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LA CITTA' DI DIO di sant'Agostino - Libri XII - XVII (3)

Ultimo Aggiornamento: 22/12/2012 22:17
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22/12/2012 19:47

LIBRO XV

SOMMARIO

1. Le due serie di discendenze che dall'inizio si svolgono a fini diversi.

2. Figli della carne e della promessa.

3. La grazia di Dio rese feconda la sterilità di Sara.

4. Lotta e pace della città terrena.

5. Il primo fondatore della città terrena fu un fratricida e il fondatore della città di Roma si adeguò alla sua scelleratezza con l'uccisione del fratello.

6. Vi sono delle infermità a cui per la pena del peccato anche i cittadini della città di Dio soggiacciono nell'esilio di questa vita e da cui sono ricondotti alla salute da Dio che li guarisce.

7. Motivo e ostinazione del delitto di Caino che neanche la parola di Dio distolse dal misfatto deliberato.

8. Quale fu il motivo per cui Caino agli inizi del genere umano fondò una città?

9. Fu più lunga la vita dell'uomo prima del diluvio e più grande la statura del corpo umano.

10. V'è una divergenza per cui sembra che il numero degli anni sia differente tra il testo ebraico e il nostro.

11. Sembra che l'età di Matusalem oltrepassi di quattordici anni il diluvio.

12. Si esamina l'opinione di coloro i quali non ritengono che gli uomini dei primi tempi fossero longevi come è detto nella Scrittura.

13. Nel calcolo degli anni si deve forse attendere maggiormente l'autorevolezza del testo ebraico che dei Settanta?

14. Uguaglianza degli anni i quali nei primi secoli si sono svolti nelle medesime dimensioni di oggi.

15. Se sia verosimile che gli uomini del primo periodo si siano astenuti dall'accoppiamento fino all'età in cui, come è riferito, hanno avuto figli.

16. Fu differente il diritto matrimoniale che ebbero i primi matrimoni in confronto con i successivi.

17. I due patriarchi e progenitori che discendono da un unico patriarca.

18. In Abele, Set ed Enos fu simboleggiato un evento che si riferisce al Cristo e al suo corpo, cioè la Chiesa.

19. C'è un simbolo nell'assunzione di Enoch.

20. C'è un simbolo nel fatto che la discendenza di Caino si chiude in otto generazioni da Adamo e che Noè è il decimo nei discendenti dal medesimo patriarca Adamo.

21. Si esamina la ragione per cui, menzionato Enoch, figlio di Caino, vi sia di seguito l'elenco di tutta la sua discendenza fino al diluvio; invece, menzionato Enos, figlio di Set, si ritorna all'origine del genere umano.

22. Per la caduta dei figli di Dio, attratti dall'amore per donne straniere, tutti gli uomini, eccetto otto persone, meritarono di perire nel diluvio.

23. È attendibile l'ipotesi che gli angeli di natura spirituale, presi d'amore per le belle donne, si siano sposati con esse e che dal loro accoppiamento siano nati i giganti?

24. Come si devono interpretare le parole che il Signore ha detto di quelli che dovevano essere sterminati dal diluvio: La loro vita durerà ancora centoventi anni?

25. L'ira di Dio non ne turba con escandescenze l'immutabile serenità.

26. L'arca, che Noè dietro ordine di Dio costruì, simboleggia in ogni componente Cristo e la Chiesa.

27. Su arca e diluvio non si deve dare ascolto a coloro che ne accettano soltanto la narrazione senza simbolismo allegorico e neanche a coloro che accettano soltanto le allegorie dopo avere escluso il contenuto storico.


Libro quindicesimo
LE DUE CITTÀ DA CAINO E ABELE AL DILUVIO



Le due città all'inizio [1-8]


Argomento del libro.
1. 1. Molti scrittori hanno formulato, espresso e scritto numerose riflessioni sulla felicità del paradiso terrestre o sullo stesso paradiso terrestre, sulla vita dei progenitori in quel luogo e sul loro peccato e condanna. Anche nei libri precedenti ho trattato i temi relativi derivandoli dalla lettura di qualche brano della Scrittura o dalla interpretazione che ne ho potuto dare in accordo con la sua autorità. Se l'argomento si esamina più accuratamente suscita molte e varie discussioni che dovrebbero essere distribuite in più volumi di quanto l'opera e il tempo consentono. Di tempo non ne ho tanto da soffermarmi in tutte le questioni che individui liberi da occupazioni e meticolosi, più pronti a interrogare che disposti a capire, possono formulare. Penso di aver fatto già abbastanza con una vasta e assai difficile problematica sull'origine del mondo, dell'anima e del genere umano che ho distribuito in due categorie, una di quelli che vivono secondo l'uomo, l'altra di quelli che vivono secondo Dio. Anche in senso analogico le chiamo due città, cioè due società umane, di cui una è destinata a regnare eternamente con Dio, l'altra a subire un eterno tormento col diavolo. Ma questa è la loro finale destinazione di cui si parlerà in seguito 1. Finora ho detto abbastanza della loro origine sia negli angeli, il cui numero ci è ignoto, sia nei due progenitori. Mi sembra che ormai si deve affrontare il tema della loro evoluzione storica da quando i progenitori hanno iniziato la specie fino a quando gli uomini cesseranno di continuarla. Il tempo nella sua totalità o meglio la serie dei tempi, in cui gli individui si succedono scomparendo con la morte e sopraggiungendo con la nascita, è l'evoluzione storica delle due città di cui stiamo parlando.

Le due città in Caino e Abele.
1. 2. Dai progenitori del genere umano nacque prima Caino che appartiene alla città degli uomini, poi Abele che appartiene alla città di Dio 2. Riscontriamo infatti che in un solo uomo si avvera il pensiero dell'Apostolo che ha detto: Prima non è ciò che è spirituale ma ciò che è animale, in seguito lo spirituale 3. È necessario dunque che ogni individuo, poiché proviene da una stirpe condannata, dapprima sia cattivo e carnale in Adamo, in seguito, se si rinnoverà rinascendo in Cristo, sarà buono e spirituale. Ugualmente in tutto l'uman genere, quando all'inizio cominciarono a sviluppare le due città con nascite e morti, prima è nato il cittadino di questo mondo, dopo di lui l'esule in cammino nel mondo e cittadino della città di Dio, perché predestinato ed eletto mediante la grazia, esule quaggiù e cittadino lassù mediante la grazia. Se si considera in sé anche egli proviene dalla massa che è stata tutta condannata sin dall'inizio. Però Dio, come un vasaio (non per sprezzo ma con accortezza l'Apostolo usa questa immagine), da una medesima massa ha foggiato un vaso per usi rispettabili e un altro per usi ignobili 4. Prima è stato foggiato il vaso per usi ignobili, poi l'altro per usi rispettabili perché, come ho già detto, in uno stesso uomo prima v'è la forma riprovevole da cui è necessario iniziare ma non rimanervi, poi la forma lodevole a cui avanzando arrivare e una volta giunti rimanervi. Quindi non ogni uomo cattivo sarà buono, tuttavia non v'è uomo buono che non sia stato cattivo, ma quanto più prestamente un individuo progredisce nel bene, definisce in sé questo traguardo che ha raggiunto e sostituisce più celermente la terminologia del prima con quella del poi. Si legge nella Scrittura che Caino per primo edificò una città 5 mentre Abele, in quanto esule, non la edificò. La città degli eletti è in cielo, sebbene si procuri nel mondo i cittadini con i quali è in cammino finché giunga il tempo del suo regno. Allora radunerà tutti i risorti con il loro corpo, quando sarà loro dato il regno dove regneranno senza limite di tempo con il loro fondatore, il re di tutti i tempi.

Allegoria in Sara e Agar.
2. Un'ombra e figura profetica di questa città fu in stato di schiavitù sulla terra per simboleggiarla più che per indicarla come presente nel tempo in cui doveva manifestarsi. Fu considerata anche essa città santa a titolo di figura allegorica e non di verità compiuta come sarà nel futuro. Di questa figura posta in schiavitù e della libera città che simboleggia l'Apostolo così parla nella Lettera ai Galati: Ditemi, dice, voi che volete essere sotto la legge, non avete udito cosa dice la legge? Sta scritto infatti che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma quello dalla schiava è nato secondo la carne; quello dalla donna libera in virtù della promessa. Sono cose dette in allegoria. Le due donne infatti sono due alleanze, una proveniente dal monte Sinai che genera alla schiavitù ed è Agar (il Sinai è un monte dell'Arabia) ed ella si collega alla Gerusalemme che è nel tempo, infatti è schiava assieme ai propri figli. Al contrario la Gerusalemme di lassù è libera ed è la madre nostra. È detto infatti nella Scrittura: "Gioisci, o sterile che non partorisci, prorompi in grida di esultanza tu che non soffri nel parto, perché sono molti i figli della donna sola più di colei che ha marito" 6. Ora noi, o fratelli, siamo figli della promessa come Isacco. Ma come allora colui che era nato secondo la carne perseguitava colui che era nato secondo lo spirito, così anche ora. Ma cosa dice la Scrittura? "Manda via la schiava e suo figlio, perché il figlio della schiava non sarà erede assieme al figlio della libera" 7. Noi invece, o fratelli, non siamo figli della schiava ma della donna libera. Cristo ci ha fatto dono di questa libertà 8. Questo modo d'intendere, derivante dall'autorità dell'Apostolo, ci offre un criterio nell'interpretare la Scrittura dei due Testamenti, l'Antico e il Nuovo. Una parte della città terrena è divenuta figura di quella celeste, non per simboleggiare se stessa ma l'altra e quindi come schiava. È stata istituita infatti non per simboleggiare se stessa ma un'altra ed essa stessa è stata indicata allegoricamente mediante un'altra precedente figura simbolica, sebbene fosse essa stessa allegoria. Infatti Agar schiava di Sara e il figlio sono stati figura di questa figura. E poiché le ombre dovevano scomparire all'apparire della luce, la libera Sara, che simboleggiava la libera città, sebbene per simboleggiarla con diverso significato le era schiava anche l'ombra dell'altra, disse: Manda via la schiava e suo figlio perché il figlio della schiava non sarà erede assieme a mio figlio Isacco 9. L'Apostolo ha parafrasato: assieme al figlio della libera. Troviamo dunque nella città terrena due aspetti, uno che indica la sua presenza nella storia, l'altro che con la sua presenza è subordinato a simboleggiare la città celeste. La natura pervertita dal peccato genera i cittadini della città terrena, la grazia che libera la natura dal peccato genera i cittadini della città celeste; perciò i primi sono chiamati: vasi d'ira, gli altri: vasi di misericordia 10. Se ne è avuto un simbolo anche nei due figli di Abramo. L'uno, Ismaele, nacque secondo la carne dalla schiava chiamata Agar, l'altro, Isacco, nacque secondo la promessa dalla libera Sara. Tutti e due sono della stirpe di Abramo, ma un rapporto che indica esplicitamente la natura ha fatto nascere il primo, invece una promessa che simboleggia la grazia ha concesso l'altro. In quel caso è presentata una esperienza umana, in questo è segnalato un beneficio divino.

Simbolismo in Ismaele e Isacco.
3. Sara era sterile. Perduta la speranza della prole e desiderando di avere almeno dalla sua schiava ciò che da sé capiva di non potere, la fece fecondare dal marito. Aveva desiderato invano di avere figli da lui. Chiese dunque ciò che le era dovuto dal marito usando il proprio diritto nel grembo di un'altra 11. Nacque così Ismaele, come nascono tutti gli uomini, nel congiungimento dei sessi secondo l'ordinaria legge di natura. È stato detto: secondo la carne 12 non perché questi beni non siano da Dio e non sia Egli a produrli dato che la sua sapienza operatrice si estende, come si legge nella Scrittura, da un confine all'altro con efficienza e ordina tutto con bontà 13. Siccome però si doveva simboleggiare il dono di Dio che la grazia, anche se non dovuto, avrebbe gratuitamente elargito agli uomini, fu indispensabile che si avesse un figlio nel modo indebito ai procedimenti della natura. La natura infatti nega i figli a tale congiungimento del maschio e della femmina, quale poteva essere quello di Abramo e Sara, già in età avanzata, con l'aggiunta della sterilità della donna che non fu in grado di partorire neanche quando non mancava l'età alla fecondità, ma la fecondità all'età. Il fatto che alla natura in quelle condizioni non era dovuto il beneficio della posterità simboleggia che la natura del genere umano pervertita dal peccato, e quindi a giusto titolo condannata, non meritava in seguito la vera felicità. Giustamente quindi Isacco, nato secondo la promessa, simboleggia i figli della grazia, i cittadini della libera città, associati dalla pace eterna perché con essa non v'è in alcun modo l'amore della personale volontà, ma l'amore che gode del medesimo comune immutevole Bene e fa di molti un cuor solo, cioè concorde nel fine ultimo mediante l'osservanza della carità.

Guerra vittoria e pace nella città terrena.
4. Inoltre la città terrena non sarà eterna perché quando sarà condannata all'estremo supplizio non sarà più una città. Ha però in questo mondo il suo ideale, della cui partecipazione trae diletto nella misura che se ne può trarre da questi ideali. E poiché è un ideale che non elimina difficoltà a coloro che lo perseguono, questa città è spesso in sé dilaniata da contestazioni, guerre e battaglie alla ricerca di vittorie che sono apportatrici di morte e certamente di effimera durata. Infatti, se nel suo interno una razza qualunque insorgerà con la guerra contro un'altra razza, la città si adopera di essere dominatrice dei popoli, sebbene sia prigioniera dei vizi. Se poi, nel caso che vincesse, si esalta con maggiore orgoglio, diviene anche apportatrice di morte; se invece riflettendo sulla situazione e sugli avvenimenti di ogni giorno si angustia per quelli avversi, che possono accadere, più di quanto si esalti per quelli propizi che l'hanno favorita, la vittoria è soltanto di effimera durata. Non potrà infatti dominare in permanenza sui popoli che ha assoggettato con la vittoria. Però non è ragionevole pensare che non sono ideali quelli che ambisce questa città, giacché essa stessa nella categoria delle cose umane è un bene migliore. Vuole infatti raggiungere una pace a favore di ideali meno nobili e desidera di approdare ad essa con la guerra. Se vincerà e non vi sarà chi oppone resistenza, ci sarà la pace che non potevano conseguire le razze che si contrastavano e contendevano in una miserabile penuria per beni che non potevano avere in comune. Guerre tormentose cercano la pace, la raggiunge una vittoria ritenuta dispensiera di fama. Se sono vincitori coloro che combattevano per una causa più giusta, non si può dubitare che c'è da rallegrarsi per la vittoria e che ne proviene una pace auspicabile. Sono valori e senza dubbio dono di Dio. Ma talora messi da parte gli ideali più alti che appartengono alla città di lassù, dove la vittoria sarà stabile nell'eterna e somma pace, si ambiscono gli ideali di quaggiù perché sono ritenuti unici o preferiti a quelli che sono da ritenere più nobili. In tal caso necessariamente segue la crisi e aumenta se era già in atto.

Fratricidi e gloria terrena.
5. Il fondatore della città terrena fu il primo fratricida. Sopraffatto dall'invidia uccise suo fratello 14, cittadino della città eterna e viandante in questa terra. Non c'è da meravigliarsi dunque se tanto tempo dopo, nel fondare la città che doveva essere la capitale della città terrena, di cui stiamo parlando, e dominare tanti popoli, si è avuta una fattispecie parallela a questo primo esemplare che i Greci chiamano . Anche in quel luogo, nei termini in cui un loro poeta rammenta quel delitto, le prime mura furono bagnate di sangue fraterno 15. Roma infatti ebbe origine con un fratricidio. La storia romana narra appunto che Remo fu ucciso da Romolo 16, a parte che costoro erano tutti e due cittadini della città terrena. Tutti e due attendevano la fama dalla fondazione dello Stato romano, ma insieme non potevano averne ciascuno nelle proporzioni di uno solo. Chi voleva raggiungere la fama con l'esercizio del potere avrebbe avuto minor potere se la sua autorità fosse diminuita da un compartecipe vivo. Per avere dunque tutto il potere da solo fu eliminato il compagno e con il delitto aumentò in malvagità il prestigio che senza il delitto sarebbe stato inferiore ma più onesto. I fratelli Caino e Abele invece non avevano in comune una tale aspirazione ai beni della terra, né invidia l'un contro l'altro e il fratricida non invidiò al fratello che la sua supremazia venisse limitata se dominavano tutti e due. Abele non esigeva il potere nella città che veniva edificata dal fratello. C'era soltanto l'invidia diabolica con cui i cattivi invidiano i buoni per l'esclusivo motivo che quelli sono buoni, questi cattivi. La conquista della bontà non diminuisce affatto se si aggiunge o rimane un compagno, anzi la bontà è una conquista che la personale carità dei compagni raggiunge con estensione pari alla partecipazione. Non otterrà perciò questa conquista chi non vorrà averla in comune e al contrario la conseguirà tanto più validamente quanto più validamente in quella condizione potrà avere un compagno. Ciò che è avvenuto fra Remo e Romolo ha mostrato come la città terrena abbia delle scissioni in se stessa. Invece quel che è avvenuto fra Caino e Abele ha palesato le inimicizie fra le due città, di Dio e degli uomini. Si oppongono dunque tra sé cattivi e cattivi, così cattivi e buoni, ma non è possibile che buoni e buoni, se sono perfetti, si oppongano gli uni contro gli altri. Può avvenire che fra coloro i quali fanno progressi, ma non hanno ancora raggiunto la perfezione, uno si opponga all'altro come anche a se stesso perché nel medesimo individuo la carne ha desideri contro lo spirito e lo spirito contro la carne 17. Quindi il desiderio spirituale può opporsi al carnale di un altro o il desiderio carnale allo spirituale di un altro, come si oppongono fra di sé buoni e cattivi. Si oppongono fra sé i desideri carnali di due individui buoni, non ancora perfetti, come si oppongono cattivi e cattivi, fino a che la guarigione di coloro che si curano sia guidata alla vittoria finale.

La pace sommo bene.
6. Questa tendenza al male, cioè la disobbedienza di cui abbiamo parlato nel libro decimoquarto, è la pena della prima disobbedienza e quindi non è una condizione naturale ma un pervertimento. Viene detto perciò ai buoni che traggono profitto e vivono di fede in questo viaggio nell'esilio: Portate l'uno i pesi dell'altro e così adempirete la legge di Cristo 18; e altrove: Correggete i turbolenti, confortate i paurosi, accogliete i deboli, siate pazienti con tutti, state attenti a non render male per male all'altro 19; e in un altro passo: Se un individuo sarà sorpreso in una colpa, voi che avete lo Spirito, correggetelo con dolcezza, ma sta' all'erta affinché anche tu non cada nella tentazione 20; e altrove: Il sole non tramonti sopra la vostra ira 21; nel Vangelo si legge: Se un tuo fratello avrà commesso una colpa contro di te, correggilo fra te e lui soltanto 22. Sempre riguardo ai peccati, per evitare lo scandalo di molti, dice l'Apostolo; Ammonisci alla presenza di tutti coloro che peccano affinché gli altri ne abbiano timore 23. Per lo stesso motivo si hanno molte raccomandazioni sul perdono vicendevole e sulla grande attenzione a conservare la pace perché senza di essa non sarà possibile vedere Dio 24. In proposito si ha lo sgomento di quel servo quando gli viene ingiunto di restituire il debito di diecimila talenti, che gli erano stati condonati, perché non aveva condonato a un suo conservo il debito di cento denari. Esposta questa parabola, Gesù soggiunse: Così si comporterà anche con voi il vostro Padre celeste se ciascuno non perdonerà di cuore al proprio fratello 25. In questo modo ottengono la guarigione i cittadini della città di Dio esiliati in questa terra e anelanti alla pace della patria di lassù. Lo Spirito Santo opera interiormente affinché sia efficace la medicina che si usa in superficie. Altrimenti anche se Dio stesso, servendosi di una creatura a lui sottomessa, si rivolge, mediante qualsiasi umano aspetto, alle facoltà umane, tanto quelle sensibili come quelle molto simili che funzionano nel sonno, ma non guida stimolandola la coscienza, non giova affatto all'uomo qualsiasi annuncio di verità. Dio ottiene questi effetti distinguendo i vasi dell'ira da quelli della misericordia 26 con una distribuzione arcana, a lui solo nota, ma giusta. Quando egli viene in aiuto con interventi meravigliosi e segreti, il peccato che risiede nelle nostre membra, ed è pena del peccato, non regna più, come dice l'Apostolo, nel nostro corpo mortale per farci obbedire ai suoi desideri e noi non offriamo più le nostre membra come strumenti di disonestà 27. L'uomo allora si rivolge alla coscienza che con la guida di Dio non consente a se stessa di scegliere il male e da allora essa guida con maggiore serenità al bene. Poi, effettuata la guarigione e raggiunta l'immortalità, l'uomo senza alcun peccato regnerà nell'eterna pace.

L'offerta e il peccato di Caino.
7. 1. Il mezzo, che ho spiegato come ho potuto, attraverso il quale Dio ha comunicato con Caino nella maniera con cui, mediante una creatura sottomessa, comunicava in forma adeguata con i primi uomini, come fosse loro compagno, a quell'uomo non ha giovato. Difatti anche dopo l'avvertimento divino ha compiuto il premeditato delitto di uccidere il fratello. Dio aveva discriminato le offerte di entrambi, accettando quelle di Abele, disdegnando quelle di Caino. Non è da dubitare che per l'attestato di un qualche segno visibile era possibile conoscere questa distinzione e che Dio aveva così operato perché le opere di lui erano malvagie, quelle del fratello buone. Se ne rattristò molto Caino e il suo viso rivelò il turbamento. Si ha nella Scrittura: Il Signore disse a Caino: perché sei diventato triste e il tuo viso è turbato? Lo sai che, se fai buone offerte ma non distribuisci con onestà, hai commesso peccato? Sii sereno. Vi sia il suo ritorno in te e tu ne avrai il dominio 28. In questo rimprovero o meglio avvertimento che Dio fece udire a Caino non sono chiari il motivo e il significato della frase: Lo sai che, se fai buone offerte ma non distribuisci con onestà, hai commesso peccato? L'oscurità ha dato origine a varie interpretazioni, sebbene ogni esegeta della sacra Scrittura tenta di commentarla secondo la regola della fede. Il sacrificio si offre con onestà quando si offre al vero Dio, al quale soltanto si deve sacrificare. Ma non si distribuisce con onestà quando non si differenziano con onestà il luogo, il tempo e gli oggetti o anche chi offre e a chi si offre, o anche a chi si distribuisce per vitto ciò che è stato offerto, giacché in questo caso per distribuzione possiamo intendere scelta. Inoltre si può offrire in un luogo in cui non conviene o ciò che non conviene in quel luogo ma in un altro, o in un tempo in cui non conviene o ciò che non conviene in quel tempo ma in un altro o ciò che non si deve offrire in nessun luogo e tempo o quando l'uomo tiene per sé oggetti della medesima qualità più scelti di quelli che offre a Dio, o se si rende partecipe dell'offerta un individuo di altra religione o è sacrale che non ne sia partecipe. Non è facile precisare in quale di questi aspetti Caino dispiacque a Dio. L'apostolo Giovanni, parlando dei due fratelli, dice: Non come Caino che era dal maligno e uccise suo fratello, e perché lo uccise? Perché le sue opere erano malvagie, quelle del fratello giuste 29. Dal passo si può intendere che Dio non gradì il suo dono perché proprio con esso distribuiva male, in quanto dava a Dio qualcosa del suo, ma sé a se stesso. Lo fanno tutti coloro che non adempiono la volontà di Dio ma la propria, cioè non agiscono con un cuore retto ma pervertito. Offrono tuttavia a Dio un dono con cui pensano di renderselo propizio perché li aiuti non a guarire i loro cattivi desideri ma a soddisfarli. Ed è proprio della città terrena adorare Dio o gli dèi per governare con il loro aiuto nella vittoria e nella pace terrena non con la liberalità dell'amministrare ma col desiderio di dominare. I buoni infatti si servono del mondo per godere Dio, i cattivi al contrario pretendono servirsi di Dio per godere il mondo. Essi però credono che egli esiste e che provvede alle vicende umane. Sono molto peggiori coloro che negano questa verità. Caino dopo aver capito che Dio si era volto al sacrificio del fratello e non al suo avrebbe dovuto col pentimento imitare il fratello buono anziché inasprito invidiarlo. Ma egli s'indignò e il suo viso fu turbato. Dio riprova più di ogni altro questo peccato, cioè la tristezza per la bontà di un altro, soprattutto se fratello. Perciò, riprovando questa colpa, chiese: Perché sei diventato triste e il tuo viso è turbato? Dio vedeva che egli invidiava suo fratello e riprovò il fatto. Agli uomini, cui è nascosto il cuore dell'altro, poteva esser dubbio e del tutto incerto se con quella tristezza egli deplorava la propria cattiveria perché sapeva che con essa aveva offeso Dio, oppure la bontà del fratello perché questa piacque a Dio quando si volse alla sua offerta. Dio diede una giustificazione del fatto che aveva ricusato l'offerta di Caino affinché incolpasse giustamente se stesso, anziché ingiustamente il fratello. E poiché era ingiusto in quanto non distribuiva con onestà, cioè non viveva onestamente, e indegno che la sua offerta fosse accettata, gli fece capire quanto fosse più ingiusto perché odiava il fratello giusto senza motivo.

L'invito divino alla riflessione.
7. 2. Tuttavia Dio, per non allontanarlo senza un comando santo, giusto e buono, gli disse: Sii sereno, vi sia il suo ritorno in te e tu ne avrai il dominio. Il ritorno del fratello? No. Certamente del peccato. Aveva detto: Hai peccato e ha soggiunto: Sii sereno, vi sia il suo ritorno in te e tu ne avrai il dominio. Si può interpretare nel senso che il ritorno del peccato deve avvenire nell'uomo stesso in modo che sia consapevole di dover attribuire soltanto a sé il fatto che pecca. Si hanno infatti il salutare rimedio del pentimento e la conveniente richiesta di perdono se nella frase: il suo ritorno in te non si sottintende che vi sarà ma vi sia, nei termini cioè di un comando e non di un preavviso. Allora infatti l'uomo dominerà il peccato se non lo prepone a sé con un appiglio ma lo assoggetta col pentimento. Altrimenti egli sarà schiavo del peccato che lo domina, se lo giustificherà quando avviene. Ma per peccato si può intendere anche lo stesso desiderio carnale di cui dice l'Apostolo: La carne ha desideri contro lo spirito 30 e fra gli effetti della carne rassegna anche l'invidia da cui Caino era spronato e infiammato all'uccisione del fratello. In questo senso si può giustamente sottintendere anche che vi sarà, cioè: Vi sarà il suo ritorno in te e tu ne avrai il dominio. Talora infatti viene eccitata l'attività carnale che l'Apostolo denomina peccato nel passo: Non sono io che faccio il male ma il peccato che risiede in me 31. Anche i filosofi considerano depravata questa attività dell'anima non nel senso che travolge la coscienza ma che la coscienza deve dominare e contenere dalla immoralità con la ragione. Quando dunque tale attività sarà stimolata ad agire disonestamente, si rassereni e obbedisca all'Apostolo che dice: Non offrite le vostre membra al peccato come strumenti d'immoralità 32. Allora rasserenata e sottomessa ritorna alla coscienza affinché la ragione la domini. Dio lo aveva ingiunto a Caino che ardeva d'invidia contro il fratello e, invece di imitarlo, voleva fosse tolto di mezzo. Sii sereno, disse, trattieni le tue mani dal delitto, non domini il peccato nel tuo corpo mortale 33 fino ad asservirti ai suoi desideri e non offrire le tue membra al peccato come strumenti d'immoralità. Si ha il suo ritorno in te se non si favorisce allentando le briglie ma si trattiene arrestandosi. E tu ne avrai il dominio affinché, quando non gli si permette di essere efficiente all'esterno, si abitui a non subire impulsi anche all'interno mediante l'imperativo della coscienza che regola e dispone al bene. Nel medesimo Libro sacro è stato detto qualcosa del genere anche della donna quando, dopo il peccato, da Dio, che rivolgeva domande per giudicare, ebbero la sentenza di condanna, il diavolo nel serpente, lei e il marito di persona. Le disse: Moltiplicherò assai il tuo dolore e il tuo gemito, nel dolore partorirai i figli, e aggiunse: Farai ritorno a tuo marito ed egli ti terrà sottomessa 34. Quanto è stato detto a Caino del peccato e del depravato desiderio della carne, in questo passo è stato detto della donna che aveva peccato. Si deve interpretare nel senso che l'uomo, nel dirigere la donna, si deve rassomigliare all'animo che dà direttive alla carne. Perciò dice l'Apostolo: Chi ama la moglie ama se stesso; nessuno infatti ha mai odiato la propria carne 35. Questi impulsi dunque si devono curare come nostri e non condannare come altrui. Ma Caino accolse come avversario la raccomandazione di Dio. Aggravandosi in lui la passione dell'invidia in una insidia uccise il fratello. Di tal fatta era il fondatore della città terrena. Potrebbe simboleggiare anche i Giudei dai quali fu ucciso Cristo, pastore delle pecore uomini, di cui era allegoria Abele, pastore delle pecore bestie. Il fatto rientra appunto in una allegoria profetica. Per ora mi risparmio dall'esporlo, ma ricordo di aver detto qualcosa in merito nel libro Contro Fausto manicheo.

Caino e la prima città.
8. 1. A questo punto mi sembra opportuno difendere la suddetta narrazione affinché non sembri inattendibile la Scrittura la quale riferisce che da un solo uomo è stata edificata una città in quel tempo in cui, almeno all'apparenza, esistevano sulla terra soltanto quattro uomini o meglio tre dopo che Caino uccise il fratello e cioè il primo uomo padre di tutti, lo stesso Caino e il figlio Enoch da cui la città prese il nome. Ma coloro che se ne stupiscono non riflettono abbastanza che lo scrittore di questa storia sacra non ritenne necessario nominare tutti gli uomini che esistevano in quel tempo, ma quelli soltanto che richiedeva il disegno dell'opera intrapresa. L'intenzione dello scrittore, mosso dallo Spirito Santo, fu di giungere, attraverso la successione di determinate generazioni provenienti da un solo uomo, fino ad Abramo e dalla sua discendenza al popolo di Dio. In esso, distinto dagli altri popoli, dovevano essere prefigurati e preannunziati tutti gli avvenimenti che, nell'afflato dello Spirito, riguardavano l'avvenire della città, il cui regno sarà eterno, e del suo re e fondatore Cristo. Però non si doveva passar sotto silenzio l'altra umana società, che consideriamo la città terrena, nell'esclusivo intento di farne menzione affinché la città di Dio risplenda anche nel confronto con la sua avversaria. La sacra Scrittura, nel consegnare alla memoria il numero degli anni che gli uomini di allora vissero, conclude col dire di colui di cui stava parlando: Generò figli e figlie e fu l'età dell'uno o dell'altro di tanti anni e morì 36. Dal fatto che non ci tramanda i nomi dei figli e delle figlie non dobbiamo escludere che in tutti quegli anni, quando nel primo periodo dei tempi gli uomini erano molto longevi, poterono nascere moltissimi individui, dai cui gruppi potevano essere fondate anche moltissime città. Ma fu opera di Dio, il quale ispirò questi passi della Scrittura, differenziare fin dai primordi le due città distribuendole nelle rispettive discendenze in modo che esse continuassero insieme, da una parte quella degli uomini, cioè di coloro che vivevano secondo l'uomo, dall'altra quella dei figli di Dio, cioè degli uomini che vivevano secondo Dio. E questo fino al diluvio col quale, com'è narrato, si hanno la separazione e la delimitazione. Si ha la separazione perché sono rassegnate separatamente le discendenze delle due città, una del fratricida Caino, l'altra del fratello chiamato Set che era nato, anche egli, da Adamo in luogo della vittima del fratricidio. Si ha una delimitazione perché, traviando i buoni, erano diventati tutti così cattivi da essere sterminati col diluvio, eccetto un solo onesto, Noè, con la moglie, i tre figli e nuore. Questi otto individui meritarono di sfuggire con l'arca all'ecatombe generale.

Il nome della prima città.
8. 2. Si legge nella Scrittura: Caino si unì a sua moglie che concepì e partorì Enoch ed egli stava edificando una città cui diede il nome del figlio Enoch 37. Non è indispensabile ammettere che questo fosse il primo figlio dato alla luce. Né si deve dedurre dall'espressione che egli si unì alla moglie come se si fossero accoppiati per la prima volta. Anche nei confronti di Adamo, padre di tutti, l'espressione non fu usata soltanto per il tempo in cui fu concepito Caino che, come sembra, fu il primogenito. Anche per il tempo successivo il medesimo libro della Scrittura dice: Adamo si unì alla moglie Eva, la quale concepì e partorì un figlio e gli diede il nome di Set 38. Se ne deduce che abitualmente quel libro si esprime in quei termini, anche se non in tutti i casi che vi si leggono di avvenuti concepimenti, ma non soltanto in quei casi in cui i due sessi si uniscono per la prima volta. E non si attiene a una dimostrazione decisiva, per considerare che Enoch fosse il primogenito, il fatto che la città prese il nome da lui. Non è eccezione alla regola che per un motivo qualsiasi il padre, pur avendo altri figli, lo amasse più di tutti. Anche Giuda non era il primogenito, eppure da lui hanno avuto il nome la Giudea e i Giudei. Ma anche se questo figlio nacque per primo al fondatore della città, non per questo si deve pensare che fu dato alla città il suo nome in occasione della sua nascita. Anche in quel periodo non si poteva impiantare una città da un solo individuo, perché essa è per essenza una moltitudine di individui uniti da un determinato rapporto sociale. Ma se la famiglia di quell'uomo cresceva rapidamente nel numero da avere già una sufficiente quantità di popolazione, era possibile che la fondasse e che una volta fondata, le imponesse il nome del primogenito. Infatti la vita di quegli uomini fu così lunga che quel che visse di meno prima del diluvio, fra i citati col rispettivo numero di anni, giunse ai settecentocinquantatré anni 39. I più avevano superato i novecento ma nessuno era giunto ai mille. Non c'è dubbio quindi che il genere umano, attraverso l'età di un solo individuo, poteva aumentare al punto che era possibile fondare non una ma più città. Lo si può dedurre con grande facilità perché dal solo Abramo, in non molto più di quattrocento anni, si ebbe un gran numero di discendenti della stirpe ebraica che, nell'uscita dall'Egitto, erano, come è riferito, seicentomila individui della gioventù addetta alle armi 40. Sorvoliamo la stirpe degli Idumei non appartenenti al popolo d'Israele, perché discendeva dal fratello Esaù, nipote di Abramo 41, e altre stirpi provenienti dalla progenie dello stesso Abramo, sebbene non attraverso la moglie Sara 42.

Le due genealogie e le due città da Set e Caino al diluvio [9-21]

Gigantismo e longevità.
9. Perciò nessun critico avveduto dei fatti può dubitare che fu possibile a Caino fondare non una qualsiasi ma una grande città, giacché la vita degli individui si prolungava assai nel tempo. Un pagano potrebbe sollevare qualche difficoltà sul notevole numero di anni vissuti dagli uomini di allora, come è riferito dalla testimonianza dei nostri libri e negarne la credibilità. Così non credono che anche le dimensioni del corpo erano di mole molto maggiore allora che oggi. In proposito il più illustre dei loro poeti, Virgilio, racconta di una pietra enorme che, infissa sulla linea di confine dei campi, un eroe di quei tempi, mentre combatteva, svelse, corse sollevandola, la bilanciò e la scagliò; e commenta: Dodici atleti della più grande corporatura che oggi la natura produce avrebbero stentato a sollevarla sulla testa 43. Voleva dire che allora la natura produceva stature più grandi. A più forte ragione in tempi più recenti prima del celebre famoso diluvio. Ma le tombe scoperte a causa dell'antichità o dallo straripamento dei fiumi o per altre evenienze convincono gli increduli della grande mole dei corpi perché in esse si resero visibili o da esse caddero ossa di cadaveri d'incredibile grandezza. Ho visto di persona, e non ero solo perché c'erano altri con me, sulla spiaggia di Utica un dente molare di un uomo così grosso che se fosse stato sminuzzato nei limiti dei nostri denti, ci sembrò che se ne potessero tirar fuori un centinaio. Io penso che fosse di un gigante. Infatti, sebbene allora i corpi di tutti fossero di statura molto più grande dei nostri, i giganti superavano di gran lunga tutti. Come in altri tempi e poi nei nostri sono fenomeni rari, ma non mancarono in alcun tempo stature che di molto superavano la misura delle altre. Plinio il Vecchio, uomo di grande cultura, afferma che la natura produce corpi di mole minore man mano che trascorre la vicenda dei tempi 44 e ricorda che anche Omero più volte si rammaricò nei poemi di questo declino 45. Non voleva deridere queste affermazioni come finzioni poetiche ma come scrittore le inseriva nella verità storica di meraviglie della natura. Ma le ossa, come ho detto, che frequentemente si rinvengono, poiché appartengono a periodi di lunga durata, rinviano le grandi stature degli antichi a secoli molto lontani gli uni dagli altri 46. La longevità individuale poi, propria di quel periodo, non può divenire oggetto di diretta conoscenza mediante rispettive documentazioni. Ma non per questo si può sottrarre credibilità a questa storia sacra perché con molta sfrontatezza non si accetterebbero i fatti narrati dal momento che possiamo costatare con assoluta certezza che le predizioni si sono avverate. Dice tuttavia Plinio che v'è oggi ancora un popolo nel quale si vive duecento anni 47. Se dunque si ritiene come certo che un prolungamento della vita umana, di cui noi non abbiamo avuto diretta conoscenza, riguarda territori a noi sconosciuti, non v'è motivo di non credere che abbia riguardato anche i tempi. E non è ragionevole ritenere che in un qualche luogo vi sia ciò che in questo non c'è e non ritenere che in un qualche tempo ci sia stato ciò che in questo non c'è.

Calcoli d'età nella genealogia dei patriarchi.
10. Pertanto v'è, come sembra, un certo disaccordo fra il testo ebraico e il nostro sul numero degli anni. Non so com'è avvenuto. Tuttavia non è così notevole da indurre a non ammettere che quegli uomini furono assai longevi. Difatti nel nostro testo si legge che il primo uomo Adamo, prima di generare il figlio, chiamato Set, era vissuto duecentotrenta anni, invece nel testo ebraico centotrenta; ma per gli anni dopo la nascita si legge settecento nel nostro testo e ottocento nell'altro; così nell'uno e nell'altro la somma dell'intero concorda. Di seguito per le generazioni successive si riscontra nel testo ebraico che il padre, prima della nascita del figlio ivi menzionato, aveva cento anni di meno che nel nostro testo, ma dopo la nascita del medesimo figlio nel nostro si hanno cento anni in meno che nell'ebraico; così nell'uno e nell'altro il totale corrisponde. Nella sesta generazione, i due testi non dissentono. Nella settima generazione, in cui il figlio nato è Enoch che, stando alla Scrittura, non morì ma fu assunto perché piacque a Dio, v'è, come nelle prime cinque generazioni, il disaccordo di cento anni prima di generare il figlio, ivi menzionato, e l'accordo nel totale. Enoch infatti, secondo ambedue i testi, prima di essere trasferito, visse trecentosessantacinque anni. L'ottava generazione ha una certa discordanza ma di minore entità e diversa dalle altre. Matusalem infatti, nato da Enoch, prima di generare colui che segue nella discendenza, secondo il testo ebraico, non aveva cento anni di meno ma venti di più, i quali nel nostro testo sono stati aggiunti dopo la nascita del figlio e nell'uno e nell'altro è identica la somma dell'intero. Soltanto nella nona generazione, cioè negli anni di Lamech, figlio di Matusalem e padre di Noè, il totale si differenzia ma non molto. Si ha nel testo ebraico che è vissuto ventiquattro anni di più che nel nostro. Prima di generare il figlio, chiamato Noè, ha nel testo ebraico sei anni di meno che nel nostro ma, dopo averlo generato, nell'ebraico trenta anni di più che nel nostro. Detratti i sei, rimangono ventiquattro anni, come è stato detto.

Matusalem non ha visto il diluvio.
11. Da questo disaccordo del testo ebraico col nostro sorge una celeberrima discussione giacché si calcola che Matusalem sia sopravvissuto quattordici anni al diluvio. Invece la sacra Scrittura ricorda che fra tutti coloro che allora vivevano soltanto otto individui sfuggirono con l'arca allo sterminio del diluvio e fra di essi non c'era Matusalem 48. Stando al nostro testo Matusalem, prima di mettere al mondo il figlio chiamato Lamech, era vissuto centosessantasette anni e Lamech, prima che da lui nascesse Noè, era vissuto centottantotto anni 49. Addizionati sono trecentocinquantacinque anni. Ad essi si aggiungono i seicento anni di Noè, cioè quelli che aveva nell'anno in cui avvenne il diluvio. Sono novecentocinquantacinque anni dalla nascita di Matusalem fino all'anno del diluvio. Ora tutti gli anni della vita di Matusalem sono calcolati a novecentosessantanove anni. Aveva infatti centosessantasette anni quando mise al mondo il figlio chiamato Lamech e dopo la sua nascita visse altri ottocentodue anni che addizionati, come ho detto, diventano novecentosessantanove. Quindi sottratti i novecentocinquantacinque anni dalla nascita di Matusalem al diluvio, ne rimangono quattordici con i quali sopravvisse al diluvio. Quindi alcuni suppongono che non rimase sulla terra perché è evidente che ogni specie, a cui la natura non consente di vivere nell'acqua, fu distrutta, ma che sia vissuto per qualche tempo col padre che era stato assunto e che lì visse fino alla fine del diluvio. Costoro non vogliono sottrarre la credibilità al testo cui la Chiesa ha assicurato l'autorità di maggior credito e ritengono che il testo degli Ebrei anziché il nostro non garantisce la veridicità. Non ammettono che piuttosto nel nostro testo vi sia potuto essere l'errore dei traduttori, anziché nella lingua da cui, attraverso il greco, la Scrittura è stata tradotta nella nostra lingua. Non è credibile, dicono, che i settanta traduttori, i quali simultaneamente e sulla base di un identico criterio hanno effettuato le versione, abbiano potuto errare o voluto mentire in un caso che non coinvolgeva i loro interessi. Aggiungono che i Giudei, gelosi che la Legge e i Profeti mediante la versione siano stati trasmessi a noi, hanno contraffatto alcune notizie nel loro testo affinché diminuisse la veridicità del nostro. Si accolga come si crede questa opinione o sospetto. È certo però che Matusalem non sopravvisse al diluvio e morì nello stesso anno se è vero ciò che si legge nel testo sul numero degli anni. La mia opinione sui settanta traduttori sarà con maggior senso critico inserita nel giusto contesto, quando con l'aiuto del Signore giungerò a parlare della loro epoca nei limiti richiesti da questa opera 50. È sufficiente per il problema in atto che secondo l'uno e l'altro testo gli uomini di quel tempo furono così longevi che, durante l'esistenza di quel solo individuo primogenito della sola coppia esistente sul pianeta, il genere umano poté crescere al punto da costituire una città.

Anni di trentasei giorni.
12. 1. Non si deve assolutamente dar retta a certuni i quali ritengono che in quel tempo gli anni si computavano diversamente, erano cioè di tanta brevità da corrispondere un anno nostro a dieci dei loro. Quindi, dicono, se si sente dire o si legge che un tale è vissuto novecento anni, si deve intendere novanta poiché dieci di quegli anni è uno dei nostri e dieci dei nostri cento di quelli. E per questo, pensano, Adamo aveva ventitré anni quando mise al mondo Set e Set aveva venti anni e sei mesi quando da lui nacque Enos. La Scrittura li considera duecentocinque anni perché, come suppongono costoro di cui esponiamo l'opinione, gli antichi frazionavano in dieci parti un solo anno dei nostri e consideravano anni quelle parti. Una di queste parti è sei al quadrato perché in sei giorni Dio ha portato a compimento le sue opere per riposarsi al settimo. Ho discusso, come m'è stato possibile, l'argomento nel libro undicesimo 51. Ora sei moltiplicato per sei, cioè il quadrato di sei, sono trentasei giorni che moltiplicati per dieci sono trecentosessanta, cioè dodici mesi lunari. Rimanevano cinque giorni per completare l'anno solare e un quarto di giorno con cui, moltiplicato per quattro, si aggiunge un giorno all'anno chiamato bisestile. Dagli antichi in seguito questi giorni furono addizionati all'anno lunare affinché corrispondesse la durata degli anni. I Romani chiamarono intercalari questi giorni. Quindi, soggiungono, anche Enos, figlio di Set, aveva diciannove anni quando da lui nacque il figlio Cainan, mentre la Scrittura dice che erano centonovanta anni 52. E di seguito attraverso tutte le generazioni, nelle indicazioni degli anni degli individui prima del diluvio, non si trova nel nostro testo un patriarca che abbia avuto un figlio all'età di cento anni o sotto o anche di centoventi anni o non molto di più, ma si dà notizia che coloro i quali ebbero figli nell'età più giovane avevano per lo meno centosessanta anni e di più. Non può avere figli, aggiungono, un uomo di dieci anni che dagli antichi erano considerati cento. A sedici anni invece la pubertà matura è idonea a generare prole, ma i tempi antichi li consideravano centosessanta. E affinché non sia incredibile che allora l'anno fu computato diversamente aggiungono l'informazione, reperibile in molti storiografi, che gli Egiziani avevano l'anno di quattro mesi, gli Acarnani di sei mesi, i Lavini di tredici mesi. Plinio il Vecchio, dopo aver citato le dichiarazioni di opere di letteratura che un tale era vissuto centocinquantadue anni, un altro dieci di più, che certuni furono in vita per duecento anni, altri per trecento, che altri erano arrivati a cinquecento, altri a seicento, alcuni perfino a ottocento, ha avanzato l'ipotesi che tali notizie siano state diffuse a causa dell'ignoranza dei tempi. Alcuni, dice, delimitavano un anno con l'estate e un altro con l'inverno, altri, come gli Arcadi, lo dividevano in quattro tempi, sicché gli anni erano di tre mesi. Ha aggiunto che in un certo tempo anche gli Egiziani, di cui poco fa abbiamo ricordato gli anni brevi di quattro mesi, delimitavano gli anni col terminare della luna. Quindi, afferma, da loro si tramanda che vivevano un migliaio di anni 53.

Incongruenze della ipotesi.
12. 2. Con queste dimostrazioni ritenute convincenti quei tali non intendono screditare l'attendibilità della Storia sacra, anzi si sforzano di assicurare che non sia incredibile la narrazione secondo la quale gli antichi sono vissuti per tanti anni. Si sono quindi convinti, e non pensano di esserlo senza fondamento, che un così piccolo spazio di tempo fu allora considerato un anno al punto che dieci di quelli sono un anno per noi e dieci dei nostri cento di quelli. Con un argomento assai evidente si può dimostrare che tale interpretazione è del tutto falsa. Prima di farlo però ritengo di non dover tralasciare un'ipotesi che potrebbe essere molto attendibile. Potevo ribattere irrefutabilmente la tesi mediante il testo ebraico, in cui si legge che Adamo non aveva duecentotrenta anni ma centotrenta quando mise al mondo il terzo figlio 54. Se corrispondono a tredici dei nostri anni, certamente, quando mise al mondo il primo, aveva undici anni o non molto di più. A questa età per una comune e a noi assai nota legge di natura non si può diventare padri. Ma lasciamo da parte costui che forse lo poté anche appena creato. Non si deve ritenere infatti che, quando venne al mondo, fosse piccino come i nostri bimbi. Il figlio Set, quando mise al mondo Enos, non aveva duecentocinque anni, come si legge nel nostro testo, ma centocinque 55, quindi secondo costoro non aveva ancora undici anni. Non parlo del figlio Cainan che, quando mise al mondo Maleleel 56, nel nostro testo aveva centosettanta anni, ma settanta in quello ebraico. Non si è padri a sette anni se erano sette gli anni che in quei tempi erano considerati settanta.

Confronto fra il testo ebraico e i Settanta.
13. 1. Ma se darò simile spiegazione, mi si replicherà che è una impostura del testo dei Giudei, della quale si è parlato abbastanza in precedenza, poiché i Settanta, uomini di meritata notorietà, non hanno potuto compiere alterazioni. In proposito chiedo quale spiegazione sia più attendibile fra le due. O il popolo dei Giudei sparso dappertutto ha potuto con decisione unanime trovarsi d'accordo nel consegnare allo scritto questa falsificazione e così nell'invidiare la reputazione degli altri ha rinunziato alla verità; oppure i Settanta, anch'essi Giudei, adunati in uno stesso ambiente, perché ve li aveva convocati allo scopo Tolomeo, re d'Egitto, hanno invidiato la verità in parola ai popoli di altra razza e hanno agito in questo modo con decisione concordata. Ognuno capisce quale delle due spiegazioni si accetta con maggiore attendibilità e decisione. Ma un uomo avveduto non può supporre che i Giudei, sia pure di tanta perversità e malvagità, siano stati capaci di tanto in numerosi testi diffusi un po' dovunque o che i Settanta, uomini degni di onore, abbiano preso in comune accordo la decisione di non far conoscere la verità ai pagani. È più attendibile dire che, quando si cominciò a trasmettere copie di quelle parti della Bibbia dalla biblioteca di Tolomeo, in un solo testo si è potuto verificare un errore, cioè nel primo copiato, dal quale si è esteso agli altri. È possibile forse anche un errore dello scrivano. Non è arbitrario supporlo nel caso della vita di Matusalem e nell'altro in cui la somma non concorda per l'eccedenza di ventiquattro anni. Negli altri casi invece si ha di seguito la medesima inesattezza così che prima della nascita del figlio, inserito nella genealogia, in un testo si hanno cento anni in più e nell'altro cento in meno e dopo la nascita cento in più dove mancavano e cento in meno dove eccedevano in modo tale che la somma concordasse e questo avviene nella prima, seconda, terza, quarta, quinta e settima generazione. In essi l'errore sembra avere una certa regolarità e non sa di emergenza ma di deliberazione.

Possibili spiegazioni delle divergenze.
13. 2. Dunque la diversità di numeri differenti nel testo greco e latino e rispettivamente in quello ebraico, nei casi in cui si ha per alcune generazioni la parificazione con cento anni prima addizionati e poi sottratti, non si deve attribuire né alla malignità dei Giudei né alla diligenza o prudenza dei Settanta, ma a uno sbaglio dello scrivano che per primo prese a copiare il testo dalla biblioteca di re Tolomeo. Anche oggi, se i numeri non fanno riferimento a qualche nozione che si comprende perché facile nella teoria o si apprende per la utilità pratica, sono messi in carta con disattenzione e con maggior disattenzione sono corretti. Nessuno si pone il problema di dover apprendere quante migliaia di persone avevano singolarmente le varie tribù d'Israele 57, perché questa conoscenza non serve a nulla. E sono pochi gli uomini ai quali ne sia manifesta l'importanza pratica. Nel caso nostro, attraverso il succedersi di alcune generazioni si hanno in una cento anni in più, nell'altra cento anni in meno, e dopo la nascita del figlio menzionato nella genealogia cento anni in meno dove erano in più e cento anni in più dove erano in meno, in modo che la somma corrisponda. Certamente chi ha fatto questo computo voleva far osservare che gli antichi vivevano molti anni perché li consideravano molto brevi e propose di mostrarlo in relazione al pieno sviluppo del sesso, cioè all'età idonea a generare figli. Perciò volle far capire ai diffidenti che a quei cento anni corrispondevano dieci dei nostri, affinché non credessero che gli uomini erano tanto longevi e aggiunse cento anni a quelle generazioni in cui non rinvenne l'età idonea a generare figli e affinché il totale corrispondesse li detrasse dopo la nascita dei figli. In tal modo quel tale ha voluto tutelare l'attendibilità di età idonea ad avere figli senza frodare nel numero l'intero dell'età dei singoli individui. L'eccezione che ha introdotto per la sesta generazione, proprio essa ci avverte che egli ha fatto quel calcolo quando l'evenienza di cui parliamo lo esigeva perché non l'ha fatto quando non lo esigeva. Si è accorto infatti che nel testo ebraico per la medesima generazione Iared, prima di mettere al mondo Enoch, aveva centosessantadue anni 58, che, secondo il calcolo degli anni brevi, sono sedici anni e un po' meno di due mesi. È questa un'età adatta a generare, quindi non era necessario aggiungere cento anni brevi per toccare i nostri ventisei, né detrarli dopo la nascita di Enoch perché non li aveva aggiunti prima della nascita. È avvenuto così che non si abbia divergenza fra i due testi. Ma ci turba ancora il motivo per cui nell'ottava generazione, nel testo ebraico, prima che da Matusalem nascesse Lamech, sono riportati centottantadue anni e venti di meno nel nostro testo, in cui ordinariamente se ne hanno cento di più e dopo la nascita di Lamech si restituiscono a completare il totale che nei due testi non differisce. Se infatti voleva che i centosettanta anni fossero considerati diciassette in riferimento alla piena pubertà, non doveva né addizionare né sottrarre perché aveva riscontrato un'età idonea alla procreazione dei figli in quanto, proprio per essa, nelle altre generazioni ne aggiungeva cento se non la riscontrava. Per i venti anni invece crederemmo giustamente che sia avvenuto per un caso di inesattezza se, dopo averli detratti, non si fosse preoccupato di restituirli affinché l'intero concordasse. Ma forse c'è da ritenere che il testo sia stato manipolato con grande furbizia per nascondere l'intruglio con cui prima si aggiungono e poi si detraggono i cento anni perché anche in quel caso, in cui non era necessario, si avesse il computo non di cento anni ma di un numero qualsiasi, anche piccolo, prima detratto e poi aggiunto. Ma il fatto si può interpretare in vario modo, tanto se si ritiene o no che è avvenuto così o alla fin fine che sia o non sia così. Tuttavia, quando si riscontra discordanza nei due testi, se le due versioni non sono compossibili in ordine alla credibilità dei fatti storici, io non dubiterei affatto che sia legittimo criterio accettare preferibilmente quella dalla quale è stata realizzata la traduzione mediante gli interpreti. Difatti in tre codici greci, in uno latino e anche in uno siriaco che concordano si è riscontrato che Matusalem è morto sei anni prima del diluvio.

Insignificanza dell'anno breve.
14. 1. Ora possiamo esaminare in qual senso si può dimostrare con evidenza che gli anni non erano tanto brevi da corrispondere dieci di quelli a uno dei nostri, ma erano di durate pari a quella che abbiamo oggi, come, cioè, li determina il corso del sole, e che venivano computati nella vita assai longeva dei Patriarchi. Si ha nella Scrittura che il diluvio avvenne quando Noè aveva seicento anni. È assurdo che vi si legga: Venne l'acqua del diluvio sopra la terra nell'anno seicentesimo della vita di Noè, nel secondo mese, il ventisette del mese 59 se l'anno, tanto breve che dieci corrispondevano a uno dei nostri, aveva trentasei giorni. Un anno così piccino, seppure aveva questa denominazione nella vecchia terminologia, o non ha mesi o, per averne dodici, un suo mese è di tre giorni. Perciò in quel passo è stato detto: Nell'anno seicentesimo, nel secondo mese, il ventisette del mese, perché i mesi erano come ora. Così non si poteva dire che il diluvio era cominciato il ventisette del secondo mese. Di seguito alla fine del diluvio si legge: L'arca si adagiò nel settimo mese il ventisette del mese sui monti Ararat. L'acqua diminuì fino all'undecimo mese; nel mese undecimo, il primo del mese, apparvero le vette dei monti 60. Se dunque i mesi corrispondevano a quelli di oggi, certamente anche gli anni corrispondevano. I mesi di tre giorni non potevano giungere al ventisette. O se allora la trentesima parte di tre giorni era considerata un giorno in modo da diminuire tutti i computi di tempo in proporzione, neanche quattro giorni dei nostri durò quell'immane diluvio che, come è tramandato, durò quaranta giorni e quaranta notti. Non si può sostenere simile assurdità e stravaganza. Si respinga quindi questo errore che con una falsa ipotesi vuole costruire la credibilità della nostra Scrittura per demolirla in un altro settore. Certamente il giorno in quel tempo era lungo come in questo in cui lo delimitano ventiquattro ore nel ciclo diurno e notturno, il mese lungo come in questo tempo in cui lo circoscrive la luna nella fase crescente e calante, l'anno lungo come in questo tempo in cui lo completano dodici mesi lunari con l'aggiunta di cinque giorni e un quarto di giorno a causa del ciclo solare. Così era il secondo mese del seicentesimo anno di Noè e il giorno ventisette di quel mese quando cominciò il diluvio. Durante esso per quaranta giorni caddero ininterrottamente piogge impetuose 61 e i giorni non avevano due ore e poco più ma ventiquattro ore che si succedevano giorno e notte. Perciò i Patriarchi vissero, sia pure oltre i novecento, anni lunghi come i centosettanta che aveva Abramo 62 e dopo di lui come i centottanta che aveva il figlio Isacco 63, i centocinquanta che ebbe il figlio di lui Giacobbe 64 e come i centoventi che, dopo un po' di tempo, visse Mosè 65 e lunghi come i settanta o ottanta o non molto di più che oggi vivono gli uomini. Di essi è stato detto: Se in più, vi sono per essi fatica e dolore 66.

L'autorità dei Settanta.
14. 2. Quindi la differenza di cifre che si riscontra fra il testo ebraico e il nostro non è in contrasto per quanto riguarda la longevità dei Patriarchi e se v'è in qualche passo un disaccordo tale che non può esser vera l'una e l'altra versione, la verità dei fatti si deve ricercare dalla lingua da cui è stato tradotto il testo che abbiamo noi. Questa possibilità è alla portata di chi ne ha voglia in ogni parte del mondo, tuttavia non va omesso che nessuno ha avuto il coraggio di rettificare mediante il testo ebraico i Settanta nei molti punti in cui sembra che ne dissentano. Questa differenza infatti non è stata considerata una inesattezza né io penso che debba esser considerata tale. Si deve ammettere però che, dove non v'è una svista dello scrivano, essi, mossi dallo Spirito divino, non nell'incarico di traduttori ma nella libertà di uomini ispirati, abbiano voluto indicare un altro significato nei passi in cui si conciliava con la verità e l'annunciava. Quindi si riscontra a ragione che l'autorità degli Apostoli, quando riporta i brani della Scrittura, usa non solo il testo ebraico ma anche il loro. Ma ho promesso, con l'aiuto di Dio, di parlare a fondo sul problema in circostanza più conveniente 67, ora sbrigherò l'argomento attinente. Non si deve mettere in dubbio che sia stato possibile all'uomo, che era primogenito del primo uomo, quando erano tanto longevi, edificare una città certamente terrena, non quella che è detta città di Dio. Per parlarne abbiamo messo mano al lavoro di un'opera così importante.
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