Mitridate.

Come si può giustificare il fatto che gli dèi si siano preoccupati di annunziare come fausti questi eventi e che nessuno di loro si sia curato di far ravvedere Silla, il quale stava per provocare sciagure molto gravi con scellerate guerre civili che non macchiavano ma addirittura distruggevano lo Stato? Naturalmente si deve pensare che i demoni, come spesso ho detto, come sappiamo dalla sacra Scrittura e come i fatti stessi dichiarano, esercitino la loro opera per esser considerati e adorati come dèi, per farsi presentare ossequi che vincolino i loro devoti al punto da avere con essi un pessimo capo d'accusa al giudizio di Dio.

...l'istigazione demoniaca al male.
24. 2. In seguito Silla essendo andato a Taranto e avendo offerto un sacrificio, vide nella parte superiore del fegato del vitello la forma di una corona d'oro. Allora il suddetto aruspice Postumio sentenziò che essa significava una grande vittoria e ordinò che lui solo mangiasse quelle viscere. Dopo poco uno schiavo di un certo Lucio Ponzio gridò divinando: "Vengo come messaggero da Bellona, la vittoria è tua, o Silla". E aggiunse che il Campidoglio stava per bruciare. Detto questo uscì dall'accampamento. Il giorno dopo vi tornò più agitato e gridò che il Campidoglio s'era incendiato. E in realtà il Campidoglio s'era incendiato. Fu facile al demone presagire l'avvenimento e notificarlo subito. Intendi ora, ed è l'aspetto più importante dell'argomento, quali siano gli dèi cui desiderano sottomettersi coloro i quali bestemmiano il Salvatore che libera le facoltà morali dei fedeli dal dominio dei demoni. Quell'individuo divinando gridò: "La vittoria è tua, o Silla"; e perché si credesse che presagiva per ispirazione divina, preannunciò un evento che si doveva verificare in breve, e subito si verificò, sebbene da esso fosse lontano l'uomo per cui mezzo lo spirito parlava. Non gridò tuttavia: "O Silla, evita le scelleratezze". E furono esecrabili quelle che commise a Roma dopo la vittoria. A lui inoltre si mostrò nel fegato di un vitello una corona d'oro come segno evidente della sua vittoria. E se divinità giuste e non empi demoni fossero solite dare questi segni avrebbero mostrato in quelle viscere l'avverarsi di mali indicibili e gravemente dannosi allo stesso Silla. La sua vittoria infatti non giovò così alla sua fama come danneggiò la sua passione. Ne risultò appunto che da uomo di sfrenata ambizione, innalzato e abbattuto dal successo, più che perdere materialmente i nemici, fosse perduto egli stesso moralmente. Proprio questi fatti veramente tristi e deplorevoli gli predicevano gli dèi senza le viscere, i presagi, il sogno o divinazione di alcuno. Temevano di più il suo ravvedimento che la sua sconfitta. Anzi si adoperavano che egli vincitore glorioso dei concittadini, a sua volta vinto e prigioniero fosse soggetto con legami molto stretti a vizi nefandi e mediante essi agli stessi demoni.

Gli dèi istigano alla violenza.
25. 1. Da questi fatti ognuno può comprendere e persuadersi, a meno che non abbia scelto di imitare dèi di tal fatta anziché troncare mediante la grazia divina ogni relazione con essi, quanto si adoperino questi spiriti maligni a favorire col proprio esempio quasi un'autorizzazione divina alla delinquenza. Al limite si sa perfino che essi mostrarono di azzuffarsi fra di loro in una vasta pianura della Campania, in cui poco dopo si scontrarono gli eserciti in una infame guerra civile. Si udì infatti in quel luogo un grande strepito di armi e subito dopo alcuni affermarono di aver visto per alcuni giorni due schiere che si combattevano. E appena questa battaglia cessò, trovarono orme come di cavalli e uomini, quali potevano essere impresse in una battaglia come quella 58. Se veramente le divinità si sono azzuffate, sono scusate allora anche le guerre civili degli uomini; si rifletta comunque quanto sia grande o la cattiveria o la infelicità di dèi simili. Se poi fecero finta di combattere, si adoperarono esclusivamente a convincere i Romani che, sull'esempio degli dèi, non commettevano alcun delitto con le guerre civili. Erano infatti già cominciate le guerre civili e si era già avuta qualche strage esecrabile in battaglie infami. Aveva già commosso molte persone l'episodio di un soldato che, mentre strappava le spoglie a un ucciso, riconobbe nel cadavere denudato il fratello e in segno di esecrazione per le guerre civili si uccise sul posto e cadde riverso sulla salma del fratello 59. Perché dunque non si provasse orrore di un così grave crimine, ma crescesse sempre la passione per le guerre efferate, i demoni malvagi, che i Romani consideravano dèi e ritenevano perciò che si dovessero onorare e venerare, vollero farsi vedere in combattimento dagli uomini perché il senso civico non si rifiutasse di imitare tali combattimenti, anzi il delitto umano fosse scusato dall'esempio divino. Con pari astuzia gli spiriti maligni si fecero dedicare con rito sacro gli spettacoli teatrali. Ho già detto abbastanza sull'argomento. Nei cori e nelle azioni drammatiche erano rappresentate grosse nefandezze degli dèi. Quindi lo spettatore, che le credesse o non le credesse ma gradiva vederle rappresentate, poteva imitarle tranquillamente. Ma qualcuno poteva pensare che i poeti, in quei passi in cui cantano che gli dèi si sono azzuffati, intendessero scrivere delle insolenze contro gli dèi anziché ciò che loro si addiceva. Essi allora per ingannare gli uomini avallavano i canti dei poeti col presentare, cioè, agli occhi degli uomini le proprie battaglie non solo per mezzo degli attori ma personalmente in battaglia campale.

...a differenza del Cristo.
25. 2. Sono stato costretto a dire queste cose perché gli scrittori romani non hanno affatto dubitato di dire e scrivere che la società civile era andata in rovina ed era inesistente prima della venuta di Cristo Gesù nostro Signore. Ma coloro che rinfacciano al nostro Cristo le sventure passeggere con cui non possono andare in rovina, sia in vita che dopo morte gli onesti, non rinfacciano ai propri dèi questa rovina. Eppure il nostro Cristo propone spesso grandi precetti per un'alta moralità contro la rovina dei costumi. Invece i loro dèi non si contennero affatto mediante buoni precetti con il popolo che li adorava perché la società non cadesse in sfacelo, anzi si contennero in maniera che, depravando i costumi con i propri esempi in una dannosa autorevolezza, la società andasse in rovina. Ed ora, come penso, non si oserà dire che era in sfacelo, perché gli dèi, come se fossero amici della virtù e offesi dai vizi umani, se ne andarono tutti abbandonando templi e altari 60. Al contrario è dimostrato che erano presenti perché con i tanti segni delle viscere, dei presagi, delle divinazioni si affannavano a vantarsi ed esibirsi come conoscitori di eventi futuri e fautori di battaglie. Qualora se ne fossero andati sul serio, i Romani avrebbero ecceduto nelle guerre civili di meno a causa delle proprie passioni che delle loro istigazioni.

Istigano alla lussuria...
26. 1. Le cose stanno dunque così. Apertamente in pubblico sconcezze mischiate a crudeltà, azioni disonorevoli e delitti delle divinità, compiuti o inventati, divennero celebri perché furono loro consacrati e dedicati in determinate solennità fisse dietro loro richiesta e col rischio della loro collera se non si eseguivano. Si affermarono così come spettacolo agli occhi di tutti per essere proposti all'imitazione. Dunque i demoni rivelano con piaceri di tal fatta di essere spiriti immondi, con le proprie dissolutezze e malvagità tanto vere che simulate confermano di esser fautori di scelleratezze e disonestà chiedendo agli svergognati la celebrazione di fatti simili ed estorcendola ai timorati. Perché dunque si dice che nei recessi dei loro templi danno a individui iniziati dei buoni comandamenti relativi a determinati settori della morale 61? Se è vero, si deve rilevare e denunziare una più ammaliziata astuzia degli spiriti cattivi. Tanta è appunto la forza della rettitudine e dell'onestà che tutto o quasi tutto il genere umano è compreso del loro valore e non diviene scostumato al punto di aver perso completamente il senso dell'onestà. Per questo motivo la malvagità dei demoni, a meno che in qualche caso, come leggiamo nella sacra Scrittura, non si modellino in angeli di luce 62, non riesce a condurre a termine l'opera d'inganno. Quindi esteriormente l'oscena empietà giunge rintronando alle masse con grandioso strepito e interiormente la castità nascosta appena si fa udire a pochi; la pubblicità è concessa alle opere disonorevoli, la segretezza alle opere lodevoli; la dignità è nascosta, l'indegnità palese; un'azione cattiva richiama tutti a osservarla, la parola buona trova appena alcuni ad ascoltarla, come se ci si debba vergognare dell'onestà e gloriare della disonestà. E questo dove se non nei templi dei demoni, dove se non nei convegni d'inganno? Avviene così che le persone oneste, che sono poche, siano ingannate senza che i più, i quali sono veramente dissoluti, si ravvedano.

...come nei misteri di Celeste.
26. 2. Non sappiamo dove e quando gli individui consacrati a Celeste 63 ascoltavano precetti di castità. Noi profani comunque ci radunavamo da ogni parte davanti al suo tempietto, dove potevamo osservare la sua statua ivi collocata. In piedi, dovunque ci si poteva sistemare, assistevamo con molta attenzione agli spettacoli che vi si eseguivano, osservando, col muovere lo sguardo, da una parte una parata lasciva, dall'altra la dea vergine, notando che lei era adorata con religioso rispetto e che davanti a lei si celebravano riti osceni. Non abbiamo visto in quel luogo mimi pudorati o un'attrice più costumata, tutte le parti erano colme di spudoratezza. Si sapeva ciò che era gradito alla divinità vergine e le si offriva ciò che rendeva una donna onesta più informata nel tornare dal tempio alla casa. Alcune più vergognose voltavano la faccia dai gesti osceni degli attori e imparavano con intenzione nascosta la prassi della colpa. Si vergognavano infatti degli uomini e per questo non osavano guardare a viso aperto gesti osceni, ma molto meno osavano condannare con cuore onesto i riti della dea che adoravano. E si dava ad apprendere pubblicamente in un tempio un'azione, per compiere la quale si cercava per lo meno l'intimità nella casa. E il pudore umano, se pur c'era in quel luogo, si meravigliava non poco che gli uomini non commettessero quelle colpe liberamente perché le apprendevano perfino con un rito religioso presso gli dèi col rischio di irritarli se non provvedevano a offrire quel rito. E quale altro spirito, muovendo con segreta istigazione coscienze veramente disoneste, stimola a commettere adulteri e gode di quelli commessi, se non quello che si diletta di riti sacri di quella specie, giacché fa innalzare nei templi le statue dei demoni, ama le rappresentazioni dei vizi negli spettacoli, bisbiglia in privato parole di onestà per ingannare anche le poche persone dabbene, ripropone in pubblico le attrattive della dissolutezza per accalappiare le innumerevoli persone cattive?

Sono propiziati con riti e spettacoli osceni.
27. Cicerone, uomo autorevole e mediocre filosofo, quando stava per divenire edile, informa la cittadinanza che fra le altre mansioni del suo incarico v'era anche quella di placare con la celebrazione di spettacoli Flora dea madre 64. E questi spettacoli di solito si celebravano con riti altrettanto religiosi che osceni. Divenuto console in momenti estremamente difficili per lo Stato, dice in un altro passo che furono dati spettacoli per dieci giorni e che non fu tralasciato provvedimento alcuno destinato a rendere propizi gli dèi 65. Era preferibile irritare dèi di quella specie con la morigeratezza anziché renderli propizi con la dissolutezza, stimolarli perfino all'odio con l'onestà anziché lusingarli con azioni veramente indecorose. Infatti avrebbero recato minor danno con una spietata efferatezza gli uomini, per i quali gli dèi venivano resi propizi, che gli stessi dèi giacché erano resi propizi con atti di oscena immoralità. Per stornare il pericolo materiale dei nemici, si rendevano benevoli gli dèi con atti da cui era abbattuta la virtù morale ed essi non si opponevano a coloro che assediavano le mura se prima non demolivano i buoni costumi. Tutta la cittadinanza dunque, in onore di divinità siffatte, imparava in pubblico con la vista e l'udito questo rito propiziatorio veramente sfacciato, impudico, sfrontato, disonesto e sconcio, anche se la nobile tempra della moralità romana aveva considerato inabili alle cariche, estromesso dalla tribù, ritenuto privi di onore e dichiarato infami coloro che lo eseguivano. Intendo parlare del vergognoso rito propiziatorio, che la vera religione deve aborrire ed esecrare, offerto a divinità di quella specie, delle rappresentazioni delittuosamente oscene contro gli dèi, delle gesta ignominiose degli dèi compiute per scelleratezza o disonestà ovvero immaginate con maggiore scelleratezza e disonestà. La cittadinanza osservava che quelle esecuzioni erano gradite agli dèi e credeva quindi che non solo doveva loro offrirle ma anche imitarle. Non conosceva però quel non so che di moralmente onesto che si insegnava, seppure si insegnava, a così pochi e in forma così esoterica, perché si temeva di più che fosse divulgato che non venisse osservato 66.

Dignità del rito cristiano.
28. Individui ingiusti, ingrati e posseduti con vincoli più stretti dallo spirito iniquo lamentano e brontolano che gli uomini mediante il nome di Cristo siano liberati dal giogo infernale e dalla comunanza nelle pene con le potenze del male e trasferiti dalle tenebre di una dannosissima empietà alla luce di una salutare pietà. E si lamentano perché le masse confluiscono nella chiesa in onesto assembramento, in una onorata distinzione dei due sessi, perché nella chiesa ascoltano come devono vivere moralmente nel tempo per meritare di vivere dopo questa vita in una perenne felicità, perché nella chiesa mediante le parole della sacra Scrittura, che è insegnamento di giustizia, rivolte da un luogo elevato alla presenza di tutti, gli osservanti ascoltino per la ricompensa, i trasgressori per la condanna. Che se nella chiesa vengono anche alcuni motteggiatori di questi insegnamenti, la loro sfrontatezza o viene abbandonata per improvviso ravvedimento o frenata dal timore e dal rispetto. Infatti non si propone alla loro attenzione e imitazione un rito delittuosamente sconcio, giacché in quel luogo si propongono gli insegnamenti o si narrano i miracoli o si riconoscono i doni o si invoca la bontà del Dio vero.

Protrettico ai Romani perché accettino il Cristianesimo...
29. 1. Desidera piuttosto questi beni, o nobile tempra romana o progenie dei Regoli, degli Scevola, degli Scipioni, dei Fabrizi ; desidera questi beni piuttosto e riconosci che sono diversi dalla oscena frivolezza e ingannevole malvagità dei demoni. Se qualche cosa in te di nobile risalta per naturale disposizione, soltanto con la vera pietà è nobilitato fino alla compiutezza, con l'empietà è sprecato e avvilito. Scegli ormai che cosa devi seguire per ottenere di essere lodata senza errore, non in te ma nel Dio vero. Nei tempi andati avesti la gloria tra i popoli ma per un occulto giudizio della divina provvidenza ti mancò la vera religione da scegliere. Svegliati, è giorno, come ti sei svegliata in alcuni dei tuoi, della cui virtù perfetta e perfino del martirio per la vera religione noi cristiani ci gloriamo. Essi combattendo con le potenze nemiche e vincendole con una morte eroica hanno fondato per noi col loro sangue questa patria 67. E a questa patria noi ti invitiamo e sproniamo perché tu sia aggiunta al numero dei cittadini, la cui città di rifugio è in certo senso la vera remissione dei peccati. Non ascoltare i tuoi cittadini degeneri che infamano Cristo o i cristiani accusandoli delle calamità dei tempi perché vorrebbero tempi, in cui non si abbia la vita tranquilla ma la malvagità garantita. Neanche per la patria terrena ti furono graditi tempi simili. È tempo che afferri la patria celeste, giacché per averla non dovrai certamente affannarti e in essa dominerai in una verace perennità. In essa non il fuoco di Vesta, non il Giove di pietra del Campidoglio 68, ma il Dio uno e vero non pone i limiti delle cose e dei tempi ma darà un dominio senza fine 69.

...e rifiutino il politeismo.
29. 2. Non andare in cerca di dèi falsi e bugiardi, rigettali piuttosto con disprezzo lanciandoti verso la vera libertà. Non sono dèi, sono spiriti malvagi, per i quali è tormento la tua felicità eterna. Si ritiene che Giunone invidiasse ai Troiani, dai quali derivi la stirpe, l'insediamento sui colli di Roma 70. Molto di più questi demoni, che tuttora consideri dèi, invidiano a tutto il genere umano la patria eterna. E tu stessa hai giudicato in gran parte questi spiriti, perché li hai resi propizi con spettacoli, ma hai deciso che fossero infami gli individui, dai quali hai fatto eseguire gli spettacoli medesimi. Permetti che si affermi la tua libertà contro spiriti immondi che avevano imposto sul tuo collo il peso di celebrare con rito sacro in loro onore la propria ignominia. Hai reso inabili alle cariche gli attori dei delitti divini, supplica il vero Dio ché allontani da te gli dèi che si vantano dei propri delitti, o veri, e questo è estremamente vergognoso, o inventati, e questo è estremamente malizioso. Hai fatto bene nel decidere di tua iniziativa che la comunanza dei diritti civili non fosse accessibile a istrioni e attori. Svégliati pienamente. In nessuna maniera si placa la maestà divina con arti, da cui è macchiata la dignità umana. Con quale criterio ritieni che si devono annoverare fra le sante potenze celesti gli dèi che si dilettano di simili ossequi, se hai ritenuto che gli individui, per mezzo dei quali si presentano questi ossequi, non si devono annoverare fra i cittadini romani di qualunque ceto siano? Senza confronto più illustre è la città dell'alto perché in essa la vittoria è verità, la dignità è santità, la pace è felicità, la vita è eternità. A minor ragione essa ha nella sua società dèi di quella specie, se tu ti sei vergognata di avere nella tua individui della medesima specie. Quindi se desideri giungere alla città felice, evita il rapporto con i demoni. È indignitoso che siano onorati dagli onesti coloro che sono resi propizi per mezzo di individui indegni. Siano dunque rimossi dal tuo religioso ossequio mediante la purificazione cristiana come gli attori furono rimossi dalla dignità di tuoi cittadini con nota del censore. Si crede poi che i demoni abbiano poteri sui beni temporali, i soli di cui i malvagi vogliono godere, e sui mali temporali, i soli che gli iniqui non vogliono subire. Comunque se avessero tale potere, a più forte ragione dovremmo disprezzare i beni del mondo anziché a causa loro adorare i demoni e adorandoli non riuscire a raggiungere quei beni che essi ci invidiano. Tuttavia esamineremo in seguito che essi non hanno potere neanche nelle cose del mondo, come pensano coloro i quali si affannano a dimostrare che in vista di esse bisogna adorarli. Perciò qui ha termine il presente volume.
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