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Gli Ordini Mendicanti -Francescani e Domenicani - e la Predicazione

Ultimo Aggiornamento: 26/01/2013 15:38
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26/01/2013 14:54

16. Gli agostiniani

Se nel corso del Trecento i Mendicanti conoscono momenti di crisi, e soprattutto dopo la peste del 1348 i francescani sembrano destinati a una rapida decadenza morale e culturale, gli agostiniani riescono a esprimere una grande e raffinata letteratura, capace di attirare scrittori come il Petrarca e il Boccaccio. Severi e spietati censori dei frati ignoranti e indegni delle loro origini, essi riconoscono in un agostiniano, Dionigi di Borgo San Sepolcro, un caro e grande maestro. All'inizio del secolo l'ordine agostiniano vanta scrittori politici di primo piano e predicatori d'altissimo livello. Egidio Romano (1247-1316), allievo dell'Aquinate e Generale del suo ordine, poi vescovo influente di Bourges, accanto alle sue opere più famose (tra cui il De regimine principum, composto per Filippo il Bello) scrisse alcuni sermoni, di cui sono giunti solo frammenti. Agostino Trionfo (1243-1328), condiscepolo di Egidio a Parigi alla scuola di san Tommaso e poi lettore delle Sententiae in quello Studio, predicò a Mantova, ad Ancona, e soprattutto a Napoli, dove fu chiamato da Carlo II, che lo ebbe tra i suoi consiglieri. I suoi sermoni (De Tempore, De Sanctis) ci sono conservati da un elevato numero di codici, segno della loro ampia diffusione e del prestigio dell'autore. Forse il più grande predicatore agostiniano del Trecento fu Alberto da Padova († 1328), celebre maestro dell'Università di Parigi, autore di vastissime sillogi omiletiche (Postilla super evangelia dominicalia; Postilla super evangelia quadragesimalia): la sua predicazione fu diretta quasi esclusivamente agli studenti e ai colleghi universitari.

In un contesto ben diverso si svolse la predicazione a fondo profetico e politico di Jacopo Bussolari. Jacopo era nato a Pavia da un tornitore di bossolo (da cui il soprannome), ed era entrato giovanissimo nell'ordine degli eremitani; dopo un periodo di tirocinio al convento di Alessandria, era tornato (1356) nella sua città. Pavia, ceduta dai Visconti al marchese del Monferrato, Giovanni Paleologo, era di fatto tiranneggiata dalla famiglia dei Beccaria: il Bussolari, approfittando dello scontento popolare determinato dal rincaro del grano e della farina, si mise a capo del popolo, cacciò i Beccaria, e restaurò le libertà comunali. L'arma più potente del Bussolari era la parola, che conquistò non solo il popolo, ma l'aristocrazia e uomini quali Francesco Petrarca, che la definì «celeste» («celitus data»). Purtroppo di questa predicazione, dove le idee politiche si confondevano con le minacce apocalittiche e con gli incitamenti morali in una torbida e affascinante mistura savonaroliana ante litteram, non ci è giunto, com'era da prevedere, neppure una riga. Caduta la città dopo tre anni d'assedio (1359), Jacopo, prigioniero a Vercelli nel carcere conventuale, sarà costretto al silenzio: di lì uscirà dopo quattordici anni per andare a morire a Ischia, presso il fratello vescovo (1380). Il livello popolare della predicazione agostiniana, mancando i sermoni del Bussolari, è rappresentato significativamente dall'opera di Simone Fidati da Cascia († 1348), ammiratore di Angelo Clareno e predicatore acclamato dalla folla a Roma, Perugia, Gubbio, Firenze, Siena. Egli è noto soprattutto per avere scritto, a istanza di Tommaso Corsini, un grande amico degli agostiniani, l'Ordine della vita cristiana, che si può definire un catechismo; e inoltre per le sue lettere che lo pongono tra i più grandi maestri di spiritualità del Trecento. Un discepolo di Simone, fra Giovanni da Salerno (1317-1388), ci ha lasciato una biografia vivace ed essenziale e ne ha volgarizzato, col titolo di Esposizioni sopra i Vangeli, l'opera più impegnativa: il De gestis Domini Salvatoris. Il volgarizzamento, pur essendo costruito a trattato, rispecchia abbastanza fedelmente la predicazione del Fidati: i Vangeli vengono via via esposti, cioè commentati versetto per versetto, secondo un metodo che rimase sempre in uso in Italia, anche dopo il trionfo del sermo modernus.

Le Esposizioni furono copiate molte volte: uno dei codici più interessanti, conservato a Siena, fu esemplato da Filippo degli Agazzari (1340-1422), che fu priore nel convento di Lecceto (Siena), dove poté conoscere e apprezzare fra Giovanni. L'Agazzari, pur assistendo al fiorire di una cultura nuova, quella umanistica, è un tipico rappresentante della mentalità tardo-medievale. Di lui rimane una silloge di esempi, compilata in vista della predicazione, dove le paure e le contraddizioni del Tardo Medioevo trovano un'allucinata espressione.

17. Conclusione: la predicazione dei laici

Nel XII secolo la predicazione dei laici, incluse le donne, era stato uno dei tratti caratteristici dell'eresia. La condanna di Valdo, confuso ingiustamente con catari e patarini nel canone De haereticis promulgato al Concilio di Verona (1184), è diretta conseguenza del suo rifiuto di interrompere la predicazione lionese. Due secoli dopo, alla corte angioina, il sermone diventa la forma letteraria normalmente usata dal sovrano e dagli alti funzionari per esprimere non solo contenuti religiosi, ma anche e soprattutto idee politiche. Roberto d'Angiò, che Dante definì sprezzantemente «re da sermone» (Purgatorio VIII, 147), si compiace di predicare nelle chiese napoletane durante la Messa; e di tenere pompose collationes, cioè sermoni di circostanza, nelle più varie occasioni. Il suo logoteta Bartolomeo da Capua, sommo giurista e artefice della politica angioina nella prima metà del secolo, si serve del sermone per annunciare sentenze giudiziarie, per accordare la laurea agli studenti dell'Università, per svolgere la sua varia e intensa attività diplomatica.
L'uso epidittico e politico del sermone non è una novità assoluta: se ne era servito nel XIII secolo Francesco d'Accursio; e nella prima metà del secolo il giudice Albertano da Brescia aveva pronunciato davanti ai causidici e ai francescani della sua città cinque sermoni che trattano dei principi fondamentali del diritto; perfino alla corte di Napoli si continuava in fondo una tradizione inaugurata da Pier delle Vigne, che si era servito abilmente della tecnica omiletica. Tuttavia il fenomeno diventa generale nel Trecento: nella mancanza di una tecnica sicura dell'oratoria politica, che vive ormai stentatamente nelle «dicerie» in volgare, alla vigilia dell'eloquenza civile umanistica, il sermone latino sembra lo strumento più dignitoso e solenne per l'allocuzione morale e politica. Alcuni dei personaggi più celebri e rappresentativi del secolo, il Petrarca e Cola di Rienzo, ricorrono al sermone «moderno» per esprimere le loro profezie politiche o per assolvere ai propri compiti di diplomatico. È un segno della grande perfezione tecnica raggiunta dal genere omiletico, e anche della sicurezza con la quale ormai la Chiesa domina le residue minacce ereticali; ma indica nello stesso tempo una decadenza dell'autentica eloquenza religiosa.
Franco Sacchetti, grigio borghese del secolo declinante, può scrivere a tavolino, per risolvere una crisi morale e per chiarire a se stesso la propria vocazione di narratore, un vero e proprio quaresimale che non venne, ovviamente, mai predicato: le 49 Sposizioni di Vangeli, dove si propone la vecchia teoria della mediocritas come via sicura alla pace e alla giustizia. Spetterà, nel secolo seguente, ancora una volta ai Mendicanti, soprattutto ai francescani, rinnovati dai movimenti rigoristi dell'Osservanza, dare nuova vita alla predicazione, scuotendo e entusiasmando quelle grandi masse escluse o disprezzate dalla splendida e raffinata cultura umanistica.


Bibliografia





[Modificato da Caterina63 26/01/2013 14:55]
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