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LA CITTA' DI DIO di sant'Agostino - Libri VII - XI (2)

Ultimo Aggiornamento: 22/12/2012 19:37
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22/12/2012 19:23

LIBRO IX

SOMMARIO

1. Il punto a cui è giunta la trattazione già svolta e gli argomenti che rimangono per la ricerca che segue.

2. Se fra i demoni, ai quali gli dèi sono superiori, vi sia una parte di buoni col cui aiuto l'anima umana possa giungere alla vera felicità.

3. Le caratteristiche dei demoni secondo Apuleio, con la precisazione che non nega loro il pensiero ma non assegna alcuna virtù.

4. La dottrina dei peripatetici e stoici sulle passioni dello spirito.

5. I sentimenti che influiscono sulla coscienza cristiana non trascinano al vizio ma allenano alla virtù.

6. Per dichiarazione di Apuleio i demoni sono agitati da passioni; eppure afferma che gli uomini sono aiutati dal loro intervento.

7. I platonici affermano che gli dèi sono insultati dalle favole dei poeti nel contrasto di opposti interessi giacché quei ruoli sono propri dei demoni e non degli dèi.

8. La teoria del platonico Apuleio sugli dèi celesti, i demoni aeriformi e gli uomini terreni.

9. L'amicizia degli dèi del cielo non può essere assicurata all'uomo per l'intercessione dei demoni.

10. Secondo l'opinione di Plotino sono meno infelici gli uomini in un corpo corruttibile che i demoni in uno incorruttibile.

11. Fondandosi sulla loro dottrina i platonici ritengono che le anime degli uomini dopo la vita terrena diventano demoni.

12. Le tre coppie di contrari con cui secondo i platonici si distingue la natura dei demoni da quella degli uomini.

13. Non esiste una misura per cui i demoni, se non sono felici con gli dèi né infelici con gli uomini, stiano di mezzo tra l'una e l'altra parte senza partecipare dell'una e dell'altra.

14. Se gli uomini, essendo soggetti a morte, possono essere felici della vera felicità.

15. Il Mediatore di Dio e degli uomini, l'uomo Cristo Gesù.

16. Se ragionevolmente i platonici abbiano stabilito che gli dèi celesti non comunichino con gli uomini perché fuggono le contaminazioni terrene e poi i demoni aiuterebbero gli uomini a conseguire l'amicizia con gli dèi.

17. Per conseguire la felicità, che consiste nella partecipazione della vita eterna, l'uomo non ha bisogno di un mediatore qual è il demone ma qual è Cristo soltanto.

18. La falsità dei demoni, nel promettere la via al dio con la propria intercessione, ottiene di allontanare gli uomini dalla via della verità.

19. L'appellativo di demoni non significa niente di buono anche presso i loro adoratori.

20. Il genere di scienza che rende superbi i demoni.

21. Fino a un certo limite il Signore ha voluto farsi riconoscere dai demoni.

22. La differenza fra la scienza dei santi angeli e la scienza dei demoni.

23. L'appellativo di dèi erroneamente si attribuisce agli dèi del paganesimo, sebbene è esteso agli angeli santi e agli uomini dall'autorità della Scrittura.


Libro nono
POLITEISMO, CRISTIANESIMO E MEDIAZIONE



Premessa e compendio (1-2)


Riassunto delle opinioni su dèi buoni e cattivi.
1. Alcuni hanno opinato che esistono dèi buoni e cattivi, altri invece pensando più rettamente degli dèi hanno assegnato loro un onore e una lode tanto grandi che non osarono sostenere la malvagità di qualcuno degli dèi. Ma coloro i quali hanno affermato che alcuni dèi sono buoni, altri cattivi 1, hanno esteso il concetto di dèi anche ai demoni, sebbene, ma più raramente, anche il concetto di demoni agli dèi. Riconoscono perfino che Giove stesso, considerato re e capo degli altri, sia stato da Omero considerato un demone 2. Coloro, i quali sostengono che gli dèi non possono essere che buoni e molto più perfetti di quegli uomini che sono giudicati buoni, sono giustamente turbati da certe azioni dei demoni che non possono negare. Giudicando impossibile che esse siano compiute dagli dèi, che ritengono tutti buoni, sono costretti a introdurre una differenza fra dèi e demoni. Quindi sostengono che è di demoni e non di dèi tutto ciò che disapprovano nelle azioni e nei sentimenti disonesti con cui gli spiriti occulti manifestano il proprio potere. Ma i pagani, supponendo che nessun uomo può comunicare col dio, affermano che i demoni siano stati stabiliti come intermediari tra gli uomini e gli dèi per portare dal basso le richieste e riportare dall'alto i favori accordati. La pensano così anche i platonici, i più eccellenti e illustri filosofi. Proprio con essi, come i più eminenti, ho deciso di esaminare il problema, se il culto di molti dèi giovi per conseguire la vita felice che si avrà dopo la morte. Nel libro precedente ho preso in considerazione che i demoni godono di fatti che gli onesti e i saggi sdegnano e condannano, cioè delle sacrileghe, scandalose e oscene favole dei poeti, e non nei confronti di un uomo qualunque ma degli dèi stessi, e della scellerata e colpevole profanazione delle arti magiche. Ci si è chiesto dunque in che modo essi, come più vicini e più amici, possano rendere graditi gli uomini buoni agli dèi buoni. Si è concluso che è assolutamente impossibile.

Qual è l'argomento del libro.
2. Quindi questo libro, come ho promesso alla fine del precedente, dovrà contenere la trattazione sulla differenza, se ne propongono alcuna, non degli dèi fra di loro perché, secondo i platonici, sono tutti buoni, non sulla differenza fra dèi e demoni perché considerano gli dèi molto lontani e superiori agli uomini e i demoni intermediari fra gli dèi e gli uomini, ma sulla differenza fra i demoni stessi. È questo l'argomento della presente trattazione. In molti è abituale il discorso che i demoni siano alcuni buoni e altri cattivi. E se l'opinione è anche dei platonici o di altri filosofi, non si deve evitare di sottoporla ad esame. Non deve avvenire infatti che qualcuno ritenga di dover fidarsi di demoni che suppone buoni e mentre intende ed aspira, con essi come intermediari, di rendersi gradito agli dèi che ritiene tutti buoni per poterli raggiungere dopo la morte, accalappiato e ingannato dalle fandonie di spiriti malvagi, si allontani dal vero Dio. Con lui solo infatti, in lui solo, da lui solo l'anima umana, cioè ragionevole e intelligente, è felice.

Demoni soggetti alla passione (3-11)

Soggezione dei dèmoni alla passione.
3. Dunque quale differenza esiste fra demoni buoni e cattivi? Il platonico Apuleio, che ne ha trattato in generale e ha parlato a lungo dei loro corpi aeriformi, non ha parlato affatto delle loro virtù spirituali. Eppure ne sarebbero forniti se fossero buoni. Non ha parlato dunque della causa della felicità, ma non ha potuto non dare una indicazione della loro infelicità. Ha ammesso infatti che la loro mente, con la quale a sentir lui sono esseri ragionevoli, non essendo per lo meno penetrata e fortificata dalla virtù, cede alle irragionevoli passioni dell'animo e anche essa, come avviene nella condotta delle coscienze insipienti, è agitata in certo senso da tempestose passioni. Le sue parole sull'argomento sono queste. Riferendosi a questa categoria di demoni, i poeti, senza discostarsi dalla verità, sogliono immaginare che gli dèi siano nemici e amici di alcuni uomini, che favoriscano ed esaltino alcuni, sdegnino e deprimano altri, che sentano dunque compassione e collera, angoscia e gioia, che subiscano ogni mutamento dell'animo umano, che nel mutare del sentimento e nel mareggiare dello spirito siano agitati attraverso tutti i flutti dei pensieri. Tutti questi turbamenti e tempeste sono ben lontani dalla serenità degli dèi celesti 3. Con queste parole egli ha voluto indicare, non v'è alcun dubbio, che non la parte inferiore dell'animo ma la mente stessa dei demoni, per cui sono esseri animati e ragionevoli, viene sconvolta dalla tempesta delle passioni come un mare agitato. Non si possono quindi paragonare neanche ai saggi, perché questi resistono con la mente imperturbata a simili turbamenti della psiche dai quali non è esente l'umana debolezza, anche quando li provano a causa della soggezione della vita presente. I saggi infatti non cedono ai perturbamenti nel considerare onesta o compiere un'azione che devii dal cammino della saggezza e dalla legge della giustizia. I demoni, al contrario, sono simili non nel corpo ma nella condotta ai mortali insipienti e ingiusti, per non dire peggiori, in quanto più inveterati e incurabili a causa della pena dovuta; sono agitati nel mareggiare della mente stessa, come ha detto Apuleio, e in nessuna parte dello spirito trovano la fermezza nell'ideale di virtù con cui si resiste ai movimenti inquieti e disordinati.

Dottrina filosofica sulle passioni.
4. 1. Due sono le opinioni dei filosofi sui movimenti della psiche che i Greci chiamano , dei nostri alcuni, come Cicerone 4, perturbazioni, altri affezioni o affetti 5, altri infine, come Apuleio 6, con maggiore aderenza al greco, passioni. Alcuni filosofi dunque affermano che simili perturbazioni o affezioni o passioni si verificano anche nel saggio, ma ridotte a misura e sottomesse alla ragione, in modo che il dominio della mente imponga in una determinata misura le leggi con cui siano ricondotte alla necessaria misura. Coloro che la pensano così sono i platonici o anche aristotelici, dato che Aristotele, fondatore della scuola peripatetica, fu discepolo di Platone. Altri invece come gli stoici insegnano che nel saggio non si devono assolutamente avere simili passioni. Ma Cicerone nei libri su I limiti del bene e del male dimostra a costoro, cioè agli stoici, che si battono contro platonici e aristotelici più a parole che a concetti 7. Gli stoici infatti si rifiutano di considerare le passioni come un bene, ma le considerano come un benessere fisico e deteriore perché, secondo loro, bene per l'uomo è soltanto la virtù, come regola della morale che è esclusivamente nella coscienza. Al contrario, i platonici le considerano un bene in senso largo e secondo il comune modo di esprimersi, ma le considerano un bene insignificante e di poco conto nel confronto con la virtù mediante la quale si vive rettamente. Ne consegue che comunque siano chiamate dagli uni e dagli altri, o bene o benessere, sono valutate con eguale criterio e che sull'argomento gli stoici si prendono la soddisfazione di una terminologia nuova. Mi sembra dunque che anche sul problema se si hanno nel saggio le passioni o ne sia del tutto immune facciano questione più di parole che di concetti. A mio avviso la pensano proprio come platonici e peripatetici per quanto attiene al significato dei concetti e non al suono delle parole.

Lo stoico in pericolo in Gellio.
4. 2. Ometto altre considerazioni che valgano a dimostrarlo per non farla lunga. Mi limito a fare una osservazione che sia veramente evidente. Nei libri intitolati Le notti attiche, Aulo Gellio, buon letterato e uomo di vasta cultura, narra di avere una volta viaggiato per mare con un noto filosofo stoico. Gellio racconta diffusamente e con molti particolari l'episodio che io esporrò brevemente 8. Lo stoico, poiché la nave era sbattuta con grave pericolo dal mare in orribile tempesta, divenne pallido di paura. Il fatto fu notato dai presenti che osservavano con molta curiosità, sebbene fossero in prossimità della morte, se il filosofo fosse turbato o no. Passata la burrasca, appena la cessazione del pericolo offrì l'opportunità di parlare o anche di chiacchierare, uno dei viaggiatori, un ricco dissoluto dell'Asia, apostrofa il filosofo schernendolo perché era impallidito dalla paura, mentre egli era rimasto intrepido nella sciagura imminente. E quegli gli diede la risposta di Aristippo, discepolo di Socrate, il quale, avendo in una circostanza simile udite le medesime parole da un individuo della medesima risma, rispose che l'altro giustamente non si era preoccupato per la vita di un dissoluto fannullone, lui invece doveva temere per la vita di Aristippo. Avuta questa risposta il riccone se la batté. Allora A. Gellio chiese al filosofo, non con l'intenzione di umiliarlo ma di apprendere, quale fosse il motivo della sua paura. Ed egli per insegnare a un individuo profondamente preso dal desiderio di sapere, tirò subito fuori da un suo fagotto il libro dello stoico Epitteto. Vi erano esposte le dottrine che corrispondevano più a fondo agli insegnamenti di Zenone e di Crisippo che, come sappiamo, furono i capi degli stoici. Gellio dice di aver letto in quel libro la seguente dottrina stoica. Le rappresentazioni, che essi chiamano fantasie, quando provengono da fenomeni terrificanti e paurosi, non dipendono da noi nel modo e nel tempo in cui si hanno nella coscienza. È necessario quindi che turbino anche la coscienza del saggio, in modo che per un po' tremi di paura o sia afflitto dalla tristezza, nel senso che queste passioni precorrono la funzione della mente e della ragione; ma non per questo nella mente si ha l'accettazione del male, né le passioni si ritengono oneste o ad esse si consente. Questo, secondo loro, dipende da noi e a loro avviso la differenza fra la coscienza del saggio e quella dell'insipiente consiste nel fatto che la coscienza dell'insipiente cede alle passioni applicando ad esse l'assenso della mente, mentre la coscienza del saggio, sebbene le tolleri perché ineluttabili, conserva con la fermezza dello spirito una vera e coerente valutazione delle cose che si devono desiderare o evitare secondo ragione. Ho esposto queste notizie non certo più esaurientemente di A. Gellio ma, a mio avviso, più brevemente e più chiaramente. Egli dichiara di averle lette nel libro di Epitteto che a sua volta le avrebbe esposte in conformità agli insegnamenti degli stoici.

I filosofi concordano sul concetto di serenità.
4. 3. Se le cose stanno così, non si ha alcuna o una minima differenza fra la teoria degli stoici e quella degli altri filosofi sulle passioni e le perturbazioni dell'anima. In definitiva gli uni e gli altri sostengono che la facoltà spirituale del saggio è immune dal loro dominio. E forse gli stoici dicono che esse non si hanno nell'animo del saggio perché non offuscano con l'errore e non eliminano con la colpa la saggezza per cui è saggio. Ma in verità le passioni, salva la serenità della saggezza, si hanno nell'animo del saggio a causa di quelli che gli stoici definiscono benessere o malessere, sebbene preferiscano non chiamarli bene e male 9. Certamente se quel filosofo non avesse tenuto in considerazione i beni che, come prevedeva, avrebbe perduto col naufragio, come sono la vita e il benessere fisico, non avrebbe avuto paura del pericolo al punto di esternarla col pallore. Tuttavia poteva anche inibire il turbamento e tener fisso nella mente il criterio che la vita e la salute fisica, minacciate dalla violenza della tempesta, non sono beni che rendono buoni coloro che li hanno come fa la giustizia. L'affermare poi che non si devono considerare un bene ma un benessere si deve attribuire a una contesa di parole e non alla interpretazione dei concetti. Che differenza fa se siano chiamati con maggiore proprietà un bene ovvero un benessere se hanno timore e paura di esserne privi tanto lo stoico che il peripatetico? Alla fin fine li denominano in maniera diversa ma li valutano alla stessa maniera. Tutti e due infatti, se siano spinti dai rischi di questo bene o benessere a una colpa o a una cattiva azione, sicché non sia loro possibile conservarli in altra maniera, affermano che preferiscono perderli perché con essi si conserva e si rende incolume l'essere fisico, anziché commettere azioni con cui si viola la giustizia. In tal modo la mente, in cui è incrollabile questo criterio, non permette che in se stessa le perturbazioni, anche se si verificano nella parte inferiore dell'anima, prendano il sopravvento contro la ragione. Anzi essa le domina e non consentendo e piuttosto resistendo loro esercita l'impero della virtù. Anche Virgilio descrive così Enea con le parole: La mente si mantiene immobile, invano scorrono le lacrime (di Didone) 10.

Dottrina cristiana sulla moderazione, e stoica sulla compassione.
5. Non è necessario mostrare diffusamente e accuratamente che cosa insegni sulle passioni la sacra Scrittura da cui deriva la dottrina cristiana. Essa infatti considera la mente sottomessa all'ordine e al soccorso di Dio e le passioni alla misura e al limite della mente perché siano volte a vantaggio della giustizia. Inoltre nell'insegnamento cristiano non si chiede tanto se l'animo va in collera ma perché va in collera 11, non se è triste ma per quale motivo è triste 12, non se teme ma che cosa teme 13. Non so infatti se si possa biasimare con un retto criterio l'andare in collera con chi pecca perché si ravveda, il rattristarsi con chi è triste perché si riscatti dalla tristezza, il temere per chi è in pericolo affinché non vi perisca. Gli stoici sono soliti incolpare la compassione 14, ma quanto più onesto del timore del naufragio sarebbe stato nello stoico di Gellio il turbamento della compassione per riscattare un uomo. Con molta proprietà, umanità e corrispondenza al sentimento delle anime compassionevoli ha parlato Cicerone a lode di Cesare con le parole: Nessuna delle tue virtù è così ammirevole e gradita come la compassione 15. E la compassione non è altro che la partecipazione del nostro sentimento alla infelicità degli altri perché con essa, se ci è possibile, siamo spinti ad andare loro incontro. E questo movimento è utile alla ragione quando la compassione si offre in modo da assecondare la giustizia, tanto nel contribuire al bisognoso come nel perdonare il pentito. Cicerone, illustre oratore, non ha esitato a considerarla virtù, mentre gli stoici non hanno difficoltà a inserirla fra i vizi. Essi tuttavia, come ha dato a conoscere il libro dell'illustre stoico Epitteto, affermano in base agli insegnamenti di Zenone e Crisippo, iniziatori della scuola, che esistono le passioni nell'animo del saggio, sebbene lo dichiarino immune da tutti i vizi. Ne consegue che non considerano vizi le passioni quando si verificano nel saggio in modo da non ostacolare la virtù e l'egemonia razionale della mente. Quindi è identica la dottrina dei peripatetici, dei platonici e degli stessi stoici ma, come dice Cicerone, la controversia sulle parole da lungo tempo turba i Greci desiderosi più della polemica che della verità 16. Inoltre è opportuno chiedersi ancora se è proprio della debolezza della vita presente provare certi sentimenti anche in alcuni doveri morali. Anche gli angeli puniscono senza collera coloro che devono punire secondo l'eterna legge di Dio, aiutano gli infelici senza partecipare alla loro infelicità e soccorrono senza timore le persone da loro amate che si trovano nei pericoli. Eppure anche nei loro confronti, in base alla tecnica della lingua umana, vengono usate parole indicanti le passioni per denotare una certa somiglianza delle azioni e non la soggezione ai turbamenti. Stando alle Scritture, Dio stesso va in collera eppure non è turbato da alcuna passione. L'effetto della punizione, e non un suo affetto perturbatore, ha indotto a usare questa parola.

Mente demoniaca adeguata alla passione.
6. Rimandiamo frattanto la questione sugli angeli. Esaminiamo per ora in che senso i platonici dicano che i demoni posti di mezzo fra gli dèi e gli uomini sono agitati dai flutti delle passioni. Se infatti subissero tali movimenti con la mente che rimane sgombra da essi e li domina, Apuleio non direbbe che nel mutare del sentimento e nel mareggiare dello spirito sono agitati attraverso tutti i flutti dei pensieri 17. Quindi la loro mente stessa, cioè la parte superiore dello spirito, per cui sono esseri ragionevoli e in cui si hanno virtù e saggezza, seppure ne hanno, sarebbe dominata dalle passioni turbatrici delle parti inferiori dello spirito che dovrebbero essere sottomesse e dominate: la loro mente stessa, dico, come dichiara questo platonico, è agitata dal mareggiare delle passioni. Dunque la mente dei demoni è resa schiava dalle passioni della libidine, del timore, dell'ira e dalle altre. Quindi non v'è in essi una facoltà libera e partecipe di sapienza con cui esser graditi agli dèi e orientare gli uomini alla conformità con la legge morale. La loro mente soggetta e oppressa dalle imperfezioni delle passioni volge all'inganno e alla mistificazione ogni potere razionale che ha per natura, e tanto più intensamente quanto maggiore è il desiderio di fare del male che la possiede.

Anche gli dèi soggetti alla passione.
7. Ma qualcuno potrebbe osservare che non di tutti i demoni ma soltanto di quelli che sono nel numero dei malvagi i poeti, non andando lontani dalla verità, immaginano che si comportino da dèi nemici e amici di alcuni uomini. Proprio di loro ha detto Apuleio che nel mareggiare dello spirito si agitano attraverso tutti i flutti dei pensieri. Ma come potremmo accettare questa spiegazione se egli con quell'affermazione intendeva fissare la posizione di mezzo, fra gli dèi e gli uomini, a causa del corpo aeriforme, non di alcuni cioè dei malvagi, ma di tutti i demoni? Ha affermato appunto che i poeti mediante l'impunita licenza della poesia mitica costruiscono favole nel considerare dèi alcuni di questi demoni, nell'attribuire loro i nomi degli dèi e nel classificarli arbitrariamente come amici o nemici di alcuni uomini, perché considera gli dèi alieni dalla condotta dei demoni per la dimora nel cielo e per la pienezza della felicità. Questo è dunque il favoleggiare dei poeti: considerare come dèi esseri che dèi non sono e farli combattere fra di loro con la denominazione di dèi a favore di uomini che essi con parzialità amano o odiano. E sostiene che la favola non è lontana dalla verità perché, sebbene designati con i nomi di dèi che non sono, sono fatti agire come demoni quali sono. Inoltre dichiara che di questo stampo è la Minerva di Omero che interviene fra le schiere dei Greci per frenare Achille 18. Dichiara dunque che quella Minerva è una finzione poetica perché egli considera Minerva una dea e la pone, lontana dal trattare con gli uomini, nell'alta dimora dell'etere fra gli dèi che ritiene tutti buoni e felici. Vi sarebbe dunque qualche demone fautore dei Greci e nemico dei Troiani come qualche altro fautore dei Troiani contro i Greci, che Omero ricorda col nome di Venere o di Marte. Invece Apuleio li pone nelle dimore del cielo lontani da tali azioni. E questi demoni avrebbero combattuto fra di loro a favore di coloro che amavano contro quelli che odiavano. Apuleio ha confessato che i poeti hanno detto queste cose senza discostarsi dalla verità. Le hanno infatti affermate nei confronti di esseri che, stando a lui, col mutare del sentimento e col mareggiare dello spirito, simile a quello degli uomini, si agitano attraverso tutti i flutti delle rappresentazioni. Possono dunque provare l'amore e l'odio non a favore della giustizia, come fa la massa, che loro somiglia e che mantiene i propri favoritismi per gli uni contro gli altri nei confronti dei campioni del circo e dell'arena 19. Il filosofo platonico, come è evidente, si è dato pensiero affinché non si credesse che certe azioni, per il fatto che erano cantate dai poeti, non fossero compiute dai demoni posti in mezzo, ma dagli dèi stessi, giacché i poeti nel favoleggiare fanno i loro nomi 20.

L'idea di demone è contraria a sapienza e felicità.
8. Ma forse è opportuno esaminare la stessa definizione dei demoni perché in essa Apuleio stabilendone i dati essenziali li ha inclusi tutti. In essa ha dichiarato che i demoni sono viventi nel genere, soggetti alle passioni nello spirito, ragionevoli per mente, aeriformi nel corpo, immortali nell'esistenza 21. Non ha incluso affatto fra le cinque caratteristiche elencate una per cui possa sembrare che essi abbiano in comune con gli uomini buoni un qualcosa che non sia nei malvagi. Infatti parlando nel luogo conveniente degli uomini stessi come di esseri di rango inferiore perché terreni, ne elenca un po' più diffusamente le caratteristiche essenziali. Prima aveva parlato degli dèi esistenti nel cielo. Così dopo aver ricordato i due estremi del rango più alto e del più basso, per ultimo al terzo posto ha parlato dei demoni in quanto posti in mezzo. Dice dunque: Quindi gli uomini capaci di pensiero, dotati di parola, dall'animo immortale, dall'organismo soggetto alla morte, dallo spirito soggetto al piacere e al dolore, dal corpo inerte e schiavo, dalla condotta morale diversa, dalla identica inclinazione all'errore, dalla inflessibile audacia, dalla invincibile speranza, dall'inutile affaticarsi, dalla fortuna destinata a finire, individualmente mortali, perenni universalmente come razza, che si sostituiscono a vicenda mediante la riproduzione della prole, dall'esistenza fuggevole, dalla saggezza tarda a venire, dalla morte pronta a venire, dalla vita incline al lamento, abitano la terra 22. Pur avendo elencato varie caratteristiche che sono proprie di moltissimi uomini, non ne ha taciuta una che riconosceva a pochi quando ha detto dalla saggezza tarda a venire. Se l'avesse tralasciata, l'accurata esattezza di questa descrizione non avrebbe affatto determinato le proprietà della razza umana. Nell'evidenziare poi la superiorità degli dèi, ha affermato che in essi è eminente la felicità che gli uomini vogliono conseguire con la sapienza. Quindi se intendesse far capire che alcuni demoni sono buoni, nell'elencarne le caratteristiche, porrebbe una dote, mediante la quale s'intenda che hanno in comune o con gli dèi una determinata parte di felicità o con gli uomini una qualunque sapienza. Al contrario non ha ricordato alcun loro bene col quale i buoni si distinguono dai malvagi. E sebbene si sia astenuto dal dichiarare più apertamente la loro malvagità, non tanto per non offendere loro quanto per non oltraggiarne gli adoratori ai quali si rivolgeva, ha indicato tuttavia alle persone sagge che cosa debbano pensare di loro. Infatti ha ritenuto gli dèi, che stando alla sua teoria sono tutti buoni e felici, del tutto immuni dalle passioni o, come egli dice, dai turbamenti dei demoni e li ha ritenuti eguali soltanto per l'immortalità dei corpi. Al contrario, per quanto riguarda lo spirito, ha dichiarato con estrema chiarezza che i demoni non sono simili agli dèi ma agli uomini, e non in considerazione del bene della sapienza, di cui anche gli uomini possono esser partecipi, ma del turbamento delle passioni che domina gli insipienti e i malvagi, ma viene dominato dai sapienti e dagli onesti al punto che preferiscono non provarlo che superarlo. Se avesse voluto far capire che i demoni hanno in comune con gli dèi non l'immortalità del corpo ma dello spirito, non avrebbe negato agli uomini la comunanza di questa prerogativa, giacché come platonico ritiene indubbiamente che lo spirito umano è immortale. E per questo nel determinare le caratteristiche degli uomini ha affermato che sono viventi dallo spirito immortale e dall'organismo soggetto alla morte. Pertanto se gli uomini non hanno in comune con gli dèi l'immortalità perché sono mortali nel corpo, certamente i demoni l'hanno in comune perché nel corpo sono immortali.

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