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LA CITTA' DI DIO di sant'Agostino - Libri I - VI (1)

Ultimo Aggiornamento: 22/12/2012 19:18
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22/12/2012 19:05

LIBRO V

SOMMARIO

Premessa

1. La ragione storica dell'impero romano e di tutti gli imperi non è affidata al caso e non dipende dalla posizione degli astri.

2. Eguaglianza e diversità dello stato di salute nei gemelli.

3. L'astrologo Nigidio derivò dalla ruota del vasaio un argomento sul problema dei gemelli.

4. I gemelli Esaù e Giacobbe differirono molto per carattere e circostanze della vita.

5. Con quali argomenti si possono convincere gli astrologi di professare una scienza infondata.

6. I gemelli di sesso diverso.

7. La scelta del giorno per prendere moglie o per piantare e seminare nel campo.

8. Alcuni considerano fato non la posizione degli astri ma la connessione delle cause dipendente dalla volontà di Dio.

9. La prescienza divina e la libera volontà umana contro la teoria di Cicerone.

10. La necessità non condiziona l'umana volontà.

11. Tutto è concluso nelle leggi della provvidenza di Dio.

12. I Romani antichi ottennero con i buoni costumi che il vero Dio, sebbene non lo adorassero, incrementasse il loro dominio.

13. L'amore della gloria, sebbene sia un difetto, è considerato virtù perché per suo mezzo sono impediti mali peggiori.

14. Si deve reprimere l'amore della lode umana, perché tutta la gloria dei giusti è in Dio.

15. La ricompensa nel tempo che Dio concesse ai buoni costumi dei Romani.

16. La ricompensa dei cittadini della città eterna per i quali sono stimolanti gli esempi di virtù dei Romani.

17. Il vantaggio delle guerre mosse dai Romani e l'utilità apportata a coloro che essi hanno vinto.

18. I cristiani debbono essere alieni dal vantarsi se hanno fatto qualche cosa per amore della patria eterna, poiché i Romani hanno compiuto tante imprese per la gloria umana e per la città terrena.

19. Differiscono fra di loro in qualche cosa la passione della gloria e la passione del dominio.

20. È egualmente disonesto che la virtù sia asservita alla gloria umana o al piacere sensibile.

21. L'impero romano è stato destinato a un fine dal vero Dio, perché da lui è ogni potere e tutto è retto dalla sua provvidenza.

22. La durata e l'esito delle guerre dipendono dal giudizio di Dio.

23. La guerra in cui il pagano Radagaiso re dei Goti in un solo giorno fu sconfitto assieme al suo grande esercito.

24. Quale fu il successo degli imperatori cristiani e qual è il vero successo.

25. I successi che Dio concesse a Costantino imperatore cristiano.

26. La fede e la pietà dell'imperatore Teodosio.


Libro quinto
VISIONE IRRAZIONALISTA E RAZIONALISTA DELLA STORIA



Concetti di una visione irrazionalista e razionalista (1-11)


Premessa - È evidente ormai che la felicità è la pienezza dei beni che si devono desiderare, che essa non è una dea ma un dono di Dio e dunque che gli uomini devono adorare soltanto il Dio che li può render felici. Quindi, se fosse una dea, sarebbe giusto dire che essa sola si deve adorare. Mi rimane pertanto da esaminare la ragione per cui Dio, il quale può concedere pure i beni che possono essere conseguiti anche dai non buoni e quindi anche non felici, ha voluto che l'impero romano fosse di tanta grandezza e durata. Sul motivo per cui non fu opera della folla dei falsi dèi che essi adoravano ho parlato abbastanza e se sembrerà opportuno ne parlerò ancora.

Caso, fato, astri.
1. La causa dunque della grandezza dell'impero romano non è né casuale né fatale. È la terminologia della teoria o sistema di coloro i quali considerano casuali quegli eventi che non hanno alcuna causa e non provengono da un ordinamento razionale, fatali quegli eventi che per deterministica necessità di un ordinamento si verificano indipendentemente dal volere di Dio e degli uomini 1. Al contrario gli imperi umani sono determinati direttamente dalla divina provvidenza. E se qualcuno li attribuisce al fato perché chiama fato il volere o potere di Dio, conservi pure la propria teoria ma rettifichi la terminologia. Per quale ragione non spiega in partenza il concetto che dovrà spiegare in seguito quando gli verrà chiesto che cosa intende per fato? Infatti quando si sente questa parola nel linguaggio usuale s'intende soltanto l'influsso della specifica posizione degli astri quando si nasce o si è concepiti; ma alcuni considerano il fato indipendente dalla volontà di Dio 2, altri invece affermano che anche esso dipende dal suo volere 3. Ma coloro i quali ritengono che gli astri determinano, indipendentemente dal volere di Dio, le azioni che si compiranno, il bene che si avrà, il male che si subirà, non devono essere ascoltati non solo da coloro che professano la vera religione ma neanche da coloro che preferiscono adorare vari dèi anche se falsi. Infatti questa teoria viene a sostenere che non si adori e non si preghi alcun dio. In questo momento la mia polemica non è rivolta contro i sostenitori di tale teoria ma contro coloro che per difendere gli dèi del politeismo contrariano la religione cristiana. Ci sono poi coloro i quali fanno dipendere dal volere di Dio la posizione degli astri che in qualche modo determinano la personalità del singolo e il bene e il male che gli avverranno. Se ritengono che gli astri hanno questo potere perché è stato loro concesso dal supremo potere di Dio di determinare con il loro influsso simili eventi, rivolgono al cielo un grande insulto perché ritengono che nel suo, per così dire, illustre senato e splendida curia si deliberi l'esecuzione di delitti, e tali che se li avesse deliberati una città terrena, dovrebbe essere distrutta per decisione del genere umano. E poi qual giudizio si lascia a Dio sui fatti umani, giacché su di essi cala una necessità proveniente dal cielo, dato che egli è signore degli astri e degli uomini? Se poi non dicono che sono le stelle, sia pure ricevuto il potere dal sommo Dio, a determinare col loro influsso gli eventi ma che esse, nel trasmettere la determinazione necessitante, eseguono integralmente i suoi comandi, è sconveniente pensare di Dio ciò che è sembrato molto sconveniente pensare della decisione delle stelle. Se poi affermano che le stelle sono piuttosto segni che cause, sicché la posizione degli astri sarebbe come un linguaggio che predice ma non determina il futuro, giacché questo fu il pensiero di uomini di alta cultura 4, io rispondo che gli astrologi non sono soliti parlare in questi termini. Ad esempio, non dicono che Marte in quella posizione significa un omicida ma che rende omicida 5. Tuttavia pur ammettendo che non parlano con proprietà e che dovrebbero ricevere dalla filosofia la regola del linguaggio per predire gli eventi che suppongono di scorgere nella posizione degli astri, come spiegare il fatto che non sono mai riusciti a dire perché si abbia tanta diversità nella vita dei gemelli, nelle loro attività, eventi, professioni, mestieri, cariche e nelle altre cose di pertinenza della vita umana e nella stessa morte? Per quanto attiene a questi dati, talora sono più simili fra di sé degli estranei che certi gemelli, sebbene siano separati da un brevissimo spazio di tempo nel nascere e siano generati nel concepimento mediante un solo atto generativo e anche nel medesimo istante.

Astrologia, e genetica, oroscopo.
2. Cicerone riferisce che Ippocrate, il più illustre dei medici, ha lasciato scritto di avere arguito che due fratelli erano gemelli perché avevano cominciato a star male contemporaneamente, la loro malattia si aggravava e scemava nel medesimo tempo 6. Al contrario lo stoico Posidonio, gran cultore di astrologia, era solito affermare che i gemelli hanno una medesima complessione perché nati e concepiti sotto la medesima combinazione degli astri 7. In tal modo un fatto che il medico riteneva appartenesse alla medesima costituzione organica, il filosofo astrologo lo richiamava al potere della congiunzione degli astri verificatasi nel tempo in cui sono stati concepiti e messi al mondo. In materia è più accettabile e assai più credibile l'ipotesi della medicina. Infatti i primi giorni dei feti poterono essere fisiologicamente condizionati dal condizionamento dei genitori nel momento in cui si accoppiavano in maniera che col sopravvenire del primo nutrimento dal corpo materno poterono nascere con la medesima complessione organica. In seguito nutriti in una sola casa con i medesimi alimenti, quando, come afferma la medicina, decidono molto per una crescita fisica, robusta o gracile, il clima, la posizione del luogo e l'efficacia delle acque, abituati inoltre alla medesima attività poterono raggiungere una eguale costituzione fisica e così ammalarsi nel medesimo tempo e con la medesima eziologia. Ma non saprei proprio che razza di stramberia sia quella di voler intendere ai sensi dell'eguaglianza nella malattia la combinazione dei corpi celesti che si ebbe quando i gemelli furono concepiti o generati, giacché nel medesimo tempo, nel territorio di una medesima regione posta sotto lo stesso cielo poterono esser concepiti e generati molti individui di nascita, di attitudini e disposizioni assai diverse. Al contrario si sa per esperienza che i gemelli non solo hanno attività e residenze diverse ma che sono anche soggetti a malattie diverse. Di questo fatto Ippocrate poteva, a mio parere, fornire questa semplicissima spiegazione, che erano potuti verificarsi due diversi stati di salute a causa della diversità dell'alimentazione e delle attività che non derivano dalla complessione organica ma dalla disposizione spirituale. Invece sarebbe da meravigliarsi se Posidonio o altro fautore dell'influenza degli astri possano trovare che cosa dire, se non vogliono truffare la mente degli inesperti in cose che ignorano. Tentano infatti di stabilire una diversità ricorrendo a quell'esiguo spazio di tempo che i gemelli hanno avuto nel nascere a causa di quel frammento di cielo in cui si registra l'ora della nascita, che chiamano appunto l'oroscopo 8. Ma essa non è così grande come quella che si riscontra nella volontà, attività, moralità e vicende dei gemelli, oppure è anche superiore all'eguale umiltà o nobiltà sociale dei gemelli perché, a sentir loro, la massima diversità dipende soltanto dall'ora in cui si nasce. E per questo se essi nascono, uno dopo l'altro, così alla svelta che rimane la medesima parte dell'oroscopo, esigo destini eguali che non è possibile trovare in alcuna coppia di gemelli; se al contrario la lentezza del secondo gemello fa girare l'oroscopo, esigo genitori diversi che ai gemelli è impossibile avere.

Nigidio Figulo e di falso oroscopo dei gemelli.
3. Inutilmente si adduce come esempio il celebre entimema sulla ruota del vasaio che, come narrano, fu formulato da Nigidio, turbato da questo problema e che per questo motivo fu detto appunto Figulo, cioè vasaio. Costui fece girare la ruota di un vasaio con quanta forza gli fu possibile 9. Mentre essa girava velocemente, la segnò due volte nella massima rapidità con inchiostro nell'intento di colpire il medesimo punto. Cessato il movimento, furono trovati i segni, che aveva impressi, notevolmente distanti nel perimetro della ruota. Allo stesso modo, disse Nigidio, nel rapido movimento del cielo, anche se i gemelli nascono uno dopo l'altro con la rapidità con cui io ho segnato due volte la ruota, nello spazio del cielo si ha una grandissima distanza. Da qui provengono, concluse, le varie dissimiglianze che si riscontrano nella vicenda umana dei gemelli 10. Questa raffigurazione è più fragile dei vasi che vengono formati dai giri della ruota. Poniamo infatti che nel cielo si abbia una distanza tanto grande che non può essere rappresentata dagli oroscopi, in modo che ad uno dei gemelli tocca in sorte l'eredità, all'altro no. Perché dunque gli astrologi osano predire agli altri che gemelli non sono, dopo avere scrutato il loro oroscopo, destini eguali che sono inclusi in quella distanza sconosciuta che non può essere rappresentata e avvertita nell'atto del loro nascere? Ma possono predire, dicono loro, destini eguali negli oroscopi dei non gemelli perché tali destini appartengono a estensioni di tempo più lunghe, mentre le piccole frazioni di tempo con cui i gemelli si distanziano nel loro nascere si assegnano alle cose trascurabili. E di simili cose abitualmente gli astrologi non vengono interpellati. Nessuno infatti va a consultarli sul tempo in cui siede o cammina oppure sul tempo e il cibo che mangia. Ma forse, io chiedo, si considerano trascurabili le cose quando si osservano molti fatti e molto diversi riguardanti la moralità, le attività e le vicende dei gemelli?

Diversità di Esaù e Giacobbe.
4. Secondo l'antica storia dei patriarchi, tanto per citare personaggi molto noti, nacquero due gemelli così vicini l'uno all'altro che il secondo teneva con la mano il piede dell'altro 11. Nella loro vita e condotta si ebbero fatti così diversi, nelle attività tanta disuguaglianza, tanta differenza nell'amore dei genitori che la diversità stessa li rese nemici fra di loro. E questo non significa che mentre uno camminava l'altro stava seduto, mentre l'uno dormiva l'altro era sveglio, mentre l'uno parlava l'altro stava zitto. Sono appunto queste le cose trascurabili che non possono essere conosciute da coloro che delineano i segni dello zodiaco in cui si nasce e su cui si consultano gli astrologi. Uno fu a servizio per un salario, l'altro non fu a servizio; uno era amato dalla madre, l'altro no; uno perdette un privilegio importante in quel popolo, l'altro se lo arrogò. Non parliamo poi delle mogli, dei figli e delle sostanze perché si ha una grande diversità. Se dunque queste differenze dipendono da quelle piccole frazioni di tempo che i gemelli hanno nel loro nascere e non sono imputabili agli oroscopi, perché si sciorinano predizioni dopo aver osservato gli oroscopi dei non gemelli? Se poi si predicono gli eventi perché non appartengono a frazioni di tempo inavvertibili ma a periodi che possono essere osservati e avvertiti, la ruota del vasaio non fa altro che mettere nel giro individui col cuore di creta perché le imposture degli astrologi non siano smentite.

oroscopo del concepimento e della nascita.
5. E i due fratelli che Ippocrate, osservando con la sua esperienza di medico la loro malattia, riconobbe come gemelli perché essa contemporaneamente si manifestava più grave o più leggera in entrambi, rimproverano apertamente gli astrologi che vogliono attribuire agli astri una condizione che derivava dalla complessione organica. Essi si ammalavano nel medesimo modo e tempo e non l'uno prima e l'altro dopo come erano nati, perché non era possibile che nascessero entrambi simultaneamente. E se non ebbe influsso a farli ammalare in tempi diversi il fatto che nacquero in tempi diversi, perché gli astrologi sostengono che per la diversità delle altre situazioni ha importanza il diverso tempo nel nascere? Per qual motivo, appunto perché nacquero in tempi diversi, poterono viaggiare, ammogliarsi e aver figli in tempi diversi e fare molte altre cose e non poterono per lo stesso motivo ammalarsi in tempi diversi? Se il diverso momento nella nascita ha mutato l'oroscopo e ha indotto diversità nelle altre situazioni, perché per le malattie è rimasta la condizione che il concepimento induceva con l'eguaglianza nel tempo? Ovvero se i destini della salute fisica sono nel concepimento, ma si afferma che quelli delle altre condizioni sono nella nascita, gli astrologi non dovrebbero, dopo avere scrutato gli oroscopi della nascita, parlare della salute, giacché non è possibile scrutare in essa l'ora del concepimento. Se poi predicono le malattie senza scrutare l'oroscopo del concepimento, dato che le malattie sono indicate dal periodo del nascere, in che modo potrebbero ad uno dei gemelli indicare dall'ora della nascita quando si ammalerà? Anche l'altro che non aveva il medesimo oroscopo della nascita dovrebbe anche lui necessariamente ammalarsi? E pongo altre domande. Se, dicono essi, la distanza di tempo nella nascita dei gemelli è grande, è indispensabile che si diano per loro diverse congiunzioni astrali a causa dell'oroscopo diverso e per questo diversi anche tutti i punti di riferimento 12. In essi si ha tanto influsso che anche i destini divengono diversi. Ma come è stato possibile questo, chiedo io, se è impossibile che il concepimento dei gemelli abbia tempi diversi. Se poi è stato possibile che per la nascita si avessero destini diversi dei due gemelli concepiti nella medesima frazione di tempo, perché non sarebbe possibile che per la vita e per la morte si abbiano destini diversi di due individui nati nella medesima frazione di tempo? Infatti se la medesima frazione di tempo, in cui entrambi i gemelli sono stati concepiti, non ha impedito che l'uno nascesse prima e l'altro dopo, perché se due diversi individui nascono nella medesima frazione di tempo, è un impedimento a che l'uno muoia prima e l'altro dopo? Se il concepimento che avviene in un solo istante consente che i gemelli abbiano nell'utero sorti diverse, perché la nascita verificatasi in un medesimo istante non consentirebbe a due individui diversi di avere sulla terra sorti diverse? Così sarebbero eliminati tutti i sofismi di questa arte o meglio impostura. Ma che discorso è questo, che i gemelli concepiti nel medesimo tempo, nel medesimo istante, sotto la medesima posizione del cielo, abbiano destini diversi che li portano a due diversi oroscopi, e al contrario sarebbe impossibile che individui nati nel medesimo istante di tempo e sotto una medesima posizione del cielo ma da madri diverse abbiano destini diversi che li portino a una diversa condizione della vita e della morte? Si vuol dire forse che gli individui nell'atto del concepimento non hanno ancora il destino, giacché non possono averlo se non nascono? E allora perché dicono che, se si conosce l'ora del concepimento, possono essere previste molte cose per più alta divinazione? Si racconta perfino in proposito che un sapiente scelse l'ora in cui unirsi alla moglie per avere un figlio meraviglioso. E alla fin fine in proposito si ha anche il responso che in merito ai due gemelli ammalati alla stessa maniera diede Posidonio, grande astrologo e filosofo, e cioè che il fenomeno si verificò perché erano nati e concepiti nel medesimo tempo. Ed aggiungeva il concepimento appunto perché non gli si obiettasse che necessariamente non erano potuti nascere nel medesimo tempo individui che era assolutamente accertato fossero stati concepiti nel medesimo tempo. Così poteva non attribuire il fatto che si erano ammalati nel medesimo modo e tempo alla medesima costituzione fisiologica ma assegnare alle congiunzioni astrali la simiglianza dello stato di salute. Se dunque nel concepimento si ha un così grande influsso ai sensi dell'eguaglianza dei destini, essi non sarebbero dovuti cambiare con la nascita. Se poi i destini dei gemelli sono diversi perché nascono in tempi diversi, perché non si dovrebbe piuttosto capire che erano già diversi perché nascessero in tempi diversi? Ma davvero che la volontà di chi vive non muta il destino della nascita, sebbene la successione nel nascere cambierebbe il destino del concepimento?

Gemelli si sesso diverso.
6. Comunque anche negli stessi concepimenti gemellari, in cui certamente l'istante è il medesimo per entrambi, come avviene che sotto il medesimo fatale oroscopo l'uno sia concepito maschio e l'altra femmina? Conosco personalmente gemelli di sesso diverso; entrambi ancora vivono e godono ancora buona salute. Le loro fisionomie sono simili, per quanto è possibile data la diversità di sesso, tuttavia per sistema e regola di vita sono molto diversi, a parte le funzioni virili o femminili che sono per naturale necessità diverse. Egli è militare con la carica di conte ed è quasi sempre lontano da casa, lei non si allontana dalla località di origine e dal proprio campo. Aggiungo un particolare che sarebbe incredibile se si credesse al destino dell'oroscopo, e normale se si tengono presenti le scelte degli uomini e i doni di Dio. Egli è sposato, lei è una vergine consacrata; egli ha messo al mondo parecchi figli, lei non si è neanche sposata. Ma, dicono, l'influsso dell'oroscopo è determinante. Io invece ho già sufficientemente dimostrato che non significa proprio niente. Ma qualunque sia, gli astrologi dicono che è determinante quello della nascita. E quello del concepimento anche? È chiaro infatti che in esso si ha un solo accoppiamento e che vi è una legge naturale ineluttabile per cui è assolutamente impossibile che se una femmina ha concepito un individuo ne concepisca poco dopo in quello stato un altro. Ne consegue necessariamente che nei gemelli non si distinguono gli attimi del concepimento. Oppure, dato che sono nati con un oroscopo diverso, mentre venivano alla luce, l'uno è stato cambiato in maschio e l'altra in femmina? In verità non è del tutto assurdo che alcuni influssi degli astri siano determinanti per certi fenomeni naturali, ad esempio: con l'avvicinarsi e l'allontanarsi del sole si dà il variare delle stagioni dell'anno e col crescere e il calare della luna aumentano e diminuiscono alcuni fenomeni, come la crescita dei ricci di mare e delle ostriche perlifere e il mirabile flusso e riflusso dell'oceano. Rimane però che le attività spirituali non dipendono dalla posizione degli astri. Ora gli astrologi, sforzandosi di far derivare dagli astri anche gli atti umani, ci stimolano a cercare dei casi in cui l'applicazione non è valida neanche per il mondo dei corpi. Infatti non v'è nulla che appartenga tanto al corpo come il sesso del corpo, eppure è stato possibile che gemelli di sesso diverso siano concepiti sotto la medesima posizione degli astri. Pertanto vi possono essere un discorso e una teoria più cretini di questi? Da una parte la posizione delle stelle, identica per entrambi in merito all'oroscopo del concepimento, non ha potuto fare che la donna avesse il sesso diverso dal fratello col quale aveva la medesima costellazione; dall'altra la posizione degli astri che si ebbe nell'oroscopo della nascita ha potuto fare che lei fosse ben diversa da lui per la consacrazione verginale.

Pregiudizio dei giorni fausti e infausti.
7. Ma è proprio insopportabile che con la scelta dei giorni tentino di determinare destini nuovi alle proprie azioni. Il sapiente suddetto non era nato per avere un figlio meraviglioso ma piuttosto insignificante e quindi, da persona intelligente qual era, ha scelto lui l'ora per unirsi alla moglie. Il destino che non aveva se lo sarebbe fatto lui e da quel fatto avrebbe cominciato ad essere destinato ciò che nella nascita non lo era. Che sciocchezza! Si sceglierebbe un giorno per ammogliarsi, perché, penso, se non si scegliesse, si potrebbe incappare in un giorno non buono con infelice auspicio per il matrimonio. Ma allora che cosa hanno già destinato gli astri per il nascituro? Può forse l'uomo cambiare con la scelta di un giorno ciò che gli è destinato e ciò che egli avrà di mira nell'eleggere il giorno non potrà essere mutato da un altro potere? Inoltre se gli uomini soltanto e non tutte le cose che sono sotto il cielo sono soggette all'oroscopo, perché scelgono alcuni giorni adatti per piantare viti, alberi e biade ed altri per domare gli animali o mandarli alla monta in cui dai maschi saranno fecondati i branchi di cavalle o di mucche o di altri animali? Se al contrario sono determinanti a questi effetti i giorni scelti appunto perché la posizione degli astri secondo la diversità dei momenti di tempo domina tutti i fenomeni fisici e biologici, riflettano quanti esseri in un solo attimo di tempo nascano, sorgano e comincino, e quali fini diversi abbiano. Così rendono tali previsioni oggetto di scherno perfino ai bambini. Nessuno è tanto stupido da azzardarsi a dire che tutti gli alberi, tutte le erbe, tutte le bestie, cioè serpenti, uccelli, pesci, vermi hanno singolarmente attimi diversi del loro nascere. Si suole, per provare la bravura degli astrologi, portare ad essi gli oroscopi di animali muti, di cui si notano diligentemente le nascite a casa ai fini di questa verifica e si ritengono superiori agli altri quegli astrologi i quali, scrutato l'oroscopo, dicono che non è nato un uomo ma un animale. Si azzardano perfino a dire quale animale, e cioè se adatto alla lana, al traino o all'aratro o alla custodia della casa. Si avventurano appunto a predire il destino ai cani e danno i loro responsi fra le esclamazioni degli ammiratori. Gli uomini sono tanto sciocchi da pensare che quando nasce uno di loro sia arrestato il verificarsi di ogni altro fenomeno sicché contemporaneamente sotto il medesimo segno dello zodiaco non nascerebbe neanche una mosca. Infatti se lasciassero passare la mosca, il ragionamento si allarga e un po' alla volta con leggere concessioni dalle mosche giunge ai cammelli e agli elefanti. E non vogliono riflettere che nel giorno scelto per seminare il campo molti granelli di frumento assieme arrivano alla terra, assieme germogliano e, nata la pianta, assieme verdeggiano, maturano e biondeggiano e tuttavia, in seguito, delle spighe nate nel medesimo tempo e per così dire dal medesimo germe alcune ne distrugge la ruggine, altre ne saccheggiano gli uccelli ed altre ne raccolgono gli uomini. Non potranno dire che hanno oroscopi diversi, sebbene le vedano fare una fine tanto diversa. Ovvero cesseranno di scegliere i giorni propizi per queste cose, le sottrarranno al responso delle stelle e crederanno soggetti agli astri soltanto gli uomini sebbene a loro soltanto sulla terra Dio ha concesso la libera volontà. Dopo tutte queste considerazioni giustamente si ritiene che quando gli astrologi danno molti responsi stupendamente veri, il fatto non avviene in virtù dell'arte inesistente di leggere e scrutare l'oroscopo, ma per una occulta suggestione di spiriti non buoni che si danno da fare per imprimere a fondo nelle umane coscienze falsi e dannosi pregiudizi sul destino proveniente dagli astri.

La dottrina stoica del destino come nesso causale.
8. Alcuni non considerano il fato come la diversa combinazione degli astri quando un essere qualsiasi viene concepito, generato o incominciato ma come il nesso ordinato di tutte le cause per cui si verificano tutti i fenomeni. Con loro non è necessario polemizzare faticosamente in una controversia sul significato delle parole se riconoscono al volere e al potere del Dio sommo l'ordine e un determinato nesso delle cause. Si crede con somma certezza e verità che egli conosca tutte le cose prima che avvengano, che non lasci nulla fuori dell'ordine, perché da lui dipende ogni potere sebbene non da lui dipende il volere di tutti. Che gli stoici chiamino destino principalmente la stessa volontà del Dio sommo, il cui potere si estende sovranamente su tutto, si dimostra nella maniera seguente. Sono di Anneo Seneca, salvo errore, questi versi: Conducimi, o padre sommo e dominatore dell'alto cielo, dove tu vuoi, non indugerò ad obbedirti, sono pronto; se al contrario non vorrò, ti seguirò gemendo ed essendo cattivo subirò ciò che se fossi buono era piacevole fare. Il destino conduce chi vuole, trascina chi non vuole 13. In quest'ultimo verso ha evidentemente considerato destino ciò che in precedenza aveva definito la volontà del padre sommo, si dichiara pronto ad eseguirla per essere da lei condotto volente e non trascinato nolente, giacché il destino conduce chi vuole, trascina chi non vuole. Sono favorevoli a questa dottrina anche i seguenti versi di Omero che Cicerone tradusse in latino: La coscienza degli uomini è come la luce con cui Giove padre illumina la terra feconda 14. In materia non avrebbero autorità le parole di un poeta ma Cicerone afferma che gli stoici nel sostenere il potere del fato sono soliti ricorrere a questi versi di Omero. Non si tratta quindi di una teoria di quel poeta ma dei filosofi suddetti. Infatti mediante questi versi usati da loro nella teoresi sul destino viene dichiarata apertamente la loro dottrina sul destino, perché considerano Giove come il sommo Dio da cui, secondo loro, dipende la concatenazione dei destini.

Cicerone per affermare la libertà contro il destino...
9. 1. Cicerone polemizza contro gli stoici con la convinzione che non addurrebbe prove valide contro di loro se non eliminasse la divinazione. E tenta di eliminarla così da negare la conoscenza del futuro e da sostenere con tutte le forze che è assolutamente impossibile sia nell'uomo che in Dio: non vi può essere nessuna predizione delle cose. Nega così la prescienza di Dio e cerca di demolire ogni profezia anche se evidentissima con vuote argomentazioni e col rilevare le contraddizioni di alcuni oracoli che è facile respingere. Tuttavia neanche di essi ha dato una vera confutazione. Nel respingere le supposizioni degli astrologi il suo discorso riceve autorità dalla considerazione che esse sono tali che si eliminano e confutano da sé. Ma coloro che ammettono per lo meno destini stellari sono più sopportabili di lui che esclude la prescienza del futuro. È evidente mancanza di intelligenza ammettere l'esistenza di Dio e negarne la prescienza del futuro. Essendosene accorto pure lui, saggiò perfino l'argomento di quel verso della Scrittura che dice: Ha detto lo sciocco in cuor suo: Dio non esiste 15, ma non come propria personale teoria. Notava infatti che era una parte spiacevole e sgradita e perciò nei libri de La natura degli dèi introdusse Cotta nella disputa contro gli stoici sull'argomento, e preferì esporre la propria teoria nella parte di Lucilio Balbo, al quale affidò la difesa della tesi stoica, anziché in quella di Cotta il quale nega l'esistenza di un essere divino 16. Invece nei libri su La divinazione da sé apertamente polemizza contro la prescienza del futuro 17. E, come sembra, tutto il suo impegno consiste nel non ammettere il destino per non negare la libera volontà. Pensa infatti che data la premessa della conoscenza del futuro si ha la conclusione assolutamente innegabile dell'esistenza del destino. Ma comunque siano i tortuosi cavilli e discussioni dei filosofi, noi per ammettere l'esistenza del Dio sommo e vero, ammettiamo anche la sua volontà, il sommo potere e la prescienza e non temiamo di non fare con la volontà ciò che con la volontà facciamo. Di questo ha prescienza colui la cui prescienza non può errare. Lo temettero Cicerone per negare la prescienza e gli stoici per non ammettere che tutto avviene per necessità, sebbene sostengano che tutto avviene per destino.

...nega la prescienza.
9. 2. Che cosa dunque ha temuto Cicerone nella prescienza del futuro per tentare di escluderla con una argomentazione censurabile? Se tutti gli eventi futuri, egli dice, sono presciti, si verificheranno nella serie secondo cui sono stati presciti e se si verificheranno in quella serie, la serie degli avvenimenti è determinata nella prescienza di Dio e se è determinata la serie degli avvenimenti, è determinata anche la serie delle cause. Non può infatti verificarsi un effetto che non sia preceduto da una causa efficiente. E se è determinata la serie delle cause, secondo cui si verifica ogni evento, tutti gli eventi si verificano fatalmente. Se è così, nulla è in nostro potere e non esiste l'arbitrio della volontà. Se concediamo questo, continua Cicerone 18, è sovvertita la realtà della vita umana, è inutile fare le leggi, è inutile usare punizioni e lodi, rimproveri e consigli, e contro ogni giustizia sono stabiliti premi per i buoni e pene per i cattivi. E affinché non si abbiano queste condizioni ingiuste, assurde e dannose per l'umanità, egli esclude la prescienza del futuro. In tal modo comprime la coscienza religiosa in un'alternativa così angusta che è costretto a scegliere l'una delle due cose, o che qualcosa sia in potere della nostra volontà o che si dà la prescienza del futuro. Pensa che non siano compossibili ma che se si sceglie l'uno si elimina l'altro. Se si sceglie la prescienza del futuro, si elimina l'arbitrio della volontà; se si sceglie l'arbitrio della volontà, si elimina la prescienza del futuro. Ed egli da uomo eccellente e dotto, che molto e con competenza si preoccupava per la vita umana, fra le due cose scelse il libero arbitrio della volontà; e per affermarlo negò la prescienza del futuro e così per rendere gli uomini liberi, li ha resi miscredenti. Una coscienza religiosa sceglie l'uno e l'altro, ammette l'uno e l'altro, mediante la pietà fedele afferma l'uno e l'altro. E come? chiede lui, perché se si dà la prescienza del futuro, si hanno di conseguenza tutte le affermazioni che se ne deducono fino alla conclusione che non si dà oggetto della nostra volontà. Se al contrario si dà un oggetto del nostro volere, ripercorrendo le medesime premesse si giunge all'affermazione che non si dà la prescienza del futuro. E si ripercorrono le varie premesse in questo modo: se si dà l'arbitrio della volontà, non tutto avviene fatalmente; se non tutto avviene fatalmente, non è determinata la serie di tutte le cause; se non è determinata la serie di tutte le cause, neanche la serie degli avvenimenti è determinata nella prescienza di Dio, non tutti gli avvenimenti si verificano senza una causa precedente ed efficace; se la serie degli avvenimenti non è determinata nella prescienza di Dio, non tutti gli eventi avvengono come egli ha conosciuto per prescienza che si verificheranno; quindi se non tutti gli eventi si verificano come egli ha conosciuto per prescienza che si verificheranno, non v'è, conclude Cicerone, in Dio la prescienza di tutti gli eventi futuri 19.

La fede cristiana afferma libertà e prescienza...
9. 3. Noi contro queste sacrileghe ed empie affermazioni sosteniamo che Dio conosce tutte le cose prima che avvengano e che noi facciamo con la nostra volontà tutte le azioni che abbiamo coscienza e conoscenza di fare soltanto perché lo vogliamo. Non affermiamo che tutti gli eventi si verifichino fatalmente, anzi affermiamo che nessuno di essi si verifica fatalmente. Sosteniamo appunto che il concetto di fato, come si considera nel linguaggio usuale, cioè attraverso la combinazione degli astri nel concepimento e nascita degli individui, viene affermato senza alcuna prova ed è quindi insignificante. Non neghiamo però la serie delle cause, sulla quale l'azione di Dio è determinante e non la chiamiamo fato, a meno che fato non s'intenda etimologicamente derivato da fari, cioè parlare 20. Non possiamo negare che nella sacra Scrittura è stato scritto: Dio ha parlato una sola volta ma io ho ascoltato queste due cose, che Dio ha il potere e che tu, o Signore, hai la bontà, perché rendi a ciascuno secondo le sue azioni 21. Il concetto: Ha parlato una sola volta significa che ha parlato senza muoversi, cioè senza porsi nel divenire. Ha parlato, come conosce senza divenire tutti gli eventi che si verificheranno e che porterà a compimento. In questo senso potremmo derivare fato da fari, se la parola non fosse già intesa con un altro concetto, al quale noi non vogliamo che il cuore umano sia favorevole. Non è consequenziale che se per Dio è determinata la serie delle cause, per noi ne derivi la negazione del libero arbitrio della volontà. Anche la nostra volontà rientra nella serie delle cause che per Dio è determinata ed è compresa nella sua prescienza perché anche la volontà umana è causa di azioni umane. Così egli che ha avuto prescienza delle cause di tutti gli avvenimenti non ha potuto certamente non conoscere in quelle cause anche la nostra volontà di cui sapeva per prescienza che sarebbe stata causa delle nostre azioni.

...e l'influire delle cause disposte da Dio.
9. 4. Ma anche la concessione dello stesso Cicerone, che non si ha effetto se non precede la causa efficiente, basta a confutarlo su questo problema 22. In che cosa lo suffraga la sua tesi che non si ha effetto senza la causa ma che non ogni causa è fatale, dal momento che si hanno la causa casuale, la causa naturale e la causa volontaria? Basta questo a confutarlo, perché egli ammette che l'effetto si ha soltanto se precede la causa. Non si intende affermare che le cause dette casuali, da cui si ha anche l'etimologia di caso, non siano cause ma che sono nascoste e che si attribuiscono al volere del Dio vero o di spiriti di vario genere. Così non s'intende considerare indipendenti dalla sua volontà le cause naturali perché egli è autore e principio di ogni natura. Infine le cause volontarie sono o di Dio o degli angeli o degli uomini o anche dei vari animali se tuttavia si possono considerare volontà i movimenti di anime prive di ragione con cui esse, nell'appetire o fuggire, compiono azioni secondo la propria natura. Quando parlo della volontà degli angeli, intendo tanto di quelli buoni che chiamiamo semplicemente angeli di Dio come di quelli cattivi che chiamiamo angeli del diavolo o anche demoni. Altrettanto si dica degli uomini, tanto dei buoni come dei cattivi. Se ne conclude che le cause efficienti di tutti i fenomeni non sono che volontarie, cioè di quell'essere che è spirito di vita. Anche l'aria o vento è detto spirito, ma poiché è corpo non è spirito di vita. Lo spirito di vita che vivifica tutto ed è creatore dell'universo corporeo e dell'universo spirituale creato è Dio, cioè lo spirito non creato. Nel suo volere è il sommo influsso causale, perché esso aiuta le volontà buone degli spiriti creati, giudica le cattive, le ordina tutte e ad alcune concede gli influssi causali, ad altre no. Come è creatore di tutte le nature, così è datore di tutti gli influssi causali ma non di tutti i voleri. Il volere cattivo infatti non è da lui perché è contro la natura che è da lui. I corpi quindi sono maggiormente soggetti alla volontà, alcuni alla nostra, cioè di tutti i viventi mortali e maggiormente degli uomini che delle bestie, alcuni alla volontà degli angeli, ma tutti sono principalmente soggetti alla volontà di Dio, alla quale sono soggette anche tutte le volontà, perché hanno soltanto l'influsso causale che egli concede. Dio è dunque causa efficiente e non fatta delle cose, le altre cause invece sono efficienti e fatte, come tutti gli spiriti creati e soprattutto quelli ragionevoli. Le cause corporee che sono più fatte che efficienti non sono da considerare fra le cause efficienti, perché influiscono soltanto sulla cosa che la volontà degli spiriti da esse produce. In qual modo dunque la serie delle cause, che è determinata nella prescienza di Dio, farebbe sì che nulla sia in potere della nostra volontà, quando le nostre volontà hanno un ruolo importante nella serie delle cause stesse?. Cicerone dunque se la prenda con i filosofi che considerano fatale la serie delle cause, anzi la chiamano fato. Noi respingiamo il fato soprattutto in vista della parola che si è soliti intendere nel significato non vero. Per il fatto poi che la serie delle cause è sommamente determinata e nota alla prescienza di Dio, riproviamo Cicerone più noi cristiani che gli stoici. Infatti o nega l'esistenza di Dio, cosa che ha tentato di fare nei libri Sulla natura degli dèi affidando l'incarico a un altro; o se ammette l'esistenza di Dio, pur negandone la prescienza del futuro, anche così fa la medesima affermazione dello sciocco che ha detto in cuor suo: Dio non esiste 23. Un essere che non ha prescienza di tutti gli eventi futuri, certamente non è Dio. Pertanto le nostre volontà hanno l'influsso causale nei limiti che Dio ha voluto con la sua prescienza. Quindi l'influsso causale che hanno, lo hanno infallibilmente e tutto ciò che causeranno lo causeranno esse stesse, perché colui, la cui prescienza non può fallire, ha determinato che avessero influsso causale e che causassero. Quindi se avessi voglia di applicare il nome di fato a una cosa, preferirei dire che il fato del meno efficiente è la volontà del più efficiente che lo ha in potere, anziché dire che è tolto l'arbitrio della nostra volontà con quella serie di cause che gli stoici non nel significato comune ma con un loro significato chiamano fato.

Coesistenza di necessità e libertà...
10. 1. Pertanto non si deve avere tanta paura della necessità. Avendone paura gli stoici si affaticarono a distinguere le cause delle cose in maniera da esimerne alcune dalla necessità e di assoggettarne altre. Fra quelle che considerarono libere dalla necessità hanno posto anche le nostre volontà perché non sarebbero libere se fossero soggette alla necessità. Se si deve considerare nostra necessità la condizione che non è in nostro potere e che, anche se noi non vogliamo, effettua ciò che è in suo potere, come è la necessità della morte, è chiaro che la nostra volontà, con cui si vive autenticamente o banalmente, non è soggetta a una necessità di questo tipo. Infatti compiamo molte azioni che non compiremmo se non volessimo. A questa categoria appartiene il volere stesso perché, se vogliamo, esiste, se non vogliamo, non esiste. Non vorremmo se non volessimo. Se al contrario necessità significa la condizione con cui s'intende che è necessario che una cosa abbia questa essenza o avvenga in questo modo, non capisco perché si teme che ci tolga la libertà del volere. Infatti non s'intende considerare soggetta alla necessità la vita e la prescienza di Dio, se si afferma la necessità che Dio vive nell'eternità e che ha prescienza di tutto. Allo stesso modo non si diminuisce il suo potere quando si dice che egli non può morire e ingannarsi. Non lo può appunto perché se lo potesse avrebbe minor potere. Eppure con ragione si dice che è onnipotente sebbene non possa morire e ingannarsi. Si dice onnipotente perché fa ciò che vuole, non perché subisce ciò che non vuole; se questo si verificasse in lui, non sarebbe affatto onnipotente. E appunto perché è onnipotente non può alcune cose. Affermare che necessariamente, quando si vuole, si vuole con il libero arbitrio è senza dubbio affermare il vero, ma non per questo il libero arbitrio si considera soggetto alla necessità che toglie la libertà. C'è dunque una nostra volontà ed essa è causa efficiente di ogni azione che si compie volendo e che non sarebbe compiuta se non si volesse. Ed anche se un individuo subisce senza volere un'azione dalla volontà degli altri, anche in questo caso la volontà influisce sebbene non la sua, comunque volontà umana, ma il potere è di Dio. Infatti se fosse soltanto volontà e non potesse ciò che vuole, sarebbe impedita da una volontà superiore, ma anche in questo caso la volontà rimane volontà e non di un altro ma di colui che vuole, anche se non può effettuare ciò che vuole. Ne consegue che non deve attribuire l'influsso che subisce indipendentemente dal proprio volere a volontà umane o angeliche o di altro spirito creato ma di colui che concede di influire a chi usa la volontà.

...di libertà e prescienza divina.
10. 2. Dunque non perché Dio ha conosciuto per prescienza ciò che avverrà nella nostra volontà, non si dà nulla in potere della nostra volontà. Infatti se ha previsto questo fatto, ha previsto qualche cosa. Quindi se colui che ha previsto ciò che sarebbe avvenuto nella nostra volontà, non ha previsto un nulla ma qualche cosa; certamente anche se egli ne ha prescienza, c'è qualcosa in potere della nostra volontà. Pertanto non si è costretti o affermando la prescienza di Dio a negare l'arbitrio della volontà o affermando l'arbitrio della volontà a negare che Dio è presciente del futuro. Sarebbe questa un'affermazione empia. Noi cristiani accettiamo l'uno e l'altro, affermiamo per fede e ragione l'uno e l'altro, la prescienza per creder bene, l'arbitrio per viver bene. Si vive male se di Dio non si pensa bene. Per volere liberamente non si deve negare la sua prescienza, perché col suo aiuto siamo o saremo liberi. Quindi non è inutile che vi siano le leggi, le punizioni, i consigli, le lodi e i rimproveri, perché Dio ha conosciuto per prescienza che si sarebbero verificati; inoltre influiscono moltissimo nei limiti in cui egli ha conosciuto per prescienza che avrebbero influito. Così influiscono le preghiere per ottenere i favori che egli ha conosciuto per prescienza di concedere a chi prega; e giustamente sono stati stabiliti premi per le buone azioni e castighi per i peccati. Ma l'uomo non pecca perché Dio ha conosciuto per prescienza che avrebbe peccato. Anzi è innegabile che pecca, quando pecca, perché Dio, la cui prescienza non può fallire, non ha conosciuto per prescienza che il destino, o il caso o altro di simile, ma che proprio lui avrebbe peccato. Se non vuole non pecca, ma se non vorrà peccare, anche questo Dio ha conosciuto per prescienza.

Dio è l'universale provvidenza.
11. Dunque il Dio sommo e vero con il Verbo e con lo Spirito Santo, che sono una sola essenza in tre persone, è un solo Dio onnipotente, creatore e fattore dell'universo spirituale e sensibile. Partecipando di lui sono felici tutti gli esseri che sono felici nella verità e non nella menzogna. Egli ha creato l'uomo come animale ragionevole composto di anima e di corpo e non ha permesso che dopo il peccato rimanesse impunito ma non lo ha privato della sua misericordia. Ha concesso ai buoni e ai cattivi l'essere comune con le pietre, la vita del seme comune con gli alberi, la vita del senso comune con le bestie, la vita dell'intelligenza comune con i soli angeli. Da lui sono ogni misura, ogni bellezza, ogni ordine, la proporzione, il numero e il peso. Da lui è ogni essere secondo la propria natura, di qualsiasi genere, di qualsiasi valore. Da lui sono i semi delle forme e le forme dei semi e il divenire dei semi e delle forme. Anche alla carne egli ha dato l'origine, la bellezza, il vigore, la fecondità per la propagazione, la struttura delle membra, il benessere organico. Anche all'anima irragionevole ha dato la memoria, il senso e l'appetito e a quella ragionevole la mente, l'intelligenza e la volontà. Egli non ha lasciato senza l'armonia e quasi la pace delle parti non solo il cielo e la terra, l'angelo e l'uomo, ma anche l'interno di un piccolo e insignificante animale, la piuma di un uccello, il fiore dell'erba, la foglia dell'albero. Quindi non si deve assolutamente pensare che abbia voluto rendere estranei alle leggi della sua provvidenza i regni umani, i loro domini e soggezioni.

Confronto fra la visione irrazionalista e razionalista (12-26)

Virtù civili dei Romani: amore alla libertà.
12. 1. Ed ora esaminiamo le virtù civili dei Romani che il vero Dio ha voluto favorire per l'ingrandimento dell'impero e quale ne è la ragione, poiché in suo potere sono tutti i regni terreni. Per poterne trattare più esaurientemente, ho scritto, in aderenza all'argomento, il libro precedente, in quanto gli dèi, che i Romani hanno ritenuto di dover adorare anche per banali interessi, non hanno alcun potere in questo settore. Ho premesso anche la prima parte di questo libro fino a questo punto per definire la questione del fato, affinché chi fosse convinto che l'impero non si era ingrandito e conservato mediante il culto degli dèi non attribuisse il fatto a non saprei quale destino piuttosto che alla volontà altamente potente del sommo Dio. Ora i più antichi Romani, stando a quanto insegna e ricorda la loro storia, sebbene adorassero falsi dèi e sacrificassero non a Dio ma ai demoni, come gli altri popoli eccetto il popolo ebraico, tuttavia erano desiderosi di lode e non attaccati al guadagno, volevano una grande gloria e una dignitosa ricchezza 24. Amarono la gloria ardentemente, per essa vollero vivere, per essa non esitarono a morire, repressero le altre passioni nella veemente passione della sola gloria. E poiché ritenevano inglorioso essere soggetti e glorioso assoggettare col dominio, desiderarono che la loro patria fosse dapprima libera e poi dominatrice. Per questo motivo non tollerando il dominio dei re, costituirono annuali le cariche del comando e due capi 25. Essi furono chiamati consoli da consigliare e non re o signori da regnare e signoreggiare 26. E sebbene i re, come sembra, siano denominati da reggere come il regno dai re e i re, come è stato detto, da reggere, tuttavia l'orgoglio regale fu considerato non l'esercizio del potere di chi regge o la benevolenza di chi consiglia ma la superbia di chi la fa da padrone. Perciò dopo l'espulsione di Tarquinio e la costituzione del consolato si verificò ciò che il citato autore scrisse in lode dei Romani: È incredibile quanto progredì la città col conseguimento della libertà, perché era sopravvenuta la grande passione della gloria 27. Dunque il desiderio di lode e la passione della gloria produssero opere degne di ammirazione, cioè lodevoli e gloriose secondo la valutazione umana.

L'ambizione al potere e alla gloria in Cesare...
12. 2. Il citato Sallustio esalta come grandi e illustri uomini del suo tempo Marco Catone e Caio Cesare. Dice che da tempo lo Stato non aveva avuto un individuo eccellente per valore ma che al suo tempo si ebbero quei due di grande valore, sebbene di diverse attitudini. A lode di Cesare ricorda che ambiva per sé un forte dominio, un esercito e una nuova guerra, durante la quale potesse segnalarsi il suo valore. C'era dunque nell'ambizione degli individui valorosi che Bellona spingesse alla guerra popoli disgraziati e li sconvolgesse in una sventura sanguinosa perché si presentasse l'occasione in cui emergesse il valore degli individui. Lo esigevano certamente il desiderio di lode e la passione della gloria. I Romani perciò compirono grandi imprese dapprima per amore della libertà e poi anche del dominio e per la passione della lode e della gloria. Un loro insigne poeta rende loro testimonianza dell'uno e dell'altro; ha cantato: Porsenna ingiungeva di riammettere l'espulso Tarquinio e assediava Roma con un grande esercito. I discendenti di Enea accorrevano alla guerra per la difesa della libertà 28. In quel tempo quindi considerarono grandezza o morire da forti o vivere liberi. Ma conseguita la libertà era sopraggiunta una così grande passione della gloria che diveniva trascurabile la sola libertà, se non si cercava anche il dominio. Si considerava grande il sentimento che il medesimo poeta esprime facendo parlare Giove: Anzi la spietata Giunone, che ora sconvolge col timore mare, terra e cielo, muterà in meglio le proprie intenzioni e favorirà con me i Romani padroni del mondo e gente togata. Così ho disposto. Col passare degli anni verrà un tempo, in cui i discendenti di Assaraco assoggetteranno Ftia e la illustre Micene e signoreggeranno sui Greci vinti 29. Ovviamente Virgilio facendo prevedere da Giove come futuri questi eventi, li rievocava come passati o li osservava come presenti. Comunque io ho voluto richiamarli per mostrare appunto che dopo la libertà i Romani considerarono il dominio in maniera tale che apparisse fra le lodi loro dovute. Da qui deriva la concezione del medesimo poeta di considerare superiori alle arti delle altre genti le attività proprie dei Romani, del reggere col dominio e di sottomettere con la guerra. Ha cantato: Gli altri scolpiranno con maggiore delicatezza i bronzi che sembrano respirare, lo ammetto, faranno uscire dal marmo dei volti vivi, difenderanno meglio le cause, tracceranno in un cerchio i movimenti del cielo e definiranno il sorgere degli astri. Tu, o Romano, ricordati, poiché queste sono le tue arti, di reggere i popoli col dominio, d'imporre le condizioni della pace, di risparmiare i soggetti e di sconfiggere i ribelli 30.

... e negli inetti.
12. 3. Esercitavano queste arti con tanto maggior bravura quanto meno si davano ai piaceri e all'infiacchimento spirituale e fisico nel procacciarsi e aumentare le ricchezze e nel rendere con esse depravati i costumi rubando ai cittadini onesti e largheggiando con gli attori disonesti. Pertanto giacché la depravazione morale, quando Sallustio scriveva e Virgilio cantava questi fatti, aveva il pieno sopravvento, ambivano cariche onorifiche e gloria non con le arti del potere ma con brogli fraudolenti. Perciò scrive il citato Sallustio: Dapprima più l'ambizione che l'avarizia travolgeva la coscienza degli individui. Tuttavia il vizio dell'ambizione è molto vicino alla virtù. Infatti tanto la persona capace che l'inetta cercano di procacciarsi gloria, onore e potere, ma il primo vi tende per la via giusta, l'altro, giacché gli mancano le buone arti, vi aspira con i brogli fraudolenti 31. Sono queste le buone arti: il raggiungere, cioè, l'onore, la gloria e il potere mediante la virtù e non mediante l'ambizione; tuttavia tanto la persona capace che l'inetta si affannano a raggiungerli, ma quegli, cioè la persona capace, vi tende per la via giusta. La via è la virtù con cui si tende come alla mèta del conseguimento, cioè alla gloria, all'onore e al potere. Che i Romani avessero innato questo sentimento lo indicano nella loro città anche i tempietti, costruiti appunto in contiguità, degli dèi Virtù e Onore 32, sebbene considerassero dèi i doni di Dio. Dal fatto è possibile capire quale, secondo le loro intenzioni, fosse la mèta della virtù e a che cosa la riferivano quelli che erano buoni, cioè all'onore. I cattivi non avevano la virtù, sebbene bramassero conseguire l'onore che tentavano di conquistare con le cattive arti, cioè con i brogli fraudolenti.

Virtù e gloria in Catone l'Uticense.
12. 4. Più distintamente è stato esaltato Catone. Di lui ha detto Sallustio: Quando meno cercava la gloria, tanto più essa lo seguiva 33. Ma se la gloria, della cui passione ardevano, è il giudizio di individui che hanno una buona opinione di altri, è migliore la virtù che non è contenta del riconoscimento umano, salvo quello della propria coscienza. Per questo dice l'Apostolo: La nostra gloria è questa, il riconoscimento della nostra coscienza 34; e in un altro passo: Ciascuno esamini la propria azione e allora avrà gloria soltanto in se stesso e non in un altro 35. Dunque la virtù non deve seguire la gloria, l'onore e il potere, cui i Romani aspiravano e che i buoni tendevano a raggiungere con le buone arti, ma questi beni devono seguire la virtù. Infatti non è vera virtù se non tende a quel fine che è per l'uomo il bene ottimo. Quindi Catone non avrebbe dovuto aspirare alle cariche onorifiche, cui aspirò, ma lo Stato avrebbe dovuto conferirgliele anche se non vi aspirava.

Concetto di virtù civile in Catone.
12. 5. Ma dato che nel ricordo di Sallustio i due Romani, Cesare e Catone, furono grandi per virtù, la virtù di Catone, a mio parere, fu molto più vicina di quella di Cesare al suo vero significato. Pertanto ascoltiamo dalle parole stesse di Catone la condizione dello Stato in quel tempo e anteriormente. Non crediate, egli dice, che i nostri antenati hanno con le armi reso grande lo Stato da piccolo che era. Se così fosse, ne avremmo uno molto più perfetto. Noi infatti abbiamo nei confronti degli antenati un numero più grande di cittadini e di alleati, di armi e di cavalli. Ma furono altre le doti che li resero grandi e che a noi mancano: l'operosità in privato, una giusta amministrazione in pubblico, l'animo libero nelle decisioni, non soggetto alla delinquenza e alla passione. Al loro posto noi abbiamo la dissolutezza e l'avarizia, nell'amministrazione dello Stato il dissesto, in quella privata l'abbondanza. Apprezziamo la ricchezza e facciamo l'ozio, non esiste distinzione fra onesti e disonesti, l'ambizione usurpa le prerogative della virtù. Non c'è da meravigliarsene. Quando voi deliberate nella prospettiva dei vari individualismi, quando in privato vi rendete schiavi dei piaceri e in pubblico del lucro e dei favoritismi, ne consegue un assalto allo Stato privo di difensori 36.

La virtù e il valore dei pochi.
12. 6. Chi ascolta le parole di Catone o meglio di Sallustio pensa che tutti gli antichi Romani o molti di loro fossero tali quali vengono esaltati. Non è così; altrimenti non sarebbero veri i fatti che lo stesso Sallustio narra e che io ho ricordato nel secondo libro di quest'opera 37. Egli afferma in quei passi che le ingiustizie dei potenti e a causa di esse la secessione della plebe dai patrizi e le altre discordie si ebbero in città fin dal principio. Si amministrò, aggiunge, con diritto equo e moderato non più a lungo del periodo in cui, con l'espulsione dei re, si ebbe il timore proveniente da Tarquinio, finché, cioè, non finì la grave guerra che per colpa di lui era stata intrapresa con l'Etruria. In seguito i patrizi trattarono la plebe da schiava, l'afflissero con un potere regale, la privarono dei campi e amministrarono da soli lo Stato con l'esclusione degli altri 38. Queste discordie, rinfocolate perché gli uni volevano dominare e gli altri non volevano sottostare, ebbero fine con la seconda guerra punica, perché un nuovo grave timore cominciò a incalzare e a frenare, a causa di un'altra più grave preoccupazione, gli spiriti inquieti dalle turbolenze, e a richiamarli alla concordia civica. Ma i grandi successi si ottennero per l'opera di pochi individui, onesti nel loro limite, sicché, affrontata e superata la difficile situazione mediante l'accortezza di poche persone dabbene, lo Stato progredì. Il medesimo storico confessa che, quando leggeva o udiva le molte celebri imprese compiute dal popolo romano in pace e in guerra, in guerre navali e terrestri, amava rivolgere l'attenzione sulla forza che aveva portato a compimento opere tanto grandi 39. Sapeva infatti che spesso una piccola schiera di Romani si era battuta con potenti legioni nemiche, aveva conosciuto le guerre compiute da soldati sprovvisti con regni forniti di mezzi. A forza di pensare, egli confessa, ha dovuto concludere che l'eccellente valore di pochi cittadini aveva realizzato tutte queste opere col risultato che la povertà aveva superato la ricchezza, i pochi avevano sconfitto i molti. Ma dopo che, soggiunge, la città fu depravata dal lusso e dall'inerzia, di nuovo lo Stato doveva mantenere con la propria grandezza i vizi dei capi e dei magistrati 40. Dunque anche da Catone è stata lodata la virtù dei pochi che aspiravano alla gloria, all'onore e al potere per la via giusta, cioè la stessa virtù. Da essa derivava l'operosità in privato, ricordata da Catone, in modo che l'erario fosse fornito e modeste le sostanze private. Per conseguenza, con la depravazione dei costumi, il vizio contrappose in pubblico la miseria e in privato l'abbondanza 41.

La gloria e l'eroe pagano.
13. Per la qual cosa dopo la lunga durata degli illustri imperi dell'Oriente Dio volle che se ne formasse uno occidentale il quale, pur essendo posteriore nel tempo, fosse più illustre per l'estensione e la grandezza del dominio. Per punire la grave immoralità di molti popoli lo concesse di preferenza a individui che nella prospettiva dell'onore, della fama e della gloria provvidero alla patria, in cui aspiravano alla gloria stessa. Essi non dubitarono di anteporre la sua salvezza alla propria perché reprimevano il desiderio del guadagno e molti altri vizi per soddisfare questo solo vizio, cioè l'amore della fama. A proposito pensa più giustamente chi riconosce come vizio anche l'amore della fama. Il motivo non sfuggì neanche al poeta Orazio che dice: Se sei gonfio dell'amore alla fama, ci sono mezzi di purificazione che potranno rinnovarti; basta che leggi con animo schietto per tre volte un piccolo libro 42. E in un'ode così ha cantato per reprimere la brama sulla passione del potere: Dominerai su una estensione più vasta se domerai lo spirito avido che se unissi la Libia al territorio di Cadice e se fossero soggetti soltanto a te i Fenici e i Cartaginesi 43. Tuttavia coloro che non frenano le passioni più turpi con la fede religiosa mediante la partecipazione dello Spirito Santo e con l'amore della bellezza ideale, ma almeno col desiderio della fama e della gloria, non sono certamente santi ma meno disonesti. Anche Cicerone non ha potuto tacere sull'argomento nei citati libri Della repubblica, là dove parla della formazione del capo dello Stato. Afferma che egli deve essere nutrito di gloria e in seguito ricorda che i propri antenati per il desiderio della gloria compirono azioni degne di alta ammirazione 44. Quindi non solo non resistevano a questo vizio, anzi ritenevano di doverlo stimolare e accendere, perché pensavano che fosse utile per lo Stato. Ed anche nelle opere filosofiche Cicerone non passa sotto silenzio questa imperfezione, anzi ne parla apertamente. Trattando appunto degli studi filosofici che si devono seguire con lo scopo del vero bene e non per l'orgoglio della fama, espresse questa opinione che era quella di tutti: L'onore alimenta le arti e dalla gloria tutti sono stimolati alle varie attività e saranno sempre neglette quelle attività che sono disapprovate dall'opinione pubblica 45.
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