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R.Ugo Benson L'Amicizia di Cristo

Ultimo Aggiornamento: 23/03/2017 14:55
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23/03/2017 14:49

X.

CRISTO NELL'UOMO COMUNE

«Quel che avrete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, lo avrete fatto a me».

(Mt., XXV, 40).


Abbiamo considerato come sia relativamente facile ravvisare Cristo nel Sacerdote e nel Santo. Nel Sacerdote Egli sacrifica; nel Santo si trasfigura, o piuttosto, trasfigura l'umanità ancora una volta con la Sua gloria. E la sola difficoltà di riconoscere Cristo nel peccatore corrisponde a quella che rende arduo il ravvisarLo nel Crocifisso, difficoltà, che una volta superata, diviene luminosa per la luce che sprigiona sul Divino Carattere. Abbiamo anche veduto che chi non vede Cristo in questi tipi di umanità si lascia sfuggire incalcolabili occasioni di avvicinarsi a Lui e di apprendere la completezza e la varietà di questa Amicizia che Egli porge a noi.
Ma Cristo si presenta in forme ancora più originali di queste; e stranissimo sembra ciò ch'Egli dice, quando afferma che non solo questo e quell'individuo in particolare, ma l'«uomo comune» il nostro «prossimo» è il Suo Rappresentante e Vicario sulla terra così (sebbene in senso completamente diverso) come il Sacerdote o il Pontefice.

I.  Egli ci rivela questa verità quando descrive il suo ritorno allorché verrà a giudicare l'umanità (Mt., XXV, 31 ss.). Da un lato saranno i predestinati; dall'altro i dannati; e l'unica ragione ch'Egli dà, in questo discorso, della separazione eterna dei due gruppi è che i primi L'hanno servito nel loro prossimo; gli altri Lo hanno trascurato. «Quello che avrete fatto al più piccolo dei miei fratelli l'avrete fatto a me». Perciò gli uni parteciperanno alla vita; gli altri alla morte.
Ci troviamo subito imbarazzati da una apparente ignoranza  che a prima vista sembrerebbe genuina e sincera  circa il merito o il demerito delle due classi nella loro vita terrena. Ambedue obbiettano rispettivamente contro la sentenza di salvezza e di condanna «Signore, quando ti vedemmo affamato... o assetato... o nudo... o malato o in prigione? ...». «Noi mai coscientemente ti abbiamo servito», dicono gli uni. «Noi mai coscientemente ti abbiamo respinto», ripetono gli altri. Per risposta nostro Signore ribatte l'affermazione che servendo o respingendo il prossimo, essi hanno rispettivamente, servito o respinto Lui stesso. Tuttavia non dilucida come un'azione posta senza coscienza possa dinanzi a Lui assumere ragione di merito o demerito.
La spiegazione però non è molto difficile: dipende dal fatto che l'ignoranza non è completa. Perché è un fatto d'esperienza comune constatare che noi sentiamo un'attrattiva naturale verso il nostro prossimo e che non lo possiamo allontanare senza una colpa morale. Può darsi che per ignoranza o per volontario allontanamento della luce non si capisca o non si creda la Paternità di Dio o i diritti di Gesù Cristo; ma nessuno ha vissuto una vita egoistica fin dall'inizio, nessuno ha deliberatamente rifiutato l'amore al suo prossimo, o negato la Fratellanza, senza sentire, almeno in qualche periodo, che ciò era oltraggioso ai più alti istinti. Sanno bene i Cristiani che il secondo e grande comandamento trae la sua forza dal primo ed è ancora assolutamente certo che quantunque, per una ragione o per l'altra non si possa percepire la forza del primo, nessuno tuttavia può rigettare senza coscienza di colpa il secondo.
Cristo infatti è la luce che illumina ogni uomo (Gv., I, 9). Egli è attualmente la Voce dell'Eterna Parola (sebbene il suo Nome e le azioni storiche possano essere sconosciute), che parla nella voce della coscienza. Conculcando perciò i diritti del prossimo, si calpestano i diritti del Figlio dell'Uomo. Non si può addurre per scusa che la figura storica di Cristo domanda il nostro culto; non è questo il punto. Rimane sempre vero che trascurare il nostro prossimo è resistere a un impulso interiore, imperioso e giudice, a un impulso, che nonostante l'ignoranza dell'uomo circa la origine e identità di tale impulso con la Voce che parlò nella Giudea, afferma i suoi diritti attraverso il senso morale del giusto.
Pilato non fu condannato perché ignorava gli articoli del credo niceno, o perché non seppe identificare il Prigioniero che gli era stato portato dinanzi: fu condannato perché rinnegò le pretese della giustizia e del diritto che ha l'innocente per esser rilasciato libero. Egli oltraggiò la Fede Incarnata perché oltraggiò la Giustizia.
Dunque questo è un fatto innegabile. Chi non accetta il Secondo comandamento, implicitamente non può accettare il primo. Chi rigetta Cristo nell'uomo non può accettare Cristo in Dio. «Chi non ama i suoi fratelli che vede, come può amare Dio che non vede?». (I Joh., IV, 20).

II.  Abbiamo visto come sia relativamente facile riconoscere Cristo sotto ciò che chiamiamo i suoi aspetti sensazionali. La stupefatta ammirazione che noi proviamo per i sovrumani prodigi dei Santi; l'invincibile repulsione che si sente dinanzi a bestiali degradazioni, e agli eccessi spaventevoli di peccatori, sono in fondo un inconscio omaggio alla Immagine divina e alla sua presenza in loro, manifestata, nel primo caso, oltraggiata, nel secondo. Non è più facile, comunque, riconoscere Cristo nell'uomo comune che riconoscere la Divina volontà e provvidenza in noiose circostanze. Com' è possibile, ci domandiamo, che l'Unico si trasformi nell'Ordinario, che il più Bello dei fanciulli si nasconda sotto il velo dell'inattraenza, che Colui «scelto tra mille» (Cant., V, 10) si celi dietro il Comune? Tuttavia, se l'amore per il nostro prossimo ha un significato, vuol dire precisamente questo: «Cristo nel Cuore d'ogni uomo che pensa a me... (così come nel cuore di chi non mi rivolge mai un pensiero). «Cristo nella bocca di ogni uomo che parla di me. Cristo in ogni occhio che mi vede. Cristo in ogni orecchio che mi ascolta» (Cfr. il «Pettorale di S. Patrizio»). Il marito, ad es., deve veder Cristo nella moglie vanitosa che spende metà della sua fortuna e tutte le sue energie per obbedire all'etichetta di società. La moglie deve veder Cristo nel marito che non si occupa se non dei suoi affari giornalieri e dei suoi spassi domenicali. La zitella lasciata a casa deve trovar Cristo nei suoi loquaci vecchietti, e nelle faccende domestiche; i suoi genitori devono trovar Cristo nella loro figlia poco brillante e non attraente. Il Benedettino deve veder Cristo in ogni ospite che viene al monastero e lo deve accogliere come se fosse il suo adorabile Signore e Maestro. Nel nostro prossimo, e nel piano comune in cui egli e noi ci moviamo, dobbiamo sempre ravvisare Colui che inabita «nel forte, nel carro, nella nave», dobbiamo sempre ravvisare Colui che inabita l'Eternità; altrimenti non possiamo vantarci di conoscerLo com'Egli è.

III.  In fare ciò perfettamente e costantemente consiste la Santità. Trovare Lui qui, è trovarLo dovunque. Se Lo rincontriamo qui, ci sarà facile riconoscerLo, nel Santo, nel Peccatore, nel Sacerdote, nella Chiesa e nel SS. Sacramento. E non c'è scorciatoie alla Santità.
Comunque, due considerazioni s'impongono:
1) Abbiamo da ricordarci continuamente il dovere; abbiamo da rimanere insoddisfatti di noi medesimi fino a che non impariamo a praticarlo. Negli allettamenti e seduzioni che vanno comunemente sotto il nome di «religione» si nasconde l'insidioso pericolo di scambiarli con la religione stessa. Non c'è nulla di più seducente, allorché la religione chiama a suo aiuto tante bellezze di arte e di devozione. Possiamo anche procedere più oltre ed affermare che le attuali celesti consolazioni elargiteci «per nostra salute» diventano «un'occasione di peccato». Cristo accarezza 1'anima, l'attrae e l'incanta, specialmente nei primi stadii della vita spirituale, per incoraggiarla a moltiplicare i suoi sforzi; ed è una vera insidia spirituale se noi scambiamo i regali di Cristo con Cristo stesso, la religiosità con la religione e la gioia possibile sulla terra con la gioia che ci aspetta nel cielo, se scambiamo in una parola l'invocazione «Signore! Signore!» con il «fate la Volontà del Padre che è nel cielo». (Mt., VII, 21). Continuamente e costantemente noi dobbiamo controllare i nostri progressi con i risultati pratici. Io trovo sempre più facile onorare Cristo nel Tabernacolo: trovo io per ciò più facile servire Cristo nel mio prossimo? Se no, io non ho fatto alcun reale progresso. Io non avanzo, per così dire, su tutta la linea: io spingo innanzi un settore della mia vita a danno del resto: io coltivo la mia amicizia con Cristo: sviluppo piuttosto una mia particolare concezione della Sua Amicizia (che è tutt'altra cosa). Io cado così nel più fatale tranello della vita interiore.

«Io Lo trovo nello splendore delle stelle.
«Io Lo trovo nella fioritura dei campi.
«Ma nelle sue vie con l'uomo, non lo trovo».
(Morte d'Arthur, Tennyson),

E perciò io non Lo trovo come Egli desidera essere trovato.
2) Un secondo aiuto per individuare Cristo consiste in un incremento di autocognizione. La mia suprema difficoltà si riduce solo ad una superficiale e fantastica difficoltà: quella di realizzare il mezzo onde distinguere l'Unico che si presenta sotto le forme del Comune. Perciò, se io arriverò a conoscere meglio me stesso e comprenderò quanto anche io sono comune, ed insieme, scoprirò che Cristo tuttavia mi sopporta, mi tollera e dimora in me, mi sarà più facile realizzare che Cristo è nel mio prossimo. Se io vado ancora più a fondo e penetro attraverso gli strati del mio carattere, e imparo a ciascuna scoperta come l'amor proprio pervada il tutto, quanto fiacco vi sia lo zelo per la gloria di Dio, e quanto immensa la preoccupazione per me stesso, come le mie azioni migliori siano avvelenate da motivi inferiori, e che nonostante ciò Cristo scende nel Tabernacolo e splende in un cuore nuvoloso come il mio cuore, mi diventa sempre più facile capire che Egli può agevolmente nascondersi sotto l'esteriorità del mio prossimo che io trovo così antipatico, ma della cui indegnità io non potrò essere mai così persuaso come sono della mia. «Fendete il legno», guardate attraverso la stupidità delle vostre teste di legno, «e voi mi troverete. Sollevate le pietre», incidete quell'insensibile, impietrita cosa che voi chiamate cuore «ed io sono lì». (Dai «Logia» di Gesù). E allora, avendo trovato Cristo in voi stesso, potrete trovarLo anche nel vostro prossimo.


XI.

CRISTO NEL SOFFERENTE

«Io compio ciò che manca delle sofferenze di Cristo».

(Coloss., I, 24)

Noi abbiamo considerato come Cristo, la Chiave della Casa di David, è risoluzione e risposta a molte obiezioni che gli acattolici trovano difficili da intendere. Ad es., ci si accusa di predicare «la Chiesa più che Cristo», di essere superstiziosi, se non proprio idolatri, nel culto verso il SS. Sacramento e nella riverenza verso i Santi, di esaltare inverosimilmente il Sacerdozio cattolico, dimostrarci troppo condiscendenti verso i peccatori e troppo indulgenti nelle assoluzioni. Non c'è bisogno che il cervello si affanni per trovare che Cristo è la risoluzione di tutto ciò, ma le difficoltà spariscono da sole in un batter d'occhio; poiché, capito che la Chiesa è il Corpo stesso in cui Cristo dimora ed opera, che il SS. Sacramento è Lui stesso nella medesima Natura Umana con cui visse sulla terra e che ora trionfa nel Cielo, che la Santità dei Santi è la Sua, che le parole e le azioni sacerdotali sono le parole e le azioni dell'Eterno Sacerdote e che i diritti del peccatore e degli altri si collegano alla Presenza di Cristo oltraggiato e crocifisso o disconosciuto in essi, nell'istante stesso in cui queste cose si percepiscono e Cristo s'intravede come permeando questi piani e regni, in ciascuno nella propria maniera, non soltanto ogni difficoltà sfuma, ma nuove ed incredibili vie si aprono per le quali Cristo può essere avvicinato e appreso come l'Amante e l'Amico delle Anime, desideroso solo di essere amato e conosciuto.
Consideriamo dunque ancora una volta un tale tipo, un problema cioè che è più vasto del cattolicismo dogmatico poiché è d'ogni filosofia e religione, e vediamo se anche di esso Cristo sia la chiave: il problema del dolore.

I.  È il problema che rode il cuore di ciascuno che tenta risolvere l'enigma dell'Universo, il quesito del perché il dolore sia, o almeno sembri essere il compagno inseparabile della vita. Mille tentativi furono fatti per rispondervi. Una risposta è quella del Monismo, per cui non esiste un Dio attuale, di infinito amore e potere, e il dolore non è che un prestanome onde esprimere gli sforzi dell'incipiente Divinità a realizzare se stessa.
Altra risposta è quella del Buddismo: la pena è un'inevitabile conseguenza del peccato personale, e le sofferenze di ciascuno sono sanzioni di delitti commessi in una vita precedente. Doveva essere riservato a una teoria dei nostri giorni affermare che il problema non esiste perché non esiste dolore! Che tutto è illusione, che «il pensiero lo crea». Ma in codesto sistema nessuno ha spiegato perché il pensiero debba assumere una forma così infelice, perché noi dobbiamo pensare così.
Il problema esiste. Noi lo vediamo allorché imploriamo una soluzione per ogni fanciullo innocente che soffre nel suo corpo, forse per i peccati dei suoi parenti, per ogni cuore trepidante tormentato dall'amore o dal risultato di delitti dei quali non è responsabile: e sopra tutto per qualsiasi anima affaticata e ottenebrata che pensa d'aver mortalmente e irreparabilmente offeso un Dio al Quale s'è studiata di servire il più fedelmente possibile. Non è la diretta ed immediata conseguenza del peccato per il peccatore che ci fa difficoltà; noi non siamo scossi allorché l'assassino viene impiccato, o il marito che bastona la moglie, staffilato, tanto la nostra idea del Giusto e la Idea Divina sono coerenti. Ma è quanto un fanciullo che è del tutto incapace di comprendere una lezione di morale, soffre per un peccato che egli non può neanche immaginare; quando un carattere mansueto per natura è reso furioso e amareggiato per un dolore che sa di non essersi meritato; quando dispiaceri su dispiaceri si accumulano in un'anima che sembra aver diritto alla gioia, mentre d'altra parte scorgiamo «i malvagi esaltati fino al cielo» (Ps. XXXVI, 35); allora noi ci meravigliamo.

II.  Innanzi tutto è necessario notare che la ragione essenziale per cui l'intelletto non riesce ad analizzare con soddisfazione questo supremo problema dipende dal fatto che non ha mai imparato a farlo. Sarebbe una pazzia sottoporre l'amore di una madre al microscopio o scrutare l'universo con telescopio nella speranza di trovare Dio. Il dolore è uno di quei fatti fondamentali che va scrutato con tutte le forze dell'uomo, con il suo cuore, con la sua volontà, con la sua esperienza e anche con la sua testa; oppure per niente. Propriamente parlando l'intelligenza è adeguata solo alle «scienze esatte» che in altri termini significa l'astrazione intellettuale dal campo del fatto concreto. lo posso addizionare infallibilmente due più due, perché «due più due» è un'astrazione che il mio intelletto fa del mondo che lo circonda. Ma io non posso congiungere due persone insieme e calcolare con precisione gli effetti che se ne derivano sia riguardo a loro che riguardo a me stesso. Se il Problema del Dolore si deve risolvere completamente, bisogna sia risolto dall'uomo e non da una sola frazione di lui.
E quando noi ci volgiamo a Cristo crocifisso, sapendo chi e che cosa Esso sia, ci accorgiamo che il problema ci si pone dinanzi nella sua forma più saliente. Non è un uomo che lì è appeso, comunque innocente; ma è Uomo senza sua colpa. Non è uomo non caduto che lì è appeso, ma è il Dio Incarnato. Certamente ciò non costituisce una risposta del come possa giustificarsi la sofferenza di uno per i peccati di un altro; ma ci si spiega con evidenza come uno possa soffrire in tal modo, con la coscienza del fatto, e che possa tuttavia rassegnarsi; e, inoltre, si comprende come la Legge dell'Espiazione è di un'estensione e di un effetto così vasto e fondamentale che lo stesso Legislatore può sottomettersi a lei. Ne proviene allora a noi Cristiani una certezza di cui abbiamo bisogno; perché ci viene dimostrato che il dolore non è una infelice condizione della vita, non un capriccio d'una trascuratezza selvaggia, non un sforzo tormentoso da parte di un Dio embrionale, ma un episodio della vita così augusto e così elevato che, per il fatto stesso che il Creatore vi si sottomette, è necessario schierarsi sotto il Divino Gagliardetto della Giustizia all' ombra del quale devono propagarsi le nostre personali idee di giustizia. Ciò non spiega il problema; egli si afferma ancora, forse più meravigliosamente di prima; tuttavia per i Cristiani produce almeno l'effetto di dimostrare il totale elaborato e «prescritto» (la frase è di S. Paolo) dinanzi ai nostri occhi.
Accettando questo principio, sia come ipotesi di lavori, sia come fede nell'Espiazione da Cristo sopportata secondo questa incomprensibile Legge ritorniamo ancora agli altri innocenti che soffrono, al fanciullo impotente, alla madre che agonizza, all'anima malinconica, ottenebrata.
Se isoliamo costoro dal resto del genere umano, se li separiamo dall'ambiente e li esaminiamo uno per uno, di nuovo c'è da rimanerne sconcertati. Ma se noi facciamo quello che realmente bisognerebbe fare dopo queste considerazioni, meditare cioè come sia possibile scorgere in loro Cristo, la luce torna a splendere di nuovo...
Abbiamo riflettuto poco fa su i diritti della Chiesa, l'organo santificato dell'umanità, ad essere il corpo in cui Cristo dimora poiché ciò è innegabile, allora, come noi vediamo nell'autorità della Chiesa l'autorità di Cristo, la Sua santità in lei, il Suo sacerdozio nei suoi ministri, così dobbiamo vedere nelle sue pene il Suo Calvario. Questi sofferenti sono la diramazione di Cristo crocifisso, come i Suoi Sacerdoti sono i Suoi agenti. Quel che Egli fece sul Calvario, la misteriosa espiazione dove l'Umanità unita con Dio era la vittima, Egli lo rinnova nel Sacrificio della Messa; vediamo ora di nuovo come Egli offra lo stesso Sacrificio, quantunque in maniera diversa, nel sangue e nelle lacrime di coloro che si uniscono a Lui.
«Io adempio quelle cose» dice S. Paolo, «che mancano alla Passione di Cristo».
«Io compio cioè», può dire il sofferente, « nei confini della mia umanità, quell'espiazione che Egli offrì in Se stesso. Io sono il ministro di. Cristo, come lo è in una maniera il suo sacerdote, come lo è il Suo Santo in altra, come lo è tutta la Chiesa». Non si deve far gran caso se il sofferente sia o no del tutto consapevole del suo risultato, perché è in forza dell'umanità comune a lui e a Cristo che il suo dolore si rende utile; il Sacerdote all' altare può essere un infedele o violentemente distratto, e tuttavia consacra il Corpo del Signore; il febbricitante può ribellarsi e prorompere in furiosi lamenti, e tuttavia è Cristo paziente che soffre in lui.
Allora, dove consiste il valore d'un volontario sacrificio? Riposa in questo che con esso, almeno praticamente, si risolve il problema del dolore; le parole «un sofferente volontario» formano una frase che dipinge un'anima che lo ha risolto; e non, cioè, ch'ella abbia fatto l'impossibile, ovvero coartato il problema nei limiti del suo intelletto; ma che l'anima ha conseguito in una maniera o nell'altra quello che l'intelletto da solo non poteva raggiungere ha sollevato tutto il suo essere (lanciato verso la Divinità per cui la Legge dell'Espiazione è un principio evidente) si è sollevato a quella sublime atmosfera dove Cristo consegna la Sua Anima nelle braccia del Padre, dove per sempre tace quel tremendo quesito che tortura quelli fra noi che solamente stanno lì a contemplarlo.

III.  Quanto angusta e tremenda diventa perciò la dignità dell'anima sofferente che vedendo Cristo entro di lei, desidera unire la sua sofferenza con la Sua, o, piuttosto, di offrire il suo dolore come strumento della Sua espiazione, poiché Cristo solo può portare i peccati del mondo! Questi vivi crocifissi stanno assolutamente in chiaro, circa quel rissoso mondo di controversia, in cui noi disputiamo. E noi guardando in loro e scorgendo che non sono semplicemente delle anime che si contorcono nell'agonia, ma anime in cui Cristo si mostra evidentemente crocifisso, impariamo ancora una lezione della Amicizia di Cristo, e forse l'ultima, che Egli che nel suo glorioso e mistico Corpo esige la nostra obbedienza, nel Suo Corpo sacramentato la nostra adorazione, nel Suo Sacerdote la nostra riverenza, nei Suoi Santi la nostra ammirazione e per i Suoi cari Peccatori il nostro perdono, domanda anche, a coloro che esteriormente ed interiormente si sono conformati, a Lui, vale a dire che sopportano il proprio dolore solo perché Egli lo sopporta per loro (ed in ciò consiste la più dolce fra le emozioni dell'Amicizia), la nostra tenerezza e la nostra compassione.
«Io adempio in me quelle cose che mancano alle sofferenze di Cristo».
Allora affrettiamoci ad offrire il vino, invece dell'aceto, al nostro Amico che lo domanda ad alta voce.



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