QUESTO FORUM E' CONSACRATO ALLO SPIRITO SANTO... A LUI OGNI ONORE E GLORIA NEI SECOLI DEI SECOLI, AMEN!
 
Innamoriamoci della Sacra Scrittura! Essa ha per Autore Dio che, con la potenza dello Spirito Santo solo, è resa comprensibile (cf. Dei Verbum 12) attraverso coloro che Dio ha chiamato nella Chiesa Cattolica, nella Comunione dei Santi. Predisponi tutto perché lo Spirito scenda (invoca il Veni, Creator Spiritus!) in te e con la sua forza, tolga il velo dai tuoi occhi e dal tuo cuore affinché tu possa, con umiltà, ascoltare e vedere il Signore (Salmo 119,18 e 2 Corinzi 3,12-16). È lo Spirito che dà vita, mentre la lettera da sola, e da soli interpretata, uccide! Questo forum è CONSACRATO ALLO SPIRITO SANTO e sottolineamo che questo spazio non pretende essere la Voce della Chiesa, ma che a Lei si affida, tutto il materiale ivi contenuto è da noi minuziosamente studiato perchè rientri integralmente nell'insegnamento della nostra Santa Madre Chiesa pertanto, se si dovessero riscontrare testi, libri o citazioni, non in sintonia con la Dottrina della Chiesa, fateci una segnalazione e provvederemo alle eventuali correzioni o chiarimenti!
 
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Apparecchio alla Morte di sant'Alfonso Maria de Liguori

Ultimo Aggiornamento: 10/07/2019 00:04
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09/07/2019 23:14

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RITRATTO D'UN UOMO DA POCO TEMPO PASSATO ALL'ALTRA VITA


Pulvis es, et in pulverem reverteris (Gen 3,19)


PUNTO I


Considera che sei terra, ed in terra hai da ritornare. Ha da venire un giorno che hai da morire e da trovarti a marcire in una fossa, dove sarai coverto da' vermi. "Operimentum tuum erunt vermes" (Is 14,11). A tutti ha da toccare la stessa sorte, a nobili ed a plebei, a principi ed a vassalli. Uscita che sarà l'anima dal corpo con quell'ultima aperta di bocca, l'anima anderà alla sua eternità, e 'l corpo ha da ridursi in polvere. "Auferes spiritum eorum, et in pulverem revertentur" (Ps 103,29).


Immaginati di veder una persona, da cui poco fa sia spirata l'anima. Mira in quel cadavere, che ancora sta sul letto, il capo caduto sul petto: i capelli scarmigliati ed ancor bagnati dal sudor della morte: gli occhi incavati, le guance smunte, la faccia in color di cenere, la lingua e le labbra in color di ferro, il corpo freddo e pesante. Chi lo vede s'impallidisce e trema. Quanti alla vista di un parente o amico defunto hanno mutato vita e lasciato il mondo!


Maggior orrore dà poi il cadavere, quando principia a marcire. Non saranno passate ancora 24 ore ch'è morto quel giovine, e la puzza si fa sentire. Bisogna aprir le finestre e bruciar molto incenso, anzi procurare che presto si mandi alla chiesa, e si metta sotto terra, acciocché non ammorbi tutta la casa. E l'essere stato quel corpo d'un nobile, o d'un ricco non servirà che per mandare un fetore più intollerabile. "Gravius foetent divitum corpora", dice un autore.


Ecco dove è arrivato quel superbo, quel disonesto! Prima accolto e desiderato nelle conversazioni, ora diventato l'orrore e l'abbominio di chi lo vede. Ond'è che s'affrettano i parenti a farlo cacciar di casa, e si pagano i facchini, acciocché chiuso in una cassa lo portino a buttarlo in una sepoltura. Prima volava la fama del suo spirito, della sua garbatezza, delle sue belle maniere e delle sue lepidezze; ma tra poco ch'è morto, se ne perde la memoria. "Periit memoria eorum cum sonitu" (Ps 9,7).


Al sentir la nuova della sua morte altri dice: Costui si facea onore; altri: Ha lasciata bene accomodata la casa; altri se ne rammaricano, perché il defunto recava loro qualche utile; altri se ne rallegrano, perché la sua morte loro giova. Del resto, tra poco tempo da niuno più se ne parlerà. E sin dal principio i parenti più stretti non vogliono sentirne più parlare, affinché non si rinnovi loro la passione. Nelle visite di condoglienze si parla d'altro; e se taluno esce a parlar del defunto, dice il parente: Per carità non me lo nominate più.


Pensate che siccome voi avete fatto nella morte de' vostri amici e congiunti, così gli altri faranno di voi. Entrano i vivi a far comparsa nella scena e ad occupare i beni e i posti de' morti; e de' morti niente o poco si fa più stima o menzione. I parenti a principio resteranno afflitti per qualche giorno, ma tra poco si consoleranno con quella porzione di robe, che sarà loro toccata; sicché tra poco più presto si rallegreranno della vostra morte; e in quella medesima stanza, dove voi avrete spirata l'anima, e sarete stato giudicato da Gesù Cristo, si ballerà, si mangerà, si giuocherà e riderà come prima; e l'anima vostra dove allora starà?


PUNTO II


Ma per meglio vedere quel che sei, cristiano mio, dice S. Gio. Grisostomo: "Perge ad sepulcrum, contemplare pulverem, cineres, vermes, et suspira". Mira come quel cadavere prima diventa giallo e poi nero. Dopo si fa vedere su tutto il corpo una lanugine bianca e schifosa. Indi scaturisce un marciume viscoso e puzzolente, che cola per terra. In quella marcia si genera poi una gran turba di vermi, che si nutriscono delle stesse carni. S'aggiungono i topi a far pasto su quel corpo, altri girando da fuori, altri entrando nella bocca e nelle viscere. Cadono a pezzi le guance, le labbra e i capelli; le coste son le prime a spolparsi, poi le braccia e le gambe. I vermi dopo aversi consumato tutte le carni, si consumano da loro stessi; e finalmente di quel corpo non resta che un fetente scheletro, che col tempo si divide, separandosi l'ossa, e cadendo il capo dal busto. "Redacta quasi in favillam aestivae areae, quae rapta sunt vento" (Dan 2,35). Ecco che cosa è l'uomo, è un poco di polvere, che in un'aia è portata dal vento.


Ecco quel cavaliere, ch'era chiamato lo spasso, l'anima della conversazione, dov'è? Entrate nella sua stanza, non v'è più. Se ricercate il suo letto, si è dato ad altri; se le sue vesti, le sue armi, altri già se l'han prese e divise. Se volete vederlo, affacciatevi a quella fossa, dov'è mutato in succidume ed ossa spolpate. Oh Dio quel corpo nutrito con tante delizie, vestito con tanta pompa, corteggiato da tanti servi, a questo si è ridotto? O santi, voi l'intendeste, che per amore di quel Dio che solo amaste in questa terra, sapeste mortificare i vostri corpi, ed ora le vostre ossa son tenute e pregiate come reliquie sacre tra gli ori, e le vostre belle anime godono Dio, aspettando il giorno finale, in cui verranno anche i vostri corpi per esser compagni della gloria, come sono stati della croce in questa vita. Questo è il vero amore al corpo, caricarlo qui di strazi, acciocché in eterno sia felice; e negargli quei piaceri, che lo renderanno infelice in eterno.


PUNTO III


Fratello mio, in questo ritratto della morte vedi te stesso, e quello che hai da diventare. "Memento, quia pulvis es, et in pulverem reverteris". Pensa che tra pochi anni, e forse tra mesi o giorni diventerai putredine e vermi. Giobbe con questo pensiero si fece santo: "Putredini dixi, pater meus es tu, mater mea et soror mea vermibus" (Iob 17,14).


Tutto ha da finire; e se l'anima tua in morte si perderà, tutto sarà perduto per te. "Considera te iam mortuum", dice S. Lorenzo Giustiniani, "quem scis de necessitate moriturum". Se tu fossi già morto, che non desidereresti di aver fatto per Dio? Ora che sei vivo, pensa che un giorno hai da trovarti morto. Dice S. Bonaventura che il nocchiero per ben governar la nave, si mette alla coda di quella; così l'uomo per menar buona vita, dee immaginarsi sempre come stesse in morte. Di là, dice S. Bernardo: "Vide prima et erubesce", guarda i peccati della gioventù, ed abbine rossore: "Vide media, et ingemisce", guarda i peccati della virilità, e piangi: "Vide novissima, et contremisce", guarda gli ultimi presenti sconcerti della tua vita, e trema, e presto rimedia.


S. Camillo de Lellis, quando si affacciava sulle fosse de' morti, dicea tra sé: Se questi tornassero a vivere, che non farebbero per la vita eterna? ed io che ho tempo, che fo per l'anima? Ma ciò lo dicea questo Santo per umiltà. Ma voi, fratello mio, forse con ragione potete temere d'essere quel fico senza frutto, di cui diceva il Signore: "Ecce anni tres sunt, ex quo venio quaerens fructum in ficulnea hac, et non invenio" (Luc 13,7). Voi più che da tre anni state nel mondo, che frutto avete dato? Vedete, dice S. Bernardo, che il Signore non solo cerca fiori, ma vuole anche frutti, cioè non solo buoni desideri e propositi, ma vuole anche opere sante. Sappiate dunque avvalervi di questo tempo, che Dio vi dà per sua misericordia; non aspettate a desiderare il tempo di far bene, quando non sarà più tempo, e vi sarà detto: "Tempus non erit amplius: Proficiscere", presto, ora è tempo di partire da questo mondo, presto, quel ch'è fatto è fatto.





COLLA MORTE FINISCE TUTTO

Finis venit, venit finis (Ezech 2,7)

PUNTO I

Da' mondani sono stimati fortunati solamente quei, che godono de' beni di questo mondo, de' piaceri, delle ricchezze e delle pompe; ma la morte metterà fine a tutte queste fortune di terra. "Quae est vita vestra? vapor est, ad modicum parens" (Iac 4,15). I vapori ch'esalano dalla terra, talvolta alzati in aria, e investiti dalla luce del sole fanno una bella comparsa; ma questa comparsa quanto dura? ad un poco di vento sparisce tutto. Ecco quel grande oggi corteggiato, temuto e quasi adorato; domani che sarà morto, sarà disprezzato, maledetto e calpestato. Colla morte tutto si ha da lasciare. Il fratello di quel gran servo di Dio Tommaso de Kempis si pregiava d'aversi fatta una bella casa, ma gli disse un amico che vi era un gran difetto. Quale? egli domandò. Il difetto, quegli rispose, è che vi avete fatta la porta. Come? ripigliò, è difetto la porta? Sì, rispose l'amico, perché un giorno per questa porta dovrete uscirne morto, e così lasciar la casa e tutto.

La morte in somma spoglia l'uomo di tutti i beni di questo mondo. Che spettacolo è vedere cacciar fuori quel principe dal suo palagio per non rientrarvi più, e prendere altri il possesso de' suoi mobili, de' suoi danari e di tutti gli altri suoi beni! I servi lo lasciano nella sepoltura coverto appena con una veste che basta a coprirgli le carni; non v'è più chi lo stima, né chi l'adula; né si fa più conto de' suoi comandi lasciati. Saladino, che acquistò molti regni nell'Asia, morendo lasciò detto che quando portavasi il suo cadavere a seppellirsi, uno gli andasse avanti colla sua camicia appesa ad un'asta, gridando: Questo è tutto quel che si porta Saladino alla sepoltura.

Posto ch'è nella fossa il cadavere di quel principe, se ne cadono le carni, ed ecco che il suo scheletro più non si distingue dagli altri. "Contemplare sepulcra", dice S. Basilio, "vide num poteris discernere, quis servus, quis dominus fuerit". Diogene un giorno facea vedersi da Alessandro Magno tutto affannato in ricercare qualche cosa fra certi teschi di morti. Che cerchi? curioso disse Alessandro. Vado cercando, rispose, il teschio del re Filippo tuo padre, e nol so distinguere; se tu lo puoi trovare, fammelo vedere: "Si tu potes, ostende".

In questa terra gli uomini disugualmente nascono, ma dopo la morte tutti si trovano eguali: "Impares nascimur, pares morimur", dice Seneca. Ed Orazio disse che la morte eguaglia gli scettri alle zappe: "Sceptra ligonibus aequat". In somma quando viene la morte, "finis venit", tutto finisce e tutto si lascia, e di tutte le cose di questo mondo niente si porta alla fossa.

PUNTO II

Filippo II re di Spagna, stando vicino a morte, si chiamò il figlio, e buttando la veste regale che lo copriva, gli fe' vedere il petto roso da' vermi, e poi gli disse: Principe, vedi come si muore, e come finiscono tutte le grandezze di questo mondo! Ben disse Teodoreto: "Nec divitias mors metuit, nec satellites, nec purpuram"; e che così da' vassalli come da' principi, "putredo sequitur, et sanies defluit". Sicché ognuno che muore, ancorché principe, niente conduce seco alla sepoltura; tutta la gloria resta sul letto, dove spira. "Cum interierit, non sumet omnia, neque descendet cum eo gloria eius" (Ps 48,18).

Narra S. Antonino che morto che fu Alessandro Magno, un certo filosofo esclamando disse: "Ecco quegli che ieri conculcava la terra, ora dalla terra è oppresso. Ieri tutta la terra non gli bastava, ora gli bastan sette palmi. Ieri conduceva per la terra eserciti, ed ora è condotto da pochi facchini sotto terra". Ma meglio sentiamo quel che dice Dio: "Quid superbis, terra et cinis?" (Eccli 10,9). Uomo, non vedi che sei polvere e cenere, a che t'insuperbisci? a che spendi i tuoi pensieri e gli anni tuoi per farti grande in questo mondo? Verrà la morte, ed allora finiranno tutte le tue grandezze e tutt'i tuoi disegni: "In illa die peribunt cogitationes eorum" (Ps 55,6).

Oh quanto fu più felice la morte di S. Paolo eremita, il quale visse 60 anni chiuso in una grotta, che la morte di Nerone, che visse imperadore in Roma! Quanto più fortunata la morte di S. Felice laico cappuccino, che la morte di Errico VIII vivuto tra le grandezze regali, ma nemico di Dio! Ma bisogna riflettere che i Santi per ottenere una tal morte hanno lasciato tutto, le patrie, le delizie, le speranze che il mondo loro offeriva, ed hanno abbracciata una vita povera e disprezzata. Si son seppelliti vivi in questa terra, per non esser seppelliti morti nell'inferno. Ma i mondani, come mai vivendo tra' peccati, tra' piaceri terreni, e tra occasioni pericolose possono sperare una felice morte? Dio minaccia a' peccatori che in morte lo cercheranno e non lo troveranno: "Quaeretis me, et non invenietis" (Ier 13). Dice che allora sarà tempo non di misericordia, ma di vendetta. "Ego retribuam in tempore" (Deuter 32,35).

La ragione ci persuade lo stesso, mentre allora un uomo di mondo, in morte si troverà debole di mente, ottenebrato e indurito di cuore per li mali abiti fatti: le tentazioni saranno più forti: chi in vita ha soluto quasi sempre cedere e farsi vincere, come resisterà in morte? Vi bisognerebbe allora una grazia divina più potente, che gli mutasse il cuore; ma questa grazia forse Iddio è obbligato a darcela? Forse colui se l'ha meritata colla vita sconcertata che ha fatta? E pure si tratta allora della sua fortuna o della sua ruina eterna. Com'è possibile che pensando a ciò, chi crede alle verità della fede, non lasci tutto per darsi tutto a Dio, il quale secondo le nostre opere ci giudicherà?

PUNTO III

Chiamò Davide la felicità della vita presente un sogno di chi si sveglia: "Velut somnium surgentium" (Ps 72,20). Commenta un autore: "Somnium, quia sopitis sensibus res magnae apparent, et non sunt, et cito avolant". I beni di questo mondo compariscono grandi, ma poi son niente e poco durano, come poco dura il sogno, e poi tutto svanisce. Questo pensiero che colla morte finisce tutto, fe' risolvere S. Francesco Borgia di darsi tutto a Dio. Toccò al Santo accompagnare in Granata il cadavere dell'imperadrice Isabella: quando si aprì la cassa, all'orrore, alla puzza tutti fuggirono; ma S. Francesco scorto dalla luce divina si fermò a contemplare in quel cadavere la vanità del mondo, e rimirandolo disse: "Voi dunque siete la mia imperadrice? Voi quella, a cui tanti grandi s'inginocchiavano per riverenza? O Donna Isabella dov'è andata la vostra maestà, la vostra bellezza? "Così dunque (tra sé concluse) finiscono le grandezze e le corone di questa terra! Voglio dunque servire da oggi avanti (disse) ad un Padrone, che non mi possa più morire. E così da allora si dedicò tutto all'amore del Crocefisso: ed allora anche fe' voto di farsi religioso, se moriva la moglie; come in fatti poi l'eseguì, entrando nella Compagnia di Gesù.

Ben dunque scrisse un uomo disingannato su d'un cranio di un morto queste parole: "Cogitanti vilescunt omnia". Chi pensa alla morte, non può amare la terra. E perché mai vi sono tanti infelici amanti di questo mondo? perché non pensano alla morte. "Filii hominum, usquequo gravi corde? ut quid diligitis vanitatem, et quaeritis mendacium?" (Ps 4,3). Miseri figli di Adamo, ci avverte lo Spirito Santo, perché non discacciate dal cuore tanti affetti alla terra, che vi fanno amare la vanità e la bugia? Ciò ch'è succeduto a' vostri antenati, ha da succedere anche a voi; essi in questo vostro palagio anche hanno abitato, in questo medesimo letto han dormito, ed ora non vi sono più: lo stesso ha da esser per voi.

Dunque, fratello mio, presto datti a Dio, prima che venga la morte. "Quodcunque potest facere manus tua, instanter operare" (Eccl 9,10). Quel che puoi far oggi, non aspettare a farlo domani, perché quest'oggi passa e non torna più, e domani può venirti la morte, la quale non ti permetterà di fare più niente. Presto distaccati da ciò che ti allontana, o può allontanarti da Dio. Lasciamo presto coll'affetto questi beni di terra, prima che la morte ce ne spogli a forza: "Beati mortui qui in Domino moriuntur" (Apoc 14,13). Beati quelli, che morendo si trovano già morti agli affetti di questo mondo! La morte da costoro non si teme, ma si desidera e si abbraccia con allegrezza: giacch'ella allora, in vece di separarli da' beni che amano, l'unisce col sommo bene, che solamente è da essi amato, e che li renderà eternamente beati.




BREVITÀ DELLA VITA

Quae est vita vestra? vapor est ad modicum parens (Iac 4,15)

PUNTO I

Che cosa è la nostra vita? è simile ad un vapore, che ad un poco di vento sparisce, e non v'è più. Tutti sanno che han da morire; ma l'inganno di molti si è che si figurano la morte così lontana, come non avesse mai da venire. Ma no, ci avvisa Giobbe, che la vita dell'uomo è breve: "Homo brevi vivens tempore, quasi flos egreditur, et conteritur" (Iob 14). Questo stesso comandò il Signore ad Isaia di predicare: "Clama (gli disse), omnis caro foenum... vere foenum est populus, exsiccatum est foenum, et cecidit flos" (Is 40). La vita dell'uomo è come la vita d'una pianta di fieno: viene la morte, seccasi il fieno, ed ecco che finisce la vita, e cade il fiore d'ogni grandezza e d'ogni bene mondano.

"Dies mei velociores cursore" (Iob 9). La morte ci corre all'incontro più presto d'un cursore, e noi in ogni momento corriamo alla morte. In ogni passo, in ogni respiro alla morte ci accostiamo. "Quod scribo (dice S. Girolamo) de mea vita tollitur". Per questo tempo in cui scrivo, più m'accosto alla morte. "Omnes morimur, et quasi aquae dilabimur in terram, quae non revertuntur" (Reg 14,14). Vedi là, come corre quel ruscello al mare, e quelle acque che scorrono, non ritornano più indietro; così, fratello mio, passano i tuoi giorni, e ti avvicini alla morte; passano i piaceri, passano gli spassi, passano le pompe, le lodi, le acclamazioni, e che resta? "Et solum mihi superest sepulcrum" (Iob 17,1). Sarem buttati in una fossa, ed ivi avremo da restare a marcire spogliati di tutto. In punto di morte la rimembranza di tutti i diletti goduti in vita, di tutti gli onori acquistati non ci serviranno che per accrescerci la pena e la sconfidenza di ottenere la salute eterna. Dunque (dirà allora il misero mondano) la mia casa, i miei giardini, quei mobili di buon gusto, quelle pitture, quelle vesti tra poco non saranno più miei? "Et solum mihi superest sepulcrum".

Ah che allora niun bene di questa terra si guarda se non con pena da chi l'ha amato con attacco; e questa pena non gli servirà ad altro che a mettere in maggior pericolo la salute dell'anima; vedendosi colla sperienza che tali persone attaccate al mondo in morte non vogliono sentir parlare d'altro che della loro infermità, di medici che posson chiamarsi e di rimedi che posson giovare: e quando si discorre loro dell'anima, subito si tediano, e vi dicono che li lasciate riposare, perché loro duole il capo, e non possono sentir parlare. E se talvolta rispondono, si confondono, né sanno che dirsi. E spesso da' confessori si dà loro l'assoluzione, non perché si conoscono disposte, ma perché non vi è tempo d'aspettare. Così muoiono quei che poco pensano alla morte.

PUNTO II

Piangeva il re Ezechia: "Praecisa est velut a texente vita mea, dum adhuc ordirer, succidit me" (Is 38). Oh a quanti al meglio che stan tessendo la tela, cioè ordinando ed eseguendo i loro disegni mondani, presi con tante misure, viene la morte e taglia tutto. Alla luce di quell'ultima candela svanisce ogni cosa di questo mondo, applausi, divertimenti, pompe e grandezze. Gran segreto della morte! ella ci fa vedere quel che non vedono gli amanti del mondo. Le fortune più invidiate, i posti più grandi, i trionfi più superbi perdono tutto lo splendore, quando si ravvisano dal letto della morte. L'idee di certe false felicità, che noi ci abbiam formate, si cambiano allora in isdegno contro la propria pazzia. L'ombra nera e funesta della morte covre ed oscura tutte le dignità, anche regali.

Ora le passioni fanno apparire i beni di questa terra altro di quel che sono; la morte gli scopre e fa vederli quali in verità sono, fumo, fango, vanità e miseria. Oh Dio! a che servono le ricchezze, i feudi, i regni in morte, quando altro non tocca che una cassa di legno, ed una semplice veste, che basta a coprir le carni? A che servono gli onori, quando altro non tocca che un funebre accompagnamento ed una pomposa esequie, che niente gioverà all'anima, se l'anima è perduta? A che serve la bellezza del corpo, se altro non resta allora che vermi, puzza ed orrore, anche prima di morire, e poi un poco di polvere puzzolente.

"Posuit me quasi in proverbium vulgi, et exemplum suum coram eis" (Iob 17). Muore quel ricco, quel ministro, quel capitano, ed allora se ne parlerà da per tutto; ma se mai egli ha vivuto male, diventerà la favola del popolo, "Proverbium vulgi, et exemplum"; e come esempio della vanità del mondo ed anche della divina giustizia servirà per correzione degli altri. Nella sepoltura poi starà egli confuso tra gli altri cadaveri de' poveri. "Parvus et magnus ibi sunt" (Iob 3). A che gli è valuta la bella disposizione del corpo, se ora non è che un mucchio di vermi? A che l'autorità avuta, se ora il suo corpo è buttato a marcire in una fossa, e l'anima è stata gittata ad ardere nell'inferno? Oh che miseria il servire di soggetto agli altri per fare queste riflessioni, e non averle fatte in proprio profitto! Persuadiamoci dunque che per rimediare a' disordini della coscienza, non è tempo proprio il tempo della morte, ma della vita. Affrettiamoci di far ora quel che non potremo allora fare: "Tempus breve est". Tutto presto passa e finisce; perciò facciamo che tutto ci serva per acquistarci la vita eterna.

PUNTO III

Che pazzia dunque, per li miseri e brevi diletti di questa così breve vita, mettersi a rischio di fare una mala morte? e con quella cominciare un'eternità infelice? Oh quanto pesa quell'ultimo momento, quell'ultima aperta di bocca, quell'ultima chiusa di scena! Pesa un'eternità o di tutti i contenti o di tutti i tormenti. Pesa una vita o sempre felice o sempre infelice. Pensiamo che Gesù Cristo volle morire con una morte sì amara e ignominiosa, per ottenere a noi una buona morte. A questo fine ci dà tante chiamate, ci dona tanti lumi, ci ammonisce con tante minacce, affinché accertiamo di finire quell'ultimo momento in grazia di Dio.

Anche un gentile (Antistene) dimandato qual fosse in questo mondo la miglior fortuna? rispose: "Una buona morte". E che dirà un cristiano, il quale sa per fede che da quel momento principia l'eternità: sicché in quel momento si afferra una delle due ruote, che seco tira o un eterno godere o un eterno patire. Se in una borsa vi fossero due cartelle, in una delle quali vi stesse scritto l'inferno e nell'altra il paradiso, che avesse a toccarti; qual diligenza non faresti per indovinare a prendere quella del paradiso? Quei miseri che son condannati a giocarsi la vita, oh Dio, come tremano in istender la mano a buttare i dadi, dalla cui sorte dipende la lor vita o morte!

Quale spavento sarà, quando ti troverai vicino a quell'ultimo momento, quando dirai: Da questo punto, a cui sto vicino, dipende la mia vita o la mia morte eterna! Ora sta, se dovrò essere o beato per sempre o disperato per sempre. Narra S. Bernardino da Siena di un certo principe, che morendo tutto atterrito diceva: Ecco ch'io ho tante terre e tanti palagi in questo mondo; ma se muoio in questa notte, non so quale stanza mi avrà da toccare!

Fratello, se credi che si ha da morire e che vi è eternità, e che una volta sola si ha da morire, sicché se allora la sgarri, l'avrai sgarrata per sempre, senza speranza di rimedio, come non ti risolvi di cominciare da questo punto che leggi, a far quanto puoi per assicurarti a fare una buona morte? Tremava un S. Andrea d'Avellino, dicendo: Chi sa qual sorte mi toccherà nell'altra vita? se mi salverò o dannerò? Tremava ancora un S. Luigi Beltrando talmente che la notte non potea prendere sonno al pensiero che gli dicea: E chi sa se ti danni? E tu che ti trovi con tanti peccati fatti, non tremi? Presto, rimedia a tempo, risolvi di darti da vero a Dio; e comincia almeno da questo tempo una vita, che non ti affligga, ma ti consoli in morte. Datti all'orazione, frequenta i sagramenti, lascia le occasioni pericolose; e se bisogna, lascia ancor il mondo, assicura la tua salute eterna; e intendi che per assicurare la salute eterna, non vi è sicurtà che basti.





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CERTEZZA DELLA MORTE

Statutum est hominibus semel mori (Hebr 9,27)

PUNTO I

È scritta la sentenza della morte per tutti gli uomini: sei uomo, hai da morire. Dice S. Agostino: "Cetera nostra bona et mala incerta sunt, sola mors certa est". È incerto se quel bambino che nasce, dovrà esser povero o ricco, se ha d'avere buona o cattiva sanità, se avrà da morire giovine o vecchio: tutto è incerto, ma è certo che ha da morire. Ogni nobile, ogni regnante ha da essere reciso dalla morte. E quando giunge la morte, non v'è forza che possa resistere: si resiste al fuoco, all'acqua, al ferro: si resiste alla potenza de' principi, ma non può resistersi alla morte. "Resistitur ignibus, undis, ferro: resistitur regibus; venit mors, quis ei resistit?" (S. Agostino). Narra il Belluacense che un certo re di Francia, giunto in fine della vita disse: "Ecco che io con tutta la mia potenza non posso già ottenere che la morte mi aspetti un'ora di più". Quando è venuto il termine della vita, neppure per un momento si differisce. "Constituisti terminos eius, qui praeteriri non poterunt" (Iob 14,5).

Abbiate dunque a vivere, lettor mio, tutti gli anni che sperate, ha da venire un giorno, e di quel giorno un'ora, che sarà l'ultima per voi. Per me che ora scrivo, per voi che leggete questo libretto, sta già decretato il giorno e 'l punto, nel quale né io più scriverò, né voi più leggerete: "Quis est homo, qui vivit et non videbit mortem?" (Psal 88,49). È fatta la condanna: non v'è stato mai uomo sì pazzo, che siasi lusingato di non avere a morire. Ciò ch'è succeduto a' vostri antenati, ha da succedere anche a voi. Di quanti nel principio del secolo passato viveano nella vostra patria, ecco che niuno n'è vivo. Anche i principi, i monarchi della terra han mutato paese; di loro non vi è altro qui rimasto che un mausoleo di marmo con una bella iscrizione, la quale oggi serve a noi d'insegnamento, che de' grandi del mondo altro non resta che un poco di polvere chiusa tra le pietre. Dimanda S. Bernardo: "Dic mihi, ubi sunt amatores mundi?" e risponde: "Nihil ex eis remansit, nisi cineres et vermes".

Pertanto bisogna che ci procuriamo non quella fortuna che finisce, ma quella che sarà eterna, giacché eterne sono l'anime nostre. A che servirebbe l'esser felice (se mai può darsi vera felicità in un'anima che sta senza Dio), se poi dovreste esser infelice per tutta l'eternità? Vi avete fatta già quella casa con tanta vostra soddisfazione, ma pensate che presto dovrete lasciarla e andare a marcire in una fossa. Avete ottenuta quella dignità, che vi rende superiore agli altri; ma verrà la morte, che vi renderà simile a' villani più vili della terra.

PUNTO II

"Statutum est". È certo dunque che tutti siamo condannati a morte. Tutti nasciamo, dice S. Cipriano, col capestro alla gola; e quanti passi diamo, tanto ci avviciniamo alla morte. Fratello mio, siccome voi siete stato scritto un giorno nel libro del battesimo, così avrete un giorno da essere scritto nel libro de' morti. Siccome voi nominate ora i vostri antenati, la buona memoria di mio padre, di mio zio, di mio fratello; così i posteri avran da dire anche di voi. Siccome avete più volte udito sonare a morto degli altri, così gli altri avran da sentire sonare di voi.

Ma che direste voi, se vedeste un condannato a morte che andasse al patibolo burlando, ridendo, girando gli occhi e pensando a commedie, festini e spassi? e voi ora camminate già alla morte, ed a che pensate? Guardate là in quella fossa quei vostri amici e parenti, per cui già si è eseguita la giustizia. Che spavento dà a' condannati il vedere sulla forca i compagni già appesi e morti! Guardate dunque quei cadaveri, ognun de' quali vi dice: "Mihi heri, et tibi hodie" (Eccli 38,23). Lo stesso vi dicono ancora i ritratti de' vostri parenti defunti, i loro libri di memoria, le case, i letti, le vesti da loro lasciate.

Qual pazzia maggior è dunque sapere che si ha da morire, e che dopo la morte ci ha da toccare o un'eternità di gaudi o un'eternità di pene; pensare che da quel punto dipende l'essere o eternamente felice o eternamente infelice, e poi non pensare ad aggiustare i conti e prendere tutti i mezzi per fare una buona morte? Noi compatiamo coloro che muoiono di subito, e non si trovano apparecchiati alla morte: e noi perché poi non procuriamo di stare apparecchiati, potendo anche a noi accadere lo stesso? Ma o presto o tardi, o con avviso o improvvisamente, o ci pensiamo o non ci pensiamo, abbiamo da morire; ed in ogni ora, in ogni momento ci accostiamo alla nostra forca, che sarà appunto quell'ultima infermità, che ci ha da cacciare dal mondo.

In ogni secolo le case, le piazze e le città si riempiono di gente nuova, ed i primi son portati a chiudersi ne' sepolcri. Siccome per coloro son finiti i giorni della vita, così verrà il tempo, in cui né io, né voi, né alcuno di quanti al presente viviamo, viveremo più su questa terra. "Dies formabuntur, et nemo in eis" (Salm 138,16). Saremo allora tutti nell'eternità, la quale sarà per noi un eterno giorno di delizie o un'eterna notte di tormenti. Non ci è via di mezzo; è certo, è di fede che l'una o l'altra sorte ci ha da toccare.

PUNTO III

La morte è certa. Ma oh Dio che ciò lo sanno già i cristiani, lo credono, lo vedono; e come poi tanti vivono talmente scordati della morte, come non avessero mai a morire! Se non vi fosse dopo questa vita né inferno né paradiso, potrebbero pensarci meno di quel che ora ci pensano? E perciò fanno la mala vita che fanno.

Fratello mio, se volete viver bene, procurate di vivere in questi giorni che vi restano, a vista della morte. "O mors, bonum est iudicium tuum" (Eccli 41,3). Oh come bene giudica le cose e dirige le sue azioni, chi le giudica e dirige a vista della morte! La memoria della morte fa perdere l'affetto a tutte le cose di questa terra. "Consideretur vitae terminus, et non erit in hoc mundo quid ametur", dice S. Lorenzo Giustiniani. "Omne quod in mundo est, concupiscentia carnis est, concupiscentia oculorum, et superbia vitae" (1 Io 2,16). Tutti i beni del mondo si riducono a' piaceri di senso, a robe e ad onori; ma ben disprezza tutto, chi pensa che tra poco ha da ridursi in cenere e ad esser posto sotto terra per pascolo di vermi.

Ed in fatti a vista della morte i Santi han disprezzati tutti i beni di questa terra. Perciò S. Carlo Borromeo si tenea nel tavolino un teschio di morto, per mirarlo continuamente. Il cardinal Baronio sull'anello teneasi scritto: "Memento mori". Il Ven. P. Giovenale Ancina vescovo di Saluzzo tenea scritto sopra un altro teschio di morto il motto: "Come tu sei, fui pur io: e com'io sono, sarai pur tu". Un altro santo Eremita dimandato in morte, perché stesse con tanta allegrezza, rispose: Io ho tenuto spesso avanti gli occhi la morte, e perciò ora ch'è giunta, non vedo cosa nuova.

Che pazzia sarebbe d'un viandante, se viaggiando pensasse a farsi grande in quel paese per dove passa, e non si curasse di ridursi poi a vivere miseramente in quello dove ha da stare in tutta la sua vita? E non è pazzo chi pensa a farsi felice in questo mondo, dove ha da stare pochi giorni, e si mette a rischio di farsi infelice nell'altro, dove avrà da vivere in eterno? Chi tiene una cosa aliena in prestito, poco ci pone affetto pensando che tra poco l'ha da restituire: i beni di questa terra tutti ci sono dati in prestito; è sciocchezza metterci affetto, dovendoli tra poco lasciare. La morte ci ha da spogliare di tutto. Tutti gli acquisti, e fortune di questo mondo vanno a terminare ad un'aperta di bocca, ad un funerale e ad una scesa in una fossa. La casa da voi fabbricata tra poco dovrete cederla ad altri; il sepolcro sarà l'abitazione del vostro corpo sin al giorno del giudizio, e di là dovrà poi passare al paradiso o all'inferno, dove già prima sarà andata l'anima.




INCERTEZZA DELL'ORA DELLA MORTE

Estote parati, quia qua hora non putatis, Filius hominis veniet (Luc 12,40)

PUNTO I

È certo che tutti abbiamo da morire, ma è incerto il quando. "Nihil certius morte (dice l'Idiota), hora autem mortis nihil incertius". Fratello mio, già sta determinato l'anno, il mese, il giorno, l'ora e 'l momento, nel quale io e voi abbiam da lasciar questa terra ed entrare nell'eternità; ma questo tempo a noi è ignoto. Il Signore, acciocché noi ci troviamo sempre apparecchiati, ora ci dice che la morte verrà come un ladro di notte e di nascosto: "Sicut fur in nocte, ita veniet" (1 Thess 5,2): ora ci dice che stiamo vigilanti, perché quando meno ce l'immaginiamo, verrà Egli a giudicarci: "Qua hora non putatis, Filius hominis veniet". Dice S. Gregorio che Dio per nostro bene ci nasconde l'ora della morte, acciocché ci troviamo sempre apparecchiati: "De morte incerti sumus, ut ad mortem semper parati inveniamur". Giacché dunque la morte in ogni tempo, ed in ogni luogo può toglierci la vita, se vogliamo morir bene e salvarci, bisogna (dice S. Bernardo) che in ogni tempo ed in ogni luogo la stiamo aspettando: "Mors ubique te exspectat; tu ubique eam exspectabis".

Ognuno sa che ha da morire, ma il male è che molti ravvisano la morte in tanta lontananza che la perdono di vista. Anche i vecchi più decrepiti e le persone più infermicce pure si lusingano di avere a vivere per tre o quattro altri anni di più. Ma all'incontro, io dico, quanti ne sappiamo noi anche a' giorni nostri morti di subito! chi sedendo, chi camminando, chi dormendo nel suo letto! È certo che niun di costoro credea di avere a morir così improvvisamente ed in quel giorno ch'è morto. Dico in oltre di quanti in quest'anno son passati all'altra vita, morendo nel loro letto, niuno s'immaginava di dovere in quest'anno finire i suoi giorni. Poche sono le morti, che non riescono improvvise.

Dunque, cristiano mio, quando il demonio vi tenta a peccare con dirvi che domani poi vi confesserete, rispondetegli: E che so io, se oggi è l'ultimo giorno di mia vita? se quest'ora, questo momento, in cui voltassi le spalle a Dio, fosse l'ultimo per me, sicché per me poi non vi fosse più tempo di rimediare, che ne sarebbe di me in eterno? A quanti poveri peccatori è succeduto che nello stesso punto che cibavansi di qualch'esca avvelenata, sono stati colti dalla morte e mandati all'inferno? "Sicut pisces capiuntur hamo, sic capiuntur homines in tempore malo" (Eccli 9,12). Il tempo malo è propriamente quello, in cui attualmente il peccatore offende Dio. Dice il demonio che questa disgrazia non vi succederà; ma voi dovete dire: E se mi succede, che ne sarà di me per tutta l'eternità?

PUNTO II

Il Signore non ci vuol vedere perduti, e perciò non lascia d'avvertirci a mutar vita colla minaccia del castigo. "Nisi conversi fueritis, gladium suum vibrabit " (Ps 7,13). Mirate (dice in altro luogo) quanti, perché non l'han voluta finire, quando meno se l'immaginavano, e vivean in pace sicuri di aver a vivere per molti anni, repentinamente è giunta loro la morte: "Cum dixerint pax, et securitas, tunc repentinus eis superveniet interitus" (Prov 29,1). In un altro luogo dice: "Nisi poenitentiam egeritis, omnes similiter peribitis". Perché tanti avvisi del castigo, prima di mandarcelo? se non perché Egli vuole che noi ci emendiamo, e così evitiamo la mala morte. Chi dice, guardati, non ha voglia di ucciderti, dice S. Agostino: "Non vult ferire, qui clamat tibi: Observa".

È necessario dunque apparecchiare i conti, prima che arrivi il giorno de' conti. Cristiano mio, se prima di notte in questo giorno doveste morire, e avesse da decidersi la causa della vostra vita eterna, che dite, vi trovereste i conti apparecchiati? o pure quanto paghereste per ottener da Dio un altro anno, un mese, almeno un altro giorno di tempo? E perché ora che Dio già vi dà questo tempo, non aggiustate la coscienza? Forse non può essere che questo giorno sia l'ultimo per voi? "Non tardes converti ad Dominum, et non differas de die in diem; subito enim veniet ira illius, et in tempore vindictae disperdet te" (Eccli 5,9). Per salvarti, fratello mio, bisogna lasciare il peccato; se dunque hai da lasciarlo una volta, perché non lo lasci ora? "Si aliquando, cur non modo?" (S. Agostino). Aspetti forse che giunga la morte? ma il tempo della morte non è tempo di perdono, ma di vendetta. "In tempore vindictae disperdet te".

Se alcuno vi dee una gran somma, voi presto vi cautelate con farvi fare l'obbligo scritto, dicendo: Chi sa che può succedere? E perché non usate poi la stessa cautela per l'anima vostra, che importa assai più di quella somma? perché non dite lo stesso: Chi sa che può succedere? Se perdete quella somma, non perdete tutto; e benché perdendo quella perdessivo tutto il vostro patrimonio, pure vi resterebbe la speranza di riacquistarlo; ma se in morte perdete l'anima, allora veramente avrete perduto tutto, e non vi sarà più per voi speranza di ricuperarlo. Voi siete così diligente in notare le memorie de' beni che possedete, per timore che non si perdano, se mai v'accadesse una morte improvvisa; e se per caso vi accade questa morte improvvisa, e vi trovate in disgrazia di Dio, che sarà dell'anima vostra per tutta l'eternità?

PUNTO III

"Estote parati". Non dice il Signore che ci apparecchiamo, quando ci arriva la morte, ma che ci troviamo apparecchiati. Quando viene la morte, allora in quella tempesta e confusione sarà quasi impossibile aggiustare una coscienza imbrogliata. Così dice la ragione. Così minaccia Dio, dicendo che allora Egli non verrà a perdonare, ma a vendicarsi del disprezzo fatto delle sue grazie. "Mihi vindicta, et ego retribuam in tempore". (Rom 12,19). Giusto castigo, dice S. Agostino, sarà questo per colui che potendo non ha voluto salvarsi, di non potere quando vorrà: "Iusta poena est, ut qui recta facere cum posset noluit, amittat posse cum velit". Ma dirà alcuno: Chi sa, può essere ancora che allora mi converta, e mi salvi. Ma vi gittereste voi in un pozzo con dire: Chi sa, può essere che gittandomi resto vivo e non muoio? Oh Dio, che cosa è questa? Come il peccato accieca la mente, che fa perdere anche la ragione! Gli uomini, quando si tratta del corpo, parlano da savi; quando poi si tratta d'anima, parlano da pazzi.

Fratello mio, chi sa se questo punto che leggete, è l'ultimo avviso che Dio vi manda? Presto apparecchiamoci alla morte, acciocché non ci colga improvvisamente. Dice S. Agostino che 'l Signore ci nasconde l'ultimo giorno di nostra vita, affinché in tutt'i giorni stiamo apparecchiati a morire: "Latet ultimus dies, ut observentur omnes dies". Ci avvisa S. Paolo che bisogna attendere a salvarci non solo temendo, ma anche tremando: "Cum metu et tremore vestram salutem operamini". (Philipp 2,12). Narra S. Antonino che un certo re della Sicilia per far intendere ad un privato il timore, col quale egli sedea nel trono, lo fece sedere a mensa con una spada pendente da un picciolo filo sulla testa, sicché quegli stando così, appena poté prendere qualche poco di cibo. Tutti noi stiamo collo stesso pericolo, mentre in ogni momento può caderci sopra la spada della morte, da cui dipende la nostra salute eterna.

Si tratta di eternità. "Si ceciderit lignum ad austrum, aut ad aquilonem, in quocunque loco ceciderit, ibi erit" (Eccl 11,3). Se venendo la morte ci troviamo in grazia di Dio, oh che allegrezza sarà dell'anima, potendo allora dire: Ho assicurato tutto, non posso perdere più Dio, sarò felice per sempre. Ma se la morte troverà l'anima in peccato, qual disperazione sarà il dire: "Ergo erravimus". Dunque ho errato ed al mio errore non ci sarà rimedio per tutta l'eternità? Questo timore fece dire al Ven. P. M. Avila, apostolo delle Spagne, quando gli fu portata la nuova della morte: "Oh avessi un altro poco di tempo, per apparecchiarmi a morire!". Questo facea dire all'Abbate Agatone, con tutto che moriva dopo tanti anni di penitenza: "Che ne sarà di me! I giudizi di Dio chi li sa!". S. Arsenio anche tremava in morte, e dimandato da' discepoli, perché così temesse: "Figli, rispose, questo timore non mi è nuovo; io l'ho avuto sempre in tutta la mia vita". Sopra tutti tremava il santo Giobbe, dicendo: "Quid faciam, cum surrexerit ad iudicandum Deus? et cum quaesierit, quid respondebo illi?".




MORTE DEL PECCATORE

Angustia superveniente, pacem requirent, et non erit; conturbatio super conturbationem veniet (Ezech 7,25)

PUNTO I

Al presente i peccatori discacciano la memoria e 'l pensiero della morte, e così cercano di trovar pace (benché non la trovino mai) nel vivere che fanno in peccato; ma quando si troveranno nell'angustie della morte, prossimi ad entrare nell'eternità: "Angustia superveniente, pacem requirent, et non erit"; allora non possono sfuggire il tormento della loro mala coscienza; cercheranno la pace, ma che pace può trovare un'anima, ritrovandosi aggravata di colpe, che come tante vipere la mordono? che pace, pensando di dover comparire tra pochi momenti avanti di Gesù Cristo giudice, del quale sino ad allora ha disprezzata la legge e l'amicizia? "Conturbatio super conturbationem veniet". La nuova già ricevuta della morte, il pensiero di doversi licenziare da tutte le cose del mondo, i rimorsi della coscienza, il tempo perduto, il tempo che manca, il rigore del divino giudizio, l'eternità infelice che si aspetta a' peccatori: tutte queste cose componeranno una tempesta orrenda, che confonderà la mente ed accrescerà la diffidenza; e così confuso e sconfidato il moribondo passerà all'altra vita.

Abramo con gran merito sperò in Dio contro la speranza umana, credendo alla divina promessa: "Contra spem in spem credidit" (Rom 4,18). Ma i peccatori con gran demerito e falsamente per loro ruina sperano, non solo contro la speranza, ma ancora contro la fede, mentre disprezzano anche le minacce, che Dio fa agli ostinati. Temono essi la mala morte, ma non temono di fare una mala vita. Ma chi gli assicura di non morire di subito con un fulmine, con una goccia, con un butto di sangue? ed ancorché avessero tempo in morte da convertirsi, chi gli assicura che da vero si convertiranno? S. Agostino ebbe da combattere dodici anni per superare i suoi mali abiti; come potrà un moribondo, che sempre è stato colla coscienza imbrattata, in mezzo a i dolori, agli stordimenti della testa e nella confusione della morte fare facilmente una vera conversione? Dico "vera", perché allora non basta il dire e promettere; ma bisogna dire e promettere col cuore. Oh Dio, e da quale spavento resterà preso e confuso allora il misero infermo, ch'è stato di coscienza trascurata, in vedersi oppresso da' peccati e da' timori del giudizio, dell'inferno e dell'eternità! In quale confusione lo metteranno questi pensieri, quando si troverà svanito di testa, oscurato di mente e assalito da' dolori della morte già vicina! Si confesserà, prometterà, piangerà, cercherà pietà a Dio, ma senza sapere quel che si faccia; ed in questa tempesta di agitazioni, di rimorsi, d'affanni e di spaventi passerà all'altra vita. "Turbabuntur populi, et pertransibunt" (Iob 34,20).

Ben dice un autore che le preghiere, i pianti e le promesse del peccator moribondo sono appunto come i pianti e le promesse di taluno, che si vede assalito dal suo nemico, il quale gli tiene posto il pugnale alla gola per torgli allora la vita. Misero chi si mette a letto in disgrazia di Dio, e di là se ne passa all'eternità!

PUNTO II

Non una, ma più e molte saranno le angustie del povero peccator moribondo. Da una parte lo tormenteranno i demoni. In morte questi orrendi nemici mettono tutta la forza per far perdere quell'anima, che sta per uscire di questa vita, intendendo che poco tempo lor resta da guadagnarla, e che se la perdono allora, l'avran perduta per sempre. "Descendit diabolus ad vos habens iram magnam, sciens quod modicum tempus habet" (Apoc 12,12). E non uno sarà il demonio, che allora tenterà, ma innumerabili che assisteranno al moribondo per farlo perdere. "Replebuntur domus eorum draconibus" (Is 13,21). Uno gli dirà: Non temere che sanerai. Un altro dirà: E come? tu per tanti anni sei stato sordo alle voci di Dio, ed ora esso vorrà usarti pietà? Un altro: Come ora puoi rimediare a quelli danni fatti? a quelle fame tolte? Un altro: Non vedi che le tue confessioni sono state tutte nulle, senza vero dolore, senza proposito? come puoi ora più rifarle?

Dall'altra parte si vedrà il moribondo circondato da' suoi peccati. "Virum iniustum mala capient in interitu" (Ps 139,12). Questi peccati come tanti satelliti, dice S. Bernardo, lo terranno afferrato e gli diranno: "Opera tua sumus, non te deseremus". Noi siamo tuoi parti, non vogliamo lasciarti; ti accompagneremo all'altra vita, e teco ci presenteremo all'eterno giudice. Vorrà allora il moribondo sbrigarsi da tali nemici, ma per isbrigarsene bisognerebbe odiarli, bisognerebbe convertirsi di cuore a Dio; ma la mente è ottenebrata, e 'l cuore è indurito. "Cor durum habebit male in novissimo: et qui amat periculum, peribit in illo" (Eccli 3,27).

Dice S. Bernardo che il cuore, ch'è stato ostinato nel male in vita, farà i suoi sforzi per uscire dallo stato di dannazione, ma non giungerà a liberarsene, ed oppresso dalla sua malizia nel medesimo stato finirà la vita. Egli avendo sino ad allora amato il peccato, ha insieme amato il pericolo della sua dannazione; giustamente perciò permetterà il Signore che allora perisca in quel pericolo, nel quale ha voluto vivere sino alla morte. Dice S. Agostino che chi è lasciato dal peccato, prima ch'egli lo lasci, in morte difficilmente lo detesterà come dee; perché allora quel che farà, lo farà a forza: "Qui prius a peccato relinquitur, quam ipse relinquat, non libere, sed quasi ex necessitate condemnat".

Misero dunque quel peccatore ch'è duro, e resiste alle divine chiamate! "Cor eius indurabitur quasi lapis, et stringetur quasi malleatoris incus" (Iob 41,15). Egli l'ingrato in vece di rendersi ed ammollirsi alle voci di Dio, si è indurito come più s'indurisce l'incudine a' colpi del martello. In pena di ciò tal ancora si ritroverà in morte, benché si ritrovi in punto di passare all'eternità. "Cor durum habebit male in novissimo". I peccatori, dice il Signore, mi han voltate le spalle per amore delle creature: "Verterunt ad me tergum, et non faciem, et in tempore afflictionis suae dicent: Surge, et libera nos. Ubi sunt dii tui, quos fecisti tibi? surgant, et liberent te" (Ier 2,27). I miseri in morte ricorreranno a Dio, e Dio loro dirà: Ora a me ricorrete? chiamate le creature che vi aiutino; giacché quelle sono state i vostri dei. Dirà così il Signore, perché essi ricorreranno, ma senz'animo vero di convertirsi. Dice S. Girolamo tener egli quasi per certo ed averlo appreso coll'esperienza che non farà mai buon fine, chi ha fatta mala vita sino alla fine: "Hoc teneo, hoc multiplici experientia didici, quod ei non bonus est finis, cui mala semper vita fuit".

PUNTO III

Gran cosa! Dio non fa altro che minacciare una mala morte a' peccatori: "Tunc invocabunt me, et non exaudiam" (Prov 1,18). "Nunquid Deus exaudiet clamorem eius, cum venerit super eum angustia" (Iob 27,9). "In interitu vestro ridebo, et subsannabo" (Prov 1,26). ("Ridere Dei est nolle misereri", S. Gregor.). "Mea est ultio, et ego retribuam eis in tempore, ut labatur pes eorum" (Deuter 32,35). Ed in tanti altri luoghi minaccia lo stesso; ed i peccatori vivono in pace, sicuri come Dio avesse certamente promesso loro in morte il perdono e 'l paradiso. È vero che in qualunque ora si converte il peccatore, Dio ha promesso di perdonarlo; ma non ha detto che il peccatore in morte si convertirà; anzi più volte si è protestato che chi vive in peccato, in peccato morirà: "In peccato vestro moriemini" (Io 8,21). "Moriemini in peccatis vestris" (Io 8,24). Ha detto che chi lo cercherà in morte, non lo troverà: "Quaeretis me, et non invenietis (Io 7,34). Dunque bisogna cercare Dio, quando si può trovare: "Quaerite Dominum, dum inveniri potest" (Is 55,6). Sì, perché vi sarà un tempo che non potrà più trovarsi. Poveri peccatori! poveri ciechi, che si riducono a convertirsi all'ora della morte, in cui non sarà più tempo di convertirsi! Dice l'Oleastro: "Impii nusquam didicerunt benefacere, nisi cum non est tempus benefaciendi". Dio vuol salvi tutti, ma castiga gli ostinati.

Se mai alcun miserabile ritrovandosi in peccato, fosse colto dalla goccia, e stesse destituto di sensi, qual compassione farebbe a tutti il vederlo morire senza sagramenti e senza segno di penitenza? qual contento poi avrebbe ognuno, se costui ritornasse in sé e cercasse l'assoluzione, e facesse atti di pentimento? Ma non è pazzo poi chi avendo tempo di far ciò, siegue a stare in peccato? o pure torna a peccare e si mette in pericolo che lo colga la morte, nel tempo della quale forse lo farà, e forse no? Spaventa il veder morire alcuno all'improvviso, e poi tanti volontariamente si mettono al pericolo di morire così, e morire in peccato!

"Pondus et statera iudicia Domini sunt" (Prov 16,21). Noi non teniamo conto delle grazie, che ci fa il Signore; ma ben ne tiene conto il Signore e le misura; e quando le vede disprezzate sino a certi termini, lascia il peccatore nel suo peccato, e così lo fa morire. Misero chi si riduce a far penitenza in morte. "Poenitentia, quae ab infirmo petitur, infirma est", dice S. Agostino. S. Geronimo dice che di centomila peccatori che si riducono sino alla morte a stare in peccato, appena uno in morte si salverà: "Vix de centum millibus, quorum mala vita fuit, meretur in morte a Deo indulgentiam unus". Dice S. Vincenzo Ferrerio che sarebbe più miracolo che uno di questi tali si salvasse, che far risorgere un morto. "Maius miraculum est, quod male viventes faciant bonum finem, quam suscitare mortuos". Che dolore, che pentimento vuol concepirsi in morte da chi sino ad allora ha amato il peccato?

Narra il Bellarmino ch'essendo egli andato ad assistere ad un certo moribondo ed avendolo esortato a fare un atto di contrizione, quegli rispose che non sapea ciò che si fosse contrizione. Bellarmino procurò di spiegarcelo, ma l'infermo disse: "Padre, io non v'intendo, io non son capace di queste cose". E così se ne morì. "Signa damnationis suae satis aperte relinquens", come il Bellarmino lasciò scritto. Giusto castigo, dice S. Agostino, sarà del peccatore, che si dimentichi di sé in morte, chi in vita si è scordato di Dio: "Aequissime percutitur peccator, ut moriens obliviscatur sui qui vivens oblitus est Dei ".

"Nolite errare (intanto ci avverte l'Apostolo), Deus non irridetur: quae enim seminaverit homo, haec et metet; qui seminat in carne sua, de carne et metet corruptionem" (Galat 6,7) Sarebbe un burlare Dio vivere disprezzando le sue leggi, e poi raccoglierne premio e gloria eterna; ma "Deus non irridetur". Quel che si semina in questa vita, si raccoglie nell'altra. A chi semina piaceri vietati di carne, altro non tocca che corruzione, miseria e morte eterna.

Cristiano mio, quel che si dice per gli altri, si dice anche per voi. Ditemi se vi trovaste già in punto di morte, disperato da' medici, destituto di sentimenti e ridotto già in agonia, quanto preghereste Dio che vi concedesse un altro mese, un'altra settimana di tempo allora, per aggiustare i conti della vostra coscienza? E Dio già vi dà questo tempo. Ringraziatelo e presto rimediate al mal fatto, e prendete tutti i mezzi per ritrovarvi in istato di grazia, quando verrà la morte, perché allora non sarà più tempo di rimediare.




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09/07/2019 23:21

SENTIMENTI D'UN MORIBONDO TRASCURATO, CHE POCO HA PENSATO ALLA MORTE


Dispone domui tuae, quia morieris, et non vives (Isa 38,1)


PUNTO I


Figuratevi di trovarvi presente ad un infermo, a cui non restano che poche ore di vita. Povero infermo, mirate come sta oppresso da' dolori, dagli svenimenti, suffogazioni di petto, mancanza di respiro, sudor freddo, colla testa svanita a tal segno che poco sente, poco capisce e poco può parlare. Tra le sue miserie la maggiore è quella ch'egli già sta vicino a morire, ed in vece di pensare all'anima e ad apparecchiar i conti per l'eternità, non pensa che a' medici, a' rimedi, per liberarsi dall'infermità e da' dolori che lo vanno uccidendo. "Nihil aliud quam de se cogitare sufficiunt", dice S. Lorenzo Giustiniani, parlando di tali moribondi. Almeno i parenti, gli amici l'avvertissero dello stato pericoloso in cui si trova; no, non v'ha fra tutt'i suoi parenti ed amici chi abbia l'animo di dargli la nuova della morte e di avvisargli che prenda i Sagramenti; ognuno ricusa di dircelo per non dargli disgusto.


(O mio Dio, da ora io vi ringrazio che in morte mi farete assistere da' miei cari Fratelli della mia Congregazione, i quali non avranno altro interesse allora che della mia eterna salute, e tutti mi aiuteranno a ben morire).


Ma frattanto, benché non si dà l'avviso della morte, nulladimeno l'infermo vedendo la famiglia in rivolta, i collegi de' medici che si replicano, i rimedi moltiplicati, spessi e violenti che si adoprano; il povero moribondo sta in confusione e spavento tra gli assalti de' timori, de' rimorsi e delle diffidenze, dicendo tra sé: Oimé chi sa, se già è arrivata la fine degli anni miei? Or quale sarà poi il sentimento dell'infermo, quando già riceve la nuova della sua morte? "Dispone domui tuae, quia morieris, et non vives". Che pena avrà in sentirsi dire: Signor tale, la vostra infermità è mortale, bisogna che prendiate i Sagramenti, vi uniate con Dio e vi andiate licenziando dal mondo. Licenziando dal mondo? Come? si ha da licenziar da tutto? da quella casa, da quella villa, da quei parenti, amici, conversazioni, giuochi, spassi? Sì, da tutto. Già è venuto il notaio e scrive questa licenziata: "Lascio, lascio". E con sé che si porta? non altro che un misero straccio, che tra poco dovrà infracidarsi insieme con lui dentro la fossa.


Oh che malinconia e turbamento apporterà al moribondo allora il veder le lagrime de' domestici e 'l silenzio degli amici, che in sua presenza tacciono e non hanno animo di parlare! Ma le maggiori pene saran per lui i rimorsi della coscienza, che in quella tempesta si faran più sentire, per la vita disordinata fatta sino ad allora, dopo tante chiamate e lumi divini, dopo tanti avvisi de' padri spirituali, e dopo tante risoluzioni fatte, ma o non eseguite mai, o appresso trascurate. Dirà egli allora: Oh povero me, ho avuto tanti lumi da Dio, tanto tempo da aggiustare la mia coscienza, e non l'ho fatto; ed ecco che ora già sono arrivato alla morte! Che mi costava il fuggir quell'occasione, lo staccarmi da quell'amicizia, il confessarmi ogni settimana? E benché avesse avuta a costarmi assai, io dovea far tutto per salvarmi l'anima, che importava tutto. Oh se avessi posta in esecuzione quella buona risoluzione da me fatta; se avessi seguitato, come allora cominciai, ora quanto me ne troverei contento? ma non l'ho fatto, ed ora non v'è più tempo di farlo. I sentimenti di tali moribondi, che sono stati in vita trascurati di coscienza, son simili a quelli de' dannati, che nell'inferno anche si dolgono de' loro peccati, come causa della loro pena, ma senza frutto e senza rimedio.


PUNTO II


Oh come in punto di morte si fan conoscere le verità della fede, ma per maggior tormento di quel moribondo, ch'è vivuto male; e specialmente s'era persona consagrata a Dio, sì che abbia ella avuto più comodo di servirlo, più tempo, più esempi e più ispirazioni. Oh Dio che pena avrà in pensare e dire: Io ho ammoniti gli altri, e poi ho fatto peggio di loro! Ho lasciato il mondo, e poi son vivuto attaccato ai diletti, alle vanità ed agli amori del mondo! Qual rimorso le sarà il pensare che coi lumi, ch'ella ha ricevuti da Dio, si sarebbe fatto santo anche un pagano! Qual pena avrà in ricordarsi di aver disprezzate in altri le pratiche di pietà, come debolezze di spirito, e di aver lodato certe massime di mondo, di stima propria, o d'amor proprio, cioè di non farsi mettere il piede avanti, di non farsi patire, e di prendersi tutti gli spassi che si presentano!


"Desiderium peccatorum peribit" (Ps 111,10). In morte quanto sarà desiderato quel tempo, che ora si perde! Narra S. Gregorio ne' suoi Dialoghi che vi fu un certo Crisanzio, uomo ricco, ma di mali costumi, il quale ridotto in morte gridava contro i demonii, che visibilmente gli apparvero per prenderselo: "Datemi tempo, datemi tempo sino a domani". E quelli rispondevano: O pazzo, ora cerchi tempo? tu ne hai avuto tanto e l'hai perduto, e l'hai speso a peccare; ed ora cerchi tempo? Ora non ci è più tempo. Il misero seguiva a gridare ed a cercare aiuto. Si ritrovava ivi un suo figlio monaco, chiamato Massimo, e 'l moribondo al figlio diceva: "Figlio mio, aiutami; Massimo mio, aiutami". E frattanto colla faccia fatta di fuoco si sbalzava furiosamente dall'una e dall'altra parte del letto, e così agitandosi e gridando da disperato spirò infelicemente l'anima.


Oimé che questi pazzi amano in vita la loro pazzia, ma in morte poi aprono gli occhi e confessano di essere stati pazzi, ma allora ciò non serve che ad accrescere la diffidenza di rimediare al mal fatto; e morendo così, lasciano molta incertezza della loro salute.


Fratello mio, or che leggete questo punto, penso che voi anche dite: Così è. Ma se così è, sarebbe assai più grande la vostra pazzia e disgrazia, se conoscendo già queste verità in vita, non vi rimediaste a tempo. Questo stesso, che avete letto, sarebbe una spada di dolore per voi in morte.


Via su dunque, giacché siete a tempo di evitare una morte così spaventosa, rimediate presto; non aspettate quel tempo, che non sarà più tempo opportuno a rimediare. Non aspettate né l'altro mese, né l'altra settimana. Chi sa, se questa luce, che ora Dio vi dà per sua misericordia, sia l'ultima luce e l'ultima chiamata per voi. È sciocchezza il non voler pensare alla morte, la quale è certa, e da cui dipende l'eternità; ma è maggiore sciocchezza il pensarvi e non apparecchiarsi alla morte. Fate ora quelle riflessioni e risoluzioni che fareste allora: ora con frutto, allora senza frutto: ora con confidenza di salvarvi, allora con gran diffidenza della vostra salute. Licenziandosi un gentiluomo dalla corte di Carlo V per vivere solamente a Dio, gli domandò l'imperatore perché lasciava la corte? Rispose: È necessario per salvarsi che tra la vita disordinata e la morte v'interceda qualche spazio di penitenza.


PUNTO III


Al moribondo che in vita è stato trascurato circa il bene dell'anima sua, tutte le cose che gli si presenteranno, gli saranno spine: spina la memoria degli spassi presi, de' puntigli superati e delle pompe fatte: spine gli amici che verranno a visitarlo con ogni cosa che gli ricorderanno: spine i padri spirituali, che a vicenda gli assisteranno: spine i Sagramenti che dovrà prendere della confessione, della comunione ed estrema unzione: spina gli diventerà anche il Crocifisso, che gli sarà posto accanto, leggendo in quella immagine la mala corrispondenza usata all'amore di un Dio morto per salvarlo.


Oh pazzo che sono stato, dirà allora il povero infermo! Poteva farmi santo con tanti lumi e comodità che Dio m'ha date; potea fare una vita felice in grazia di Dio, ed ora che mi trovo in tanti anni che ho avuti, se non tormenti, diffidenze, timori, rimorsi di coscienza e conti da rendere a Dio? e difficilmente mi salverò. E quando ciò lo dirà? quando già sta per finire l'olio alla lampa, e chiudersi per lui la scena di questo mondo, ed egli si trova già a vista delle due eternità, felice ed infelice; e già s'accosta a quell'ultima aperta di bocca, da cui dipende l'esser beato o disperato per sempre, mentre Dio sarà Dio. Quanto egli pagherebbe allora per avere un altro anno o mese o almeno un'altra settimana di tempo, colla testa sana; perché stando allora con quello stordimento di capo, affanno di petto e mancanza di respiro, non può far niente, non può riflettere, non può attuar la mente a far un atto buono: si ritrova come chiuso in una fossa oscura di confusione, dove non concepisce altro che una gran rovina che gli sovrasta, a cui si vede inabile di rimediare. Onde vorrebbe tempo, ma gli sarà detto: "Proficiscere"; presto, aggiusta i conti fra questo breve spazio, come meglio puoi, e parti; non lo sai che la morte non aspetta, né porta rispetto ad alcuno?


Oh che spavento gli sarà allora il pensare e dire: Stamattina son vivo, stasera facilmente sarò morto! oggi sto in questa camera, domani starò in una fossa! e l'anima mia dove starà? Che spavento, quando vedrà apparecchiarsi la candela! quando vedrà comparire il sudor freddo della morte! quando udirà ordinarsi a' parenti che si partano dalla stanza e non v'entrino più! quando comincerà a perder la vista, oscurandosi gli occhi! Che spavento finalmente, quando già s'allumerà la candela, perché la morte è già vicina! O candela, candela, quante verità che allora scoprirai! o come farai allora vedere le cose differenti da quelle che ora compariscono! come farai conoscere che tutt'i beni di questo mondo son vanità, pazzie ed inganni! Ma che servirà intendere queste verità, quand'è finito il tempo di potervi rimediare?





MORTE DEI GIUSTI

Pretiosa in conspectu Domini mors sanctorum eius (Ps 115,15)

PUNTO I

La morte mirata secondo il senso spaventa, e si fa temere; ma secondo la fede consola, e si fa desiderare. Ella comparisce terribile a' peccatori, ma si dimostra amabile e preziosa a' Santi: "Pretiosa, dice S. Bernardo, tanquam finis laborum, victoriae consummatio, vitae ianua". "Finis laborum", sì, la morte è termine delle fatiche e de' travagli. "Homo natus de muliere, brevi vivens tempore, repletur multis miseriis" (Iob 14,1). Ecco qual'è la nostra vita, è breve ed è tutta piena di miserie, d'infermità, di timori e di passioni. I mondani che desiderano lunga vita, che altro cercano (dice Seneca) che un più lungo tormento? "Tanquam vita petitur supplicii mora".

Che cosa è il seguitare a vivere, se non il seguitare a patire? dice S. Agostino: "Quid est diu vivere, nisi diu torqueri?". Sì, perché (secondo ci avverte S. Ambrogio) la vita presente non ci è data per riposare, ma per faticare e colle fatiche meritarci la vita eterna: "Haec vita homini non ad quietem data est, sed ad laborem". Onde ben dice Tertulliano che quando Dio ad alcuno gli abbrevia la vita, gli abbrevia il tormento: "Longum Deus adimit tormentum, cum vitam concedit brevem". Quindi è che sebbene la morte è data all'uomo in pena del peccato, non però son tante le miserie di questa vita, che la morte (come dice S. Ambrogio) par che siaci data per sollievo, non per castigo: "Ut mors remedium videatur esse, non poena". Dio chiama beati quei che muoiono nella sua grazia, perché finiscono le fatiche e vanno al riposo. "Beati mortui qui in Domino moriuntur... Amodo iam dicit Spiritus, ut requiescant a laboribus suis" (Apoc 14,13).

I tormenti che in morte affliggono i peccatori, non affliggono i Santi. "Iustorum animae in manu Dei sunt, non tanget illos tormentum mortis" (Sap 3,1). I Santi, questi non già si accorano con quel "Proficiscere", che tanto spaventa i mondani. I Santi non si affliggono in dover lasciare i beni di questa terra, poiché ne han tenuto staccato il cuore. "Deus cordis mei" (sempre essi così sono andati dicendo), "et pars mea, Deus, in aeternum". Beati voi, scrisse l'Apostolo a' suoi discepoli, ch'erano stati per Gesù Cristo spogliati de' loro beni: "Rapinam bonorum vestrorum cum gaudio suscepistis, cognoscentes vos meliorem et manentem substantiam" (Hebr 10). Non si affliggono in lasciare gli onori, poiché più presto gli hanno abbominati e tenuti (quali sono) per fumo e vanità; solo hanno stimato l'onore di amare e d'essere amati da Dio. Non si affliggono in lasciare i parenti, perché costoro solo in Dio l'hanno amati; morendo gli lasciano raccomandati a quel Padre Celeste, che l'ama più di loro; e sperando di salvarsi, pensano che meglio dal paradiso, che da questa terra potranno aiutargli. In somma quel che sempre han detto in vita: "Deus meus, et omnia", con maggior consolazione e tenerezza lo van replicando in morte.

Chi muore poi amando Dio, non s'inquieta già per li dolori che porta seco la morte; ma più presto si compiace di loro, pensando che già finisce la vita, e non gli resta più tempo di patire per Dio e di offerirgli altri segni del suo amore, onde con affetto e pace gli offerisce quelle ultime reliquie della sua vita; e si consola in unire il sacrificio della sua morte col sacrificio, che Gesù Cristo offerì per lui un giorno sulla croce all'Eterno suo Padre. E così felicemente muore dicendo: "In pace in idipsum dormiam, et requiescam". Oh che pace è il morire abbandonato, e riposando nelle braccia di Gesù Cristo, che ci ha amati sino alla morte, ed ha voluto far egli una morte amara, per ottenere a noi una morte dolce e consolata!

PUNTO II

"Absterget Deus omnem lacrimam ab oculis eorum, et mors ultra non erit" (Apoc 21,4). Asciugherà dunque in morte il Signore dagli occhi de' suoi servi le lagrime, che hanno sparse in questa vita, vivendo in pene, in timori, pericoli e combattimenti coll'inferno. Ciò sarà quel che più consolerà un'anima, che ha amato Dio, in udir la nuova della morte, il pensare che presto sarà liberata da tanti pericoli, che vi sono in questa vita di offender Dio, da tante angustie di coscienza e da tante tentazioni del demonio. La vita presente è una continua guerra coll'inferno, nella quale siamo in continuo rischio di perdere l'anima e Dio. Dice S. Ambrogio che in questa terra "inter laqueos ambulamus": camminiamo sempre tra' lacci de' nemici, che c'insidiano la vita della grazia. Questo pericolo era quello, che facea dire a S. Pietro d'Alcantara, mentre stava morendo: Fratello, scostati (era quello un Religioso, che in aiutarlo lo toccava); scostati, perché ancora sto in vita, e sono in rischio di dannarmi. Questo pericolo ancora facea consolare S. Teresa, ogni volta che sentiva sonar l'orologio, rallegrandosi che fosse passata un'altr'ora di combattimento; poiché diceva: In ogni momento di vita io posso peccare, e perdere Dio. Ond'è che i Santi alla nuova della morte tutti si consolano, pensando che presto finiscono le battaglie e i pericoli, e stan vicini ad assicurarsi della felice sorte di non poter più perdere Dio.

Si narra nelle vite de' Padri che un Padre vecchio, morendo nella Scizia, mentre gli altri piangevano, esso ridea; domandato, perché ridesse? rispose: E voi perché piangete, vedendo ch'io vado al riposo? "Ex labore ad requiem vado, et vos ploratis?". Parimente S. Caterina da Siena morendo disse: Consolatevi meco, che lascio questa terra di pene, e vado al luogo della pace. Se taluno abitasse (dice S. Cipriano) in una casa, dove le mura son cadenti, e 'l pavimento e i tetti tremano, sicché tutto minaccia ruina, quanto dovrebbe costui desiderare di poterne uscire? In questa vita tutto minaccia ruina all'anima, il mondo, l'inferno, le passioni, i sensi ribelli: tutti ci tirano al peccato ed alla morte eterna. "Quis me liberabit (esclamava l'Apostolo) de corpore mortis huius?" (Rom 7,24). Oh che allegrezza sentirà l'anima nel sentirsi dire: "Veni de Libano, sponsa mea, veni de cubilibus leonum" (Cant 4,8). Vieni, sposa, esci dal luogo de' pianti, e da' covili de' leoni, che cercano di divorarti, e farti perdere la divina grazia. Onde S. Paolo, desiderando la morte, dicea che Gesù Cristo era l'unica sua vita; e perciò stimava egli il suo morire il maggior guadagno che potesse fare, in acquistar colla morte quella vita, che non ha più fine: "Mihi vivere Christus est, et mori lucrum" (Phil 1,21).

È un gran favore che Dio fa ad un'anima, quand'ella sta in grazia, il torla dalla terra, dove può mutarsi e perdere la di lui amicizia: "Raptus est, ne malitia mutaret intellectum eius" (Sap 4,11). Felice in questa vita è chi vive unito con Dio; ma siccome il navigante non può chiamarsi sicuro, se non quando è già arrivato al porto ed è uscito dalla tempesta: così non può chiamarsi appieno felice un'anima, se non quando esce di vita in grazia di Dio. "Lauda navigantis felicitatem, sed cum pervenit ad portum", dice S. Ambrogio. Or se ha allegrezza il navigante, allorché dopo tanti pericoli sta prossimo ad afferrare il porto; quando più si rallegrerà colui, che sta vicino ad assicurarsi della salute eterna?

In oltre, in questa vita non si può vivere senza colpe almeno leggiere. "Septies enim cadet iustus" (Prov 24,16). Chi esce di vita finisce di dar disgusto a Dio. "Quid est mors (dicea S. Ambrogio) nisi sepultura vitiorum?". Ciò ancora è quel che fa molto desiderar la morte agli amanti di Dio. Con ciò tutto si consolava morendo il Ven. P. Vincenzo Caraffa, mentre diceva: Terminando la vita, io termino d'offendere Dio. E 'l nominato S. Ambrogio dicea: "Quid vitam istam desideramus, in qua quanto diutius quis fuerit, tanto maiore oneratur sarcina peccatorum?". Chi muore in grazia di Dio, si mette in istato di non potere, né saper più offenderlo. "Mortuus nescit peccare", dicea lo stesso Santo. Perciò il Signore loda più i morti, che qualunque uomo, che vive, ancorché santo: "Laudavi magis mortuos, quam viventes" (Eccl 4,2). Un certo uomo da bene ordinò che nella sua morte chi gliene avesse portato l'avviso, gli avesse detto: Consolati, perché giunto è il tempo che non offenderai più Dio.

PUNTO III

La morte non solo è fine de' travagli, ma ancora è porta della vita. "Finis laborum, vitae ianua", come dice S. Bernardo. Necessariamente dee passare per questa porta, chi vuol entrare a veder Dio. "Ecce porta Domini, iusti intrabunt in eam" (Ps 117,20). S. Girolamo pregava la morte, e le diceva: "Aperi mihi, soror mea". Morte, sorella mia, se tu non mi apri la porta, io non posso andare a godere il mio Signore. S. Carlo Borromeo, vedendo un quadro in sua casa, dove stava dipinto uno scheletro di morto colla falce in mano; chiamò il pittore e gli ordinò che cancellasse quella falce e vi dipingesse una chiave d'oro, volendo con ciò sempre più accendersi al desiderio della morte, perché la morte è quella che ci ha d'aprire il paradiso a vedere Dio.

Dice S. Gio. Grisostomo se 'l re avesse apparecchiata ad alcuno l'abitazione nella sua reggia, ma al presente lo tenesse ad abitare in una mandra, quanto dovrebbe colui desiderar di uscir dalla mandra, per passare alla reggia? In questa vita l'anima stando nel corpo, sta come in un carcere, per di là uscire ed andare alla reggia del cielo; perciò pregava Davide: "Educ de custodia animam meam" (Ps 141,8). E 'l santo vecchio Simeone, quando ebbe tra le braccia Gesù Bambino, non seppe altra grazia cercargli che la morte, per esser liberato dal carcere della presente vita: "Nunc dimittis servum tuum, Domine". Dice S. Ambrogio: "Quasi necessitate teneretur, dimitti petit". La stessa grazia desiderò l'Apostolo, quando disse: "Cupio dissolvi, et esse cum Christo" (Phil 1,23).

Quale allegrezza ebbe il coppiere di Faraone, quando intese da Giuseppe che tra breve doveva uscire dalla prigione e ritornare al suo posto! Ed un'anima che ama Dio, non si rallegrerà in sentire che tra breve dee essere scarcerata da questa terra, ed andare a godere Dio? "Dum sumus in corpore, peregrinamur a Domino" (2 Cor 5,6). Mentre siamo uniti col corpo, siamo lontani dalla vista di Dio, come in terra aliena, e fuori della nostra patria; e perciò dice S. Brunone che la nostra morte non dee chiamarsi morte ma vita: "Mors dicenda non est, sed vitae principium". Quindi la morte de' Santi si nomina il lor natale; sì perché nella loro morte nascono a quella vita beata, che non avrà più fine. "Non est iustis mors, sed translatio", S. Attanagio. A' giusti la morte non è altro, che un passaggio alla vita eterna. O morte amabile, dicea S. Agostino, e chi sarà colui che non ti desidera, giacché tu sei il termine de' travagli, il fine della fatica e 'l principio del riposo eterno? "O mors desiderabilis, malorum finis, laboris clausula, quietis principium!". Pertanto con ansia pregava il Santo: "Eia moriar, Domine, ut Te videam".

Ben dee temere la morte, dice S. Cipriano, il peccatore, che dalla sua morte temporale ha da passare alla morte eterna: "Mori timeat, qui ad secundam mortem de hac morte transibit". Ma non già chi stando in grazia di Dio, dalla morte spera di passare alla vita. Nella Vita di S. Giovanni Limosinario si narra che un cert'uomo ricco raccomandò al Santo l'unico figlio che aveva, e gli diè molte limosine, affinché gli ottenesse da Dio lunga vita; ma il figlio poco tempo dopo se ne morì. Lagnandosi poi il padre della morte del figlio, Dio gli mandò un Angelo che gli disse: Tu hai cercata lunga vita al tuo figlio, sappi che questa eternamente egli già gode in cielo. Questa è la grazia, che ci ottenne Gesù Cristo, come ci fu promesso per Osea: "Ero mors tua, o mors" (Os 13,41). Gesù morendo per noi fe' che la nostra morte diventasse vita. S. Pionio Martire, mentr'era portato al patibolo, fu dimandato da coloro che lo conducevano, come potesse andare così allegro alla morte? Rispose il Santo: "Erratis, non ad mortem, sed ad vitam contendo". Così ancora fu rincorato il giovinetto S. Sinforiano dalla sua madre, mentre stava prossimo al martirio: "Nate, tibi vita non eripitur, sed mutatur in melius".




PACE DI UN GIUSTO CHE MUORE

Iustorum animae in manu Dei sunt, non tanget illos tormentum malitiae; visi sunt oculis insipientium mori; illi autem sunt in pace (Sap 3,3)

PUNTO I

"Iustorum animae in manu Dei sunt". Se Dio tiene strette nelle sue mani l'anime de' giusti, chi mai potrà strapparle dalle sue mani? È vero che l'inferno non lascia di tentare e d'insultare anche i Santi nella loro morte, ma Dio non lascia di assisterli e di accrescere gli aiuti a' servi suoi fedeli, dove cresce il loro pericolo: "Ibi plus auxilii, ubi plus periculi; quia Deus adiutor est in opportunitatibus", dice S. Ambrogio. Quando il servo d'Eliseo vide la città circondata da' nemici, restò atterrito; ma il Santo gli fece animo dicendo: "Noli timere, plures enim nobiscum sunt, quam cum illis" (4 Reg 6,16). E poi gli fe' vedere un esercito d'Angeli mandati da Dio in difesa. Verrà sì bene il demonio a tentare, ma verrà anche l'Angelo Custode a confortare il moribondo: verranno i SS. Avvocati: verrà S. Michele, ch'è destinato da Dio a difendere i servi fedeli nell'ultimo contrasto coll'inferno; verrà la divina Madre a discacciare i nemici, con ponere il suo divoto sotto il suo manto: verrà sopra tutti Gesù Cristo a custodire dalle tentazioni quella sua pecorella innocente, o penitente, per cui salvare ha data la vita: Egli le darà la confidenza e la forza, che in tal combattimento le bisognano, ond'ella tutta coraggio dirà: "Dominus factus est adiutor meus" (Ps 29,11). "Dominus illuminatio mea, et salus mea, quem timebo?" (Ps 26,1). Preme più a Dio, dice Origene, la nostra salvezza, che non preme al demonio la nostra perdizione; perché assai più ci ama Dio, che non ci odia il demonio: "Maior illi cura est, ut nos ad salutem pertrahat, quam diabolo, ut nos ad damnationem impellat".

Dio è fedele, dice l'Apostolo, non permette che noi siamo tentati oltre le nostre forze: "Fidelis Deus non patietur vos tentari supra id quod potestis" (1 Cor 10,13). Ma direte: Molti Santi son morti con gran timore della loro salute. Rispondo: pochi sono gli esempi, che si leggono di questi tali, che han menata buona vita e poi son morti con questo timore. Dice il Belluacense che il Signore ciò lo permette in alcuni, per purgarli in morte di qualche loro difetto: "Iusti quandoque dure moriendo purgantur in hoc mundo". Del resto di quasi tutt'i Servi di Dio leggesi che son morti col riso in bocca. A tutti dà timore in morte il divino giudizio, ma dove i peccatori dal timore passano alla disperazione, i Santi dal timore passano alla confidenza. Temea S. Bernardo stando infermo, come narra S. Antonino, ed era tentato di diffidenza; ma pensando a i meriti di Gesù Cristo, discacciava ogni timore dicendo: "Vulnera tua, merita mea". Temea S. Ilarione, ma lieto poi disse: "Egredere, anima mea, quid times? Septuaginta prope annis servisti Christo, et mortem times?". E voleva dire: Anima mia, che temi, avendo servito ad un Dio, ch'è fedele, e non sa abbandonare chi gli è stato fedele in vita? Il P. Giuseppe Scamacca della Compagnia di Gesù, dimandato se moriva con confidenza, rispose: E che ho servito a Maometto, ch'io abbia ora a dubitare della bontà del mio Dio, che non mi voglia salvare?

Se mai in morte ci tormenterà il pensiero di aver offeso Dio in qualche tempo, sappiamo che il Signore si è protestato di scordarsi de' peccati de' penitenti: "Si impius egerit poenitentiam, omnium iniquitatum eius non recordabor" (Ezech 18). Ma, dirà taluno, come possiamo star sicuri che Dio ci abbia perdonati? Ciò dimanda anche S. Basilio: "Quomodo certo persuasus esse quis potest, quod Deus ei peccata dimiserit?". E risponde: "Nimirum si dicat: iniquitatem odio habui, et abominatus sum". Chi odia il peccato, può star sicuro che Dio l'ha già perdonato. Il cuore dell'uomo non può star senz'amare: o ama le creature o ama Dio; se non ama le creature, dunque ama Dio. E ama Dio, chi osserva i precetti: "Qui habet praecepta mea, et servat ea, ille est qui diligit me" (Io 14). Chi muore dunque nell'osservanza de' precetti, muore amando Dio; e chi ama Dio, non teme: "Caritas mittit foras timorem" (1 Io 4,18).

PUNTO II

"Iustorum animae in manu Dei sunt, non tanget illos tormentum malitiae, visi sunt oculis insipientium mori... illi autem sunt in pace" (Sap 3,3). Sembra agli occhi degli stolti che i Servi di Dio muoiano afflitti e contro voglia, come muoiono i mondani; ma no, che Dio sa ben consolare i figli suoi nella loro morte; ed anche tra i dolori della morte fa loro sentire certe grandi dolcezze, come saggi del paradiso che tra poco vuol loro dare. Siccome quei che muoiono in peccato, cominciano sin da sopra quel letto a sentire certi saggi d'inferno, di rimorsi, di spaventi e di disperazione; così all'incontro i Santi cogli atti d'amore che allora fanno più spesso verso Dio, col desiderio e colla speranza che tengono di presto goderlo, già prima di morire cominciano a sentire quella pace, che pienamente poi goderanno in cielo. La morte a' Santi non è castigo, ma premio: "Cum dederit dilectis suis somnum, ecce hereditas Domini" (Ps 126,2). La morte di chi ama Dio, non si chiama morte, ma sonno, sicché ben egli potrà dire: "In pace in idipsum dormiam, et requiescam" (Ps 4,9).

Il P. Suarez morì con tanta pace, che morendo giunse a dire: "Non putabam tam dulce esse mori": non potea mai immaginarmi, che la morte mi dovesse riuscire così soave. Il Cardinal Baronio ammonito dal medico a non pensar tanto alla morte, rispose: e perché? che forse io la temo? io non la temo, ma l'amo. Il Cardinal Ruffense, come narra il Santero, quando andò a morir per la fede, procurò di porsi le migliori vesti che avea, dicendo che andava alle nozze. Quando fu poi a vista del patibolo, buttò il suo bastoncello, e disse: "Ite, pedes, parum a paradiso distamus": via su piedi miei, presto camminate, poco ci è lontano il paradiso. E prima di morire intonò il "Te Deum", in ringraziamento a Dio, che lo facea morire martire per la santa fede; e così tutto allegro pose la testa sotto la mannaia. S. Francesco d'Assisi cantava morendo, ed invitava gli altri al canto. Padre, gli disse Fra Elia, morendo bisogna piangere, non cantare. Ma io non posso (rispose il Santo) fare a meno di cantare, vedendo che tra breve ho d'andare a godere Dio. Una religiosa teresiana, morendo giovinetta, e stando l'altre monache a piangere d'intorno, loro disse: Oh Dio perché piangere? io vado a ritrovare Gesù Cristo mio; rallegratevi meco, se m'amate.

Narra il P. Granata che un certo cacciatore trovò un Solitario lebbroso, che stava morendo, e cantava. Come, disse quegli, stando così puoi cantare? Rispose il romito: Fratello, tra me e Dio non si frappone che il muro di questo mio corpo; ora io vedo caderlo a pezzi, e che si sfabbrica la carcere, e vado a vedere Dio; e perciò mi consolo, e canto. Questo desiderio di veder Dio facea dire a S. Ignazio Martire che se le fiere non fossero venute a torgli la vita, egli le avrebbe irritate a divorarlo: "Ego vim faciam, ut devorer". S. Caterina da Genova non potea soffrire che taluni tenessero la morte per disgrazia, e diceva: O morte amata, quanto sei malveduta! e perché non vieni a me, che giorno e notte ti chiamo? E S. Teresa desiderava tanto la morte che stimava sua morte il non morire; e con tal sentimento compose quella sua celebre canzone: "Muoio, perché non muoio". Tale riesce la morte a' Santi.

PUNTO III

E come mai può temere la morte chi spera dopo la morte d'esser coronato re del paradiso? "Non vereamur occidi" (dicea S. Cipriano), "quos constat quando occidimur coronari". Come può temere di morire chi sa che morendo in grazia, il suo corpo diventerà immortale? "Oportet mortale hoc induere immortalitatem" (1 Cor 15,53). Chi ama Dio e desidera di vederlo, stima pena la vita e gaudio la morte. "Patienter vivit, delectabiliter moritur", dice S. Agostino. E S. Tommaso da Villanova dice che la morte, se trova l'uomo dormendo, ella viene come ladro, lo spoglia, l'uccide e lo butta nel pozzo dell'inferno; ma se lo trova vigilante, ella come ambasciatore di Dio lo saluta e gli dice: Il Signore ti aspetta alle nozze, vieni ch'io ti condurrò al regno beato, che desideri: "Te Dominus ad nuptias vocat, veni, ducam te quo desideras".

Oh con quanta allegrezza sta aspettando la morte chi si ritrova in grazia di Dio, sperando di veder presto Gesù Cristo, e di sentirsi dire: "Euge serve bone et fidelis, quia in pauca fuisti fidelis super multa te constituam" (Matth 25,21). Oh come allora consoleranno le penitenze, le orazioni, il distacco da' beni terreni e tutto ciò che si è fatto per Dio! "Dicite iusto, quoniam bene, quoniam fructum adinventionum suarum comedet" (Is 3,10). Allora chi ha amato Dio, gusterà il frutto di tutte le sue opere sante. Perciò il P. Ippolito Durazzo della Compagnia di Gesù, quando moriva un religioso suo amico con segni di salvezza, non piangeva, ma tutto si rallegrava. Ma quale assurdo sarebbe, dicea S. Gio. Grisostomo, credere un paradiso eterno e poi compatire chi ci va? "Fateri coelum, et eos, qui hinc eo commearunt, luctu prosequi?". Qual consolazione specialmente sarà allora ricordarsi degli ossequi fatti alla Madre di Dio, di quei Rosari, di quelle visite, di quei digiuni nel sabato, di aver frequentata la di lei Congregazione! "Virgo fidelis", si chiama Maria; oh com'Ella è fedele in consolare in morte i suoi fedeli servi! Un certo divoto della S. Vergine disse morendo al P. Binetti: "Padre, non potete credere la consolazione, che apporta in morte il pensiero di aver servito alla Madonna! Oh padre mio, se sapeste qual contento io sento, per aver servito a questa Madre mia! io non so spiegarlo". Qual gaudio poi apporterà a chi ha amato Gesù Cristo, e che spesso l'ha visitato nel SS. Sagramento, e spesso l'ha ricevuto nella santa Comunione, il vedersi entrare nella stanza il suo Signore col SS. Viatico, che viene ad accompagnarlo nel passaggio dell'altra vita! O felice chi potrà allora dirgli con S. Filippo Neri: "Ecco l'amor mio, ecco il mio amore; datemi il mio amore!".

Ma chi sa (dirà qualcuno) qual sorte mi toccherà? chi sa, se infine farò una mala morte? Ma a te, che parli così, io domando: Che cosa mala rende la morte? solo il peccato; solo dunque il peccato dobbiam temere, non già la morte. "Liquet (dice S. Ambrogio) acerbitatem non mortis esse, sed culpae; non ad mortem metus referendus, sed ad vitam". Vuoi dunque non temere la morte? vivi bene. "Timenti Deum bene erit in extremis".

Il P. La-Colombier tenea per moralmente impossibile che faccia una mala morte, chi è stato fedele a Dio nella vita. E prima lo disse S. Agostino: "Non potest male mori, qui bene vixerit". Chi sta apparecchiato a morire, non teme qualunque morte, benché improvvisa. "Iustus quacunque morte praeoccupatus fuerit, in refrigerio erit" (Sap 7,7). E giacché non possiamo andare a godere Dio, se non per mezzo della morte, ci esorta S. Gio. Grisostomo: "Offeramus Deo, quod tenemur reddere". Ed intendiamo che chi offerisce a Dio la sua morte, fa un atto d'amore il più perfetto che può fare verso Dio; poiché abbracciando di buona voglia quella morte che piace a Dio, ed in quel tempo e modo che vuole Dio, egli si rende simile a' santi Martiri. Chi ama Dio, bisogna che desideri e sospiri la morte; perché la morte ci unisce eternamente con Dio, e ci libera dal pericolo di perderlo. È segno di poco amore a Dio il non aver desiderio di andar presto a vederlo, con assicurarsi di non poterlo più perdere. Frattanto in questa vita amiamolo quanto più possiamo. A questo solo dee servirci la vita, per crescere nell'amore; la misura del nostro amore, con cui ci troverà la morte, sarà la misura dell'amar che faremo Dio nella beata eternità.




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Sesso: Femminile
09/07/2019 23:25

MEZZI PER APPARECCHIARSI ALLA MORTE


Memorare novissima tua, et in aeternum non peccabis (Eccli 7,40)


PUNTO I


Tutti confessano che si ha da morire, e morire una sola volta; e che non vi è cosa di maggiore conseguenza di questa, poiché dal punto della morte dipende l'esser beato, o disperato per sempre. Tutti sanno poi che dal viver bene o male dipende il fare una buona o mala morte. E poi come va che dalla maggior parte de' cristiani si vive, come non si avesse mai a morire, o come poco importasse il morir bene o male? Si vive male, perché non si pensa alla morte: "Memorare novissima tua, et in aeternum non peccabis". Bisogna persuaderci che 'l tempo della morte non è proprio per aggiustare i conti, affin di assicurare il gran negozio dell'eterna salute. I prudenti del mondo negli affari di terra prendono a tempo opportuno tutte le misure per ottenere quel guadagno, quel posto, quel matrimonio; per la sanità del corpo non differiscono punto i rimedi necessari. Che diresti di taluno, che dovesse andare a qualche duello o concorso di cattedra, se volesse attendere ad istruirsi, quando è già arrivato il tempo? Non sarebbe pazzo quel capitano, che in tempo dell'assedio si riserbasse a far la provvisione de' viveri e dell'armi? Non pazzo quel nocchiero, che trascurasse a provvedersi d'ancore e di gomene sino al tempo della tempesta? Tale appunto è quel cristiano, che si riduce ad aggiustar la coscienza, quando è arrivata la morte. "Cum interitus quasi tempestas ingruerit... tunc invocabunt me, et non exaudiam; comedent fructus vitae suae" (Prov 1,27). Il tempo della morte è tempo di tempesta, di confusione; allora i peccatori chiamano Dio in aiuto, ma per solo timore dell'inferno, a cui si vedon vicini, senza vera conversione, e perciò Dio non gli esaudisce. E perciò anche giustamente non assaggeranno allora, che i soli frutti della loro mala vita. "Quae seminaverit homo, haec et metet". Eh che non basta allora prendere i sagramenti; bisogna morire odiando il peccato e amando Dio sopra ogni cosa; ma come odierà i piaceri illeciti, chi sino ad allora li avrà amati? come amerà Dio allora sopra ogni cosa, chi sino a quel punto avrà amate le creature più di Dio?


Il Signore chiama stolte quelle vergini (perché tali erano) che voleano apparecchiar le lampane, quando già veniva lo sposo. Tutti temono la morte subitanea, perché allora non vi è tempo di aggiustare i conti. Tutti confessano che i Santi sono stati i veri savi, perché si sono preparati alla morte, prima che giungesse la morte. E noi che facciamo? vogliamo aspettare ad apparecchiarci a morir bene, quando la morte sarà già vicina? Bisogna dunque fare al presente quel che vorremo aver fatto in morte. Oh che pena dà allora la memoria del tempo malamente speso! tempo dato da Dio per meritare, ma tempo ch'è passato e non torna più. Che affanno darà allora il sentirsi dire: "Iam non poteris amplius villicare". Non ci è più tempo di far penitenza, di frequentar sagramenti, di sentir prediche, di visitare Gesù Cristo nelle chiese, di fare orazione; quel ch'è fatto, è fatto. Vi bisognerebbe allora una mente più sana, un tempo più quieto per far la confessione, come va fatta, per risolvere diversi punti di scrupoli gravi, e così quietar la coscienza; ma "tempus non erit amplius".


PUNTO II


Presto dunque, fratello mio, giacché è certo che avete da morire, mettetevi a' piedi del Crocifisso, ringraziatelo del tempo, che vi dà per sua misericordia di poter aggiustare la vostra coscienza; e poi date una rivista a tutti gli sconcerti della vita passata, specialmente a quelli della gioventù. Date un'occhiata a i divini precetti, esaminate gl'impieghi esercitati, le conversazioni, che avete frequentate, e notatevi in iscritto le vostre mancanze, e fatevi una confession generale di tutta la vostra vita, se non l'avete fatta ancora. Oh quanto giova la confessione generale per mettere in buon sistema la vita d'un cristiano! Pensate che son conti per l'eternità, e perciò fateli come ora stessivo in punto di dovergli rendere a Gesù Cristo giudice. Discacciate dal cuore ogni affetto malvagio, ogni rancore: toglietevi ora ogni scrupolo di roba d'altri, di fama tolta, di scandali dati, e risolvete di fuggir quelle occasioni, in cui potete perdere Dio. Pensate che quel che ora vi pare difficile, in punto di morte vi parerà impossibile.


Ciò che importa, risolvete di mettere in pratica i mezzi per conservarvi in grazia di Dio. I mezzi sono la Messa ogni giorno, la meditazione delle verità eterne, la frequenza della confessione e Comunione almeno ogn'otto giorni, la visita ogni giorno al SS. Sagramento e alla divina Madre, la congregazione, la lezione spirituale, l'esame di coscienza ogni sera, qualche divozione speciale a Maria SS. con fare il digiuno nel sabato; e sopra tutto proponete di spesso raccomandarvi a Dio ed alla B. Vergine con invocare spesso, e specialmente in tempo di tentazioni, i nomi sagrosanti di Gesù e di Maria. Questi sono i mezzi, che possono ottenervi una buona morte e la salute eterna.


Il far ciò sarà un gran segno per voi della vostra predestinazione. Ed in quanto poi al passato, confidate al sangue di Gesù Cristo, il quale vi dona ora questi lumi, perché vi vuol salvo, e confidate all'intercessione di Maria che questi lumi v'impetra. Con tal registro di vita e confidenza in Gesù e Maria, oh come Dio aiuta, e che forza acquista l'anima! Presto dunque, lettor mio, datevi tutto a Dio che vi chiama; e cominciate a goder quella pace, di cui sinora per vostra colpa siete stato privo. E quale pace maggiore può sentire un'anima che 'l poter dire in porsi a letto la sera: Se stanotte viene la morte, spero di morire in grazia di Dio! Quale consolazione è l'udire lo strepito de' tuoni, vedere tremar la terra e star aspettando con rassegnazione la morte, se Dio così dispone!


PUNTO III


In oltre, bisogna procurare di ritrovarci in ogni ora quali desideriamo di ritrovarci in morte. "Beati mortui, qui in Domino moriuntur" (Apoc 14). Dice S. Ambrogio che quelli muoiono bene, che al tempo della morte si trovano già morti al mondo, cioè distaccati da quei beni, da cui la morte allora a forza avrà da separarci. Sicché bisogna che da ora accettiamo lo spoglio delle robe, la separazione da' parenti e da tutte le cose di questa terra. Se ciò non lo facciamo volontariamente in vita, l'avremo a fare necessariamente in morte, ma allora con estremo dolore e con pericolo della salute eterna. E con ciò avverte S. Agostino che giova molto per morir quieto l'aggiustare in vita gl'interessi temporali, facendo da ora la disposizione de' beni che si han da lasciare, acciocché in morte la persona s'occupi solo a stringersi con Dio. Allora è bene discorrere solamente di Dio e del paradiso. Son troppo preziosi quegli ultimi momenti, per non dissiparli in pensieri di terra. In morte si compisce la corona degli eletti, poiché allora si fa forse la migliore raccolta di meriti in abbracciare quei dolori e quella morte con rassegnazione ed amore.


Ma non potrà avere questi buoni sentimenti in morte, chi non gli ha esercitati in vita. A tal fine alcuni divoti con molto loro profitto praticano di rinnovare in ogni mese la Protesta della morte cogli atti cristiani, dopo essersi confessati e comunicati figurandosi di trovarsi già moribondi vicini ad uscire di vita. ("Nel nostro libretto della Visita al SS. Sagramento, vi è questa Protesta cogli atti, che può leggersi in poco tempo, perché è breve"). Ciò che non si fa in vita, è molto difficile farlo in morte. La gran serva di Dio suor Catarina di S. Alberto Teresiana morendo sospirava e dicea: Sorelle, io non sospiro per timor della morte, perché da 25 anni la sto aspettando, sospiro in vedere tanti ingannati, che menano la vita in peccato e si riducono a far pace con Dio in morte, quand'io appena posso pronunziare Gesù.


Esaminate dunque, fratello mio, se ora tenete attaccato il cuore a qualche cosa di terra, a quella persona, a quell'onore, a quella casa, a quei danari, a quella conversazione, a quegli spassi; pensate che non siete eterno. L'avete da lasciare un giorno, e forse presto; e perché volete starvi attaccato, con porvi a rischio di fare una morte inquieta? Offerite da ora tutto a Dio, pronto a privarvene, quando a Lui piace. Se volete morir rassegnato, bisogna che da ora vi rassegniate in tutti gli accidenti contrari, che vi possono accadere, e vi spogliate degli affetti alle cose della terra. Mettetevi innanzi il punto della morte e disprezzerete tutto. "Facile contemnit omnia (dice S. Geronimo) qui semper se cogitat moriturum".


Se non avete eletto ancora lo stato di vostra vita, eleggetevi quello stato che vorreste aver eletto, quando sarete in morte, e che vi farà fare una morte più contenta. Se poi già l'avete eletto, fate quel che vorreste aver fatto allora nel vostro stato. Fate come ogni giorno fosse l'ultimo di vostra vita, ed ogni azione l'ultima che fate, l'ultima orazione, l'ultima confessione, l'ultima comunione. Immaginatevi come in ogni ora vi trovaste moribondo, steso in un letto, e vi sentiste intimare quel "Proficiscere de hoc mundo". Questo pensiero oh quanto vi gioverà per ben camminare e distaccarvi dal mondo: "Beatus ille servus, quem, cum venerit Dominus eius, inveniet sic facientem" (Matth 24,46). Chi aspetta la morte ad ogni ora, ancorché morisse all'improvviso, non lascerà di morir bene.





PREZZO DEL TEMPO

Fili, conserva tempus (Eccli 4,23)

PUNTO I

Figlio, dice lo Spirito Santo, sta attento a conservare il tempo ch'è la cosa più preziosa e 'l dono più grande che può dare Dio ad un uomo che vive. Anche i gentili conoscevano quanto vale il tempo. Seneca diceva non esservi prezzo ch'uguagli il valore del tempo. "Nullum temporis pretium". Ma con miglior lume hanno conosciuto i Santi il valore del tempo. Disse S. Bernardino da Siena che tanto vale un momento di tempo, quanto vale Dio: perché in ogni momento può l'uomo con un atto di contrizione o d'amor acquistarsi la divina grazia e la gloria eterna: "Modico tempore potest homo lucrari gratiam, et gloriam. Tempus tantum valet, quantum Deus, quippe in tempore bene consumto comparatur Deus".

Il tempo è un tesoro, che solamente in vita si trova; non si trova nell'altra, né nell'inferno, né in cielo. Nell'inferno questo è il pianto de' dannati: "O si daretur hora!". Pagherebbero ad ogni costo un'ora di tempo, in cui potessero rimediare alla loro ruina; ma quest'ora non l'avranno mai. Nel cielo poi non si piange, ma se potessero piangere i beati, questo sarebbe il loro solo pianto, l'aver perduto il tempo in questa vita, in cui poteano acquistarsi maggior gloria, e che questo tempo non possono più averlo. Una Religiosa Benedettina defunta comparve gloriosa ad una persona e le disse ch'ella stava appieno contenta; ma se avesse potuto mai desiderare qualche cosa, era solo di ritornare in vita e di patire per meritare più gloria; e disse che si sarebbe contentata di soffrire la sua dolorosa infermità, che avea patita in morte, sino al giorno del giudizio, per acquistare la gloria che corrisponde al merito d'una sola "Ave Maria".

E voi, fratello mio, a che spendete il tempo? perché quel che potete far oggi, sempre lo trasportate al domani? Pensate che il tempo passato già scorso non è più vostro; il futuro non istà in vostro potere: solo il tempo presente avete per far bene. "Quid de futuro miser praesumis (ne avverte S. Bernardo), tanquam Pater tempora in tua posuerit potestate?". E S. Agostino dice: "Diem tenes, qui horam non tenes?". Come puoi prometterti il giorno di domani, se non sai se ti tocca neppure un'altra ora di vita? Dunque conclude S. Teresa e dice: Se oggi non istai pronto a morire, temi di morir male.

PUNTO II

Non vi è cosa più preziosa del tempo, ma non vi è cosa meno stimata e più disprezzata dagli uomini del mondo. Questo è quel che piange S. Bernardo: "Nihil pretiosius tempore, sed nihil vilius aestimatur". E poi seguita a dire: "Transeunt dies salutis, et nemo recogitat sibi perire diem, et nunquam rediturum". Vedrai quel giuocatore stare i giorni e le notti a perdere il tempo ne' giuochi; se gli dimandi, che fai? risponde: Passiamo il tempo. Vedrai quell'altro vagabondo trattenersi per ore intere in mezzo ad una strada a guardare chi passa, o a parlare osceno o di cose inutili; se gli dimandi, che fai? risponde: Ne fo passare il tempo. Poveri ciechi, che perdono tanti giorni, ma giorni che non tornano più!

O tempo disprezzato, tu sarai la cosa più desiderata da' mondani nel tempo della morte! Desidereranno allora un altro anno, un altro mese, un altro giorno, ma non l'avranno; sentiranno allora dirsi: "Tempus non erit amplius". Ognun di costoro quanto pagherebbe allora un'altra settimana, un altro giorno di tempo, per meglio aggiustare i conti della coscienza? Anche per ottenere una sola ora di tempo, dice S. Lorenzo Giustiniani, costui darebbe tutt'i suoi beni: "Erogaret opes, honores, delicias pro una horula". Ma quest'ora non gli sarà data: presto, gli dirà il Sacerdote assistente, presto partitevi da questa terra, non v'è più tempo: "Proficiscere, anima christiana, de hoc mundo".

Pertanto ci esorta il profeta a ricordarci di Dio e a procurarci la sua grazia, prima che manchi la luce: "Memento creatoris tui, antequam tenebrescat sol, et lumen" (Eccl 12,1). Qual pena è ad un pellegrino, che s'avvede di avere errata la via, quando è fatta già notte, e non v'è più tempo di rimediare? Questa sarà la pena in morte di chi è vivuto molti anni nel mondo, ma non gli ha spesi per Dio: "Venit nox, in qua nemo potest operari" (Io 9,4). Allora la morte sarà per lui tempo di notte, in cui non potrà fare più niente. "Vocavit adversum me tempus" (Thren 1,15). La coscienza allora gli ricorderà quanto tempo ha avuto, e l'ha speso in danno dell'anima; quante chiamate, quante grazie ha ricevute da Dio per farsi santo, e non ha voluto avvalersene, e poi si vedrà chiusa la via di fare alcun bene. Onde dirà piangendo: Oh pazzo che sono stato! Oh tempo perduto! Oh vita mia perduta! Oh anni perduti, in cui potea farmi santo; ma non l'ho fatto, ed ora non ci è più tempo di farlo. Ma a che serviranno questi lamenti e sospiri, allora che sta per finire la scena, la lampana sta vicina a smorzarsi, e 'l moribondo sta prossimo a quel gran momento da cui dipende l'eternità?

PUNTO III

"Ambulate dum lucem habetis" (Io 12,35). Bisogna che camminiamo nella via del Signore in vita, or che abbiamo la luce; perché poi questa si perde in morte. Allora non è tempo di apparecchiarsi, ma di trovarsi apparecchiato. "Estote parati". In morte non si può far niente; allora quel ch'è fatto è fatto. Oh Dio, se taluno avesse la nuova che tra breve ha da trattarsi la causa della sua vita, o di tutto il suo avere, come s'affretterebbe per ottenere un buon avvocato, per far intesi i ministri delle sue ragioni, e per trovar mezzi da procurarsi il lor favore? E noi che facciamo? Sappiamo certo che tra breve (e può essere ad ogni ora) si ha da trattar la causa del maggior negozio che abbiamo, ch'è il negozio della salute eterna, e perdiamo tempo?

Dirà taluno: Ma io son giovane, appresso mi darò a Dio. Ma sappiate (rispondo) che il Signore maledisse quel fico, che trovò senza frutto, ancorché non fosse tempo di frutti, come nota il Vangelo: "Non enim erat tempus ficorum" (Marc 11,13). Con ciò volle Gesù Cristo significarci che l'uomo in ogni tempo anche nella gioventù dee render frutto di buone opere, altrimenti sarà maledetto e non farà più frutto in avvenire. "Iam non amplius in aeternum ex te fructum quispiam manducet". Così disse il Redentore a quell'albero, e così maledice chi da lui è chiamato e resiste. Gran cosa! il demonio stima poco tempo tutto il tempo della nostra vita, e perciò non perde momento in tentarci: "Descendit diabolus ad vos habens iram magnam, sciens quod modicum tempus habet" (Apoc 12,12). Dunque il nemico non perde tempo per farci perdere, e noi perderemo il tempo, trattandosi di salvarci?

Dirà quell'altro: "Ma io che male fo?". Oh Dio, e non è male perdere il tempo in giuochi, in conversazioni inutili, che niente giovano all'anima? Iddio forse a ciò vi dà questo tempo, affinché lo perdiate? No, dice lo Spirito Santo: "Non te praetereat particula boni diei" (Eccli 4). Quelli operari, di cui scrive S. Matteo, non faceano male, ma solamente perdevano il tempo: e di ciò furono ripresi dal padron della vigna: "Quid hic statis tota die otiosi?" (Matth 20). Nel giorno del giudizio Gesù Cristo ci chiederà conto d'ogni parola oziosa. Ogni tempo, che non è speso per Dio, è tempo perduto. "Omne tempus, quo de Deo non cogitasti, cogita te perdidisse" (S. Bernardo). Quindi ci esorta il Signore: "Quodcunque facere potest manus tua, instanter operare, quia nec opus, nec ratio erunt apud inferos, quo tu properas" (Eccl 9,10). Dicea la Ven. M. suor Giovanna della SS. Trinità teresiana che nella vita de' Santi non v'è il domani: il domani è nella vita de' peccatori, che sempre dicono, appresso, appresso; e così si riducono alla morte. "Ecce nunc tempus acceptabile" (2 Cor 6,2). "Hodie si vocem eius audieritis, nolite obdurare corda vestra" (Ps 94,8). Oggi Dio ti chiama a far il bene, oggi fallo; perché domani può essere, o che non vi sia più tempo, o che Dio non ti chiami più.

E se per lo passato per tua disgrazia hai speso il tempo in offendere Dio, procura di piangerlo nella vita che ti resta, come propose di fare il re Ezechia: "Recogitabo tibi omnes annos meos in amaritudine animae meae" (Is 38,15). Dio ti dà la vita, acciocché ora rimedi al tempo perduto. "Redimentes tempus, quoniam dies mali sunt" (Ephes 5,16). Commenta S. Anselmo: "Tempus redimes, si quae facere neglexisti, facias". Di S. Paolo dice S. Geronimo ch'egli sebbene fu l'ultimo degli Apostoli, fu il primo ne' meriti per quel che fece dopo che fu chiamato: "Paulus novissimus in ordine, prior in meritis, quia plus in omnibus laboravit". Se altro non fosse, pensiamo che in ogni momento possiamo fare maggiori acquisti de' beni eterni. Se ti fosse concesso di acquistare tanto terreno, quanto potessi girar camminando per un giorno, o tanti danari, quanti potessi in un giorno numerare, qual fretta non ti daresti? E tu puoi acquistare in ogni momento tesori eterni, e vuoi perder tempo? Quel che puoi far oggi, non dire che puoi farlo domani, perché quest'oggi sarà perduto per te, e più non tornerà. S. Francesco Borgia, quando altri parlavano di mondo, volgevasi a Dio con santi affetti, sì che richiesto poi del suo sentimento, non sapeva rispondere; di ciò fu corretto: ma egli disse: "Malo rudis vocari, quam temporis iacturam pati". Mi contento più presto d'essere stimato rozzo d'ingegno, che perdere il tempo.




IMPORTANZA DELLA SALVEZZA

Rogamus autem fratres, ut negotium vestrum agatis (Thess 4,10)

PUNTO I

Il negozio dell'eterna salute è certamente l'affare, che a noi importa più di tutti gli altri; ma questo è il più trascurato da' cristiani. Non si lascia diligenza, né si perde tempo per arrivare a quel posto, per vincer quella lite, per concludere quel matrimonio; quanti consigli, quante misure si prendono; non si mangia, non si dorme! E poi per accertare la salute eterna, che si fa? come si vive? Non si fa niente, anzi si fa tutto per perderla; e si vive dalla maggior parte de' cristiani, come la morte, il giudizio, l'inferno, il paradiso e l'eternità non fossero verità di fede, ma favole inventate da' poeti. Se si perde una lite, una raccolta, che pena non si sente? e che studio non si mette per riparare il danno avuto? Se si perde un cavallo, un cane, che diligenza non si fa per ritrovarlo? Si perde la grazia di Dio, e si dorme, e si burla, e si ride. Gran cosa! Ognuno si vergogna d'esser chiamato negligente ne' negozi del mondo; e poi tanti non si vergognano di trascurare il negozio dell'eternità, che importa tutto! Chiamano essi savi li santi, che hanno atteso solamente a salvarsi, e poi essi attendono a tutte l'altre cose del mondo e niente all'anima! Ma voi (dice S. Paolo), voi, fratelli miei, attendete solo al gran negozio che avete della vostra salute eterna, che questo è l'affare che a voi più importa. "Rogamus vos, ut vestrum negotium agatis". Persuadiamoci dunque che la salute eterna è per noi il negozio più "importante", il negozio "unico", ed è un negozio "irreparabile", se mai si sgarra.

È il negozio il più "importante". Sì, perch'è l'affare di maggior conseguenza, trattandosi dell'anima, che perdendosi è perduto tutto. L'anima dee stimarsi da noi la cosa più preziosa, che tutti i beni del mondo."Anima est toto mundo pretiosior", dice S. Gio. Grisostomo. Per intendere ciò, basta sapere che lo stesso Dio ha dato il Figlio alla morte, per salvare l'anime nostre! "Sic Deus dilexit mundum, ut Filium suum unigenitum daret" (Io 3,16). E 'l Verbo eterno non ha ricusato di comprarle col suo medesimo sangue. "Emti enim estis pretio magno" (1 Cor 19,10). Talmente che (dice un santo Padre) par che l'uomo vaglia, quanto vale Dio: "Tam pretioso munere humana redemtio agitur, ut homo Deum valere videtur". Quindi disse Gesù Cristo: "Quam dabit homo commutationem pro anima sua?" (Matth 16,26). Se l'anima dunque tanto vale, per qual bene mai del mondo un uomo la cambierà perdendola?

Avea ragione S. Filippo Neri di chiamar pazzo chi non attende a salvarsi l'anima. Se mai nella terra vi fossero uomini mortali ed uomini immortali, ed i mortali vedessero gl'immortali tutti applicati alle cose del mondo, ad acquistare onori, beni e spassi di terra, direbbero certamente loro: Oh pazzi che siete! voi potete acquistarvi beni eterni e pensate a queste cose miserabili e passaggiere? e per queste vi condannate voi stessi a pene eterne nell'altra vita? Lasciate che a questi beni terreni ci pensiamo solamente noi sventurati, per cui nella morte finirà tutto per noi. Ma no, che siamo tutti immortali; e come va poi, che tanti per li miseri piaceri di questa terra perdono l'anima? Come va, dice Salviano, che i cristiani credono esservi giudizio, inferno, eternità, e poi vivono senza temerli? "Quid causae est, quod christianus, si futura credit, futura non timeat?".

PUNTO II

Il negozio dell'eterna salute non solo è il più importante, ma è "l'unico" negozio che abbiamo in questa vita. "Porro unum est necessarium". Piange S. Bernardo la sciocchezza de' cristiani, che chiamano pazzia le pazzie de' fanciulli, e poi chiamano negozi i loro affari terreni. "Nugae puerorum, nugae vocantur, nugae maiorum, negotia vocantur?". Queste pazzie de' grandi sono pazzie più grandi. Ed a che serve (dice il Signore) guadagnarti tutto il mondo, e perdere l'anima? "Quid prodest homini, si mundum universum lucretur, animae vero suae detrimentum patiatur?" (Matth 16,26). Se ti salvi, fratello mio, non importa che in questa terra sii stato povero, afflitto e disprezzato: salvandoti, non avrai più guai, e sarai felice per tutta l'eternità. Ma se la sgarri e ti danni, che ti servirà nell'inferno l'averti presi tutti gli spassi del mondo, e l'essere stato ricco ed onorato? Perduta l'anima, si perdono gli spassi, gli onori, le ricchezze; si perde tutto.

Che risponderai a Gesù Cristo nel giorno de' conti? Se il re mandasse un suo ambasciadore a trattare qualche gran negozio in una città, e quegli in vece di attendere ivi all'affare commessogli, attendesse solamente a far banchetti, commedie e festini: e con ciò mandasse a male il negozio, qual conto ne darebbe al re nel suo ritorno? Ma oh Dio! che maggior conto darà al Signore nel giudizio colui, che posto sulla terra, non per divertirsi, non per farsi ricco, non per acquistare onori ma per salvarsi l'anima, ad ogni cosa avrà atteso, fuorché all'anima? Si pensa da' mondani solamente al presente, non al futuro. S. Filippo Neri parlando una volta in Roma ad un giovane di talento, chiamato Francesco Zazzera, che stava applicato al mondo, gli disse così: Figlio mio, tu farai gran fortuna, sarai buono avvocato, poi sarai prelato, poi forse anche cardinale, e chi sa, forse anche Papa. E poi? e poi? Va (gli disse in fine), pensa a queste due ultime parole. Se ne andò Francesco alla casa, e pensando a quelle due parole, "e poi? e poi?" lasciò le sue applicazioni mondane, lasciò anche il mondo, ed entrò nella stessa Congregazione di S. Filippo, e cominciò ad attendere solo a Dio.

"Unico" negozio, perché un'anima abbiamo. Benedetto XII fu richiesto da un principe d'una grazia, che non potea concedersi senza peccato; il Papa rispose all'ambasciadore: Dite al vostro principe, che se io avessi due anime, potrei una perderla per lui e l'altra riservarla per me; ma perché ne ho una sola, non posso né voglio perderla. Dicea S. Francesco Saverio che un solo bene vi è nel mondo, e un solo male; l'unico bene è il salvarsi, l'unico male è il dannarsi. Ciò replicava ancora S. Teresa alle sue monache dicendo: "Sorelle mie, un'anima, un'eternità". Volendo dire: "Un'anima", perduta questa, è perduto tutto: "Una eternità", perduta l'anima una volta, è perduta per sempre. Perciò pregava Davide: "Unam petii, et hanc requiram, ut inhabitem in domo Domini" (Ps 22,6). Signore, una cosa vi chiedo, salvatemi l'anima, e non altro.

"Cum metu, et tremore, vestram salutem operamini" (Phil 2,12). Chi non teme e non trema di perdersi, non si salverà; ond'è che per salvarsi, bisogna faticare e farsi violenza. "Regnum coelorum vim patitur, et violenti rapiunt illud" (Matth 11). Per conseguir la salute è necessario che in morte la nostra vita si trovi simile a quella di Gesù Cristo. "Praedestinavit uniformes fieri imaginis Filii sui" (Rom 8,29). E perciò dobbiam faticare in fuggir le occasioni da una parte, e dall'altra in avvalerci de' mezzi necessari a conseguir la salute. "Regnum non dabitur vagantibus (dice S. Bernardo), sed pro servitio Deo digne laborantibus". Tutti vorrebbero salvarsi senza incomodo. Gran cosa! dice S. Agostino, il demonio fa tanta fatica, e non dorme per farci perdere; e tu, trattandosi del tuo bene, o male eterno, sei così trascurato? "Vigilat hostis, dormis tu"?

PUNTO III

Negozio "importante", negozio "unico", negozio "irreparabile". "Sane supra omnem errorem est", dice S. Eucherio, "dissimulare negotium aeternae salutis". Non v'è errore simile all'errore di trascurare la salute eterna. A tutti gli altri errori vi è rimedio: se uno perde una roba, può acquistarla per altra via: se perde un posto, può esservi il rimedio a ricuperarlo: ancorché taluno perdesse la vita, se si salva, è rimediato a tutto. Ma per chi si danna, non vi è più rimedio. Una volta si muore; perduta l'anima una volta, è perduta per sempre. "Periisse semel, aeternum est". Altro non resta, che piangere eternamente cogli altri miseri pazzi nell'inferno: dove questa è la maggior pena, che li tormenta, il pensare che per essi è finito il tempo di rimediare alla loro miseria. "Finita est aestas, et nos salvati non sumus" (Ier 8,20). Dimandate a que' savi del mondo, che ora stanno in quella fossa di fuoco, dimandate quali sentimenti ora tengono? e se si trovan contenti di aver fatte le loro fortune in questa terra, ora che son dannati a quel carcere eterno? Udite come piangono e dicono: "Ergo erravimus!". Ma che serve loro conoscer l'errore fatto, ora che non v'è più rimedio alla loro eterna dannazione? Qual pena non sentirebbe taluno in questa terra, se avendo potuto rimediare con poca spesa alla rovina d'un suo palagio, un giorno poi lo trovasse caduto, e considerasse la sua trascuraggine, quando non può più rimediarvi?

Questa è la maggior pena de' dannati il pensare che han perduta l'anima, e si son dannati per colpa loro. "Perditio tua, Israel, tantummodo in me auxilium tuum" (Os 13,9). Dice S. Teresa che se uno perde per colpa sua una veste, un anello, anche una bagattella, non trova pace, non mangia, non dorme. Oh Dio qual pena sarà al dannato in quel punto ch'entrerà nell'inferno, allorché vedendosi già chiuso in quella prigione di tormenti, anderà pensando alla sua disgrazia, e vedrà che per tutta l'eternità non vi sarà mai più riparo! Dunque dirà: Io ho perduta l'anima, il paradiso e Dio: ho perduto tutto per sempre, e perché? per colpa mia.

Ma dirà taluno: Se io fo questo peccato, perché m'ho da dannare? può essere che ancora mi salvi. Io ripiglio: Ma può essere che ancora ti danni. Anzi ti dico esser più facile che ti danni, poiché le Scritture minacciano la dannazione a' traditori ostinati, come in questo punto sei tu: "Vae filii desertores, dicit Dominus" (Is 30,1) "Vae eis, quoniam recesserunt" (Os 7,13). Almeno con questo peccato, che fai, non metti in gran pericolo e dubbio la tua salute eterna? Ed è negozio questo da metterlo in pericolo? Non si tratta d'una casa, d'una villa, d'un posto, si tratta, dice S. Gio. Grisostomo, di subissare in un'eternità di tormenti e di perdere un paradiso eterno: "De immortalibus suppliciis, de coelestis regni amissione res agitur". E questo negozio che importa il tutto per te, vuoi arrischiarlo ad un "può essere?".

Dici: Forse chi sa, non mi dannerò: spero che appresso Dio mi perdonerà. Ma frattanto? frattanto già da te stesso ti condanni all'inferno. Dimmi, ti butteresti in un pozzo con dire, forse chi sa, non morirò? No. E come poi puoi appoggiare la tua salute eterna ad una speranza così debole? ad un "chi sa?". Oh quanti con questa maledetta speranza si son dannati! Non sai che la speranza degli ostinati a voler peccare, non è speranza, ma inganno e presunzione, che muove Dio non a misericordia, ma a maggiore sdegno? Se ora dici che non ti fidi di resistere alla tentazione ed alla passione che ti domina, come resisterai appresso, quando non ti si aumenteranno, ma ti mancheranno le forze col commettere il peccato? poiché da una parte allora l'anima resterà più accecata, ed indurita dalla sua malizia, e dall'altra mancheranno gli aiuti divini. Forse speri che Dio abbia ad accrescere a te i lumi e le grazie, dopo che tu avrai accresciuti i peccati?




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VANITÀ DEL MONDO

Quid prodest homini, si mundum universum lucretur, animae vero suae detrimentum patiatur? (Matth 16,26)

PUNTO I

Fuvvi un certo antico filosofo, chiamato Aristippo, che viaggiando una volta per mare, naufragò colla nave, ed egli perdé tutte le sue robe; ma giunto al lido, essendo esso molto rinomato per la sua scienza, fu da' paesani di quel luogo provveduto di tutto ciò che avea perduto. Ond'egli scrisse poi a' suoi amici nella patria che dal suo esempio attendessero a provvedersi solamente di quei beni, che neppur col naufragio si perdono. Or questo appunto ci mandano a dire dall'altra vita i nostri parenti ed amici che stanno all'eternità, che attendiamo a provvederci qui in vita solamente di quei beni, che neppure colla morte si perdono. Il giorno della morte si chiama, "Dies perditionis (Iuxta est dies perditionis. Deut 29,21)". Giorno di perdita, perché in tal giorno i beni di questa terra, gli onori, le ricchezze, i piaceri tutti si han da perdere. Onde dice S. Ambrogio che questi non possiamo chiamarli beni nostri, mentre non possiamo portarli con noi all'altro mondo; ma le sole virtù ci accompagnano all'altra vita: "Non nostra sunt, quae non possumus auferre nobiscum; sola virtus nos comitatur".

Che serve dunque, dice Gesù Cristo, guadagnarsi tutto il mondo, se in morte perdendo l'anima perderemo tutto? "Quid prodest homini, si mundum universum lucretur?". Ah questa gran massima quanti giovani ne ha mandati a chiudersi ne' chiostri, quanti anacoreti a vivere ne' deserti, quanti martiri a dar la vita per Gesù Cristo! Con questa massima S. Ignazio di Loiola tirò molte anime a Dio; e specialmente la bell'anima di S. Francesco Saverio, il quale stava in Parigi, applicato ivi a' pensieri di mondo. Francesco (gli disse un giorno il santo) pensa che il mondo è un traditore, che promette e non attende. Ma ancorché ti attendesse quel che ti promette il mondo, egli non potrà mai contentare il tuo cuore. Ma facciamo che ti contentasse, quando durerà questa tua felicità? può durare più che la tua vita? ed in fine che te ne porterai all'eternità? Vi è forse ivi alcun ricco, che si ha portata una moneta, o un servo per suo comodo? Vi è alcun re, che si ha portato un filo di porpora per suo onore? A queste parole S. Francesco lasciò il mondo, seguitò S. Ignazio e si fece santo. "Vanitas vanitatum", così chiamò Salomone tutti i beni di questo mondo, dopo ch'egli non si negò alcun piacere di tutti quelli che stanno sulla terra, com'egli stesso confessò: "Omnia quae desideraverunt oculi mei, non negavi eis" (Eccl 2,10). Dicea suor Margherita di S. Anna carmelitana Scalza, figlia dell'imperator Ridolfo II: "A che servono i regni nell'ora della morte?". Gran cosa! tremano i santi in pensare al punto della loro salute eterna; tremava il P. Paolo Segneri, il quale tutto spaventato dimandava al suo confessore: Che dici, padre, mi salverò? Tremava S. Andrea d'Avellino, e piangeva dirottamente dicendo: Chi sa, se mi salvo! Da questo pensiero ancora era così tormentato S. Luigi Beltrando, che per lo spavento la notte sbalzava di letto dicendo: E chi sa, se mi danno! E i peccatori vivono dannati, e dormono, e burlano, e ridono!

PUNTO II

"Statera dolosa in manu eius" (Os 12). Bisogna pesare i beni nelle bilance di Dio, non in quelle del mondo, le quali ingannano. I beni del mondo son beni troppo miseri, che non contentano l'anima, e presto finiscono. "Dies mei velociores fuerunt cursore, pertransierunt quasi naves poma portantes" (Iob 9,25). Passano e fuggono i giorni della nostra vita e de' piaceri di questa terra, e finalmente che resta? "Pertransierunt quasi naves". Le navi non lasciano neppure il segno per dove son passate. "Tanquam navis, quae pertransit fluctuantem aquam, cuius, cum praeterierit, non est vestigium invenire" (Sap 5,10). Domandiamo a tanti ricchi, letterati, principi, imperadori, che or sono all'eternità, che si trovano delle loro pompe, delizie e grandezze godute in questa terra? Tutti rispondono: Niente, niente. Uomo, dice S. Agostino: "Quid hic habebat, attendis, quid secum fert, attende". Tu guardi (dice il santo) solamente i beni, che possedea quel grande; ma osserva che cosa si porta seco, or che muore, se non un cadavere puzzolente ed uno straccio di veste per seco infracidirsi? De i grandi del mondo che muoiono, appena per poco tempo si sente parlare, e poi se ne perde anche la memoria. "Periit memoria eorum cum sonitu" (Ps 9,7). E se i miseri vanno poi all'inferno, ivi che fanno, che dicono? Piangono e dicono: "Quid profuit nobis superbia, aut divitiarum iactantia?... transierunt omnia illa, tanquam umbra" (Sap 5,8). Che ci han giovate le nostre pompe e le ricchezze, se ora tutto è passato come un'ombra, ed altro non c'è rimasto che pena, pianto e disperazione eterna?

"Filii huius saeculi prudentiores filiis lucis sunt" (Luc 16,8). Gran cosa! come sono prudenti i mondani per le cose della terra! Quali fatiche non fanno, per guadagnarsi quel posto, quella roba! Che diligenza non mettono, per conservarsi la sanità del corpo! Scelgono i mezzi più sicuri, il miglior medico, i migliori rimedi, la miglior aria. E per l'anima poi sono così trascurati! Ed è certo che la sanità, i posti, le robe un giorno han da finire; ma l'anima, l'eternità non finiscono mai. "Intueamur (dice S. Agostino) quanta homines sustineant pro rebus, quas vitiose diligunt". Che non soffre quel vendicativo, quel ladro, quel disonesto per giungere al suo pravo intento? E poi per l'anima non vogliono soffrir niente? Oh Dio, che alla luce di quella candela, che si accende nella morte, allora in quel tempo di verità si conosce e si confessa da' mondani la loro pazzia. Allora ognuno dice: Oh avessi lasciato tutto, e mi fossi fatto santo! Il Pontefice Leone XI diceva in morte: Meglio fossi stato portinaio del mio monastero, che Papa. Onorio III similmente Papa, anche dicea morendo: Meglio fossi restato nella cucina del mio convento a lavare i piatti. Filippo II re di Spagna morendo si chiamò il figlio, e gittando la veste regale, gli fe' vedere il petto roso da' vermi, e poi gli disse: Principe, vedi come si muore, e come finiscono le grandezze del mondo. E poi esclamò: Oh fossi stato laico di qualche religione e non monarca. Nello stesso tempo si fe' ligare al collo una fune con una croce di legno, e dispose le cose per la sua morte, e disse al figlio: Ho voluto, figlio mio, che voi vi foste trovato presente a quest'atto, acciocché miriate come il mondo in fine tratta anche i monarchi. Sicché la loro morte è uguale a quella de' più poveri del mondo. In somma chi meglio vive ha miglior luogo con Dio. Questo medesimo figlio poi (che fu Filippo III) morendo giovine di 42 anni, disse: Sudditi miei, nel sermone de' miei funerali, non predicate altro se non questo spettacolo che vedete. Dite che non serve in morte l'esser re, che per sentire maggior tormento d'esserlo stato. E poi esclamò: Oh non fossi stato re, e fossi vivuto in un deserto a servire Dio, perché ora anderei con maggior confidenza a presentarmi nel suo tribunale, e non mi troverei a tanto rischio di dannarmi! Ma che servono questi desideri in punto di morte, se non per maggior pena e disperazione a chi in vita non ha amato Dio? Dicea dunque S. Teresa: "Non ha da farsi conto di ciò, che finisce colla vita; la vera vita è vivere in modo, che non si tema la morte". Perciò se vogliamo vedere, che cosa sono li beni di questa terra, miriamoli dal letto della morte; e poi diciamo: Quegli onori, quegli spassi, quelle rendite un giorno finiranno: dunque bisogna attendere a farci santi e ricchi di quei soli beni che verranno con noi, e ci renderanno contenti per tutta l'eternità.

PUNTO III

"Tempus breve est... qui utuntur hoc mundo, tanquam non utantur, praeterit enim figura huius mundi" (1 Cor 7,31). Che altro è la nostra vita su questo mondo, se non una scena che passa e presto finisce? "Praeterit figura huius mundi"; figura cioè scena, commedia. "Mundus est instar scenae (dice Cornelio a Lapide), generatio praeterit, generatio advenit. Qui regem agit, non auferet secum purpuram. Dic mihi, o villa, o domus, quot dominos habuisti?". Quando finisce la commedia, chi ha fatta la parte del re, non è più re; il padrone, non è più padrone. Ora possiedi quella villa, quel palagio; ma verrà la morte, e ne saran padroni gli altri.

"Malitia horae oblivionem facit luxuriae magnae" (Eccli 11,29). L'ora funesta della morte fa scordare e finire tutte le grandezze, le nobiltà ed i fasti del mondo. Casimiro re di Polonia un giorno, mentre stava a mensa co' grandi del suo regno, accostando la bocca ad una tazza per bere, morì, e finì per lui la scena. Celso imperadore, in capo a sette giorni ch'era stato eletto, fu ucciso, e finì la scena per Celso. Ladislao re di Boemia, giovine di 18 anni, mentre aspettava la sposa, figlia del re di Francia, e si apparecchiavano gran feste, ecco in una mattina preso da un dolore se ne muore; onde si spediscono subito i corrieri ad avvisare la sposa, che se ne torni in Francia, poiché per Ladislao era finita la scena. Questo pensiero della vanità del mondo fe' santo S. Francesco Borgia, il quale come di sopra si considerò a vista dell'imperadrice Isabella, morta in mezzo alle grandezze e nel fiore di sua gioventù, risolse di darsi tutto a Dio, dicendo: "Così dunque finiscono le grandezze e le corone di questo mondo? Voglio dunque da ogg'innanzi servire ad un padrone, che non mi possa morire".

Procuriamo di vivere in modo, che non ci sia detto in morte, come fu detto a quel pazzo del Vangelo: "Stulte, hac nocte animam tuam repetent a te, et quae parasti cuius erunt?" (Luc 12,20). Onde conclude S. Luca: "Sic est qui sibi thesaurizat, et non est in Deum dives". E poi dice: Procurate di farvi ricchi, non già nel mondo di robe, ma in Dio di virtù e di meriti, che son beni che saranno eterni con voi in cielo: "Thesaurizate vobis thesauros in coelo, ubi neque aerugo neque tinea demolitur". E perciò attendiamo ad acquistarci il gran tesoro del divino amore. "Quid habet dives, si caritatem non habet? Pauper si caritatem habet, quid non habet?" dice S. Agostino. Se uno ha tutte le ricchezze e non ha Dio, egli è il più povero del mondo. Ma il povero che ha Dio, ha tutto. E chi ha Dio? chi l'ama: "Qui manet in caritate, in Deo manet, et Deus in eo" (1 Io 4,16).




LA PRESENTE VITA È VIAGGIO ALL'ETERNITÀ

Ibit homo in domum aeternitatis suae (Eccl 12,5)

PUNTO I

Dal vedere che in questa terra tanti malviventi vivono tra le prosperità, e tanti giusti all'incontro vivon tribulati, anche i gentili col solo lume naturale han conosciuta questa verità che essendovi Dio, ed essendo questo Dio giusto, debba esservi un'altra vita, in cui siano puniti gli empi e premiati i buoni. Or quello che han detto i gentili col solo lume della ragione, noi cristiani lo confessiamo per fede. "Non habemus hic manentem civitatem, sed futuram inquirimus" (Hebr 13,14). Questa terra non è già la nostra patria, ella per noi è luogo di passaggio, per dove dobbiamo passare tra breve alla casa dell'eternità. "Ibit homo in domum aeternitatis suae". Dunque, lettor mio, la casa dove abiti, non è casa tua, è ospizio, dal quale, tra breve, e quando meno te l'immagini, dovrai sloggiare. Sappi che giunto che sarà il tempo di tua morte, i tuoi più cari saranno i primi a cacciartene. E quale sarà la tua vera casa? una fossa sarà la casa del tuo corpo sino al giorno del giudizio, e l'anima tua dovrà andare alla casa dell'eternità, o al paradiso, o all'inferno. Perciò ti avvisa S. Agostino: "Hospes es, transis et vides". Sarebbe pazzo quel pellegrino, che passando per un paese volesse ivi impiegare tutto il suo patrimonio, per comprarsi ivi una villa o una casa, che tra pochi giorni avesse poi da lasciare. Pensa pertanto, dice il santo, che in questo mondo stai di passaggio; non mettere affetto a quel che vedi; vedi e passa; e procurati una buona casa, dove avrai da stare per sempre.

Se ti salvi, beato te, oh che bella casa è il paradiso! Tutte le reggie più ricche de' monarchi sono stalle a rispetto della città del paradiso, che sola può chiamarsi: "Civitas perfecti decoris" (Ez 23,3). Colà non avrai più che desiderare, stando in compagnia de' santi, della divina Madre e di Gesù Cristo, senza timore più d'alcun male; in somma viverai in un mar di contenti ed in un continuo gaudio che sempre durerà. "Laetitia sempiterna super capita eorum" (Is 35,10). E questo gaudio sarà così grande, che per tutta l'eternità, in ogni momento, sembrerà sempre nuovo. All'incontro, se ti danni, povero te! Sarai confinato in un mare di fuoco e di tormenti, disperato, abbandonato da tutti e senza Dio. E per quanto tempo? Passati forse che saranno cento e mille anni, sarà finita la tua pena? Che finire! Passeranno cento e mille milioni d'anni e di secoli; e l'inferno tuo sempre sarà da capo. Che sono mille anni a rispetto dell'eternità? meno d'un giorno che passa. "Mille anni ante oculos tuos, tanquam dies hesterna quae praeteriit" (Ps 89,4). Vorresti or sapere quale sarà la tua casa, che ti toccherà nell'eternità? Sarà quella che tu ti meriti, e ti scegli tu stesso colle tue opere.

PUNTO II

"Si lignum ceciderit ad austrum, aut ad aquilonem, in quocunque loco ceciderit, ibi erit" (Eccl 11,3). Dove caderà in morte l'albero dell'anima tua, ivi avrai da restare in eterno. E non vi è via di mezzo, o sempre re nel cielo, o sempre schiavo nell'inferno. O sempre beato in un mare di delizie, o sempre disperato in una fossa di tormenti. S. Gio. Grisostomo considerando l'epulone, che fu stimato felice, ma poi era stato confinato all'inferno, e Lazzaro all'incontro, che fu stimato misero, perché povero, ma poi era felice nel paradiso, esclama: "O infelix felicitas, quae divitem ad aeternam infelicitatem traxit! O felix infelicitas, quae pauperem ad aeternitatis felicitatem perduxit!".

Che serve angustiarsi, come fa taluno dicendo: Chi sa se son prescito, o predestinato! L'albero allorché si taglia, dove cade? cade dove pende. Dove pendete voi, fratello mio? che vita fate? Procurate di pender sempre dalla parte dell'austro, conservatevi in grazia di Dio, fuggite il peccato; e così vi salverete e sarete predestinato. E per fuggire il peccato, abbiate sempre avanti gli occhi il gran pensiero dell'eternità, chiamato appunto da S. Agostino: "Magna cogitatio". Questo pensiero ha condotti tanti giovani a lasciare il mondo, ed a vivere ne' deserti, per attendere solo all'anima; e l'hanno accertata. Ora che son salvi, se ne trovan certamente contenti, e se ne troveran contenti per tutta l'eternità.

Una certa dama, che vivea lontana da Dio, fu convertita dal P. M. Avila con dirle solamente: Signora, pensate a queste due parole: "Sempre e Mai". Il P. Paolo Segneri ad un pensiero ch'ebbe di eternità in un giorno, non poté prender sonno per più notti, e d'indi in poi si diede ad una vita più rigorosa. Narra Dresselio che un certo vescovo con questo pensiero dell'eternità menava una vita santa, replicando sempre tra sé: "Omni momento ad ostium aeternitatis sto". Un certo monaco si chiuse in una fossa ed ivi non faceva altro che esclamare: "O eternità, o eternità!". Chi crede all'eternità, e non si fa santo, diceva il medesimo P. Avila, dovrebbe chiudersi nella carcere de' pazzi.

PUNTO III

"Ibit homo in domum aeternitatis suae": dice il profeta, "ibit", per dinotare che ciascuno anderà a quella casa, dove vuole andare; non vi sarà portato, ma esso vi anderà di propria volontà. È certo che Dio vuol tutti salvi, ma non ci vuole salvi per forza. "Ante hominem vita, et mors". Ha posta avanti ad ognuno di noi la vita e la morte, quella ch'eleggeremo, ci sarà data: "Quod placuerit ei, dabitur illi" (Eccli 15,18). Dice finalmente Geremia che il Signore ci ha date due vie da camminare, una del paradiso e l'altra dell'inferno: "Ego do coram vobis viam vitae, et mortis" (Ier 21,8). A noi sta di scegliere. Ma chi vuol camminare per la via dell'inferno, come mai potrà ritrovarsi poi giunto al paradiso? Gran cosa! tutti i peccatori si voglion salvare, e frattanto si condannano da se stessi all'inferno con dire, spero di salvarmi. Ma chi mai, dice S. Agostino, trovasi così pazzo, che voglia prendersi il veleno colla speranza di guarirsi? "Nemo vult aegrotare sub spe salutis". E poi tanti cristiani, tanti pazzi, si danno la morte peccando con dire: Appresso penserò al rimedio! O inganno che ne ha mandati tanti all'inferno!

Non siamo noi così pazzi come questi; pensiamo che si tratta d'eternità. Quante fatiche fanno gli uomini per farsi una casa comoda, ariosa e in buon'aria, pensando che vi han da abitare per tutta la loro vita? E perché poi sono così trascurati, trattando di quella casa, che loro toccherà in eterno? "Negotium pro quo contendimus, aeternitas est", dice S. Eucherio; non si tratta d'una casa più o meno comoda, più o meno ariosa, si tratta di stare o in un luogo di tutte le delizie tra gli amici di Dio, o in una fossa di tutti i tormenti tra la ciurma infame di tanti scelerati, eretici, idolatri. E per quanto tempo? non per venti, o per quarant'anni, ma per tutta l'eternità. È un gran punto. Non è questo negozio di poco momento, è un negozio che importa tutto. Quando Tommaso Moro fu condannato a morte da Arrigo VIII, Luisa sua moglie andò a tentarlo di consentire al volere di Arrigo; egli le disse allora: Dimmi, Luisa, già vedi ch'io son vecchio, quanti anni potrei aver di vita? Rispose la moglie: Voi potreste vivere venti altri anni. O sciocca mercantessa, ripigliò allora Tommaso, e per venti altri anni di vita su questa terra vuoi che perda un'eternità felice, e mi condanni ad una eternità di pene?

O Dio, dacci lume. Se il punto dell'eternità fosse una cosa dubbia, fosse un'opinione solamente probabile, pure dovressimo metter tutto lo studio per viver bene, acciocché non ci ponessimo al pericolo di essere eternamente infelici, se mai quest'opinione si trovasse vera; ma no, che questo punto non è dubbio, ma certo; non è opinione, ma verità di fede: "Ibit homo in domum aeternitatis suae". Oimè che la mancanza di fede, dice S. Teresa, è quella che è causa di tanti peccati e della dannazione di tanti cristiani. Ravviviamo dunque sempre la fede, dicendo: "Credo vitam aeternam". Credo che dopo questa vita vi è un'altra vita, che non finisce mai; con questo pensiero sempre avanti gli occhi prendiamo i mezzi per assicurare la nostra salute eterna. Frequentiamo i sagramenti, facciamo la meditazione ogni giorno e pensiamo alla vita eterna; fuggiamo le occasioni pericolose. E se bisogna lasciare il mondo, lasciamolo, perché non vi è sicurtà che basta per assicurare questo gran punto dell'eterna salute. "Nulla nimia securitas, ubi periclitatur aeternitas" (S. Bernardo).




LA MALIZIA DEL PECCATO MORTALE

Filios enutrivi, et exaltavi, ipsi autem spreverunt me (Isa 1,2)

PUNTO I

Che fa chi commette un peccato mortale? Ingiuria Dio, lo disonora, l'amareggia. Per prima il peccato mortale è un'ingiuria, che si fa a Dio. La malizia di un'ingiuria, come dice S. Tommaso, si misura dalla persona, che la riceve, e dalla persona che la fa. Un'ingiuria che si fa ad un villano, è male, ma è maggior delitto, se si fa ad un nobile; maggiore poi, se si fa ad un monarca. Chi è Dio? è il Re de' Regi. "Dominus Dominantium est, et Rex Regum" (Apoc 17,14). Dio è una maestà infinita, a rispetto di cui tutt'i principi della terra e tutt'i santi e gli angeli del cielo son meno d'un acino d'arena. "Quasi stilla situlae, pulvis exiguus" (Is 40,15). Anzi dice Osea che a fronte della grandezza di Dio tutte le creature son tanto minime, come se non vi fossero: "Omnes gentes quasi non sint, sic sunt coram Eo" (Os 5). Questo è Dio. E chi è l'uomo? S. Bernardo: "Saccus vermium, cibus vermium". Sacco di vermi e cibo di vermi, che tra breve l'han da divorare. "Miser, et pauper, et caecus, et nudus" (Apoc 3,17). L'uomo è un verme misero che non può niente, cieco che non sa veder niente, e povero e nudo che niente ha. E questo verme miserabile vuole ingiuriare un Dio! "Tam terribilem maiestatem audet vilis pulvisculus irritare!" dice lo stesso S. Bernardo. Ha ragione dunque l'Angelico in dire che 'l peccato dell'uomo contiene una malizia quasi infinita. "Peccatum habet quandam infinitatem malitiae ex infinitate divinae maiestatis". Anzi S. Agostino chiama il peccato assolutamente "infinitum malum". Ond'è che se tutti gli uomini e gli angeli si offerissero a morire, e anche annichilarsi, non potrebbero soddisfare per un solo peccato. Dio castiga il peccato mortale colla gran pena dell'inferno, ma per quanto lo castighi, dicono tutt'i teologi che sempre lo castiga "citra condignum", cioè meno di quel che dovrebbe esser punito.

E qual pena mai può giungere a punir come merita un verme, che se la piglia col suo Signore? Dio è il Signore del tutto, perché egli ha creato il tutto. "In ditione tua cuncta sunt posita, tu enim creasti omnia" (Esther 13,9). Ed in fatti tutte le creature ubbidiscono a Dio: "Venti et mare obediunt ei" (Matth 8,27). "Ignis, grando, nix, glacies faciunt verbum eius" (Ps 148,8). Ma l'uomo quando pecca, che fa? dice a Dio: Signore, io non ti voglio servire. "Confregisti iugum meum; dixisti, non serviam" (Ier 2,20). Il Signore gli dice, non ti vendicare: e l'uomo risponde, ed io voglio vendicarmi; non prendere la roba d'altri; ed io me la voglio pigliare; privati di quel gusto disonesto; ed io non me ne voglio privare. Il peccatore dice a Dio, come disse Faraone, allorché Mosè gli portò l'ordine di Dio che lasciasse in libertà il suo popolo, rispose il temerario: "Quis est Dominus, ut audiam vocem eius? nescio Dominum" (Exod 5,2). Lo stesso dice il peccatore: Signore, io non ti conosco, voglio fare quel che piace a me. In somma gli perde il rispetto in faccia e gli volta le spalle; questo propriamente è il peccato mortale, una voltata di spalle che si fa a Dio: "Aversio ab incommutabili bono". Di ciò si lamenta il Signore: "Tu reliquisti me, dicit Dominus; retrorsum abiisti" (Ier 15,6): Tu sei stato l'ingrato, dice Dio, che hai lasciato me, poiché io non ti avrei mai lasciato: "retrorsum abiisti", tu mi hai voltato le spalle.

Iddio s'è dichiarato che odia il peccato; onde non può far di meno di odiare poi chi lo commette. "Similiter autem odio sunt Deo impius, et impietas eius" (Sap 14,9). E l'uomo quando pecca, ardisce di dichiararsi nemico di Dio, e se la piglia da tu a tu con Dio: "Contra Omnipotentem roboratus est" (Iob 15,25). Che direste, se vedeste una formica volersela pigliare con un soldato? Dio è quel potente, che dal niente con un cenno ha creato il cielo e la terra. "Ex nihilo fecit illa Deus" (2 Mach 7,28). E se vuole, con un altro cenno può distruggere il tutto: "Potest universum mundum uno nutu delere" (2 Mach 8,18). E 'l peccatore allorché consente al peccato, stende la mano contra Dio: "Tetendit adversus Deum manum suam; cucurrit adversus eum erecto collo, pingui cervice armatus est". Alza il collo, cioè la superbia e corre ad ingiuriare Dio: e s'arma d'una testa grassa, cioè d'ignoranza (il grasso è simbolo dell'ignoranza), con dire: "Quid feci?". E che gran male è quel peccato che ho fatto? Dio è di misericordia, perdona i peccatori. Che ingiuria! che temerità! che cecità!

PUNTO II

Il peccatore non solo ingiuria Dio, ma lo disonora. "Per praevaricationem legis Deum inhonoras" (Rom 2,23). Sì, perché rinunzia alla sua grazia, e per un gusto miserabile si mette sotto i piedi l'amicizia di Dio. Se l'uomo perdesse la divina amicizia, per guadagnarsi un regno, anche tutto il mondo, pure sarebbe un gran male, perché l'amicizia di Dio vale più che il mondo e mille mondi. Ma perché taluno offende Dio? "Propter quid irritavit impius Deum?" (Psal 10,13). Per un poco di terra, per uno sfogo d'ira, per un gusto di bestia, per un fumo, per un capriccio. "Violabant me propter pugillum hordei, et fragmen panis" (Ez 13,19). Allorché il peccatore si mette a deliberare di dare o no il consenso al peccato, allora (per così dire) prende in mano la bilancia, e si mette a vedere che cosa pesa più, se la grazia di Dio, o quello sfogo, quel fumo, quel gusto; e quando poi dà il consenso, allora dichiara in quanto a sé che vale più quello sfogo, quel gusto, che non vale la divina amicizia. Ecco Dio svergognato dal peccatore. Davide considerando la grandezza e la maestà di Dio dicea: "Domine, quis similis tibi"? (Psal 34,10). Ma Dio all'incontro, quando si vede da' peccatori posto a confronto e posposto ad una soddisfazione miserabile, loro dice: "Cui assimilastis me, et adaequastis me, dicit Sanctus?" (Is 40,25). Dunque (dice il Signore) valeva più quel gusto vile, che la grazia mia? "Proiecisti me post corpus tuum" (Ez 23,35). Non avresti fatto quel peccato, se avessi avuto a perdere una mano, se dieci ducati, e forse molto meno. Dunque solo Dio, dice Salviano, è così vile agli occhi tuoi, che merita d'esser posposto ad uno sfogo, ad una misera soddisfazione: "Deus solus in comparatione omnium tibi vilis fuit". In oltre, quando il peccatore per qualche suo gusto offende Dio, allora fa che quel gusto diventi il suo Dio, facendolo diventare suo ultimo fine. Dice S. Girolamo: "Unusquisque quod cupit, si veneratur, hoc illi Deus est. Vitium in corde, est idolum in altari". Onde dice S. Tommaso: "Si amas delicias, deliciae dicuntur Deus tuus". E S. Cipriano: "Quidquid homo Deo anteponit, Deum sibi facit". Geroboamo quando si ribellò da Dio, procurò di tirarsi seco anche il popolo ad idolatrare, e perciò gli presentò gl'idoli suoi e gli disse: "Ecce dii tui, Israel" (3 Reg 12,28). Così fa il demonio, presenta al peccatore quella soddisfazione e dice: Che ne vuoi fare di Dio? ecco lo Dio tuo, questo gusto, questo sfogo, prenditi questo e lascia Dio. Ed il peccatore, quando acconsente, così fa, adora per Dio nel suo cuore quella soddisfazione. "Vitium in corde est idolum in altari".

Almeno, se il peccatore disonora Dio, non lo disonorasse in sua presenza; no, l'ingiuria, e lo disonora in faccia di lui, perché Dio è presente in ogni luogo. "Coelum et terram ego impleo" (Ier 23,24). E questo lo sa già il peccatore, e con tutto ciò non si arresta di provocare Dio avanti gli occhi suoi. "Ad iracundiam provocant me ante faciem meam" (Is 65,3).

PUNTO III

Il peccato ingiuria Dio, lo disonora e con ciò sommamente l'amareggia. Non vi è amarezza più sensibile, che il vedersi pagato d'ingratitudine da una persona amata e beneficata. Con chi se la piglia il peccatore? ingiuria un Dio che l'ha creato e l'ha amato tanto, ch'è giunto a dare il sangue e la vita per suo amore; ed egli commettendo un peccato mortale lo discaccia dal suo cuore. In un'anima che ama Dio, viene Dio ad abitarvi. "Si quis diligit me, Pater meus diliget eum et ad eum veniemus, et mansionem apud eum faciemus" (Io 14,23). Notisi: "Mansionem faciemus", Dio viene nell'anima per istarvi sempre, sicché non la lascia, se l'anima non lo discaccia: "Non deserit, nisi deseratur", come si dice nel Tridentino. Ma, Signore, Voi già sapete che quell'ingrato fra un altro momento già vi caccerà, perché non vi partite ora? che volete aspettare ch'egli proprio vi discacci? lasciatelo, partitevi, prima ch'egli vi faccia questa grande ingiuria. No, dice Dio, Io non voglio partirmi, sino che proprio esso non mi discaccia.

Dunque, allorché l'anima consente al peccato, dice a Dio: Signore partitevi da me: "Impii dixerunt Deo, recede a nobis" (Iob 21,14). Non lo dice colla bocca, ma col fatto: "Recede, non verbis, sed moribus", dice S. Gregorio. Già sa il peccatore che Dio non può stare col peccato; vede già che peccando dee partirsi Dio; onde gli dice: Giacché Voi non potete starvi col mio peccato, e Voi partitevi, buon viaggio. E cacciando Dio dall'anima sua, fa ch'entri immediatamente il demonio, a prenderne il possesso. Per quella stessa porta, per cui esce Dio, entra il nemico: "Tunc vadit, et assumit septem alios spiritus secum nequiores se, et intrantes habitant ibi" (Matth 12,45). Quando un bambino si battezza, il sacerdote intima al demonio: "Exi ab eo, immunde spiritus, et da locum Spiritui Sancto". Sì, perché quell'anima, ricevendo la grazia, diventa tempio di Dio. "Nescitis, quia templum Dei estis?" (1 Cor 3,16). Ma quando l'uomo consente al peccato, fa tutto l'opposto: dice a Dio che sta nell'anima sua: "Exi a me, Domine, da locum diabolo". Di ciò appunto si lamentò il Signore con santa Brigida, dicendo ch'egli dal peccatore è come un re discacciato dal proprio trono: "Sum tanquam rex a proprio regno expulsus, et loco mei latro pessimus electus est".

Qual pena avreste voi, se riceveste un'ingiuria grave da taluno che aveste molto beneficato? Questa è la pena che avete data al vostro Dio, ch'è giunto a dar la vita per salvarvi. Il Signore chiama il cielo e la terra quasi a compatirlo, per l'ingratitudine che gli usano i peccatori. "Audite coeli desuper, auribus percipe terra; filios enutrivi, et exaltavi, ipsi autem spreverunt me" (Is 1,2). In somma i peccatori coi loro peccati affliggono il cuore di Dio: "Ipsi autem ad iracundiam provocaverunt, et afflixerunt spiritum sanctum eius" (Is 63,10). Dio non è capace di dolore, ma se mai ne fosse capace, un peccato mortale basterebbe a farlo morire di pura mestizia, come dice il P. Medina: "Peccatum mortale, si possibile esset, destrueret ipsum Deum, eo quod causa esset tristitiae in Deo infinitae". Sicché, come dice S. Bernardo, "peccatum quantum in se est, Deum perimit". Dunque il peccatore, allorché commette un peccato mortale, dà per così dire il veleno a Dio; non manca per lui di torgli la vita. "Exacerbavit Dominum peccator" (Hebr 10,4). E secondo dice S. Paolo, si mette sotto i piedi il Figlio di Dio: "Qui Filium Dei conculcaverit" (Hebr 10,29). Mentre disprezza tutto ciò che ha fatto e patito Gesù Cristo per togliere il peccato dal mondo.





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09/07/2019 23:29

LA MISERICORDIA DI DIO


Superexaltat autem misericordia iudicium (Iac 2,13)


PUNTO I


La bontà è diffusiva di sua natura, cioè inclinata a comunicare i suoi beni anche agli altri. Or Iddio che per natura è bontà infinita ("Deus cuius natura bonitas", S. Leone), ha un sommo desiderio di comunicare a noi la sua felicità; e perciò il suo genio non è di castigare, ma d'usar misericordia a tutti. Il castigare, dice Isaia, è un'opera aliena dall'inclinazione di Dio: "Irascetur, ut faciat opus suum, alienum opus eius... peregrinum est opus eius ab eo" (Is 28,21). E quando il Signore castiga in questa vita, castiga per usar misericordia nell'altra. "Deus iratus est, et misertus est nobis" (Ps 59,3). Si dimostra irato, acciocché noi ci ravvediamo e detestiamo i peccati: "Ostendisti populo tuo dura, potasti nos vino compunctionis" (Ps 59,5). E se ci manda qualche castigo, lo fa perché ci ama, per liberarci dal castigo eterno: "Dedisti metuentibus te significationem, ut fugiant a facie arcus, ut liberentur dilecti tui" (Ps 59,6). E chi mai può ammirare e lodare abbastanza la misericordia ch'usa Dio co' peccatori in aspettarli, in chiamarli ed in accoglierli, allorché ritornano? E per prima, oh la gran pazienza, che ha Dio in aspettarti a penitenza! Fratello mio, quando tu offendevi Dio, poteva egli farti morire? E Dio t'aspettava; e in vece di castigarti, ti faceva bene, ti conservava la vita e ti provvedeva. Fingea di non vedere i tuoi peccati, acciocché tu ti ravvedessi. "Dissimulans peccata hominum propter poenitentiam" (Sap 11,24). Ma come, Signore, Voi non potete vedere un sol peccato, e poi ne vedete tanti e tacete? "Respicere ad iniquitatem non poteris; quare respicis super iniquitates, et taces?" (Abac 1,11). Voi mirate quel disonesto, quel vendicativo, quel bestemmiatore, che da giorno in giorno vi accresce l'offese, e non lo castigate? e perché tanta pazienza? "Propterea exspectat Dominus, ut misereatur vestri" (Is 30,18). Dio aspetta il peccatore, acciocché si emendi, e così possa perdonarlo e salvarlo.


Dice S. Tommaso che tutte le creature, il fuoco, la terra, l'aria, l'acqua per loro naturale istinto vorrebbero punire il peccatore, per vendicare l'ingiurie fatte al lor Creatore: "Omnis creatura, tibi factori deserviens, excandescit adversus iniustos". Ma Dio le trattiene per la sua pietà. Ma, Signore, Voi aspettate questi empi, acciocché si ravvedano, e non vedete che l'ingrati si servono della vostra misericordia per più offendervi? "Indulsisti, Domine, indulsisti genti, nunquid glorificatus es?" (Is 26,15). E perché tanta pazienza? perché Dio non vuol la morte del peccatore, ma che si converta e si salvi. "Nolo mortem impii, sed ut convertatur, et vivat" (Ez 33,11). Oh pazienza di Dio! Giunge a dir S. Agostino che se Iddio non fosse Dio, sarebbe ingiusto, a riguardo della troppa pazienza che usa co' peccatori: "Deus, Deus meus, pace tua dicam, nisi quia Deus esses, iniustus esses". Aspettare chi si serve della pazienza per più insolentire, par che sia un'ingiustizia all'onore divino. "Nos peccamus", siegue a dire il santo, "inhaeremus peccato (taluni fan pace col peccato, dormono in peccato i mesi e gli anni), gaudemus de peccato (altri arrivano a vantarsi delle loro scelleraggini): et tu placatus es! Te nos provocamus ad iram, tu nos ad misericordiam"; sembra che facciamo a gara con Dio, noi ad irritarlo a castigarci, ed Egli ad invitarci al perdono.


PUNTO II


Considera in oltre la misericordia che usa Dio in chiamare il peccatore a penitenza. Quando Adamo si ribellò dal Signore, e poi si nascondea dalla sua faccia, ecco Dio che avendo perduto Adamo, lo va cercando e quasi piangendo lo chiama: "Adam, ubi es?" (Gen 3,9). "Sunt verba Patris (commenta il P. Pereira) quaerentis filium suum perditum". Lo stesso ha fatto Dio tante volte con te, fratello mio. Tu fuggivi da Dio, e Dio t'andava chiamando, ora con ispirazioni, ora con rimorsi di coscienza, ora con prediche, ora con tribolazioni, ora colla morte de' tuoi amici. Par che dica Gesù Cristo, parlando di te: "Laboravi clamans, raucae factae sunt fauces meae" (Ps 68,4). Figlio, quasi ho perduta la voce in chiamarti. Avvertite, o peccatori, dice S. Teresa, che vi sta chiamando quel Signore, che un giorno vi ha da giudicare.


Cristiano mio, quante volte hai fatto il sordo con Dio, che ti chiamava? Meritavi ch'egli non ti chiamasse più. Ma no, il tuo Dio non ha lasciato di seguire a chiamarti, perché volea far pace con te e salvarti. Oh Dio, chi era quegli che ti chiamava? un Dio d'infinita maestà. E tu chi eri, se non un verme miserabile e puzzolente? E perché ti chiamava? non per altro che per restituirti la vita della grazia, che tu avevi perduta: "Revertimini, et vivite" (Ez 18,32). Acciocché taluno potesse acquistare la divina grazia, poco sarebbe, se vivesse in un deserto per tutta la sua vita; ma Dio ti esortava a ricever la sua grazia in un momento, se volevi con un atto di pentimento: e tu la rifiutavi. E Dio con tutto ciò non ti ha abbandonato; ti è andato quasi piangendo appresso e dicendo: Figlio, e perché ti vuoi dannare? "Et quare moriemini, domus Israel?" (Ez 18,31).


Allorché l'uomo commette un peccato mortale, egli discaccia Dio dall'anima sua. "Impii dicebant Deo: Recede a nobis" (Iob 21,14). Ma Dio che fa? si pone alla porta di quel cuore ingrato: "Ecce sto ad ostium, et pulso" (Apoc 3,20). E par che preghi l'anima a dargli l'entrata: "Aperi mihi, soror mea" (Cant 5,2). E si affatica a pregare: "Laboravi rogans" (Ier 15,6). Sì, dice S. Dionisio Areopagita, Dio va appresso a' peccatori come un amante disprezzato, pregandoli che non si perdano: "Deus etiam a se aversos amatorie sequitur, et deprecatur ne pereant". E ciò appunto significò S. Paolo, quando scrisse a' discepoli: "Obsecramus pro Christo, reconciliamini Deo" (2 Cor 5,20). È bella la riflessione, che fa S. Gio. Grisostomo commentando questo passo: "Ipse Christus vos obsecrat. Quid autem obsecrat? reconciliamini Deo; non enim Ipse inimicus gerit, sed vos". E vuol dire il santo che non già il peccatore ha da stentare per muovere Dio a far pace con esso, ma esso ha da risolversi a voler far pace con Dio; mentr'egli, non già Iddio, fugge la pace.


Ah che questo buon Signore va tutto giorno appresso a tanti peccatori, e va loro dicendo: Ingrati, non fuggite più da me, ditemi perché fuggite? Io amo il vostro bene, ed altro non desidero che di rendervi felici, perché volete perdervi? Ma, Signore, Voi che fate? Perché tanta pazienza e tanto amore a questi ribelli? che bene Voi ne sperate? È poco vostro onore il farvi vedere così appassionato verso di questi miseri vermi che vi fuggono. "Quid est homo, quia magnificas eum? Aut quid apponis erga eum cor tuum?" (Iob 7,17).


PUNTO III


I principi della terra sdegnano anche di riguardare i sudditi ribelli, che vanno a cercar loro perdono; ma Dio non fa così con noi. "Non avertet faciem suam a vobis, si reversi fueritis ad eum" (2 Par 30,9). Iddio non sa voltar la faccia a chi ritorna a' piedi suoi; no, poiché Egli stesso l'invita e gli promette di riceverlo subito che viene: "Revertere ad me, et suscipiam te" (Ier 3,1). "Convertimini ad me, convertar ad vos, ait Dominus" (Zach 1,3). Oh l'amore e la tenerezza con cui abbraccia Dio un peccatore che a Lui ritorna! Ciò appunto volle darci ad intendere Gesù Cristo colla parabola della pecorella, che avendola trovata il pastore, se la stringe sulle spalle: "Imponit in humeros suos gaudens" (Luc 15,5). E chiama gli amici a seco rallegrarsene: "Congratulamini mihi, quia inveni ovem meam, quae perierat" (Luc 15,6). E poi soggiunge S. Luca: "Gaudium erit in coelo super uno peccatore poenitentiam agente". Ciò maggiormente significò il Redentore colla parabola del figlio prodigo, dicendo ch'egli è quel Padre, che vedendo ritornare il figlio perduto, gli corre all'incontro; e prima che quegli parli, l'abbraccia e lo bacia, ed in abbracciarlo, quasi vien meno di tenerezza per la consolazione che sente: "Accurrens cecidit super collum eius, et osculatus est eum" (Luc 15,20).


Giunge il Signore a dire che se il peccatore si pente, egli vuole scordarsi de' suoi peccati, come se quegli non l'avesse mai offeso: "Si impius egerit poenitentiam... vita vivet; omnium iniquitatum eius non recordabor" (Ez 18,21). Giunge anche a dire: "Venite, et arguite me (dicit Dominus), si fuerint peccata vestra ut coccinum, quasi nix dealbabuntur" (Is 1,18). Come dicesse, venite peccatori (venite, et arguite me), e s'io non vi perdono, riprendetemi, e trattatemi da infedele. Ma no, che Dio non sa disprezzare un cuore che si umilia e si pente. "Cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies" (Psal 50).


Si gloria il Signore di usar pietà e di perdonare i peccatori. "Exaltabitur parcens vobis" (Is 30,18). E quanto sta egli a perdonare? subito. "Plorans nequaquam plorabis, miserans miserabitur tui" (Is 30,19). Peccatore, dice il profeta, non hai molto da piangere; alla prima lagrima il Signore si muoverà a pietà di te. "Ad vocem clamoris tui, statim ut audierit, respondebit tibi" (Is 30,19). Non fa Dio con noi, come noi facciamo con Dio; Dio ci chiama, e noi facciamo i sordi; Dio no, "statim ut audierit respondebit tibi": subito che tu ti penti, e gli domandi il perdono, subito Dio risponde e ti perdona.




ABUSO DELLA DIVINA MISERICORDIA

Ignoras, quoniam benignitas Dei ad poenitentiam te adducit? (Rom 2,4)

PUNTO I

Si ha nella parabola della zizania in S. Matteo (Matth 13) che essendo cresciuta in un campo la zizania insieme col grano, volevano i servi andare ad estirparla: "Vis, imus, et colligimus ea?". Ma il padrone rispose: No, lasciatela crescere, e poi si raccoglierà e si manderà al fuoco: "In tempore messis dicam messoribus, colligite primum zizania, et alligate ea in fasciculos ad comburendum". Da questa parabola si ricava per una parte la pazienza che il Signore usa co' peccatori; e per l'altra il rigore che usa cogli ostinati. Dice S. Agostino che in due modi il demonio inganna gli uomini: "Desperando, et sperando". Dopo che il peccatore ha peccato, lo tenta a disperarsi col terrore della divina giustizia; ma prima di peccare, l'anima al peccato colla speranza della divina misericordia. Perciò il santo avverte ad ognuno: "Post peccatum spera misericordiam; ante peccatum pertimesce iustitiam". Sì, perché non merita misericordia chi si serve della misericordia di Dio per offenderlo. La misericordia si usa con chi teme Dio, non con chi si avvale di quella per non temerlo. Chi offende la giustizia, dice l'Abulense, può ricorrere alla misericordia, ma chi offende la stessa misericordia, a chi ricorrerà?

Difficilmente si trova peccatore sì disperato, che voglia proprio dannarsi. I peccatori voglion peccare, senza perdere la speranza di salvarsi. Peccano e dicono: Dio è di misericordia; farò questo peccato, e poi me lo confesserò. "Bonus est Deus, faciam quod mihi placet", ecco come parlano i peccatori, scrive S. Agostino. Ma oh Dio così ancora dicevano tanti, che ora sono già dannati.

Non dire, dice il Signore: Son grandi le misericordie che usa Dio; per quanti peccati farò, con un atto di dolore sarò perdonato. "Et ne dicas: miseratio Domini magna est, multitudinis peccatorum meorum miserebitur" (Eccli 5,6). Nol dire, dice Dio; e perché? "Misericordia enim, et ira ab illo cito proximant, et in peccatores respicit ira illius" (Eccli 5,7). La misericordia di Dio è infinita, ma gli atti di questa misericordia (che son le miserazioni) son finiti. Dio è misericordioso ma è ancora giusto. "Ego sum iustus, et misericors", disse il Signore un giorno a S. Brigida; "peccatores tantum misericordem me existimant". I peccatori, scrive S. Basilio, voglion considerare Dio solo per metà: "Bonus est Dominus, sed etiam iustus; nolite Deum ex dimidia parte cogitare". Il sopportare chi si serve della misericordia di Dio per più offenderlo, diceva il P. M. Avila che non sarebbe misericordia, ma mancamento di giustizia. La misericordia sta promessa a chi teme Dio, non già a chi se ne abusa. "Et misericordia eius timentibus eum", come cantò la divina Madre. Agli ostinati sta minacciata la giustizia; e siccome (dice S. Agostino) Dio non mentisce nelle promesse; così non mentisce ancora nelle minacce: "Qui verus est in promittendo, verus est in minando".

Guardati, dice S. Gio. Grisostomo, quando il demonio (ma non Dio) ti promette la divina misericordia, affinché pecchi; "Cave ne unquam canem illum suscipias, qui misericordiam Dei pollicetur". Guai, soggiunge S. Agostino, a chi spera per peccare: "Sperat, ut peccet; vae a perversa spe". Oh quanti ne ha ingannati e fatti perdere, dice il santo, questa vana speranza. "Dinumerari non possunt, quantos haec inanis spei umbra deceperit". Povero chi s'abusa della pietà di Dio, per più oltraggiarlo! Dice S. Bernardo che Lucifero perciò fu così presto castigato da Dio, perché si ribellò sperando di non riceverne castigo. Il re Manasse fu peccatore, poi si convertì, e Dio lo perdonò; Ammone suo figlio, vedendo il padre così facilmente perdonato, si diede alla mala vita colla speranza del perdono; ma per Ammone non vi fu misericordia. Perciò ancora dice S. Gio. Grisostomo che Giuda si perdé, perché peccò fidato alla benignità di Gesù Cristo: "Fidit in lenitate magistri". In somma Dio, se sopporta, non sopporta sempre. Se fosse che Dio sempre sopportasse, niuno si dannerebbe; ma la sentenza più comune è che la maggior parte anche de' cristiani (parlando degli adulti) si danna: "Lata porta et spatiosa via est, quae ducit ad perditionem, et multi intrant per eam" (Matth 7,13).

Chi offende Dio colla speranza del perdono, "irrisor est non poenitens", dice S. Agostino. Ma all'incontro dice S. Paolo che Dio non si fa burlare: "Deus non irridetur" (Galat 6,7). Sarebbe un burlare Dio seguire ad offenderlo, sempre che si vuole, e poi andare al paradiso. "Quae enim seminaverit homo, haec et metet" (Galat 6,7). Chi semina peccati, non ha ragione di sperare altro che castigo ed inferno. La rete con cui il demonio strascina all'inferno quasi tutti quei cristiani che si dannano, è quest'inganno, col quale loro dice: Peccate liberamente, perché con tutt'i peccati vi salverete. Ma Dio maledice chi pecca colla speranza del perdono. "Maledictus homo qui peccat in spe". La speranza del peccatore dopo il peccato, quando vi è pentimento, è cara a Dio, ma la speranza degli ostinati è l'abbominio di Dio: "Et spes illorum abominatio" (Iob 11,20). Una tale speranza irrita Dio a castigare, siccome irriterebbe il padrone quel servo che l'offendesse, perché il padrone è buono.

PUNTO II

Dirà taluno, Dio m'ha usate tante misericordie per lo passato, così spero che me l'userà per l'avvenire. Ma io rispondo: E perché t'ha usate tante misericordie, per questo lo vuoi tornare ad offendere? Dunque (ti dice S. Paolo) così tu disprezzi la bontà e la pazienza di Dio? Nol sai che 'l Signore ti ha sopportato sinora; non già a fine che tu lo segui ad offendere, ma acciocché piangi il mal fatto? "An divitias bonitatis eius, et patientiae contemnis? Ignoras, quoniam benignitas Dei ad poenitentiam te adducit?" (Rom 2,4). Quando tu fidato alla divina misericordia non vuoi finirla, la finirà il Signore. "Nisi conversi fueritis, arcum suum vibrabit" (Ps 7). "Mea est ultio et ego retribuam in tempore" (Deut 32,35). Dio aspetta ma quando giunge il tempo della vendetta, non aspetta più e castiga.

"Propterea exspectat Dominus, ut misereatur vestri" (Is 30,18). Dio aspetta il peccatore, acciocché si emendi: ma quando vede che quegli del tempo, che gli è dato per piangere i peccati, se ne serve per accrescerli, allora chiama lo stesso tempo a giudicarlo. "Vocavit adversum me tempus" (Thren 1,15). S. Gregorio: "Ipsum tempus ad iudicandum vertit". Sicché lo stesso tempo dato, le stesse misericordie usate serviranno per farlo castigare con più rigore e più presto abbandonare. "Curavimus Babylonem, et non est sanata, derelinquamus eam" (Ier 51,9). E come Dio l'abbandona? O gli manda la morte, e lo fa morire in peccato; o pure lo priva delle grazie abbondanti, e lo lascia colla sola grazia sufficiente, colla quale il peccatore potrebbe sì bene salvarsi ma non si salverà. La mente accecata, il cuore indurito, il mal abito fatto renderanno la sua salvazione moralmente impossibile; e così resterà, se non assolutamente, almeno moralmente abbandonato. "Auferam sepem eius, et erit in direptionem" (Is 5,5). Oh che castigo! Che segno è, quando il padrone scassa la siepe, e permette che nella vigna v'entri chi vuole, uomini e bestie? è segno che l'abbandona. Così fa Dio, quando abbandona un'anima, le toglie la siepe del timore, del rimorso di coscienza, e la lascia nelle tenebre; ed allora entreranno in quell'anima tutti i mostri de' vizi. "Posuisti tenebras, et facta est nox, in ipsa pertransibunt omnes bestiae silvae" (Ps 103,20). E 'l peccatore abbandonato che sarà in quell'oscurità, disprezzerà tutto, grazia di Dio, paradiso, ammonizioni, scomuniche; si burlerà della stessa sua dannazione. "Impius, cum in profundum peccatorum venerit, contemnit" (Prov 18,3).

Dio lo lascerà in questa vita senza castigarlo, ma il non castigarlo sarà il suo maggior castigo. "Misereamur impio, et non discet iustitiam" (Is 26,10). Dice S. Bernardo su questo testo: "Misericordiam hanc ego nolo; super omnem iram miseratio ista". Oh qual castigo è quando Dio lascia il peccatore in mano del suo peccato, e par che non gliene domandi più conto! "Secundum multitudinem irae suae non quaeret" (Ps 9). E sembra che non sia con lui sdegnato. "Auferetur zelus meus a te, et quiescam, nec irascar amplius" (Ez 16,42). E par che lo lasci a conseguir tutto ciò che desidera in questa terra. "Et dimisi eos secundum desideria cordis eorum" (Ps 80). Poveri peccatori, che in questa vita son prosperati! È segno che Dio aspetta a renderli vittime della sua giustizia nella vita eterna. Dimanda Geremia: "Quare via impiorum prosperatur?" (Ier 12,1). E poi risponde: "Congregas eos quasi gregem ad victoriam". Non v'è castigo maggiore, che quando Dio permette ad un peccatore che aggiunga peccati a peccati, secondo quel che dice Davide: "Appone iniquitatem super iniquitatem... deleantur de libro viventium" (Ps 66,28). Sul che dice il Bellarmino: "Nulla poena maior, quam cum peccatum est poena peccati". Meglio sarebbe stato per talun di quest'infelici, che il Signore l'avesse fatto morire dopo il primo peccato; perché, morendo appresso, avrà tanti inferni, quanti peccati ha commessi.

PUNTO III

Si narra nella vita del P. Luigi la Nusa che in Palermo v'erano due amici; andavano questi un giorno passeggiando, uno di costoro chiamato Cesare ch'era commediante, vedendo l'altro pensoso: Quanto va, gli disse, che tu sei andato a confessarti, e perciò ti sei inquietato? Senti (poi gli soggiunse), sappi che un giorno mi disse il Padre la Nusa che Dio mi dava 12 anni di vita, e che se io non mi emendava tra questo tempo, avrei fatta una mala morte. Io ho camminato per tante parti del mondo, ho avute infermità, specialmente una che mi ridusse all'ultimo, ma in questo mese in cui si compiscono i 12 anni mi sento meglio che in tutto il tempo della vita mia. Indi l'invitò di venire a sentire il sabato una nuova commedia da lui composta. Or che avvenne? nel sabato, che fu a' 24 di novembre del 1668, mentre stava egli per uscire in iscena, gli venne una goccia, e morì di subito, spirando tra le braccia d'una donna anche commediante, e così finì la commedia. Or veniamo a noi. Fratello mio, quando il demonio vi tenta a peccare di nuovo, se volete dannarvi, sta in arbitrio vostro il peccare, ma non dite allora, che volete salvarvi; mentre volete peccare, tenetevi per dannato, e figuratevi che allora Dio scriva la vostra condanna, e vi dica: "Quid ultra debui facere vineae meae, et non feci?" (Is 5,4). Ingrato, che più io dovea fare per te, e non ho fatto? Or via, giacché vuoi dannarti, sii dannato, è colpa tua.

Ma dirai: E la misericordia di Dio dov'è? Ahi misero, e non ti pare misericordia di Dio l'averti sopportato per tanti anni con tanti peccati? Tu dovresti startene sempre colla faccia a terra ringraziandolo e dicendo: "Misericordiae Domini, quia non sumus consumti" (Thren 3). Tu facendo un solo peccato mortale, hai commesso un delitto più grande, che se ti avessi posto sotto i piedi il primo monarca della terra; tu n'hai commessi tanti, che se l'ingiurie ch'hai fatte a Dio, l'avessi fatte ad un tuo fratello carnale, neppure ti avrebbe sopportato; Dio non solo ti ha aspettato, ma ti ha chiamato tante volte, e ti ha invitato al perdono. "Quid ultra debui facere?". Se Dio avesse avuto bisogno di te, o se tu gli avessi fatto qualche gran favore, poteva egli usarti maggior pietà? Posto ciò, se tu di nuovo tornerai ad offenderlo, farai che tutta la sua pietà si muti in furore e castigo.

Se quella pianta di fico trovata dal padrone senza frutto, dopo l'anno concesso a coltivarla, neppure avesse renduto alcun frutto, chi mai avrebbe sperato che il Signore l'avesse dato più tempo e perdonato il taglio? Senti dunque ciò che ti avverte S. Agostino: "O arbor infructuosa, dilata est securis, noli esse secura, amputaberis". Il castigo (dice il santo) ti è stato differito, ma non già tolto, se più ti abuserai della divina misericordia, "amputaberis", finalmente ti taglierà. Che vuoi aspettare, che proprio Dio ti mandi all'inferno? Ma se ti ci manda, già lo sai che non vi sarà poi più rimedio per te. Il Signore tace, ma non tace sempre; quando giunge il tempo della vendetta, non tace più. "Haec fecisti, et tacui. Existimasti inique, quod ero tui similis? Arguam te, et statuam contra faciem tuam" (Ps 49,21). Ti metterà avanti le misericordie che ti ha usate, e farà ch'elle stesse ti giudichino e ti condannino.



IL NUMERO DEI PECCATI

Quia non profertur cito contra malos sententia, ideo filii hominum perpetrant mala (Eccl 8,11)

PUNTO I

Se Dio castigasse subito chi l'offende, non si vedrebbe certamente ingiuriato, come ora si vede; ma perché il Signore non castiga subito ed aspetta, perciò i peccatori pigliano animo a più offenderlo. Ma bisogna intendere che Dio aspetta e sopporta: ma non aspetta e non sopporta sempre. È sentenza di molti santi Padri, di S. Basilio, di S. Girolamo, di S. Ambrogio, di S. Cirillo Alessandrino, di S. Gio. Grisostomo, di S. Agostino e d'altri che siccome Iddio tiene determinato il numero per ciascun uomo de' giorni di vita, de' gradi di sanità, o di talento che vuol dargli: "Omnia in mensura, et numero, et pondere disposuisti" (Sap 11,21), così ancora tiene a ciascuno determinato il numero de' peccati, che vuol perdonargli; compito il quale non perdona più. "Illud sentire nos convenit (dice S. Agostino) tandiu unumquenque a Dei patientia sustineri; quo consummato, nullam illi veniam reservari". Lo stesso dice Eusebio Cesariense: "Deus exspectat usque ad certum numerum, et postea deserit". E lo stesso dicono gli altri Padri nominati di sopra.

E questi Padri non han parlato a caso ma fondati sulle divine Scritture. In un luogo disse il Signore che trattenea la rovina degli Amorrei, perché non era compito ancora il numero delle loro colpe: "Nondum completae sunt iniquitates Amorrhaeorum" (Gen 15). In altro luogo disse: "Non addam ultra misereri Israel" (Is 19). In altro "Tentaverunt me per decem vices, non videbunt terram" (Num 14,22). In altro dice Giobbe: "Signasti quasi in sacculo delicta mea" (Iob 14,17). I peccatori non tengono conto de' peccati, ma ben lo tiene Dio per dare il castigo, quando è maturata la messe, cioè quando è compito il numero: "Mittite falces, quoniam maturavit messis" (Ioel 3,13). In altro luogo dice Dio: "De propitiato peccato noli esse sine metu; neque adiicias peccatum super peccatum" (Eccli 5,5). E vuol dire: Peccatore, bisogna che tu paventi anche de' peccati che ti ho perdonati, perché, se ne aggiungi un altro, può essere che il peccato nuovo insieme coi perdonati compiscono il numero, ed allora non vi sarà più misericordia per te. In altro luogo più chiaramente dice la Scrittura: "Exspectat Deus patienter, ut cum iudicii dies advenerit, eas (Nationes), in plenitudine peccatorum puniat" (2 Macch 6,14). Sicché Dio aspetta sino al giorno, in cui si riempie la misura de' peccati, e poi castiga.

Di tal castigo poi vi sono molti esempi nella Scrittura, e specialmente di Saulle, che avendo l'ultima volta disubbidito a Dio, Dio l'abbandonò, talmente ch'egli pregando Samuele che avesse interceduto per lui: "Porta quaeso peccatum meum, et revertere mecum, ut adorem Deum"; Samuele gli rispose: "Non revertar tecum, quia abiecisti sermonem Domini, et abiecit te Dominus" (1 Reg 15,25). Vi è l'esempio di Baltassarre, il quale stando a mensa profanò i vasi del tempio, ed allora vide una mano che scrisse sul muro: "Mane, Thecel, Phares". Venne Daniele, e spiegando quelle parole, tra l'altro gli disse: "Appensus es in statera, et inventus es minus habens" (Dan 5,27). Dandogli ad intendere che il peso de' suoi peccati già avean fatto calar la bilancia della divina giustizia, ed in fatti nella stessa notte fu ucciso: "Eadem nocte interfectus est Baltassar rex Chaldaeus". Ed oh a quanti miserabili succede lo stesso, che vivono molti anni ne' peccati, ma quando termina il loro numero son colti dalla morte e mandati all'inferno! "Ducunt in bonis dies suos, et in puncto ad inferna descendunt" (Iob 21,13). Taluni mettonsi ad indagare il numero delle stelle, il numero degli angeli, o degli anni di vita che avrà alcuno, ma chi mai può mettersi ad indagare il numero de' peccati, che Dio voglia a ciascun perdonare? E perciò bisogna tremare. Chi sa, fratello mio, che a quella prima soddisfazione indegna, a quel primo pensiero acconsentito, a quel primo peccato che farete, Dio non vi perdoni più?

PUNTO II

Dice quel peccatore: Ma Dio è di misericordia. Rispondo, e chi lo nega? La misericordia di Dio è infinita, ma con tutta questa misericordia, quanti tutto dì si dannano? "Veni ut mederer contritis corde" (Is 61,1). Dio sana chi tiene buona volontà. Egli perdona i peccati, ma non può perdonare la volontà di peccare. Replicherà: Ma io son giovine. Sei giovine? ma Dio non conta gli anni, conta i peccati. E questa tassa de' peccati non è eguale per tutti; ad alcuni Dio perdona cento peccati, ad un altro mille, ad un altro al secondo peccato lo manderà all'inferno. Quanti il Signore ce ne ha mandati al primo peccato? Narra S. Gregorio che un fanciullo di cinque anni, in dire una bestemmia, fu mandato all'inferno. Rivelò la SS. Vergine a quella serva di Dio Benedetta di Fiorenza che una fanciulla di 12 anni al primo peccato fu condannata. Un altro figliuolo di 8 anni anche al primo peccato morì e si dannò. Dicesi nel Vangelo di S. Matteo (Matth 21) che 'l Signore la prima volta che trovò quell'albero di fico senza frutto, subito lo maledisse, "nunquam ex te nascatur fructus", e quello seccò. Un'altra volta disse: "Super tribus sceleribus Damasci, et super quatuor non convertam eum" (Amos 1,3). Forse alcun temerario vorrà chiedere ragione a Dio, perché ad uno vuol perdonare tre peccati, e quattro no? In ciò bisogna adorare i divini giudizi, e dire coll'Apostolo: "O altitudo divitiarum sapientiae et scientiae Dei; quam incomprehensibilia sunt iudicia eius, et investigabiles viae eius!" (Rom 11,33). S. Agostino: "Novit ille cui parcat, et cui non parcat. Quibus datur misericordia, gratis datur, quibus non datur, ex iustitia non datur".

Replicherà l'ostinato: Ma io tante volte ho offeso Dio, e Dio m'ha perdonato; e così spero che mi perdoni quest'altro peccato. Ma io dico: E perché Dio non ti ha castigato sinora, avrà da essere sempre così? Si compirà la misura, e verrà il castigo. Sansone seguitando a trescare con Dalila, pure sperava di liberarsi dalle mani de' Filistei, come avea fatto prima: "Egrediar sicut ante feci, et me excutiam" (Iudic 16,20). Ma in quell'ultima volta restò preso, e ci perdé la vita. "Ne dicas: peccavi, et quid accidit mihi triste?". Non dire, dice il Signore, ho fatti tanti peccati, e Dio non mai m'ha castigato. "Altissimus enim est patiens redditor" (Eccli 5,4). Viene a dire, che verrà una e pagherà tutto. E quanto maggiore sarà stata la misericordia, tanto più grave sarà il castigo. Dice il Grisostomo che più dee temersi, quando Dio sopporta l'ostinato, che quando subito lo punisce: "Plus timendum est cum tolerat, quam cum festinanter punit". Perché (come scrive S. Gregorio) coloro che Dio aspetta con più pazienza, più rigorosamente poi punisce, se restano ingrati! "Quos diutius exspectat, durius damnat". E spesso, soggiunge il santo, che quelli che molto tempo sono stati sopportati, improvvisamente poi muoiono senz'aver tempo di convertirsi: "Saepe qui diu tolerati sunt, subita morte rapiuntur, ut nec flere ante mortem licet". Specialmente quando più grande sarà stata la luce che Dio ti ha data, tanto maggiore sarà la tua accecazione ed ostinazione nel peccato. "Melius enim erat illis" (disse S. Pietro) "non cognoscere viam iustitiae quam post agnitionem retrorsum converti" (2 Petr 2,21). E S. Paolo disse essere impossibile (moralmente parlando) che un'anima illuminata, peccando di nuovo si converta: "Impossibile enim est eos, qui semel illuminati sunt, et gustaverunt donum coeleste... et prolapsi sunt, rursus renovari ad poenitentiam" (Hebr 6,4).

È terribile quel che dice il Signore contra i sordi alle sue chiamate: "Quia vocavi, et renuistis... Ego quoque in interitu vestro ridebo, et subsannabo vos" (Prov 1,24). Si notino quelle due parole "Ego quoque": significano che siccome quel peccatore ha burlato Dio, confessandosi, promettendo e poi sempre tradendolo; così il Signore si burlerà di lui nella sua morte. In oltre dice il Savio: "Sicut canis qui revertitur ad vomitum suum, sic imprudens qui iterat stultitiam suam" (Prov 26,11). Spiega questo testo Dionisio Cartusiano, e dice che come si rende abbominevole e schifoso quel cane, che si ciba di ciò che prima ha vomitato; così rendesi odioso a Dio, chi ritorna a commettere i peccati che ha detestati nella confessione: "Sicut id quod per vomitum est reiectum resumere, est valde abominabile ac turpe, sic peccata deleta reiterare".

PUNTO III

"Fili, peccasti? Non adiicias iterum, sed de pristinis deprecare, ut tibi dimittantur" (Eccli 21,1). Ecco quel che ti avverte, cristiano mio, il tuo buon Signore, perché ti vuol salvo: Figlio, non tornare ad offendermi, ma d'oggi innanzi attendi a chiedere il perdono de' peccati fatti. Fratello mio, quanto più hai offeso Dio, tanto più dei tremare di non offenderlo più, perché un altro peccato che commetterai, farà calar la bilancia della divina giustizia, e sarai dannato. Io non dico assolutamente, che dopo un altro peccato per te non vi sarà più perdono, perché questo nol so, ma dico che può succedere. Onde quando sarete tentato, dite: E chi sa se Dio non mi perdona più, e resto dannato? Ditemi di grazia, se fosse probabile che in un cibo vi fosse il veleno, lo prendereste voi? Se probabilmente credeste che in quella via vi fossero i vostri nemici per torvi la vita, vi passereste voi, avendo un'altra via sicura? E così qual sicurezza, anzi qual probabilità avete voi che tornando a peccare, appresso ne avrete vero dolore e non tornerete più al vomito? e che peccando, Dio non vi faccia morire nello stesso atto del peccato, o che dopo quello non vi abbandoni?

Oh Dio, se voi comprate una casa, voi fate già tutta la diligenza per assicurar la cautela e non buttare il vostro danaro. Se prendete una medicina, cercate di bene assicurarvi che quella non vi possa nuocere. Se passate un torrente, cercate di assicurarvi di non cadervi dentro. E poi per una misera soddisfazione, per un diletto di bestia, volete arrischiare la salute eterna, con dire: Spero di confessarmelo? Ma io vi domando: Quando ve lo confesserete? Domenica. E chi vi promette d'esser vivo sino a Domenica? Domani. E chi vi promette questo domani? Dice S. Agostino: "Diem tenes, qui horam non tenes?". Come potete promettervi di confessarvi domani, quando non sapete di avere neppure un'altra ora di vita? "Qui poenitenti veniam spopondit, (siegue a dire il santo), peccanti diem crastinum non promisit; fortasse dabit, fortasse non dabit". Dio ha promesso il perdono a chi si pente, ma non ha promesso il domani a chi l'offende. Se ora peccate, forse Dio vi darà tempo di penitenza, e forse no; e se non ve lo dà, che ne sarà di voi per tutta l'eternità? Frattanto voi per un misero gusto già perdete l'anima e la mettete a rischio di restar perduta in eterno. Mettereste voi a rischio mille docati per quella vil soddisfazione? Dico più: fareste voi per quel breve gusto un vada tutto, danari, casa, poderi, libertà e vita? No? e poi come per quel misero piacere, volete in un punto far già perdita di tutto, dell'anima, del paradiso e di Dio? Ditemi: Son verità queste cose che insegna la fede, o son favole, che vi sia paradiso, inferno, eternità? Credete voi che se vi coglie la morte in peccato, sarete perduto per sempre? E che temerità, che pazzia condannarvi già da voi stesso ad un'eternità di pene, con dire: Spero appresso di rimediarvi? "Nemo sub spe salutis vult aegrotare", dice S. Agostino. Non si trova pazzo, che si pigli il veleno con dire, può essere che poi con rimedi mi guarisca; e voi volete condannarvi ad una morte eterna, con dire: Può essere che appresso me ne liberi? Oh pazzia che n'ha portato e ne porta tante anime all'inferno! Secondo già la minaccia del Signore: "Fiduciam habuisti in malitia tua, veniet super te malum, et nescies ortum eius" (Is 48,10). Hai peccato fidando temerariamente alla divina misericordia, verrà improvvisamente su di te il castigo, senza saper donde viene.




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09/07/2019 23:34

CHE GRAN BENE SIA LA GRAZIA DI DIO, E CHE MALE LA DISGRAZIA DI DIO


Nescit homo pretium eius (Iob 28,13)


PUNTO I


Dice il Signore: "Si separaveris pretiosum a vili, quasi os meum eris" (Ier 15,19). Chi sa segregare le cose preziose dalle vili, si rende simile a Dio, che sa riprovare il male ed eleggere il bene. Vediamo che bene sia la grazia e che male sia la disgrazia di Dio. Non intendono gli uomini il valore della divina grazia. "Nescit homo pretium eius". E perciò la cambiano per niente, per un fumo, per un poco di terra, per un diletto di bestia; ma ella è un tesoro infinito, che ci rende degni dell'amicizia di Dio. "Infinitus enim thesaurus est hominibus, quo qui usi sunt, participes facti sunt amicitiae Dei" (Sap 7,14). Sicché un'anima in grazia ella è amica di Dio. I gentili ch'eran privi della luce della fede, stimavano impossibile che la creatura potesse tenere amicizia con Dio; e parlando secondo il lume naturale, giustamente il diceano, perché l'amicizia (come dice S. Girolamo) rende gli amici eguali: "Amicitia pares aut accipit, aut facit". Ma Iddio ci ha dichiarato in più luoghi che noi per mezzo della sua grazia diventiamo suoi amici per l'osservanza della sua legge: "Vos amici mei estis, si feceritis quae praecipio vobis" (Io 15,14). "Iam non dicam vos servos... vos autem dixi amicos" (Io 15,15). Onde esclama S. Gregorio: O bontà di Dio! non meritiamo noi d'esser chiamati neppure suoi servi, ed egli si degna di chiamarci amici: "Oh mira divinae bonitatis dignatio! Servi non sumus digni nominari, et amici vocamur".


Come si stimerebbe fortunato chi avesse la sorte di aver per amico il suo re! Ma questa sarebbe temerità d'un vassallo pretendere di fare amicizia col suo principe. Ma non è temerità il pretendere un'anima di esser amica del suo Dio. Narra S. Agostino che ritrovandosi due cortigiani in un monistero di solitari, prese uno a leggere ivi la vita di S. Antonio Abate. "Legebat (scrive il santo) et exuebatur mundo cor eius". Leggeva, e leggendo il suo cuore si andava staccando dagli affetti del mondo. Indi rivolto al compagno gli parlò così: "Quid quaerimus? Maior ne esse potest spes nostra, quam quod amici imperatoris simus? Et per quot pericula ad maius periculum pervenitur? et quandiu hoc erit?". Amico, gli disse, pazzi che andiamo noi cercando? possiamo noi sperare più con servir l'imperadore, che di diventare suoi amici? e se a tanto giungessimo, ci porressimo a maggior pericolo della salute eterna. Ma no, che difficilmente arriveremo mai ad aver per amico Cesare. "Amicus autem Dei (così concluse) si voluero, ecce nunc fio". Ma s'io voglio, disse, essere amico di Dio, ora posso diventarlo.


Chi dunque sta in grazia di Dio, diventa amico di Dio. Di più diventa figlio: "Ecce Dii estis, et filii Excelsi omnes" (Ps 3,6). Questa è la gran sorte, che ci ha ottenuta l'amor divino per mezzo di Gesù Cristo. "Videte qualem caritatem dedit nobis Pater, ut filii Dei nominemur, et simus" (Io 3,1). Di più l'anima in grazia diventa sposa di Dio: "Sponsabo te mihi in fide" (Os 2,20). E perciò il padre del figlio prodigo, ricevendolo nella sua grazia, ordinò che gli fosse dato l'anello in segno dello sposalizio: "Date annulum in manum eius" (Luc 15,22). Dico di più, diventa tempio dello Spirito Santo. Suor Maria Dognes vide uscire un demonio da un bambino che ricevé il battesimo, ed entrarvi lo Spirito Santo con una corona d'angeli.


PUNTO II


Dice S. Tommaso d'Aquino che il dono della grazia eccede ogni dono che può ricevere una creatura, mentre la grazia è una partecipazione della stessa natura di Dio. "Donum gratiae excedit omnem facultatem naturae creatae, cum sit participatio divinae naturae". E prima già lo disse S. Pietro: "Ut per haec efficiamini divinae consortes naturae" (2 Petr 1,4). Tanto ci ha meritato Gesù Cristo colla sua passione: Egli ci ha comunicato lo stesso splendore che ha ricevuto da Dio. "Et ego claritatem, quam dedisti mihi, dedi eis" (Io 17,22). In somma chi sta in grazia di Dio, si fa una cosa con Dio: "Qui adhaeret Domino, unus spiritus est" (1 Cor 6,17). E disse il Redentore che in un'anima che ama Dio, viene ad abitarvi tutta la SS. Trinità: "Si quis diligit me, Pater meus diliget eum... et ad eum veniemus, et mansionem apud eum faciemus" (Io 14,23).


È così bella agli occhi di Dio un'anima in grazia che Dio stesso la loda: "Quam pulchra es, amica mea! quam pulchra es!" (Cant 4,1). Il Signore da un'anima che l'ama par che non sappia partire gli occhi né l'orecchie per tutto ciò che gli domanda. "Oculi Domini super iustos, et aures eius in preces eorum" (Ps 33,16). Dicea S. Brigida che non si potrebbe vedere da un uomo la bellezza d'un'anima in grazia di Dio, senza morire per lo gaudio. E S. Caterina da Siena, vedendo già un'anima in grazia, disse ch'ella volentieri avrebbe data la vita, acciocché quell'anima non avesse perduta una tanta bellezza; e perciò la santa baciava la terra per dove passavano i sacerdoti, pensando che per mezzo loro l'anime si rimettono in grazia di Dio.


Quanti acquisti poi di meriti può fare un'anima in grazia! In ogni momento ella può acquistare una gloria eterna. Dice S. Tommaso che ogni atto d'amore fatto da un'anima merita un paradiso a parte: "Quilibet actus caritatis meretur vitam aeternam". Che stiamo dunque noi ad invidiare i grandi del mondo? se stiamo in grazia di Dio, possiamo continuamente acquistare grandezze assai maggiori in cielo. Un certo fratello coadiutore della Compagnia di Gesù, come scrive il P. Patrignani ne' suoi Menologi, comparve dopo morte, e disse ch'egli era salvo insieme con Filippo II re di Spagna; e che amendue godeano già la gloria, ma che quanto minore egli era stato in terra di Filippo, tanto maggiore era in paradiso. In oltre, solamente chi la prova, può intender la pace che gode anche in questa terra un'anima che sta in grazia di Dio. "Gustate, et videte, quam suavis est Dominus" (Ps 33). Non possono venir meno le parole del Signore: "Pax multa diligentibus legem tuam" (Ps 118,165). La pace di chi sta unito con Dio avanza tutti i piaceri, che può dare il senso e 'l mondo. "Pax Dei, quae exsuperat omnem sensum" (Philipp 4,7).


PUNTO III


Vediamo ora la miseria d'un'anima, che sta in disgrazia di Dio. Ella è separata dal suo sommo bene ch'è Dio. "Peccata vestra diviserunt inter vos, et Deum vestrum" (Is 59,2). Sicché ella non è più di Dio, e Dio non è più suo: "Vos non populus meus, et ego non ero vester" (Ose 1,9). Non solamente non è più suo, ma l'odia e la condanna all'inferno. Non odia il Signore alcuna sua creatura, neppure le fiere, le vipere, i rospi: "Diligis omnia quae fecisti, et nihil odisti eorum quae fecisti" (Sap 11,25). Ma non può lasciar Iddio di odiare i peccatori. "Odisti omnes qui operantur iniquitatem" (Ps 5,7). Sì, perché Dio non può non odiare il peccato, ch'è quel nemico tutto contrario alla sua volontà; e perciò odiando il peccato dee necessariamente odiare anche il peccatore, che sta unito col peccato. "Similiter autem odio sunt Deo impius, et impietas eius" (Sap 14,9).


Oh Dio, se alcuno ha per nemico un principe della terra, non può mai prender sonno quieto, temendo giustamente ad ogni momento la morte. E chi ha per nemico Dio, come può aver pace? Può taluno sfuggire l'ira del principe con nascondersi in una selva, o con andar lontano in altro regno: ma chi può sfuggire le mani di Dio? Signore (dicea Davide), se io salirò in cielo, se mi nasconderò nell'inferno, dovunque vado, la vostra mano può arrivarmi: "Si ascendero in coelum, tu illic es, si descendero in infernum, ades. Etenim illuc manus tua deducet me" (Ps 138,8).


Poveri peccatori! essi son maledetti da Dio, maledetti dagli angeli, maledetti da' Santi, maledetti anche in terra in ogni giorno da tutti i sacerdoti e religiosi, che ne pubblicano la maledizione in recitare l'officio divino: "Maledicti qui declinant a mandatis tuis". In oltre la disgrazia di Dio importa la perdita di tutti i meriti. Abbia meritato un uomo quanto un S. Paolo Eremita che visse 98 anni in una grotta, quanto un S. Francesco Saverio, che guadagnò a Dio dieci milioni d'anime; quanto un S. Paolo apostolo, che guadagnò più meriti (come dice S. Girolamo), che tutti gli altri apostoli, se costui commette un solo peccato mortale, perde tutto. "Omnes iustitiae eius, quas fecerat, non recordabuntur" (Ez 18). Ed ecco la ruina che porta la disgrazia di Dio, da figlio di Dio lo fa diventare schiavo di Lucifero, da amico diletto lo fa diventare nemico sommamente odiato, da erede del paradiso lo fa diventare un condannato dell'inferno. Dicea S. Francesco di Sales che se gli angeli potessero piangere, in veder la miseria d'un'anima che commette un peccato mortale e perde la divina grazia, gli angeli si metterebbero a piangere per compassione.


Ma la maggior miseria è che gli angeli piangerebbero, se fossero capaci di piangere, e 'l peccatore non piange. Dice S. Agostino: Perde colui una bestiuola, una pecorella, non mangia, non dorme e piange; perderà poi la grazia di Dio, e mangia, dorme e non piange.




PAZZIA DEL PECCATORE

Sapientia enim huius mundi stultitia est apud Deum (1 Cor 3,19)

PUNTO I

Il venerabile Giovanni d'Avila avrebbe voluto dividere il mondo in due carceri, una per coloro che non ci credono e l'altra per coloro che ci credono, e vivono in peccato lontano da Dio; a costoro dicea che toccava il carcere de' pazzi. Ma la maggior miseria e disgrazia di questi miserabili si è ch'essi tengonsi per savi e prudenti, e sono i più sciocchi e stolti del mondo. E 'l peggio si è che il numero di costoro è innumerabile. "Et stultorum infinitus est numerus" (Eccl 1,15). Chi impazzisce per gli onori, chi impazzisce per gli piaceri, chi per le carogne di questa terra. E costoro poi ardiscono di chiamar pazzi i santi, che disprezzano questi beni del mondo, per acquistarsi la salute eterna e 'l vero bene ch'è Dio. Chiamano pazzia l'abbracciare i disprezzi e perdonare l'ingiurie, pazzia il privarsi de' piaceri di senso e abbracciare le mortificazioni; pazzia rinunziare gli onori e le ricchezze, l'amare la solitudine, e la vita umile e nascosta. Ma non avvertono che la loro sapienza, è chiamata pazzia dal Signore: "Sapientia enim huius mundi stultitia est apud Deum" (1 Cor 3,19).

Ah che un giorno ben confesseranno questa loro pazzia, ma quando? quando non vi sarà più rimedio; e diranno disperati: "Nos insensati vitam illorum aestimabamus insaniam, et finem illorum sine honore" (Sap 5,4). Ah miseri che siamo stati, noi stimavamo pazzia la vita de' santi, ma ora conosciamo che noi siamo stati i pazzi. "Ecce quomodo inter filios Dei computati sunt, et inter sanctos sors illorum est" (Sap 5,5). Ecco com'essi son già collocati tra 'l numero felice de' figli di Dio, ed han fatta tra' santi la loro fortuna, che sarà fortuna eterna, e li renderà per sempre beati; e noi siam restati nel numero degli schiavi del demonio, condannati ad ardere in questa fossa di tormenti per tutta l'eternità. "Ergo erravimus (così concluderanno il loro pianto) a via veritatis, et iustitiae lumen non luxit nobis" (Sap 5,6). Quindi l'abbiamo sgarrata per aver voluto chiudere gli occhi alla divina luce, e quello che più ci renderà infelici è che al nostro errore non vi è, né vi sarà più rimedio, mentre Dio sarà Dio.

Qual pazzia dunque per un vile interesse, per un poco di fumo, per un breve diletto perdere la grazia di Dio! Che non fa un vassallo per guadagnarsi la grazia del suo principe! Oh Dio per una misera soddisfazione perdere il sommo bene, ch'è Dio! perdere il paradiso! perdere anche la pace in questa vita, facendo entrar nell'anima il peccato, che co' suoi rimorsi sempre la tormenterà! e condannarsi volontariamente ad una miseria eterna! Ti prenderesti quel gusto illecito, se per quello ti toccasse poi ad esserti bruciata una mano? o pure a star chiuso un anno dentro una sepoltura? Faresti quel peccato, se dopo quello dovessi perdere cento scudi? E poi credi, e sai che peccando perdi il paradiso e Dio, e sei per sempre condannato al fuoco, e pecchi?

PUNTO II

Poveri peccatori! faticano, stentano per acquistare le scienze mondane, o l'arte di guadagnare i beni di questa vita, che tra breve han da finire; trascurano poi i beni di quella vita, che non finisce mai! Perdono talmente il senno, che diventano non solo pazzi ma bruti; poiché vivendo da bruti, non considerano ciò ch'è bene e ciò ch'è male; ma solamente seguitano gl'istinti bestiali del senso, in abbracciare quel che al presente piace alla carne, senza pensare a quel che perdono ed alla ruina eterna che si tirano sopra. Ma questo non è operare da uomo, ma da bestia. Dice S. Gio. Grisostomo: "Hominem illum dicimus, qui imaginem hominis salvam retinet; quae autem est imago hominis? rationalem esse". L'esser uomo è l'esser ragionevole, cioè operare secondo la ragione, non secondo l'appetito del senso. Se Dio desse ad una bestia l'uso di ragione, e quella secondo la ragione operasse, direbbesi che opera da uomo; così all'incontro, quando l'uomo opera secondo il senso contro la ragione, dee dirsi che l'uomo opera da bestia.

"Utinam saperent, et intelligerent, et novissima providerent" (Deut 32,29). Chi opera da prudente secondo la ragione, prevede il futuro, cioè quello che dee succedergli nel fine della vita, la morte, il giudizio, e dopo questo l'inferno o il paradiso. Oh quanto è più savio un villano che si salva, che un monarca, che si danna! "Melior est puer pauper, et sapiens rege sene et stulto, nesciente praevidere in posterum" (Eccl 4,13). Oh Dio non si stimerebbe da tutti pazzo chi per guadagnare al presente un giulio, si mettesse a rischio di perdere tutt'i suoi beni? E chi per una breve soddisfazione perde l'anima, o si mette a rischio di perderla per sempre, non avrà da stimarsi pazzo? Questa è la ruina di tante anime, che si dannano, il badare solamente a' beni e mali presenti, e non badare a' beni e mali eterni.

Dio non ci ha posti certamente in questa terra per farci ricchi, acquistarci onori, o per contentare i nostri sensi, ma per guadagnarci la vita eterna. "Finem vero vitam aeternam" (Rom 6,22). E 'l conseguir questo fine, solamente a noi dee importare. "Porro unum est necessarium" (Luc 10,42). Ma questo fine è quel che più disprezzano i peccatori; pensano solo al presente, camminano alla morte, s'accostano ad entrare nell'eternità, e non sanno dove vanno. Che diresti d'un nocchiero, dice S. Agostino, che dimandato dove va, rispondesse che non lo sa? ognun direbbe che costui porta la nave a perdersi: "Fac hominem perdidisse quo tendit, et dicatur ei: Quo is et dicat, nescio. Nonne iste navem ad naufragium perducet? Talis est (poi conclude il santo) qui currit praeter viam". Tali sono quei savi del mondo che san far guadagni, prendersi gli spassi, conseguire i posti, ma non sanno salvarsi l'anima. Fu savio l'epulone in farsi ricco, ma "mortuus est, et sepultus in inferno". Fu savio Alessandro Magno in acquistar tanti regni, ma tra pochi anni morì e si dannò in eterno. Fu savio Arrigo VIII, in sapersi mantenere nel trono con ribellarsi dalla Chiesa, ma all'ultimo egli stesso vedendo che già perdea l'anima, confessò: "Perdidimus omnia". Quanti miserabili ora piangono, e gridano nell'inferno: "Quid profuit nobis superbia, aut divitiarum iactantia? transierunt omnia illa tanquam umbra" (Sap 5,9). Ecco, dicono, che per noi tutti i beni del mondo son passati come un'ombra, ed altro non ci è restato che un pianto ed una pena eterna.

"Ante hominem vita, et mors, quod placuerit ei, dabitur illi" (Eccli 15,18). Cristiano mio, in questa vita ti è posta avanti la vita e la morte, cioè il privarti de' gusti vietati con guadagnarti la vita eterna, o il prenderli colla morte eterna. Che dici? che scegli? Scegli da uomo, e non da bestia. Scegli da cristiano, che ha fede e dice: "Quid prodest homini, si mundum universum lucretur, animae vero suae detrimentum patiatur?".

PUNTO III

Intendiamo che i veri savi sono coloro, che sanno acquistarsi la divina grazia e 'l paradiso. Preghiamo dunque sempre il Signore che ci doni la scienza de' santi, ch'Egli dà a chi gliela cerca. "Dedit illis scientiam sanctorum" (Sap 6,10). Oh che bella scienza è il sapere amare Dio e 'l salvarsi l'anima, che consiste nel sapere prender la via della salute eterna ed i mezzi per conseguirla. Il trattato di salvarsi l'anima è il trattato fra tutti il più necessario. Se sapremo tutto, e non sapremo salvarci, niente ci servirà, e saremo per sempre infelici; ma all'incontro saremo sempre beati, se sapremo amare Dio, ancorché fossimo ignoranti di tutte l'altre cose. "Beatus qui te novit, etsi alia nescit", dicea S. Agostino. Un giorno Fra Egidio disse a S. Bonaventura: Beato Voi, P. Bonaventura, che sapete tante cose, ed io povero ignorante non so niente; voi potete farvi più santo di me. Senti, gli rispose allora il santo, se una vecchiarella ignorante sa amar Dio più di me, ella sarà più santa di me. Dal che Fra Egidio si pose poi a gridare: O vecchiarella, vecchiarella, senti, senti; se tu ami Dio, puoi farti più santa del P. Bonaventura.

"Surgunt indocti, et rapiunt coelum", dicea S. Agostino. Quanti rozzi che non san leggere, ma sanno amare Dio, si salvano; e quanti dotti del mondo si dannano! ma quelli, non questi sono i veri savi. Oh che gran savi sono stati un S. Pasquale, un S. Felice Cappuccino, un S. Giovanni di Dio, benché ignoranti delle scienze umane! Che gran savi sono stati tanti, che lasciando il mondo sono andati a chiudersi ne' chiostri e a vivere ne' deserti, come un S. Benedetto, un S. Francesco d'Assisi, un S. Luigi di Tolosa, che rinunciò al regno. Che gran savi tanti martiri, tante verginelle, che rinunciarono alle nozze de' grandi per andare a morire per Gesù Cristo! E questa verità la conoscono anche i mondani, e non lasciano di dire di taluno che si è dato a Dio: Beato lui che l'intende, e si salva l'anima. In somma quei che lasciano i beni del mondo per darsi a Dio, si chiamano uomini disingannati. Dunque quei che lasciano Dio per li beni del mondo, come debbono chiamarsi? Uomini ingannati.

Fratello mio, di qual compagnia di costoro volete esser voi? Per bene eleggere vi consiglia S. Gio. Grisostomo a visitare i cimiteri. "Proficiscamur ad sepulchra". Belle scuole sono le sepolture per conoscere la vanità de' beni di questo mondo e per apprendere la scienza de' santi. Dimmi (dice il Grisostomo), sai discernere ivi chi sia stato principe, chi nobile e chi letterato? Io per me, dice il santo: "Nihil video, nisi putredinem, ossa et vermes. Omnia fabula, somnium, umbra". Tutte le cose di questo mondo tra breve finiranno e svaniranno come una commedia, un sogno, un'ombra. Ma, cristiano mio, se vuoi diventar savio, non basta conoscere l'importanza del tuo fine, bisogna prendere i mezzi per conseguirlo. Tutti vorrebbero salvarsi e farsi santi; ma perché poi non pigliano i mezzi, non si fanno santi e si dannano. Bisogna fuggir le occasioni, frequentare i sagramenti, fare orazione, e prima di tutto bisogna stabilire nel nostro cuore le massime del Vangelo: "Quid prodest homini, si mundum universum lucretur? Qui amat animam suam, perdet eam" (Io 12,25). Il che viene a dire, bisogna perdere anche la vita per salvare l'anima. "Qui vult venire post me, abneget semetipsum" (Matth 16,24). Per seguire Gesù Cristo, bisogna negare all'amor proprio le soddisfazioni che cerca: "Vita in voluntate eius" (Ps 39,6). La nostra salute sta nel fare la divina volontà; queste ed altre simili massime.



VITA INFELICE DEL PECCATORE E VITA FELICE DI CHI AMA DIO

Non est pax impiis, dicit Dominus (Is 48,22)
Pax multa diligentibus legem tuam (Ps 118,165)

PUNTO I

Tutti gli uomini in questa vita faticano per trovare la pace. Fatica quel mercante, quel soldato, quel litigante, perché pensa con quel guadagno, con quel posto, o col vincer quella lite di far la sua fortuna e così trovare la pace. Ma poveri mondani, che cercano la pace nel mondo, il quale non può darla! Dio solo può dare a noi la pace: "Da servis tuis (prega la santa Chiesa) illam, quam mundus dare non potest, pacem". No, non può il mondo con tutt'i suoi beni contentare il cuore dell'uomo, perché l'uomo non è creato per questi beni, ma solo per Dio; ond'è che solo Dio può contentarlo. Le bestie che son create per li diletti de' sensi, queste trovano la pace ne' beni della terra; date ad un giumento un fascio d'erba, date ad un cane un pezzo di carne, eccoli contenti, niente più desiderano. Ma l'anima, ch'è creata solo per amare e star unita con Dio, con tutt'i piaceri sensuali non potrà mai trovar la sua pace; solo Dio può renderla appieno contenta.

Quel ricco, che narra S. Luca (Luc 12,19), avendo fatta una buona raccolta da' suoi campi, diceva a se stesso: "Anima, habes multa bona posita in annos plurimos, requiesce, comede, bibe". Ma questo infelice ricco fu chiamato pazzo, "Stulte", e con ragione, dice S. Basilio: "Nunquid animam porcinam habes?". Misero (gli dice il santo), e che forse hai l'anima di qualche porco, di qualche bestia, che pretendi contentar l'anima tua col mangiare, col bere, co' diletti del senso? "Requiesce, comede, bibe?". L'uomo da' beni del mondo può esser riempiuto, ma non già saziato: "Inflari potest, satiari non potest", dice S. Bernardo. E scrive il medesimo santo sul Vangelo: "Ecce nos reliquimus omnia", di aver veduti diversi pazzi con diverse pazzie. Dice che tutti questi pativano una gran fame, ma altri si saziavano di terra, figura degli avari: altri d'aria, figura di quei che ambiscono onori: altri d'intorno ad una fornace imboccavano le faville, che da quella svolazzavano, figura dell'iracondi; altri finalmente d'intorno ad un fetido lago beveano quell'acque fracide, figura de' disonesti. Quindi ad essi rivolto il santo dice loro: O pazzi, non vedete che queste cose più presto accrescono, che tolgono la vostra fame? "Haec potius famem provocant, quam exstinguunt". I beni del mondo son beni apparenti, e perciò non possono saziare il cuore dell'uomo. "Comedistis, et non estis satiati" (Aggaeus 1,6). E perciò l'avaro quanto più acquista, tanto più cerca d'acquistare. S. Agostino: "Maior pecunia avaritiae fauces non claudit, sed extendit". Il disonesto quanto più si rivolge tra le sordidezze, tanto più resta nauseato insieme e famelico; e come mai lo sterco e le sozzure sensuali possono contentare il cuore? Lo stesso avviene all'ambizioso, che vuol saziarsi di fumo, poiché l'ambizioso più mira quel che gli manca, che quello che ha. Alessandro Magno, dopo aver acquistati tanti regni, piangeva, perché gli mancava il dominio degli altri. Se i beni di questa terra contentassero l'uomo, i ricchi, i monarchi sarebbero appieno felici, ma la sperienza fa vedere l'opposto. Lo dice Salomone, il quale asserisce di non aver negato niente a' suoi sensi: "Et omnia, quae desideraverunt oculi mei, non negavi eis" (Eccl 2,10). Ma con tutto ciò che dice? "Vanitas vanitatum, et omnia vanitas" (Eccl 1,2). E vuol dire: Tutto ciò ch'è nel mondo, è mera vanità, mera bugia, mera pazzia.

PUNTO II

Ma non solo dice Salomone che i beni di questo mondo sono vanità, che non contentano, ma sono pene che affliggono lo spirito: "Et ecce universa vanitas, et afflictio spiritus" (Eccl 1,14). Poveri peccatori! pretendono di farsi felici co' loro peccati, ma non trovano che amarezza e rimorso: "Contritio, et infelicitas in viis eorum, et viam pacis non cognoverunt" (Ps 13,3). Che pace! che pace! No, dice Dio: "Non est pax impiis, dicit Dominus" (Is 48,22). Primieramente il peccato porta con sé il terrore della divina vendetta. Se alcuno tiene un nemico potente, non mangia, né dorme mai quieto; e chi ha per nemico Dio, può stare in pace? "Pavor his qui operantur malum" (Prov 10,29). Chi sta in peccato, se sente tremar la terra, se sente tuonare, oh come trema! Ogni fronda che si muove, lo spaventa. "Sonitus terroris semper in aure eius" (Iob 15,21). Fugge sempre, senza veder chi lo perseguita. "Fugit impius, nemine persequente" (Prov 28,1). E chi lo perseguita? il medesimo suo peccato. Caino dopo che uccise il fratello Abele dicea: "Omnis igitur, qui invenerit me, occidet me" (Gen 4,14). E con tutto che il Signore l'assicurò che niuno l'avrebbe offeso: "Dixitque ei Dominus: Nequaquam ita fiet"; pure dice la Scrittura che Caino "habitavit profugus in terra" (Ibid.): andò sempre fuggendo da un luogo ad un altro. Chi era il persecutore di Caino, se non il suo peccato?

In oltre il peccato porta seco il rimorso della coscienza, ch'è quel verme tiranno che sempre rode. Va il misero peccatore alla commedia, al festino, al banchetto: ma tu (gli dice la coscienza) stai in disgrazia di Dio; se muori, dove vai? Il rimorso della coscienza è una pena sì grande anche in questa vita, che taluni per liberarsene, son giunti a darsi volontariamente la morte. Uno di costoro fu Giuda, come si sa, che per disperazione da se stesso si appiccò. Si narra d'un altro, che avendo ucciso un fanciullo, per isfuggir la pena del rimorso andò a farsi religioso; ma neppure nella religione trovando pace, andò a confessare il suo delitto al giudice, e si fe' condannare a morte.

Che cosa è un'anima che sta senza Dio? Dice lo Spirito Santo ch'è un mare in tempesta: "Impii autem quasi mare fervens, quod quiescere non potest" (Isa 57,20). Dimando, se taluno fosse portato ad un festino di musica, di balli e rinfreschi, e stesse ivi appeso co' piedi, colla testa in giù, potrebbe godere di questo spasso? Tàl'è quell'uomo che sta coll'anima sotto sopra, stando in mezzo a i beni di questo mondo, ma senza Dio. Egli mangerà, beverà, ballerà: porterà sì bene quella ricca veste, riceverà quegli onori, otterrà quel posto, quella possessione, ma non avrà mai pace. "Non est pax impiis". La pace solo da Dio si ottiene, e Dio la dà agli amici, non già a' nemici suoi.

I beni di questa terra, dice S. Vincenzo Ferreri, vanno da fuori non entrano già nel cuore: "Sunt aquae, quae non intrant illuc, ubi est sitis". Porterà quel peccatore una bella veste ricamata, terrà un bel diamante al dito, si ciberà a suo genio; ma il suo povero cuore resterà pieno di spine e di fiele, perciò lo vedrai che con tutte le sue ricchezze, delizie e spassi, sta sempre inquieto, e ad ogni cosa contraria s'infuria, e si stizza, diventando come un cane arrabbiato. Chi ama Dio, nelle cose avverse si rassegna alla divina volontà, e trova pace; ma ciò non può farlo chi vive nemico alla volontà di Dio, e perciò non ha via di quietarsi. Serve il misero al demonio, serve ad un tiranno, che lo paga d'affanni e d'amarezze. E non possono venir meno le parole di Dio che dice: "Eo quod non servieris Deo tuo in gaudio, servies inimico tuo in fame, et siti, et nuditate, et omni penuria" (Deut 28,48). Che non patisce quel vendicativo, dopo che si è vendicato! quel disonesto dopo ch'è giunto al suo intento! quell'ambizioso! quell'avaro! Oh quanti, se patissero per Dio quel che patiscono per dannarsi, diventerebbero gran santi!

PUNTO III

Dunque tutt'i beni e diletti del mondo non possono contentare il cuore dell'uomo, e chi può contentarlo? Solo Dio. "Delectare in Domino et dabit tibi petitiones cordis tui" (Ps 36,4). Il cuore dell'uomo va sempre cercando quel bene che lo contenti. Ottiene le ricchezze, i piaceri, gli onori, e non è contento; perché questi son beni finiti, ed egli è creato per un bene infinito; trovi egli Dio, s'unisca con Dio; ed eccolo già contento, niente più desidera. "Delectare in Domino, et dabit tibi petitiones cordis tui." S. Agostino in tutta la sua vita menata fra' diletti del senso, non trovò mai pace. Quando poi si diede a Dio, allora confessava e diceva al Signore: "Inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te". Dio mio, dicea, ora conosco che ogni cosa è vanità e pena, e Voi solo siete la vera pace dell'anima. "Dura sunt omnia, et tu solus requies". Ond'egli fatto poi maestro a sue spese, scrisse: "Quid quaeris homuncio, quaerendo bona? quaere unum bonum, in quo sunt omnia bona". Davide essendo re, mentre stava in peccato, andava alle cacce, ai giardini, alle mense, ed a tutte l'altre delizie regali, ma gli diceano le mense, i giardini e tutte l'altre creature di cui godea: Davide, tu da noi vuoi essere contentato? No, non possiamo noi contentarti: "Ubi est Deus tuus?" va, trova lo Dio tuo, ch'egli solo può contentarti; e perciò Davide in mezzo a tutte le sue delizie non faceva altro che piangere: "Lacrimae meae fuerunt panes die ac nocte, dum dicitur mihi quotidie, ubi est Deus tuus?" (Ps 41,4).

Oh come all'incontro sa contentare Dio l'anime fedeli, che l'amano! S. Francesco d'Assisi, avendo lasciato tutto per Dio, benché si trovasse scalzo, con uno straccio sopra, morto di freddo e di fame, dicendo: "Deus meus et omnia", provava un paradiso. S. Francesco Borgia dopo che fu religioso, e gli toccava ne' viaggi a dormir sulla paglia, era tanta la consolazione, che per quella non potea prender sonno. S. Filippo Neri similmente, avendo lasciato tutto, quando andava a riposo, Iddio così lo consolava, ch'egli giungeva a dire: Ma, Gesù Cristo mio, lasciatemi dormire. Il P. Carlo di Lorena Gesuita, de' principi di Lorena, ritrovandosi nella sua povera cella, talvolta per la contentezza si metteva a danzare. S. Francesco Saverio nelle campagne dell'Indie si slacciava il petto, dicendo: "Sat est, Domine", basta Signore, non più consolazione, che 'l mio cuore non è capace di sostenerla. Dicea S. Teresa che dà più contento una goccia di consolazione celeste, che tutt'i piaceri e spassi del mondo. Eh che non possono mancare le promesse di Dio, di dare a chi lascia i beni del mondo per suo amore, anche in questa vita il centuplo di pace e di contento. "Qui reliquerit domum, vel fratres, etc. propter nomen meum, centuplum accipiet, et vitam aeternam possidebit" (Matth 19,29).

Che andiamo dunque cercando? andiamo a Gesù Cristo che ci chiama e ci dice: "Venite ad me omnes, qui laboratis, et onerati estis, et ego reficiam vos" (Matth 11,28). Eh che un'anima che ama Dio, trova quella pace che avanza tutti i piaceri e soddisfazioni, che può dare il senso ed il mondo. "Pax Dei quae exsuperat omnem sensum" (Philip 4,7). È vero che in questa vita anche i santi patiscono, perché questa terra è luogo di meriti, e non si può meritare senza patire; ma dice S. Bonaventura che l'amore divino è simile al mele, che rende dolci, ed amabili le cose più amare. Chi ama Dio, ama la di Lui volontà, e perciò gode nello spirito anche nelle amarezze; poiché abbracciandole sa che lo compiace, e gli dà gusto. Oh Dio, i peccatori voglion disprezzare la vita spirituale, ma senza provarla! "Vident crucem, sed non vident unctionem", dice S. Bernardo; guardano solamente le mortificazioni che soffrono gli amanti di Dio, e i piaceri di cui si privano; ma non vedono le delizie spirituali, con cui l'accarezza il Signore. Oh se i peccatori assaggiassero la pace che gode un'anima che non vuole altro che Dio! "Gustate, et videte" (dice Davide), "quam suavis est Dominus" (Ps 33). Fratello mio, comincia a far la meditazione ogni giorno, a comunicarti spesso, a trattenerti avanti il SS. Sagramento, comincia a lasciare il mondo e a fartela con Dio, e vedrai che il Signore ti consolerà più Egli in quel poco di tempo, in cui con esso ti tratterrai, che non ti ha consolato il mondo con tutti i suoi divertimenti. "Gustate, et videte". Chi non lo gusta, non può intendere, come sa contentare Dio un'anima che l'ama.




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09/07/2019 23:37

IL MAL'ABITO


Impius cum in profundum venerit, contemnit (Prov 18,3)


PUNTO I


Uno de' maggiori danni, che a noi cagionò il peccato di Adamo, fu la mala inclinazione al peccare. Ciò facea piangere l'Apostolo, in vedersi spinto dalla concupiscenza verso quegli stessi mali, ch'egli abborriva: "Video aliam legem in membris meis... captivantem me in lege peccati" (Rom 7,23). E quindi riesce a noi, infettati da questa concupiscenza, e con tanti nemici che ci spingono al male, sì difficile il giungere senza colpa alla patria beata. Or posta una tal fragilità che abbiamo, io dimando: Che direste voi d'un viandante, che dovesse passare il mare in una gran tempesta, con una barca mezza rotta, ed egli poi volesse caricarla di tal peso, che senza tempesta, e quantunque la barca fosse forte, anche basterebbe ad affondare? Che prognostico fareste della vita di costui? Or dite lo stesso d'un mal abituato che dovendo passare il mare di questa vita (mare in tempesta, dove tanti si perdono) con una barca debole e ruinata, qual'è la nostra carne, a cui stiamo uniti, questi volesse poi aggravarla di peccati abituati. Costui è molto difficile che si salvi, perché il mal'abito accieca la mente, indurisce il cuore, e con ciò facilmente lo rende ostinato sino alla morte.


Per prima il mal'abito "accieca". E perché mai i santi sempre cercano lume a Dio, e tremano di diventare i peggiori peccatori del mondo? perché sanno che se in un punto perdon la luce, possono commettere qualunque scelleragine. Come mai tanti cristiani ostinatamente han voluto vivere in peccato, sino che finalmente si son dannati? "Excaecavit eos malitia eorum" (Sap 2,21). Il peccato ha tolto loro la vista, e così si son perduti. Ogni peccato porta seco la cecità; accrescendosi i peccati, si accresce l'accecazione. Dio è la nostra luce; quanto più dunque l'anima si allontana da Dio, tanto resta più cieca. "Ossa eius implebuntur vitiis" (Iob 20,11). Siccome in un vaso, ch'è pieno di terra, non può entrarvi la luce del sole, così in un cuore pieno di vizi non può entrarvi la luce divina. E perciò si vede poi che certi peccatori rilasciati perdono il lume, e vanno di peccato in peccato, e neppure pensano più ad emendarsi. "In circuitu impii ambulant" (Psal 11,9). Caduti i miseri in quella fossa oscura, non sanno far altro che peccati, non parlano che di peccati, non pensano se non a peccare, e quasi non conoscono più che sia male il peccato. "Ipsa consuetudo mali (dice S. Agostino) non sinit peccatores videre malum, quod faciunt". Sicché vivono come non credessero più esservi Dio, paradiso, inferno, eternità.


Ed ecco, che quel peccato che prima faceva orrore, col mal'abito non fa più orrore. "Pone illos, ut rotam et sicut stipulam ante faciem venti" (Psal 82,14). Vedete, dice S. Gregorio, con che facilità una pagliuccia è mossa da ogni vento anche leggiero; così vedrete ancora taluno che prima (avanti che cadesse) resisteva almeno per qualche tempo, e combatteva colla tentazione; fatto poi il mal'abito, subito cade ad ogni tentazione, ad ogni occasione che gli vien di peccare. E perché? perché il mal'abito gli ha tolta la luce. Dice S. Anselmo che 'l demonio fa con certi peccatori, come fa taluno che tiene qualche uccello ligato col filo, lo lascia volare, ma quando vuole torna a farlo cadere a terra; tali sono (come dice il santo) i mal abituati: "Pravo usu irretiti ab hoste tenentur, volantes in eadem vitia deiiciuntur". Taluni, aggiunge S. Bernardino da Siena, seguiranno a peccare anche senz'occasione. Dice il santo che i mal abituati si fan simili a' molini a vento, i quali "rotantur omni vento", girano ad ogni aura di vento; e di più voltano, ancorché non vi stesse grano da macinare, e benché il padrone non volesse che voltino. Vedrai un abituato che senz'occasione va facendo mali pensieri, senza gusto, e quasi non volendo, tirato a forza dal mal'abito. S. Gio. Grisostomo: "Dura res est consuetudo, quae nonnunquam nolentes committere cogit illicita". Sì, perché (come dice S. Agostino) il mal'abito diventa poi una certa necessità: "Dum consuetudini non resistitur, facta est necessitas". E come aggiunge S. Bernardino, "usus vertitur in naturam"; ond'è che siccome all'uomo è necessario il respirare, così a' mal abituati, fatti schiavi del peccato, par che si renda necessario il peccare. Ho detto "schiavi"; vi sono i servi, che servono a forza colla paga; gli schiavi poi servono a forza senza paga; a questo giungono alcuni miserabili, giungono a peccare senza gusto.


"Impius, cum in profundum venerit, contemnit" (Prov 18,3). Ciò lo spiega il Grisostomo appunto del mal abituato, il quale posto in quella fossa di tenebre, disprezza correzioni, prediche, censure, inferno, Dio, disprezza tutto, diventa il misero quale avoltoio, che per non lasciare il cadavere, su di quello più presto si contenta di farsi uccidere da' cacciatori. Narra il P. Recupito che un condannato a morte mentre andava alla forca, alzò gli occhi, vide una giovane, ed acconsentì ad un mal pensiero. Narra ancora il P. Gisolfo che un bestemmiatore, anche condannato a morte, mentre fu buttato dalla scala proruppe in una bestemmia. Giunge a dire S. Bernardo che per li mal'abituati non serve più a pregare, ma bisogna piangerli per dannati. Ma come vogliono uscire dal loro precipizio, se non ci vedono più? ci vuole un miracolo della grazia. Apriranno gli occhi i miserabili nell'inferno, quando non servirà più l'aprirli, se non per piangere più amaramente la loro pazzia.


PUNTO II


In oltre il mal'abito indurisce. "Cor durum efficit consuetudo peccandi", Cornelio a Lapide. E Dio giustamente il permette in pena delle resistenze fatte alle sue chiamate. Dice l'Apostolo che 'l Signore "cuius vult miseretur, et quem vult indurat" (Rom 9,18). Spiega S. Agostino: "Obduratio Dei est nolle misereri". Non è già che Iddio indurisce il mal abituato, ma gli sottrae la grazia, in pena dell'ingratitudine usata alle sue grazie; e così il di lui cuore resta duro e fatto come di pietra. "Cor eius indurabitur tanquam lapis, et stringetur quasi malleatoris incus" (Iob 41,15). Quindi avverrà che dove gli altri s'inteneriscono e piangono in sentir predicar il rigore del divino giudizio, le pene de' dannati, la passione di Gesù Cristo, il mal abituato niente ne resterà commosso; ne parlerà e sentirà parlare con indifferenza, come fossero cose che a lui non appartenessero; e a tali colpi egli diventerà più duro. "Et stringetur quasi malleatoris incus".


Anche le morti improvvise, i tremuoti, i tuoni, i fulmini più non lo spaventeranno: prima che svegliarlo e farlo ravvedere, più presto gli concilieranno quel sonno di morte, in cui dorme perduto. "Ab increpatione tua, Deus Iacob, dormitaverunt" (Ps 75,7). Il mal'abito a poco a poco fa perdere anche il rimorso della coscienza. Al mal abituato i peccati più enormi gli sembrano niente. S. Agostino: "Peccata quanvis horrenda, cum in consuetudinem veniunt, parva, aut nulla esse videntur". Il far male porta seco naturalmente un certo rossore, ma dice S. Girolamo che i mal abituati perdono anche il rossore peccando: "Qui ne pudorem quidem habent in delictis". S. Pietro paragona il mal abituato al porco, che si rivolta nel letame: "Sus lota in volutabro luti" (2 Petr 2,22). Siccome il porco, rivoltandosi nel loto, non ne sente egli il fetore; così accade al mal abituato: quel fetore che si fa sentire da tutti gli altri, egli solo non lo sente. E posto che il loto gli ha tolta anche la vista, che meraviglia, è, dice S. Bernardino, che non si ravveda, neppure mentre Dio lo flagella? "Populus immergit se in peccatis, sicut sus in volutabro luti; quid mirum si Dei flagellantis futura iudicia non cognoscit?". Onde avviene che in vece di rattristarsi de' suoi peccati, se ne rallegra, se ne ride e se ne vanta. "Laetantur, cum malefecerint" (Prov 2,14). "Quasi per risum stultus operatur scelus" (Prov 10,23). Che segni sono questi di tal diabolica durezza? Dice S. Tommaso di Villanova, sono segni tutti di dannazione: "Induratio, damnationis indicium". Fratello mio, trema che non ti avvenga lo stesso. Se mai hai qualche mal'abito, procura d'uscirne presto, ora che Dio ti chiama. E mentre ti morde la coscienza, sta allegramente perché è segno che Dio non t'ha abbandonato ancora. Ma emendati, ed esci presto; perché se no, la piaga si farà cancrena, e sarai perduto.


PUNTO III


Perduta che sarà la luce, e indurito che sarà il cuore, moralmente ne nascerà che 'l peccatore faccia mal fine, e muoia ostinato nel suo peccato. "Cor durum habebit male in novissimo" (Eccli 3,27). I giusti sieguono a camminare per la via dritta. "Rectus callis iusti ad ambulandum" (Is 26,7). All'incontro i mal abituati van sempre in giro. "In circuitu impii ambulant" (Ps 11,9). Lasciano il peccato per un poco, e poi vi tornano. A costoro S. Bernardo annunzia la dannazione: "Vae homini qui sequitur hunc circuitum". Ma dirà quel tale: Io voglio emendarmi prima della morte. Ma qui sta la diffìcoltà, che un mal abituato si emendi, ancorché giunga alla vecchiaia; dice lo Spirito Santo: "Adolescens iuxta viam suam, etiam cum senuerit, non recedet ab ea" (Prov 22,6). La ragione si è, come ci dice S. Tommaso da Villanova, perché la nostra forza è molto debole. "Et erit fortitudo nostra ut favilla stupae" (Is 1,31). Dal che ne nasce, secondo dice il santo che l'anima priva della grazia non può stare senza nuovi peccati: "Quo fit, ut anima a gratia destituta diu evadere ulteriora peccata non possit". Ma oltre ciò, che pazzia sarebbe di taluno, se volesse giuocare e perdere volontariamente tutto il suo, sperando di rifarsi all'ultima partita? Questa è la pazzia di chi siegue a vivere tra' peccati, e spera poi nell'ultimo giorno della vita di rimediare al tutto. Può l'Etiope, o il pardo mutare il color della sua pelle? e come potrà far buona vita, chi ha fatto un lungo abito al male? "Si mutare potest Aethiops pellem suam, aut pardus varietates suas, et vos poteritis benefacere, cum didiceritis malum" (Ier 13,23). Quindi avviene che il male abituato in fine si abbandona alla disperazione, e così finisce la vita. "Qui vero mentis est durae, corruet in malum" (Prov 28,14).


S. Gregorio su quel passo di Giobbe: "Concidit me vulnere super vulnus, irruit in me quasi gigas" (Iob 16,15): dice il santo così: Se taluno è assalito dal nemico, alla prima ferita che riceve resta forse anche abile a difendersi; ma quante più ferite riceve, tanto più perde le forze, sino che finalmente resta ucciso. Così fa il peccato; alla prima, alla seconda volta resta qualche forza al peccatore (s'intende sempre per mezzo della grazia che gli assiste), ma se poi egli seguita a peccare, il peccato si fa gigante, "irruit quasi gigas". All'incontro il peccatore, trovandosi più debole e con tante ferite, come potrà evitare la morte? Il peccato, al dire di Geremia, è come una gran pietra, che opprime l'anima: "Et posuerunt lapidem super me" (Thren 3,53). Or dice S. Bernardo esser sì difficile il risorgere ad un mal abituato, quando è difficile ad uno che sia caduto sotto un gran sasso, e che non ha forza di rimuoverlo per liberarsene: "Difficile surgit, quem moles malae consuetudinis premit".


Dunque, dirà quel mal abituato, io son disperato? No, non sei disperato, se vuoi rimediare. Ma ben dice un autore che ne' mali gravissimi vi bisognano gravissimi rimedi: "Praestat in magnis morbis a magnis auxiliis initium medendi sumere". Se ad un infermo che sta in pericolo di morte e non vuol prender rimedi, perché non sa la gravezza del suo male, gli dicesse il medico: Amico, sei morto, se non prendi la tal medicina. Che risponderebbe l'infermo? Eccomi, direbbe, pronto a prender tutto; si tratta di vita. Cristiano mio, lo stesso dico a te, se sei abituato in qualche peccato: stai male, e sei di quell'infermi, che "raro sanantur" (come dice S. Tommaso da Villanova); stai vicino a dannarti. Se non però vuoi guarirti, vi è il rimedio; ma non hai d'aspettare un miracolo della grazia; hai da farti forza dal canto tuo a toglier le occasioni, a fuggire i mali compagni, a resistere con raccomandarti a Dio, quando sei tentato; hai da prendere i mezzi, con confessarti spesso, leggere ogni giorno un libretto spirituale, prendere la divozione a Maria SS., pregandola continuamente che t'impetri forza di non ricadere. Hai da farti forza, altrimenti ti coglierà la minaccia del Signore contro gli ostinati: "In peccato vestro moriemini" (Io 8,21). E se non rimedi, or che Dio ti dà questa luce, difficilmente potrai rimediare appresso. Senti Dio che ti chiama: "Lazare, exi foras". Povero peccatore già morto, esci da questa oscura fossa della tua mala vita. Presto rispondi; e datti a Dio; e trema che questa non sia l'ultima chiamata per te.





INGANNI CHE IL DEMONIO METTE IN MENTE AI PECCATORI

Benché molti sentimenti di quelli, che si pongono in questa considerazione, sieno accennati nelle altre antecedenti, nondimeno giova qui metterli unitamente, per vincere gl'inganni usuali, con cui suole il demonio indurre i peccatori a ricadere.

PUNTO I

Figuriamo che un giovine, caduto in peccati gravi, se ne sia già confessato, ed abbia già ricuperata la divina grazia. Il demonio di nuovo lo tenta a ricadere: il giovine resiste ancora: ma già vacilla per gl'inganni, che gli suggerisce il nemico. Giovine, dico io, dimmi che vuoi fare? vuoi perdere ora la grazia di Dio, che già hai acquistata e che vale più di tutto il mondo, per questa tua misera soddisfazione? vuoi tu stesso scriverti la sentenza di morte eterna, e condannarti ad ardere per sempre nell'inferno? "No", tu mi dici, "non voglio dannarmi, voglio salvarmi; se farò questo peccato, appresso me lo confesserò". Ecco il primo inganno del tentatore. Dunque mi dici che appresso te lo confesserai; ma frattanto già perdi l'anima. Dimmi se avessi in mano una gioia, che valesse mille ducati, la butteresti tu in un fiume con dire: appresso farò diligenza e spero di ritrovarla? Tu hai in mano questa bella gioia dell'anima tua che Gesù Cristo l'ha comprata col suo sangue, e tu la butti volontariamente nell'inferno (poiché peccando secondo la presente giustizia già resti dannato) e dici: Ma spero di ricuperarla colla confessione? Ma se poi non la ricuperi? Per ricuperarla vi bisogna un vero pentimento, il quale è dono di Dio; se Dio questo pentimento non te lo dà? E se viene la morte, e ti leva il tempo di confessarti?

Dici che non farai passare una settimana, e te lo confesserai. E chi ti promette questa settimana di tempo? Dici che te lo confesserai domani, e chi ti promette questo domani? Scrive S. Agostino: "Crastinum Deus non promisit, fortasse dabit, et fortasse non dabit". Questo giorno di domani non te l'ha promesso Dio; forse te lo darà e forse te lo negherà, come l'ha negato a tanti, i quali si son posti vivi a letto la sera, e la mattina si son trovati morti di subito. Quanti nello stesso atto del peccato il Signore l'ha fatti morire, e l'ha mandati all'inferno? E se fa lo stesso con te, come potrai più rimediare alla tua ruina eterna? Sappi che con quest'inganno di dire, "poi me lo confesso", il demonio ne ha portati migliaia e migliaia di cristiani all'inferno, poiché difficilmente si trova un peccatore, sì disperato, che voglia proprio dannarsi; tutti allorché peccano, peccano colla speranza di confessarsi, ma così poi tanti miserabili si son dannati, ed ora non possono più rimediarvi.

Ma tu dici: "Ora non mi fido di resistere a questa tentazione". Ecco il secondo inganno del demonio, il quale ti fa apparire che tu non hai forza di resistere alla passione presente. Primieramente bisogna che sappi che Dio (come dice l'Apostolo) è fedele, e non permette mai che noi siam tentati oltre le nostre forze: "Fidelis autem Deus est, qui non patietur vos tentari supra id quod potestis" (1 Cor 10,13). Di più io ti dimando: Se ora non ti fidi di resistere, come ti fiderai appresso? Appresso il nemico non lascerà di tentarti ad altri peccati, ed allora egli sarà fatto assai più forte contra di te, e tu più debole. Se dunque non ti fidi ora di spegner questa fiamma, come ti fiderai di spegnerla, dopo ch'ella sarà fatta più grande? Dici: Dio mi darà l'aiuto suo. Ma Dio questo aiuto già presentemente te lo dà; perché tu con questo aiuto non vuoi resistere? Speri forse che Dio abbia da accrescerti gli aiuti e le grazie, dopo che tu hai accresciuti i peccati? E se vuoi al presente maggior aiuto e forza, perché non lo domandi a Dio? Dubiti forse della fedeltà di Dio, che ha promesso di dare tutto ciò che gli si cerca? "Petite et dabitur vobis" (Matth 7,7). Iddio non può mancare, ricorri a Lui, ed egli ti darà quella forza che ti bisogna per resistere. "Deus impossibilia non iubet", parla il concilio di Trento, "sed iubendo monet et facere quod possis, et petere quod non possis, et adiuvat ut possis". Dio non comanda cose impossibili, ma dando i precetti, ci ammonisce a fare quel che possiamo coll'aiuto attuale che ci dà; quando quell'aiuto non ci bastasse a resistere, ci esorta a cercare maggior aiuto, e chiedendolo allora ben Egli ce lo darà.

PUNTO II

Dice: "Dio è di misericordia". Ecco il terzo inganno comune de' peccatori, per cui moltissimi si dannano. Scrive un dotto autore che ne manda più all'inferno la misericordia di Dio, che non ne manda la giustizia; perché questi miserabili, confidano temerariamente alla misericordia, non lasciano di peccare, e così si perdono. Iddio è di misericordia, chi lo nega; ma ciò non ostante, quanti ogni giorno Dio ne manda all'inferno! Egli è misericordioso, ma è ancora giusto, e perciò è obbligato a castigare chi l'offende. Egli usa misericordia, ma a chi? a chi lo teme. "Misericordia sua super timentes se... Misertus est Dominus timentibus se" (Ps 102,11.13). Ma con chi lo disprezza e si abusa della sua misericordia per più disprezzarlo, Egli usa giustizia. E con ragione; Dio perdona il peccato, ma non può perdonare la volontà di peccare. Dice S. Agostino che chi pecca col pensiero di pentirsene dopo d'aver peccato, egli non è penitente, ma è uno schernitore di Dio: "Irrisor est, non poenitens". Ma all'incontro ci fa sapere l'Apostolo che Dio non si fa burlare: "Nolite errare, Deus non irridetur" (Gal 6,7). Sarebbe un burlare Dio offenderlo come piace, e quanto piace, e poi pretendere il paradiso.

"Ma siccome Dio m'ha usate tante misericordie per lo passato, e non m'ha castigato, così spero che mi userà misericordia per l'avvenire". Ecco il quarto inganno. Dunque perché Dio ha avuta compassione di te, per questo ti ha da usare sempre misericordia, e non ti ha da castigare mai? Anzi no, quanto più sono state le misericordie, che Egli t'ha usate, tanto più devi tremare, che non ti perdoni più e ti castighi, se di nuovo l'offendi. "Ne dicas: Peccavi, et quid accidit mihi triste? Altissimus enim est patiens redditor" (Eccli 5,4). Non dire (avverte l'Ecclesiastico), ho peccato e non ho avuto alcun castigo; perché Dio sopporta; ma non sopporta sempre. Quando giunge il termine da Lui stabilito delle misericordie, che vuol usare ad un peccatore, allora gli dà il castigo tutto insieme de' suoi peccati. E quanto più l'ha aspettato a penitenza, tanto più lo punisce, come dice S. Gregorio: "Quos diutius exspectat, durius damnat".

Se dunque tu vedi, fratello mio, che molte volte hai offeso Dio, e Dio non t'ha mandato all'inferno, dei dire: "Misericordiae Domini, quia non sumus consumti" (Thren 3,22). Signore, ti ringrazio, che non m'hai mandato all'inferno, com'io meritava. Pensa, quanti per meno peccati de' tuoi si son dannati. E con questo pensiero cerca di compensare l'offese, che hai fatte a Dio, colla penitenza e con altre opere buone. Questa pazienza, che Dio ha avuta con te, dee animarti, non già a più disgustarlo, ma a più servirlo ed amarlo, vedendo ch'egli ha fatte a te tante misericordie, che non ha fatte agli altri.

PUNTO III

"Ma io son giovine; Dio compatisce la gioventù; appresso mi darò a Dio". Siamo al quinto inganno. Sei giovine? ma non sai che Dio non conta gli anni: ma conta i peccati di ciascuno? Sei giovine? ma quanti peccati hai fatti? Vi saranno molti vecchi, che non saranno giunti a far neppure la decima parte de' peccati da te commessi. E non sai che 'l Signore ha stabilito il numero e la misura de' peccati, che a ciascun vuol perdonare? "Dominus patienter exspectat", dice la Scrittura, "ut eas, cum iudicii dies advenerit, in plenitudine peccatorum puniat" (2 Machab 6,14). Viene a dire che Dio ha pazienza ed aspetta sino a certo segno, ma quando è già piena la misura de' peccati, ch'egli ha determinata di perdonare, non più perdona, e castiga il peccatore, o con mandargli subito la morte nello stato in cui si trova di dannazione, o pure l'abbandona nel suo peccato, il quale castigo è peggior della morte. "Auferam sepem eius, et erit in direptionem" (Isa 5,5). Se voi avete un territorio e l'avete circondato di siepe, l'avete coltivato per più anni, e vi avete fatte molte spese, e vedete che 'l territorio con tutto ciò non vi rende alcun frutto; voi che fate? ne togliete la siepe, e lo lasciate in abbandono. Così tremate, che Dio non faccia con voi. Se voi seguirete a peccare, anderete perdendo il rimorso della coscienza, non penserete più né all'eternità, né all'anima vostra, perderete quasi ogni luce, perderete il timore: ecco tolta la siepe, ed ecco già arrivato l'abbandono di Dio.

Veniamo all'ultimo inganno. Voi dite: "È vero che con questo peccato io perdo la grazia di Dio, e resto condannato all'inferno, e può già essere che per questo peccato mi danno; ma può essere ancora ch'io appresso mi confessi e mi salvi". Sì signore, io te lo concedo che può essere che ancora ti salvi, perché finalmente io non son profeta, perciò non posso dire per certo che dopo questo peccato Dio non ti userà più misericordia. Ma non mi puoi negare che dopo tante grazie che 'l Signore t'ha fatte, se ora lo torni ad offendere, è molto facile che resti perduto. Così parlano le Scritture: "Cor durum male habebit in novissimo" (Eccli 3,27). Il cuore ostinato in morte anderà male. "Qui malignantur, exterminabuntur" (Ps 36,9). I maligni finalmente saranno esterminati dalla divina giustizia. "Quae seminaverit homo, haec et metet" (Gal 6,8). Chi semina peccati, in fine non raccoglierà che pene e tormenti. "Vocavi, et renuistis... in interitu vestro ridebo, et subsannabo vos" (Prov 1,24). Vi ho chiamati, dice Dio, e voi vi siete burlati di me; nella vostra morte io mi burlerò di voi. "Mea est ultio, et ego retribuam in tempore" (Deut 32,35). A me spetta la vendetta de' peccati, ed io te la renderò, quando giungerà il tempo. Così dunque parlano le Scritture de' peccatori ostinati. Così cerca la giustizia e la ragione. Tu mi dici: "Ma può essere che con tutto questo pure mi salvi". Ed io ritorno a dire che sì signore, può essere: ma che pazzia, dico, è l'appoggiare la salute eterna dell'anima ad un "può essere", e ad un "può essere" poi così diffícile? È negozio questo da metterlo in sì gran pericolo?



IL GIUDIZIO PARTICOLARE

Omnes enim nos manifestari oportet ante tribunal Christi (2 Cor 5,10)

PUNTO I

Consideriamo la comparsa, l'accusa, l'esame e la sentenza. E parlando prima della comparsa dell'anima dinanzi al giudice, è comune sentenza de' Teologi che il giudizio particolare si fa nel punto stesso che l'uomo spira; e che nel luogo medesimo dove l'anima si separa dal corpo, ella è giudicata da Gesù Cristo, il quale non manderà, ma verrà Egli stesso a giudicar la di lei causa. "Qua hora non putatis, Filius hominis veniet" (Luc 12,40). "Veniet nobis in amore (dice S. Agostino), impiis in tremore". Oh quale spavento avrà chi vedrà la prima volta il Redentore, e lo vedrà sdegnato! "Ante faciem indignationis eius quis stabit?" (Naum 1,6). Ciò considerando il P. Luigi da Ponte, tremava in tal modo, che facea tremare anche la cella dove stava. il V. P. Giovenale Ancina, sentendo cantare la "Dies illa", al pensiero del terrore che avrà l'anima in dovere esser presentata al giudizio, risolse di lasciar il mondo, come in effetto lo lasciò. Il vedere lo sdegno del giudice sarà l'avviso della condanna: "Indignatio regis, nuntii mortis" (Prov 16,14). Dice S. Bernardo che allora l'anima patirà più in vedere Gesù sdegnato, che nello stare nel medesimo inferno: "Mallet esse in inferno".

Alle volte si son veduti i rei sudar freddo, in esser presentati avanti a qualche giudice di terra. Pisone comparendo in senato colla veste da reo, sentì tanta confusione che volontariamente si uccise. Che pena è ad un figlio, o ad un vassallo vedere il padre, o il principe gravemente sdegnato? Oh qual altra pena maggiore proverà quell'anima in vedere Gesù Cristo da lei in vita disprezzato! "Videbunt in quem transfixerunt" (Zach 12,10). Quell'agnello che in vita ha avuta tanta pazienza, l'anima poi lo vedrà irato, senza speranza più di placarlo; ciò la indurrà a pregare i monti a caderle sopra, e così nasconderla dal furore dell'agnello sdegnato. "Montes cadite super nos, abscondite nos ab ira Agni" (Apoc 6,16). Dice S. Luca parlando del giudizio: "Tunc videbunt Filium hominis" (Luc 21,27). Il vedere il giudice in forma d'uomo, oh qual pena apporterà al peccatore! perché dalla vista di tal uomo morto per la sua salute, si sentirà maggiormente rimproverare la sua ingratitudine. Quando il Salvatore ascese al cielo, dissero gli angeli a' discepoli: "Hic Iesus qui assumptus est a vobis in coelum, sic veniet, quemadmodum vidistis eum euntem in coelum" (Act 1,11). Verrà dunque il giudice a giudicare colle stesse piaghe, colle quali si partì dalla terra. "Grande gaudium intuentium! grandis timor exspectantium", dice Ruperto. Quelle piaghe consoleranno i giusti, ma spaventeranno i peccatori. Allorché Giuseppe disse a' fratelli: "Ego sum Ioseph, quem vendidistis", dice la Scrittura che quelli per lo terrore si tacquero, e perderono la parola: "Non poterant respondere fratres, nimio terrore perterriti" (Gen 45,3). Or che risponderà il peccatore a Gesù Cristo? Forse avrà animo di cercargli pietà; quando primieramente dovrà rendergli conto del disprezzo ch'ha fatto della pietà usatagli? "Qua fronte (Eusebio Emisseno) misericordiam petes, primum de misericordiae contemtu iudicandus?". Che farà dunque, dice S. Agostino; dove fuggirà, quando vedrà di sopra il giudice sdegnato, di sotto l'inferno aperto, da un lato i peccati che l'accusano, dall'altro i demoni accinti ad eseguir la pena, e di dentro la coscienza che rimorde? "Superius erit iudex iratus, inferius horrendum chaos, a dextris peccata accusantia, a sinistris daemonia ad supplicium trahentia, intus conscientia urens? quo fugiet peccator sic comprehensus?".

PUNTO II

Considera l'accusa e l'esame. "Iudicium sedit, et libri aperti sunt" (Dan 9). Due saranno questi libri, il Vangelo e la coscienza. Nel Vangelo si leggerà quel che il reo doveva fare, nella coscienza quel che ha fatto: "Videbit unusquisque quod fecit", S. Girolamo. Nella bilancia della divina giustizia non si peseranno allora le ricchezze, la dignità e la nobiltà delle persone, ma solamente l'opere. "Appensus es in statera (disse Daniele al re Baltassarre), et inventus es minus habens" (Dan 5,27). Commenta il P. Alvarez: "Non aurum, non opes in stateram veniunt, solus rex appensus est". Verranno allora gli accusatori, e per prima il demonio. "Praesto erit diabolus (dice S. Agostino) ante tribunal Christi, et recitabit verba professionis tuae. Obiiciet nobis in faciem omnia quae fecimus, in qua die, in qua hora peccavimus". "Recitabit verba professionis tuae", viene a dire che presenterà le stesse nostre promesse, alle quali poi abbiamo mancato; ed addurrà tutte le colpe, segnando il giorno e l'ora in cui l'abbiamo commesse. Indi dirà al giudice, come scrive S. Cipriano: "Ego pro istis nec alapas, nec flagella sustinui". Signore, io per questo reo non ho patito niente, ma esso ha lasciato Voi che siete morto per salvarlo, per farsi schiavo mio; ond'esso a me tocca. Accusatori saranno anche gli angeli custodi, come dice Origene: "Unusquisque Angelorum testimonium perhibet, quot annis circa eum laboraverit, sed ille monita sprevit". Sicché allora: "Omnes amici eius spreverunt eam" (Ier 51). Accusatrici saranno le mura, tra le quali quel reo avrà peccato! "Lapis de pariete clamabit" (Abac 2,11). Accusatrice sarà la stessa coscienza: "Testimonium reddente illis conscientia ipsorum in die, cum iudicabit Deus" (Rom 2). Gli stessi peccati allora, dice S. Bernardo, parleranno, "et dicent: Tu nos fecisti, opera tua sumus, non te deseremus". Accusatrici finalmente saranno, come dice il Grisostomo, le piaghe di Gesù Cristo: "Clavi de te conquerentur: cicatrices contra te loquentur: crux Christi contra te perorabit". Indi si verrà all'esame.

Dice il Signore: "Ego in die illa scrutabor Ierusalem in lucernis" (Soph 1,12). La lucerna, dice il Mendoza, penetra tutti gli angoli della casa: "Lucerna omnes angulos permeat". E Cornelio a Lapide, spiegando la parola "in lucernis", dice che allora Dio metterà avanti al reo gli esempi de' santi e tutt'i lumi ed ispirazioni che gli ha dato in vita; ed anche tutti gli anni che gli ha concessi a far bene. "Vocavit adversum me tempus" (Thren 1,15). Sicché allora avrai da render conto d'ogni occhiata. "Exigitur a te usque ad ictum oculi", S. Anselmo. "Purgabit filios Levi, et colabit eos" (Malach 3,3). Siccome si cola l'oro, separandone la scoria, così si avranno da esaminare le opere buone, le confessioni, le comunioni ecc. "Cum accepero tempus, ego iustitias iudicabo" (Ps 74,3). In somma, dice S. Pietro che nel giudizio il giusto appena si salverà: "Si iustus vix salvabitur, impius et peccator ubi parebunt?" (1 Petr 4,18). Se ha da rendersi conto d'ogni parola oziosa, qual conto si renderà di tanti mali pensieri acconsentiti? di tante parole disoneste? S. Gregorio: "Si de verbo otioso ratio poscitur, quid de verbo impuritatis?". Specialmente dice il Signore (parlando degli scandalosi che gli han rubate l'anime): "Occuram eis quasi ursa raptis catulis" (Osea 13,8). Parlando poi dell'opere dirà il giudice: "Date ei de fructu manuum suarum" (Prov 31). Pagatelo secondo le opere che ha fatte.

PUNTO III

In somma l'anima per conseguir la salute eterna, ha da trovarsi nel giudizio colla vita fatta conforme alla vita di Gesù Cristo. "Quos praescivit, et praedestinavit conformes fieri imaginis Filii sui" (Rom 8,29). Ma ciò era quello che faceva tremare Giobbe. "Quid faciam, cum surrexerit ad iudicandum Deus? et cum quaesierit, quid respondebo illi?". Filippo II, avendogli un suo domestico detta una bugia, lo rimproverò dicendogli: "Così m'inganni?". Quel miserabile ritornato in casa, se ne morì di dolore. Che farà, che risponderà il peccatore a Gesù Cristo giudice? Farà quel che fece colui del Vangelo, che venne senza la veste nuziale, tacque, non sapendo che rispondere. "At ille obmutuit" (Matth 22,12). Lo stesso peccato gli otturerà la bocca: "Omnis iniquitas oppilabit os suum" (Psal 106,42). Dice S. Basilio che 'l peccatore allora sarà più tormentato dal rossore, che dallo stesso fuoco dell'inferno: "Horridior, quam ignis, erit pudor".

Ecco finalmente il giudice darà la sentenza. "Discede a me, maledicte, in ignem aeternum". Oh che tuono terribile sarà questo! "Oh quam terribiliter personabit tonitruum illud!", il Cartusiano. Dice S. Anselmo: "Qui non tremit ad tantum tonitruum, non dormit, sed mortuus est". E soggiunge Eusebio che sarà tanto lo spavento de' peccatori in sentirsi proferir la condanna, che se potessero morire, di nuovo morirebbero: "Tantus terror invadet malos, cum viderint iudicem sententiam proferentem, ut nisi essent immortales, iterum morerentur". Allora, dice S. Tommaso da Villanova, non si dà più luogo a preghiere; né vi sono più intercessori, a cui ricorrere: "Non ibi precandi locus; nullus intercessor assistet, non amicus, non pater". A chi allora dunque ricorreranno? Forse a Dio, che han così disprezzato? "Quis te eripiet, Deusne ille, quem contempsisti?" (S. Basilio). Forse a' santi? a Maria? No, perché allora: "Stellae (che sono i santi avvocati) cadent de coelo; et luna (ch'è Maria) non dabit lumen suum" (Matth 24). Dice S. Agostino: "Fugiet a ianua paradisi Maria".

Oh Dio, esclama S. Tommaso da Villanova, e con quale indifferenza sentiamo parlar del giudizio, quasi a noi non potesse toccar la sentenza di condanna! o come noi non avessimo ad esser giudicati! "Heu quam securi haec dicimus, et audimus, quasi nos non tangeret haec sententia, aut quasi dies ille nunquam esset venturus!". E qual pazzia, soggiunge lo stesso santo, è lo star sicuro in cosa di tanto pericolo! "Quae est ista stulta securitas in discrimine tanto!". Non dire, fratello mio, ti avverte S. Agostino: Eh che Dio vorrà proprio mandarmi all'inferno? "Nunquid Deus vere damnaturus est?". Nol dire, dice il santo, perché anche gli ebrei non sel persuadevano d'esser esterminati; tanti dannati non sel credevano d'esser mandati all'inferno; ma poi è venuta la fine del castigo: "Finis venit, venit finis: nunc immittam furorem meum in te, et iudicabo" (Ez 7,6). E così ancora, dice S. Agostino, avverrà anche a te: "Veniet iudicii dies, et invenies verum, quod minatus est Deus". Al presente a noi sta di sceglier la sentenza che vogliamo: "In potestate nostra (dice S. Eligio) datur, qualiter iudicemur". E che abbiamo da fare? aggiustare i conti prima del giudizio: "Ante iudicium para iustitiam" (Eccli 18,19). Dice S. Bonaventura che i mercanti prudenti, per non fallire, spesso rivedono ed aggiustano i conti. "Iudex ante iudicium placari potest, in iudicio non potest", S. Agostino. Diciamo dunque al Signore, come diceva S. Bernardo: "Volo iudicatus praesentari, non iudicandus". Giudice mio, voglio che ora in vita mi giudicate e mi punite, or ch'è tempo di misericordia, e mi potete perdonare; perché dopo morte sarà tempo di giustizia.




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09/07/2019 23:39

IL GIUDIZIO UNIVERSALE


Cognoscetur Dominus iudicia faciens (Ps 9,17)


PUNTO I


Al presente, se ben si considera, non v'è nel mondo persona più disprezzata di Gesù Cristo. Si fa più conto d'un villano che non si fa conto di Dio; perché si teme che quel villano, vedendosi troppo offeso, mosso a sdegno, si vendichi: ma a Dio si fanno ingiurie, e se gli replicano alla libera, come se Dio non potesse vendicarsi, quando vuole. "Et quasi nihil possit facere Omnipotens, aestimabant eum" (Iob 22,17). Ma perciò il Redentore ha destinato un giorno, che sarà il giorno del giudizio universale (chiamato appunto dalle Scritture, "Dies Domini"), nel quale Gesù Cristo vorrà farsi conoscere per quel gran Signore ch'Egli è. "Cognoscetur Dominus iudicia faciens" (Psal 9,17). Quindi un tal giorno si chiama non più giorno di misericordia e di perdono, ma "Dies irae, dies tribulationis, et angustiae, dies calamitatis, et miseriae" (Soph 1,15). Sì, perché allora giustamente vorrà il Signore risarcirsi l'onore, che han cercato di torgli i peccatori in questa terra. Vediamo come avverrà il giudizio di questo gran giorno.


Prima di venire il giudice, "Ignis ante Ipsum praecedet" (Psal 96,3). Verrà fuoco dal cielo, che brucerà la terra e tutte le cose di questa terra. "Terra, et quae in ipsa sunt opera, exurentur" (2 Petr 3,10). Sicché palagi, chiese, ville, città, regni, tutti han da diventare un mucchio di cenere. Dee purgarsi col fuoco questa casa appestata di peccati. Ecco il fine che avran da avere tutte le ricchezze, le pompe e le delizie di questa terra. Morti che saranno gli uomini, suonerà la tromba e tutti risorgeranno. "Canet enim tuba, et mortui resurgent" (1 Cor 15,52). Dice S. Girolamo: "Quoties diem iudicii considero, contremisco; semper videtur illa tuba insonare auribus meis: Surgite, mortui, venite ad iudicium". Al suono di questa tromba scenderanno l'anime belle de' beati ad unirsi coi loro corpi, con cui han servito a Dio in questa vita; e l'anime infelici de' dannati saliranno dall'inferno ad unirsi con quei corpi maledetti, co' quali hanno offeso Dio.


Oh che differenza ci sarà allora tra i corpi de' beati e quelli dei dannati. I beati compariranno belli, candidi, risplendenti più che il sole. "Tunc iusti fulgebunt sicut sol" (Matth 13,43). Oh felice chi in questa vita sa mortificar la sua carne, con negarle i piaceri vietati; e per tenerla più a freno, le nega anche i gusti leciti del senso, la maltratta, come han fatto i santi! Oh quanto allora se ne troverà contento, come un S. Pietro d'Alcantara, che dopo morte disse a S. Teresa: "O felix poenitentia, quae tantam mihi promeruit gloriam!". All'incontro i corpi de' reprobi compariranno deformi, neri e puzzolenti. O che pena avrà allora il dannato in riunirsi col suo corpo! Corpo maledetto, dirà l'anima, che per contentare te io son perduta. E 'l corpo dirà: Anima maledetta, e tu che avevi in mano la ragione, perché mi hai conceduti quelli gusti, che han fatto perdere te e me per tutta l'eternità.


PUNTO II


Risorti che saranno gli uomini, sarà loro intimato dagli angeli che vadano tutti alla valle di Giosafat, per essere ivi giudicati: "Populi, populi in valle concisionis, quia iuxta est dies Domini" (Ioel 3,14). Radunati poi che saranno ivi, verranno gli angeli e segregheranno i reprobi dagli eletti. "Exibunt angeli, et separabunt malos de medio iustorum" (Matth 13,49). I giusti resteranno alla destra e i dannati saran cacciati alla sinistra. Che pena sarebbe a taluno il vedersi discacciato dalla conversazione o dalla chiesa! Ma quale altra pena sarà allora il vedersi discacciare dalla compagnia dei santi: "Quomodo putas impios confundendos, quando, segregatis iustis, fuerint derelicti!" (Auct. op. imperf.). Dice il Grisostomo che se i dannati non avessero altra pena, questa sola confusione basterebbe a fare il loro inferno: "Et si nihil ulterius paterentur, ista sola verecundia sufficeret eis ad poenam". Il figlio sarà separato dal padre, il marito dalla moglie, il padrone dal servo: "Unus assumetur, et alter relinquetur" (Matth 24,40). Dimmi, fratello mio, qual luogo pensi che allora ti toccherà? Vorresti trovarti alla destra? lascia dunque la via, che ti porta alla sinistra.


Ora in questa terra son tenuti per fortunati i principi, i ricchi, e son disprezzati i santi, che vivono poveri ed umili. O fedeli, che amate Dio, non vi accorate, in vedervi sì vilipesi e tribolati in questa terra: "Tristitia vertetur in gaudium" (Io 16,20). Allora voi sarete chiamati i veri fortunati, e avrete l'onore di esser dichiarati della corte di Gesù Cristo. Oh che bella figura che farà allora un S. Pietro di Alcantara, il quale fu vilipeso quasi apostata! un S. Giovanni di Dio, che fu trattato da pazzo! un S. Pietro Celestino, che avendo rinunziato il papato, morì dentro una carcere! Oh quali onori avranno allora tanti martiri straziati da' carnefici! "Tunc laus erit unicuique a Deo" (1 Cor 4,5). Ed oh che figura orribile all'incontro farà un Erode, un Pilato, un Nerone! e tanti altri grandi della terra, ma dannati! Oh amanti del mondo, alla valle, alla valle vi aspetto. Ivi senza dubbio muterete sentimenti. Ivi piangerete la vostra pazzia. Miseri, che per fare una breve comparsa sulla scena di questa terra, avrete poi a far ivi la parte di dannati nella tragedia del giudizio. Gli eletti dunque saran collocati alla destra; anzi per loro maggior gloria (secondo dice l'Apostolo) saranno sollevati in aria sovra le nubi, per andare cogli angeli ad incontro a Gesù Cristo, che ha da venire dal cielo: "Rapiemur cum illis in nubibus obviam Domino in aera" (1 Thess 4,17). E i dannati come tanti capretti destinati al macello, saran confinati alla sinistra, ad aspettare il loro giudice, che dovrà far la pubblica condanna di tutti i suoi nemici.


Ma ecco già si aprono i cieli, vengono gli angeli ad assistere al giudizio, e portano i segni della passione di Gesù Cristo: "Veniente Domino ad iudicium (dice S. Tommaso), signum crucis, et alia passionis indicia demonstrabuntur". Specialmente comparirà la croce: "Et tunc parebit signum Filii hominis in coelo, et tunc plangent omnes tribus terrae" (Matth 24,30). Dice Cornelio a Lapide: Oh come allora al veder la croce piangeranno i peccatori, che in vita non fecer conto della loro salute eterna, che tanto costò al Figlio di Dio! "Plangent qui salutem suam, quae Christo tam cara stetit, neglexerint". Allora dice il Grisostomo: "Clavi de te conquerentur, cicatrices contra te loquentur, crux Christi contra te perorabit". Assisteranno ancora come assessori a questo giudizio i santi Apostoli e tutti i loro imitatori, che insieme con Gesù Cristo giudicheranno le genti: "Fulgebunt iusti, iudicabunt nationes" (Sap 3,7). Verrà ancora ad assistere la Regina de' santi e degli angeli, Maria Santissima. In fine verrà l'eterno giudice in un trono di maestà e di luce. "Et videbunt Filium hominis venientem in nubibus coeli, cum virtute multa et maiestate" (Matth 24,31). "A facie eius cruciabuntur populi" (Ioel 2,6). La vista di Gesù Cristo consolerà gli eletti, ma a' reprobi ella apporterà più pena che lo stesso inferno: "Damnatis (dice S. Girolamo) melius esset inferni poenas, quam Domini praesentiam ferre". Dicea S. Teresa: Gesù mio, datemi ogni pena, e non mi fate vedere la vostra faccia sdegnata con me in quel giorno. E S. Basilio: "Superat omnem poenam confusio ista". Allora avverrà quel che predisse S. Giovanni che i dannati pregheranno i monti a cader loro sopra e nasconderli dalla vista del loro giudice irato: "Dicent autem montibus: Cadite super nos, et abscondite nos a facie sedentis super thronum, et ab ira Agni" (Apoc 6,6).


PUNTO III


Ma ecco già comincia il giudizio. Si aprono i processi, che saranno le coscienze di ciascuno: "Iudicium sedit et libri aperti sunt" (Dan 7,10). I testimoni contro i reprobi saranno per prima i demoni che diranno (secondo S. Agostino): "Aequissime Deus, iudica esse meum qui tuus esse noluit". Saran per secondo le proprie coscienze: "Testimonium reddente illis conscientia ipsorum" (Rom 2,15). Di più saran testimoni che grideranno vendetta, le stesse mura di quella casa dove i peccatori hanno offeso Dio. "Lapis de pariete clamabit" (Habac 2,11). Testimonio sarà finalmente lo stesso giudice, ch'è stato presente a tutte le offese a Lui fatte. "Ego sum iudex, et testis, dicit Dominus" (Ier 29,23). Dice S. Paolo che allora il Signore "illuminabit abscondita tenebrarum" (1 Cor 4,5). Farà vedere a tutti gli uomini i peccati de' reprobi più segreti e vergognosi, che in vita sono stati nascosti ancora a' confessori. "Revelabo pudenda tua in facie tua" (Nahum 3,5). I peccati degli eletti, vuole il Maestro delle sentenze con altri che allora non si manifesteranno, ma si troveranno coverti, secondo quel che disse Davide: "Beati quorum remissae sunt iniquitates, et quorum tecta sunt peccata" (Ps 31,1). All'incontro, dice S. Basilio che i peccati de' reprobi si vedranno da tutti con un'occhiata, come in un quadro: "Unico intuitu singula peccata velut in pictura noscentur". Dice S. Tommaso: Se nell'orto di Getsemani in dire Gesù Cristo, "Ego sum", caddero a terra tutti i soldati ch'eran venuti a prenderlo; che sarà quand'egli sedendo da giudice dirà a' dannati: Ecco io sono quello che Voi avete così disprezzato? "Quid faciet iudicaturus, qui hoc fecit iudicandus?".


Ma via su, già si viene alla sentenza. Si volterà prima Gesù Cristo agli eletti e dirà loro quelle dolci parole: "Venite, benedicti Patris mei, possidete paratum vobis regnum a constitutione mundi" (Matth 25,34). S. Francesco d'Assisi in essergli rivelato ch'era predestinato, non capiva in sé per la consolazione; qual gaudio sarà sentirsi dire allora dal giudice: Venite, figli benedetti, venite al regno; non vi sono più pene per voi, non vi è più timore, già siete e sarete salvi in eterno. Io vi benedico il sangue che sparsi per voi, e vi benedico le lagrime che voi avete sparse per li vostri peccati: andiamo su al paradiso, dove staremo sempre insieme per tutta l'eternità. Benedirà anche Maria SS. i divoti suoi, e l'inviterà a venir seco in cielo, e così cantando "Alleluia, alleluia", entreranno gli eletti in trionfo al paradiso a possedere, a lodare, ed amare Dio in eterno.


All'incontro i dannati rivolti a Gesù Cristo gli diranno: E noi miseri che ce ne abbiamo da fare? E voi, dirà l'eterno giudice, giacché avete rinunziata e disprezzata la mia grazia, "discedite a me, maledicti, in ignem aeternum" (Matth 25,41). "Discedite", spartitevi da me, ch'io non voglio vedervi, né sentirvi più. "Maledicti", andate ed andate maledetti, giacché avete disprezzata la mia benedizione. E dove, Signore, hanno da andare questi miserabili? "In ignem", nell'inferno a bruciare in anima e corpo. E per quanti anni, o per quanti secoli? Che anni, che secoli! "In ignem aeternum", per tutta l'eternità, mentre Dio sarà Dio. Dopo questa sentenza dice S. Efrem che i reprobi si licenzieranno dagli angeli, da' santi, da' congiunti e dalla divina Madre: "Valete iusti, vale crux, vale paradise. Valete patres ac filii, nullum siquidem vestrum visuri sumus ultra. Vale tu quoque Dei Genitrix Maria". E così in mezzo alla valle si aprirà poi un gran fossa, dove caderanno insieme demonii e dannati, i quali si sentiranno oh Dio dietro le spalle chiudere quelle porte, che non si avranno da aprire, mai, mai, mai più in eterno. O peccato maledetto, a qual fine infelice avrai un giorno da condurre tante povere anime! O anime infelici, a cui sta riservata una fine così lagrimevole!




LE PENE DELL'INFERNO

Et ibunt hi in supplicium aeternum (Matth 25,46)

PUNTO I

Due mali fa il peccatore, allorché pecca, lascia Dio sommo bene, e si rivolta alle creature: "Duo enim mala fecit populus meus, me dereliquerunt fontem aquae vivae, et foderunt sibi cisternas; cisternas dissipatas, quae continere non valent aquas" (Ier 2,13). Perché dunque il peccatore si volta alle creature con disgusto di Dio, giustamente nell'inferno sarà tormentato dalle stesse creature, dal fuoco e da' demonii, e questa è la pena del senso. Ma perché la sua colpa maggiore, dove consiste il peccato, è il voltare le spalle a Dio, perciò la pena principale che sarà nell'inferno, sarà la pena del danno. Ch'é la pena d'aver perduto Dio.

Consideriamo prima la pena del senso. È di fede che vi è l'inferno. In mezzo alla terra vi è questa prigione riservata al castigo de' ribelli di Dio. Che cosa è questo inferno? è il luogo de' tormenti. "In hunc locum tormentorum", così chiamò l'inferno l'Epulone dannato (Luc 16,28). Luogo di tormenti, dove tutti i sensi e le potenze del dannato hanno da avere il lor proprio tormento; e quanto più alcuno in un senso avrà offeso Dio, tanto più in quel senso avrà da esser tormentato: "Per quae peccat quis, per haec et torquetur" (Sap 11,17). "Quantum in deliciis fuit, tantum date illi tormentum" (Apoc 18,7). Sarà tormentata la vista colle tenebre. "Terram tenebrarum, et opertam mortis caligine" (Iob 10,21). Che compassione fa il sentire che un pover'uomo sta chiuso in una fossa oscura per mentre vive, per 40-50 anni di vita! L'inferno è una fossa chiusa da tutte le parti dove non entrerà mai raggio di sole o d'altra luce. "Usque in aeternum non videbit lumen" (Psal 48,20). Il fuoco che sulla terra illumina, nell'inferno sarà tutt'oscuro. "Vox Domini intercidentis flammam ignis" (Psal 28,7). Spiega S. Basilio: Il Signore dividerà dal fuoco la luce, onde tal fuoco farà solamente l'officio di bruciare, ma non d'illuminare; e lo spiega più in breve Alberto Magno: "Dividet a calore splendorem". Lo stesso fumo che uscirà da questo fuoco, componerà quella procella di tenebre, di cui parla S. Giacomo, che accecherà gli occhi de' dannati: "Quibus procella tenebrarum servata est in aeternum" (Iac 2,13). Dice S. Tommaso, che a' dannati è riservato tanto di luce solamente, quanto basta a più tormentarli. "Quantum sufficit ad videndum illa, quae torquere possunt". Vedranno in quel barlume di luce la bruttezza degli altri reprobi e de' demoni, che prenderanno forme orrende per più spaventarli.

Sarà tormentato l'odorato. Che pena sarebbe trovarsi chiuso in una stanza con un cadavere fracido? "De cadaveribus eorum ascendit foetor" (Is 34,3). Il dannato ha da stare in mezzo a tanti milioni d'altri dannati, vivi alla pena, ma cadaveri per la puzza che mandano. Dice S. Bonaventura che se un corpo d'un dannato fosse cacciato dall'inferno, basterebbe a far morire per la puzza tutti gli uomini. E poi dicono alcuni pazzi: Se vado all'inferno, non sono solo. Miseri! quanti più sono nell'inferno, tanto più penano. "Ibi (dice S. Tommaso) miserorum societas miseriam non minuet, sed augebit". Più penano (dico) per la puzza, per le grida e per la strettezza; poiché staran nell'inferno l'un sopra l'altro, come pecore ammucchiate in tempo d'inverno: "Sicut oves in inferno positi sunt" (Psal 48,15). Anzi più, staran come uve spremute sotto il torchio dell'ira di Dio. "Et ipse calcat torcular vini furoris irae Dei" (Apoc 19,15). Dal che ne avverrà poi la pena dell'immobilità. "Fiant immobiles quasi lapis" (Exod 15,16). Sicché il dannato siccome caderà nell'inferno nel giorno finale, così avrà da restare senza cambiare più sito e senza poter più muovere né un piede, né una mano, per mentre Dio sarà Dio.

Sarà tormentato l'udito cogli urli continui e pianti di quei poveri disperati. I demonii faranno continui strepiti. "Sonitus terroris semper in aure eius" (Iob 15,21). Che pena è quando si vuol dormire e si sente un infermo che continuamente si lamenta, un cane che abbaia, o un fanciullo che piange? Miseri dannati, che han da sentire di continuo per tutta l'eternità quei rumori e le grida di quei tormentati! Sarà tormentata la gola colla fame; avrà il dannato una fame canina: "Famem patientur ut canes" (Psal 58,15). Ma non avrà mai una briciola di pane. Avrà poi una tale sete, che non gli basterebbe tutta l'acqua del mare; ma non ne avrà neppure una stilla: una stilla ne domandava l'Epulone, ma questa non l'ha avuta ancora, e non l'avrà mai, mai.

PUNTO II

La pena poi che più tormenta il senso del dannato, è il fuoco del l'inferno, che tormenta il tatto. "Vindicta carnis impii ignis, et vermis" (Eccli 7,19). Che perciò il Signore nel giudizio ne fa special menzione: "Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum" (Matth 41). Anche in questa terra la pena del fuoco è la maggior di tutte; ma vi è tanta differenza dal fuoco nostro a quello dell'inferno, che dice S. Agostino che 'l nostro sembra dipinto. "In eius comparatione noster hic ignis depictus est". E S. Vincenzo Ferreri dice che a confronto il nostro è freddo. La ragione è, perché il fuoco nostro è creato per nostro utile, ma il fuoco dell'inferno è creato da Dio a posta per tormentare. "Longe alius (dice Tertulliano) est ignis, qui usui humano, alius qui Dei iustitiae deservit". Lo sdegno di Dio accende questo fuoco vendicatore. "Ignis succensus est in furore meo" (Ier 15,14). Quindi da Isaia il fuoco dell'inferno è chiamato spirito d'ardore: "Si abluerit Dominus sordes... in spiritu ardoris" (Is 4). Il dannato sarà mandato non al fuoco, ma nel fuoco: "Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum". Sicché il misero sarà circondato dal fuoco, come un legno dentro una fornace. Si troverà il dannato con un abisso di fuoco da sotto, un abisso di sopra, e un abisso d'intorno. Se tocca, se vede, se respira; non tocca, non vede, né respira altro che fuoco. Starà nel fuoco come il pesce nell'acqua. Ma questo fuoco non solamente starà d'intorno al dannato, ma entrerà anche dentro le sue viscere a tormentarlo. Il suo corpo diventerà tutto di fuoco, sicché bruceranno le viscere dentro del ventre, il cuore dentro del petto, le cervella dentro il capo, il sangue dentro le vene, anche le midolla dentro l'ossa: ogni dannato diventerà in se stesso una fornace di fuoco. "Pone eos ut clibanum ignis" (Ps 20,10). Taluni non possono soffrire di camminare per una via battuta dal sole, di stare in una stanza chiusa con una braciera, non soffrire una scintilla, che svola da una candela; e poi non temono quel fuoco, che divora, come dice Isaia: "Quis poterit habitare de vobis cum igne devorante?" (Is 33,14). Siccome una fiera divora un capretto, così il fuoco dell'inferno divora il dannato; lo divora, ma senza farlo mai morire. Siegui pazzo, dice S. Pier Damiani (parlando al disonesto), siegui a contentare la tua carne, che verrà un giorno in cui le tue disonestà diventeranno tutte pece nelle tue viscere, che farà più grande e più tormentosa la fiamma che ti brucerà nell'inferno: "Venit dies, imo nox, quando libido tua vertetur in picem, qua se nutriat perpetuus ignis in tuis visceribus". Aggiunge S. Girolamo che questo fuoco porterà seco tutti i tormenti e dolori che si patiscono in questa terra; dolori di fianco e di testa, di viscere, di nervi: "In uno igne omnia supplicia sentiunt in inferno peccatores". In questo fuoco vi sarà anche la pena del freddo. "Ad nimium calorem transeat ab aquis nivium" (Iob 24,19). Ma sempre bisogna intendere che tutte le pene di questa terra sono un'ombra, come dice il Grisostomo, a paragone delle pene dell'inferno: "Pone ignem, pone ferrum, quid, nisi umbra ad illa tormenta?".

Le potenze anche avranno il lor proprio tormento. Il dannato sarà tormentato nella memoria, col ricordarsi del tempo che ha avuto in questa vita per salvarsi, e l'ha speso per dannarsi; e delle grazie che ha ricevute da Dio, e non se ne ha voluto servire. Nell'intelletto, col pensare al gran bene che ha perduto, paradiso e Dio; e che a questa perdita non vi è più rimedio. Nella volontà, in vedere che gli sarà negata sempre ogni cosa che domanda. "Desiderium peccatorum peribit" (Ps 111,10). Il misero non avrà mai niente di quel che desidera, ed avrà sempre tutto quello che abborrisce, che saranno le sue pene eterne. Vorrebbe uscir da' tormenti, e trovar pace, ma sarà sempre tormentato, e non avrà mai pace.

PUNTO III

Ma tutte queste pene son niente a rispetto della pena del danno. Non fanno l'inferno le tenebre, la puzza, le grida e 'l fuoco; la pena che fa l'inferno è la pena di aver perduto Dio. Dice S. Brunone: "Addantur tormenta tormentis, ac Deo non priventur". E S. Gio. Grisostomo: "Si mille dixeris gehennas, nihil par dices illius doloris". Ed aggiunge S. Agostino che se i dannati godessero la vista di Dio, "nullam poenam sentirent, et infernus ipse verteretur in paradisum". Per intendere qualche cosa di questa pena, si consideri che se taluno perde (per esempio) una gemma, che valea 100 scudi, sente gran pena, ma se valea 200 sente doppia pena: se 400 più pena. In somma quanto cresce il valore della cosa perduta, tanto cresce la pena. Il dannato qual bene ha perduto? un bene infinito, ch'è Dio; onde dice S. Tommaso che sente una pena in certo modo infinita: "Poena damnati est infinita, quia est amissio boni infiniti".

Questa pena ora solo si teme da' santi. "Haec amantibus, non contemnentibus poena est", dice S. Agostino. S. Ignazio di Loiola dicea: Signore, ogni pena sopporto, ma questa no, di star privo di Voi. Ma questa pena niente si apprende da' peccatori, che si contentano di vivere i mesi e gli anni senza Dio, perché i miseri vivono fra le tenebre. In morte non però han da conoscere il gran bene che perdono. L'anima in uscire da questa vita, come dice S. Antonino, subito intende ch'ella è creata per Dio: "Separata autem anima a corpore intelligit Deum summum bonum et ad illud esse creatam". Onde subito si slancia per andare ad abbracciarsi col suo sommo bene; ma stando in peccato, sarà da Dio discacciata. Se un cane vede la lepre, ed uno lo tiene con una catena, che forza fa il cane per romper la catena ed andare a pigliar la preda? L'anima in separarsi dal corpo, naturalmente è tirata a Dio, ma il peccato la divide da Dio, e la manda lontana all'inferno. "Iniquitates vestrae diviserunt inter vos, et Deum vestrum" (Is 59,2). Tutto l'inferno dunque consiste in quella prima parola della condanna: "Discedite a me, maledicti". Andate, dirà Gesù Cristo, non voglio che vediate più la mia faccia. "Si mille quis ponat gehennas, nihil tale dicturus est, quale est exosum esse Christo" (S. Gio. Grisostomo). Allorché Davide condannò Assalonne a non comparirgli più davanti, fu tale questa pena ad Assalonne che rispose: Dite a mio padre, che o mi permetta di vedere la sua faccia o mi dia la morte (2 Reg 14,24). Filippo II ad un grande che vide stare irriverente in chiesa, gli disse: Non mi comparite più davanti. Fu tanta la pena di quel grande, che giunto alla casa se ne morì di dolore. Che sarà, quando Dio in morte intimerà al reprobo: Va via che io non voglio vederti più. "Abscondam faciem ab eo, et invenient eum omnia mala" (Deut 31,17). Voi (dirà Gesù a' dannati nel giorno finale) non siete più miei, io non sono più vostro. "Voca nomen eius, non populus meus, quia vos non populus meus, et ego non ero vester" (Osea 1,9).

Che pena è ad un figlio, a cui gli muore il padre, o ad una moglie quando le muore lo sposo, il dire: Padre mio, sposo mio, non t'ho da vedere più. Ah se ora udissimo un'anima dannata che piange, e le chiedessimo: Anima, perché piangi tanto? Questo solo ella risponderebbe: Piango, perché ho perduto Dio, e non l'ho da vedere più. Almeno potesse la misera nell'inferno amare il suo Dio, e rassegnarsi alla sua volontà. Ma no; se potesse ciò fare, l'inferno non sarebbe inferno; l'infelice non può rassegnarsi alla volontà di Dio, perché è fatta nemica della divina volontà. Né può amare più il suo Dio, ma l'odia e l'odierà per sempre; e questo sarà il suo inferno, il conoscere che Dio è un bene sommo e il vedersi poi costretto ad odiarlo, nello stesso tempo che lo conosce degno d'infinito amore. "Ego sum ille nequam privatus amore Dei", così rispose quel demonio, interrogato chi fosse da S. Caterina da Genova. Il dannato odierà e maledirà Dio, e maledicendo Dio, maledirà anche i beneficii che gli ha fatti, la creazione, la redenzione, i sagramenti, specialmente del battesimo e della penitenza, e sopra tutto il SS. Sagramento dell'altare. Odierà tutti gli angeli e santi ma specialmente l'angelo suo custode e i santi suoi avvocati, e più di tutti la divina Madre; ma principalmente maledirà le tre divine Persone, e fra queste singolarmente il Figlio di Dio, che un giorno è morto per la di lei salute, maledicendo le sue piaghe, il suo sangue, le sue pene e la sua morte.



L'ETERNITÀ DELL'INFERNO

Et ibunt hi in supplicium aeternum (Matth 25,46)

PUNTO I

Se l'inferno non fosse eterno, non sarebbe inferno. Quella pena che non dura molto, non è gran pena. A quell'infermo si taglia una postema, a quell'altro si foca una cancrena; il dolore è grande, ma perché finisce tra poco, non è gran tormento. Ma qual pena sarebbe, se quel taglio o quell'operazione di fuoco continuasse per una settimana, per un mese intero? Quando la pena è assai lunga, ancorché sia leggiera, come un dolore d'occhi, un dolore di mole, si rende insopportabile. Ma che dico dolore? anche una commedia, una musica che durasse troppo, o fosse per tutto un giorno, non potrebbe soffrirsi per lo tedio. E se durasse un mese? un anno? Che sarà l'inferno? dove non si ascolta sempre la stessa commedia, o la stessa musica: non vi è solo un dolore d'occhi, o di mole: non si sente solamente il tormento d'un taglio, o di un ferro rovente, ma vi sono tutti i tormenti, tutti i dolori; e per quanto tempo? per tutta l'eternità: "Cruciabuntur die ac nocte in saecula saeculorum" (Apoc 20,10).

Quest'eternità è di fede; non è già qualche opinione, ma è verità attestataci da Dio in tante Scritture: "Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum" (Matth 25,41). "Et hi ibunt in supplicium aeternum" (Matth 25,46). "Poenas dabunt in interitu aeternas" (2 Thess 1,9). "Omnis igne salietur" (Marc 9,48). Siccome il sale conserva le cose, così il fuoco dell'inferno nello stesso tempo che tormenta i dannati, fa l'officio di sale conservando loro la vita. "Ignis ibi consumit (dice S. Bernardo), ut semper reservet".

Or qual pazzia sarebbe quella di taluno, che per pigliarsi una giornata di spasso, si volesse condannare a star chiuso in una fossa per venti, o trenta anni? Se l'inferno durasse cent'anni; che dico cento? durasse non più che due o tre anni, pure sarebbe una gran pazzia, per un momento di vil piacere, condannarsi a due o tre anni di fuoco. Ma non si tratta di trenta, di cento, né di mille, né di cento mila anni; si tratta d'eternità, si tratta di patire per sempre gli stessi tormenti, che non avranno mai da finire, né da alleggerirsi un punto. Hanno avuto ragione dunque i santi, mentre stavano in vita, ed anche in pericolo di dannarsi, di piangere e tremare. Il B. Isaia anche mentre stava nel deserto tra digiuni e penitenze, piangeva dicendo: Ah misero me, che ancora non sono libero dal dannarmi! "Heu me miserum, quia nondum a gehennae igne sum liber!".

PUNTO II

Chi entra una volta nell'inferno, di là non uscirà più in eterno. Questo pensiero facea tremare Davide, dicendo: "Neque absorbeat me profundum, neque urgeat super me puteus os suum" (Ps 68,16). Caduto ch'è il dannato in quel pozzo di tormenti, si chiude la bocca e non si apre più. Nell'inferno v'è porta per entrare, ma non v'è porta per uscire: "Descensus erit (dice Eusebio Emisseno), ascensus non erit". E così spiega le parole del Salmista: "Neque urgeat os suum; quia cum susceperit eos, claudetur sursum, et aperietur deorsum". Fintanto che il peccatore vive, sempre può avere speranza di rimedio, ma colto ch'egli sarà dalla morte in peccato, sarà finita per lui ogni speranza. "Mortuo homine impio, nulla erit ultra spes" (Prov 11,7). Almeno potessero i dannati lusingarsi con qualche falsa speranza, e così trovare qualche sollievo alla loro disperazione. Quel povero impiagato, confinato in un letto, è stato già disperato da' medici di poter guarire; ma pure si lusinga, e si consola con dire: Chi sa se appresso si troverà qualche medico e qualche rimedio che mi sani. Quel misero condannato alla galea in vita anche si consola, dicendo: Chi sa che può succedere, e mi libero da queste catene. Almeno (dico) potesse il dannato dire similmente così, chi sa se un giorno uscirò da questa prigione; e così potesse ingannarsi almeno con questa falsa speranza. No, nell'inferno non v'è alcuna speranza né vera né falsa, non vi è "chi sa". "Statuam contra faciem" (Ps 49,21). Il misero si vedrà sempre innanzi agli occhi scritta la sua condanna, di dover sempre stare a piangere in quella fossa di pene: "Alii in vitam aeternam, et alii in opprobrium, ut videant semper" (Dan 12,2). Onde il dannato non solo patisce quel che patisce in ogni momento, ma soffre in ogni momento la pena dell'eternità, dicendo: Quel che ora patisco, io l'ho da patire per sempre. "Pondus aeternitatis sustinet", dice Tertulliano.

Preghiamo dunque il Signore, come pregava S. Agostino: "Hic ure, hic seca, hic non parcas, ut in aeternum parcas". I castighi di questa vita passano. "Sagittae tuae transeunt, vox tonitrui tui in rota" (Ps 76,18). Ma i castighi dell'altra vita non passano mai. Di questi temiamo; temiamo di quel tuono ("vox tonitrui tui in rota"), s'intende di quel tuono della condanna eterna, che uscirà dalla bocca del giudice nel giudizio contro i reprobi: "Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum". E dice, "in rota"; la ruota è figura dell'eternità, a cui non si trova termine. "Eduxi gladium meum de vagina sua irrevocabilem" (Ez 21,5). Sarà grande il castigo dell'inferno, ma ciò che più dee atterrirci, è che sarà castigo irrevocabile.

Ma come, dirà un miscredente, che giustizia è questa? castigare un peccato che dura un momento con una pena eterna? Ma come (io rispondo) può aver l'ardire un peccatore per un gusto d'un momento offendere un Dio d'infinita maestà? Anche nel giudizio umano (dice S. Tommaso) la pena non si misura secondo la durazione del tempo, ma secondo la qualità del delitto: "Non quia homicidium in momento committitur, momentanea poena punitur". Ad un peccato mortale un inferno è poco: all'offesa d'una maestà infinita si dovrebbe un castigo infinito, dice S. Bernardino da Siena: "In omni peccato mortali infinita Deo contumelia irrogatur; infinitae autem iniuriae infinita debetur poena". Ma perché, dice l'Angelico la creatura non è capace di pena infinita nell'intensione, giustamente fa Dio che la sua pena sia infinita nella estensione.

Oltreché questa pena dee esser necessariamente eterna, prima perché il dannato non può più soddisfare per la sua colpa. In questa vita intanto può soddisfare il peccator penitente, in quanto gli sono applicati i meriti di Gesù Cristo; ma da questi meriti è escluso il dannato; onde non potendo egli placare più Dio, ed essendo eterno il suo peccato, eterna dee essere ancora la sua pena. "Non dabit Deo placationem suam, laborabit in aeternum" (Ps 48,8). Quindi dice il Belluacense: "Culpa semper poterit ibi puniri, et nunquam poterit expiari"; poiché al dire di S. Antonino "ibi peccator poenitere non potest"; e perciò il Signore starà sempre con esso sdegnato. "Populus cui iratus est Dominus usque in aeternum" (Malach 1,4). Di più il dannato, benché Dio volesse perdonarlo, non vuol esser perdonato, perché la sua volontà è ostinata e confermata nell'odio contro Dio. Dice Innocenzo III: "Non humiliabuntur reprobi, sed malignitas odii in illis excrescet". E S. Girolamo: "Insatiabiles sunt in desiderio peccandi". Ond'è che la piaga del dannato è disperata, mentre ricusa anche il guarirsi. "Factus est dolor eius perpetuus, et plaga desperabilis renuit curari" (Ier 15,18).

PUNTO III

La morte in questa vita è la cosa più temuta da' peccatori, ma nell'inferno sarà la più desiderata. "Quaerent mortem, et non invenient; et desiderabunt mori, et mors fugiet ab eis" (Apoc 9,6). Onde scrisse S. Girolamo: "O mors quam dulcis esses, quibus tam amara fuisti!". Dice Davide che la morte si pascerà de' dannati: "Mors depascet eos" (Psal 48,15). Spiega S. Bernardo che siccome la pecora pascendosi dell'erba, si ciba delle frondi, ma lascia le radici, così la morte si pasce de' dannati, gli uccide ogni momento, ma lascia loro la vita per continuare ad ucciderli colla pena in eterno: "Sicut animalia depascunt herbas, sed remanent radices; sic miseri in inferno corrodentur a morte, sed iterum reservabuntur ad poenas". Sicché dice S. Gregorio che il dannato muore ogni momento senza mai morire: "Flammis ultricibus traditus semper morietur". Se un uomo muore ucciso dal dolore, ognuno lo compatisce; almeno il dannato avesse chi lo compatisse. No, muore il misero per lo dolore ogni momento, ma non ha, né avrà mai chi lo compatisca. Zenone imperadore, chiuso in una fossa, gridava: Apritemi per pietà. Non fu da niuno inteso, onde fu ritrovato morto da disperato, poiché si avea mangiate le stesse carni delle sue braccia. Gridano i presciti dalla fossa dell'inferno, dice S. Cirillo Alessandrino, ma niuno viene a cacciarneli, e niuno ne ha compassione: "Lamentantur, et nullus eripit; plangunt et nemo compatitur".

E questa loro miseria per quanto tempo durerà? per sempre, per sempre. Narrasi negli Esercizi spirituali del P. Segneri Iuniore (scritti dal Muratori) che in Roma essendo dimandato il demonio, che stava nel corpo d'un ossesso, per quanto tempo doveva star nell'inferno; rispose con rabbia, sbattendo la mano su d'una sedia: "Sempre, sempre". Fu tanto lo spavento, che molti giovani del Seminario Romano, che ivi si trovavano, si fecero una confessione generale, e mutarono vita a questa gran predica di due parole: "Sempre, sempre". Povero Giuda! son passati già mille e settecento anni che sta nell'inferno, e l'inferno suo ancora è da capo. Povero Caino! egli sta nel fuoco da cinque mila e 700 anni, e l'inferno suo è da capo. Fu interrogato un altro demonio, da quanto tempo era andato all'inferno, e rispose: "Ieri". Come ieri, gli fu detto, se tu sei dannato da cinque mila e più anni? Rispose di nuovo: Oh se sapessivo che viene a dire eternità, bene intendereste che cinque mila anni non sono a paragone neppure un momento. Se un angelo dicesse ad un dannato: Uscirai dall'inferno, ma quando son passati tanti secoli, quante sono le goccie dell'acqua, le frondi degli alberi e le arene del mare, il dannato farebbe più festa, che un mendico in aver la nuova d'esser fatto re. Sì, perché passeranno tutti questi secoli, si moltiplicheranno infinite volte, e l'inferno sempre sarà da capo. Ogni dannato farebbe questo patto con Dio: Signore, accrescete la pena mia quanto volete; fatela durare quanto vi piace; metteteci termine, e son contento. Ma no, che questo termine non vi sarà mai. La tromba della divina giustizia non altro suonerà nell'inferno che "sempre, sempre, mai, mai".

Dimanderanno i dannati ai demoni: A che sta la notte? "Custos, quid de nocte?" (Is 21,11). Quando finisce? quando finiscono queste tenebre, queste grida, questa puzza, queste fiamme, questi tormenti? E loro è risposto: "Mai, mai". E quanto dureranno? "Sempre, sempre". Ah Signore, date luce a tanti ciechi, che pregati a non dannarsi, rispondono: All'ultimo, se vado all'inferno pazienza. Oh Dio, essi non hanno pazienza di sentire un poco di freddo, di stare in una stanza troppo calda, di soffrire una percossa; e poi avranno pazienza di stare in un mar di fuoco, calpestati da' diavoli e abbandonati da Dio e da tutti per tutta l'eternità!




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09/07/2019 23:45

RIMORSI DEL DANNATO


Vermis eorum non moritur (Marc 9,47)


PUNTO I


Per questo verme che non muore, spiega S. Tommaso che s'intende il rimorso di coscienza, dal quale eternamente sarà il dannato tormentato nell'inferno. Molti saranno i rimorsi con cui la coscienza roderà il cuore de' reprobi, ma tre saranno i rimorsi più tormentosi: il pensare al poco per cui si son dannati: al poco che dovean fare per salvarsi: e finalmente al gran bene che han perduto. Il primo rimorso dunque che avrà il dannato sarà il pensare per quanto poco s'è perduto. Dopo che Esaù ebbesi cibato di quella minestra di lenticchie, per cui avea venduta la sua primogenitura, dice la Scrittura che per lo dolore e rimorso della perdita fatta si pose ad urlare: "Irrugiit clamore magno" (Gen 27,34). Oh quali altri urli e ruggiti darà il dannato pensando che per poche soddisfazioni momentanee e avvelenate si ha perduto un regno eterno di contenti, e si ha da vedere eternamente condannato ad una continua morte! Onde piangerà assai più amaramente, che non piangeva Gionata, allorché videsi condannato a morte da Saulle suo padre, per essersi cibato d'un poco di mele. "Gustans gustavi paulum mellis, et ecce morior" (1 Reg 14,43). Oh Dio, e qual pena apporterà al dannato il vedere allora la causa della sua dannazione? Al presente che cosa a noi sembra la nostra vita passata, se non un sogno, un momento? Or che pareranno a chi sta nell'inferno quelli cinquanta, o sessanta anni di vita, che avrà vivuti in questa terra, quando si troverà nel fondo dell'eternità, in cui saranno già passati cento e mille milioni d'anni, e vedrà che la sua eternità allora comincia! Ma che dico cinquanta anni di vita? cinquanta anni tutti forse di gusti? e che forse il peccatore vivendo senza Dio, sempre gode ne' suoi peccati? quando durano i gusti del peccato? durano momenti; e tutto l'altro tempo per chi vive in disgrazia di Dio, è tempo di pene e di rancori. Or che pareranno quelli momenti di piaceri al povero dannato? e specialmente che parerà quell'uno ed ultimo peccato fatto, per lo quale s'è perduto? Dunque (dirà) per un misero gusto brutale ch'è durato un momento, e appena avuto è sparito come vento, io avrò da stare ad ardere in questo fuoco, disperato ed abbandonato da tutti, mentre Dio sarà Dio per tutta l'eternità!


PUNTO II


Dice S. Tommaso che questa sarà la pena principale de' dannati, il vedere che si son perduti per niente, e che con tanta facilità poteano acquistarsi la gloria del paradiso, se voleano: "Principaliter dolebunt, quod pro nihilo damnati sunt, et facillime vitam poterant consequi sempiternam". Il secondo rimorso dunque della coscienza sarà il pensare al poco che dovean fare per salvarsi. Comparve a S. Umberto un dannato e gli disse che quest'appunto era la maggiore afflizione, che cruciavalo nell'inferno, il pensiero del poco per cui s'era dannato, e del poco che avrebbe avuto a fare per salvarsi. Dirà allora il misero: S'io mi mortificava a non guardare quell'oggetto, se vincea quel rispetto umano, se fuggiva quell'occasione, quel compagno, quella conversazione, non mi sarei dannato. Se mi fossi confessato ogni settimana, se avessi frequentata la Congregazione, se avessi letto ogni giorno quel libretto spirituale, se mi fossi raccomandato a Gesù Cristo ed a Maria, non sarei ricaduto. Ho proposto tante volte di farlo, ma non l'ho eseguito; o pure l'ho cominciato a fare, e poi l'ho lasciato, e perciò mi son perduto.


Accresceranno la pena di questo rimorso gli esempi, che avrà avuti degli altri suoi buoni amici e compagni; e più l'accresceranno i doni che Dio gli avea concessi per salvarsi: doni di natura, come buona sanità, beni di fortuna, talenti che 'l Signore gli avea dati affin di bene impiegarli, e farsi santo: doni poi di grazia, tanti lumi, ispirazioni, chiamate, e tanti anni conceduti a rimediare il mal fatto: ma vedrà che in questo stato miserabile, al quale è arrivato, non v'è più tempo da rimediare. Sentirà l'Angelo del Signore che grida e giura: "Et Angelus, quem vidi stantem, iuravit per viventem in saecula saeculorum... quia tempus non erit amplius" (Apoc 10,6). Oh che spade crudeli saranno tutte queste grazie ricevute al cuore del povero dannato, allorché vedrà esser finito già il tempo di poter più dar riparo alla sua eterna ruina. Dirà dunque piangendo cogli altri suoi compagni disperati: "Transiit messis, finita est aestas, et nos salvati non sumus" (Ier 8,20). Dirà: Oh se le fatiche che ho fatte per dannarmi, l'avessi spese per Dio, mi troverei fatto un gran santo; ed ora che me ne trovo, se non rimorsi e pene, che mi tormenteranno in eterno? Ah che questo pensiero crucierà il dannato più che il fuoco, e tutti gli altri tormenti dell'inferno; il dire: Io poteva essere per sempre felice, ed ora ho da essere per sempre infelice.


PUNTO III


Il terzo rimorso del dannato sarà il vedere il gran bene, che ha perduto. Dice S. Giovanni Grisostomo che i presciti saranno più tormentati dalla perdita fatta del paradiso, che dalle stesse pene dell'inferno: "Plus coelo torquentur, quam gehenna". Disse l'infelice principessa Elisabetta regina d'Inghilterra: Diami Dio quarant'anni di regno, ed io gli rinunzio il paradiso. Ebbe la misera questi quarant'anni di regno, ma ora che l'anima sua ha lasciato questo mondo, che dice? certamente che non la sente così; oh come ora se ne troverà afflitta e disperata, pensando che per quarant'anni di regno terreno, posseduto fra timori ed angustie, ha perduto eternamente il regno del cielo.


Ma quello che più affliggerà in eterno il dannato, sarà il vedere che ha perduto il cielo e 'l sommo bene ch'è Dio, non già per sua mala sorte, o per malevolenza altrui, ma per propria colpa. Vedrà ch'egli è stato creato per lo paradiso; vedrà che Dio ha dato in mano di lui l'elezione a procurarsi, o la vita, o la morte eterna. "Ante hominem vita, et mors... quod placuerit ei dabitur illi" (Eccli 15,18). Sicché vedrà essere stato in mano sua, se voleva, il rendersi eternamente felice, e vedrà ch'egli da se stesso ha voluto precipitarsi in quella fossa di tormenti, dalla quale non potrà più uscirne, né vi sarà mai alcuno che procurerà di liberarnelo. Vedrà salvati tanti suoi compagni, che si saran trovati negli stessi, e forse maggiori pericoli di peccare, ma perché han saputo contenersi con raccomandarsi a Dio, o pure se vi son caduti, perché han saputo presto risorgere e darsi a Dio, si son salvati; ma egli perché non ha voluta finirla, è andato infelicemente a finir nell'inferno, in quel mare di tormenti, senza speranza di potervi più rimediare.


Fratello mio, se per lo passato ancora voi siete stato così pazzo, che avete voluto perdere il paradiso e Dio per un gusto miserabile, procurate di darvi presto rimedio ora ch'è tempo. Non vogliate seguire ad esser pazzo. Tremate di andare a piangere la vostra pazzia in eterno. Chi sa se questa considerazione che leggete, è l'ultima chiamata che vi fa Dio. Chi sa se ora non mutate vita, ad un altro peccato mortale che farete, il Signore v'abbandoni, e per questo poi vi manderà a penare eternamente tra quella ciurma di pazzi, che ora stanno all'inferno, e confessano il loro errore ("ergo erravimus"), ma lo confessano disperati, vedendo che al loro errore non v'è più rimedio. Quand'il demonio vi tenta a peccare di nuovo, ricordatevi dell'inferno, e ricorrete a Dio, alla SS. Vergine; il pensier dell'inferno vi libererà dall'inferno. "Memorare novissima tua, et in aeternum non peccabis" (Eccli 7), perché il pensier dell'inferno vi farà ricorrere a Dio.




IL PARADISO

Tristitia vestra vertetur in gaudium (Io 16,20)

PUNTO I

Procuriamo al presente di soffrir con pazienza le afflizioni di questa vita, offerendole a Dio in unione delle pene che patì Gesu Cristo per nostro amore; e facciamoci animo colla speranza del paradiso. Finiranno un giorno tutte queste angustie, dolori, persecuzioni, timori; e salvandoci, diventeranno per noi gaudii e contenti nel regno de' beati. Così ci fa animo il Signore: "Tristitia vestra vertetur in gaudium" (Io 16,20). Consideriamo dunque oggi qualche cosa del paradiso. Ma che diremo di questo paradiso, se neppure i santi più illuminati han saputo darci ad intendere le delizie, che Dio riserva a' suoi servi fedeli? Davide altro non seppe dirne che 'l paradiso è un bene troppo desiderabile: "Quam dilecta tabernacula tua, Domine virtutum!" (Ps 83,2). Ma voi almeno, S. Paolo mio, voi che aveste la sorte d'essere stato rapito a vedere il cielo ("Raptus in paradisum"), diteci qualche cosa di ciò che avete veduto. No, dice l'Apostolo, ciò che ho veduto, non è possibile spiegarlo. Son le delizie del paradiso: "Arcana verba, quae non licet homini loqui" (2 Cor 12,4). Sono sì grandi che non possono spiegarsi, se non si godono. Altro io non posso dirvi, dice l'Apostolo, che "oculus non vidit, nec auris audivit, neque in cor hominis ascendit, quae praeparavit Deus iis, qui diligunt illum" (1 Cor 2,9). Niun uomo in terra ha vedute mai, né udite, né comprese le bellezze, le armonie, i contenti, che Dio ha preparati a coloro che l'amano.

Non possiamo noi esser capaci de i beni del paradiso, perché non abbiamo altre idee, che de' beni di questa terra. Se i cavalli avessero mai il discorso, e sapessero che il padrone sposandosi ha preparato un gran banchetto, s'immaginerebbero che il banchetto non consisterebbe in altro, che in buona paglia, buona avena ed orzo: perché i cavalli non hanno idea d'altri cibi che di questi. Così pensiamo noi de i beni del paradiso. È bello il vedere in tempo d'està nella notte il cielo stellato: è gran delizia in tempo di primavera trovarsi in una marina, quando il mare è placido, in cui vi si vedono dentro scogli vestiti d'erba, e pesci che guizzano: è gran delizia il trovarsi in un giardino pieno di frutti e fiori, circondato da fontane che scorrono, e con uccelli che van volando e cantando d'intorno. Dirà taluno: Oh che paradiso! Che paradiso? che paradiso? altri sono i beni del paradiso. Per intendere qualche cosa in confuso del paradiso, si consideri ch'ivi sta un Dio onnipotente, impegnato a deliziare le anime che ama. Dice S. Bernardo: Vuoi sapere che cosa vi è in paradiso? "Nihil est quod nolis, totum est quod velis". Ivi non vi è cosa che dispiaccia, e vi è tutto quello che piace.

Oh Dio, che dirà l'anima in entrare in quel regno beato! Immaginiamoci che muoia quella verginella, o quel giovine, ch'essendosi consagrato all'amore di Gesu Cristo, arrivata la morte, lascia già questa terra. L'anima è presentata al giudizio, il giudice l'abbraccia e le dichiara ch'è salva. Le viene ad incontro l'Angelo Custode, e se ne rallegra; ella lo ringrazia dell'assistenza fattale, e l'Angelo poi le dice: Via su, anima bella, allegramente già sei salva, vieni a vedere la faccia del tuo Signore. Ecco l'anima già passa le nubi, le sfere, le stelle: entra nel cielo. Oh Dio, che dirà nel metter piede la prima volta in quella patria beata, e in dar la prima occhiata a quella città di delizie! Gli angeli e i santi le verranno ad incontro, e giubilando le daranno il benvenuto. Ivi che consolazione avrà in incontrarsi co' suoi parenti, o amici entrati già prima in paradiso, e co' suoi santi avvocati! Vorrà l'anima allora genuflettersi avanti di loro per venerarli, ma le diranno quei santi: "Vide ne faceris, conservus tuus sum" (Apoc 22,9). Indi sarà portata a baciare i piedi a Maria ch'è la Regina del paradiso. Qual tenerezza sentirà l'anima in conoscere di vista la prima volta quella divina Madre, che tanto l'ha aiutata a salvarsi! poiché allora vedrà l'anima tutte le grazie, che le ha ottenute Maria, dalla quale poi si vedrà amorosamente abbracciata. Indi dalla stessa Regina sarà l'anima condotta a Gesù, che la riceverà come sposa e le dirà: "Veni de Libano, sponsa mea, veni, coronaberis" (Cant 4,8). Sposa mia, allegramente, son finite le lagrime, le pene e i timori; ricevi la corona eterna, ch'io t'ho acquistata col mio sangue. Gesù stesso poi la porterà a ricever la benedizione dal suo Padre divino, che abbracciandola la benedirà dicendole: "Intra in gaudium Domini tui" (Matth 25,21). Ella sarà beata della medesima beatitudine ch'Egli gode.

PUNTO II

Entrata che sarà l'anima nella beatitudine di Dio, "nihil est quod nolit", non avrà cosa più che l'affanni. "Absterget Deus omnem lacrimam ab oculis eorum, et mors ultra non erit; neque luctus, neque clamor, neque dolor erit ultra; quia prima abierunt. Et dixit qui sedebat in throno: Ecce nova facio omnia" (Apoc 21,4). Nel paradiso non vi sono più infermità, non povertà, né incomodi: non vi sono più vicende di giorni e di notti, né di freddo o di caldo. Ivi è un continuo giorno sempre sereno, una continua primavera sempre deliziosa. Ivi non vi sono più persecuzioni o invidie; in quel regno d'amore tutti s'amano teneramente, e ciascuno gode del bene dell'altro come fosse suo. Non vi sono più timori, perché l'anima confermata in grazia non può più peccare e perdere il suo Dio. "Ecce nova facio omnia". Ogni cosa è nuova, ed ogni cosa consola e sazia. "Totum est quod velis". Ivi sarà contentata la vista, in rimirare quella città di perfetta bellezza: "Urbs perfecti decoris" (Thren 2,15). Che delizia sarebbe vedere una città, dove il pavimento delle vie fosse di cristallo, i palagi d'argento con i soffitti d'oro, e tutt'adorni di festoni di fiori? Oh quanto sarà più bella la città del paradiso! Che sarà poi vedere que' cittadini tutti vestiti alla regale, poiché tutti sono re, come parla S. Agostino: "Quot cives tot reges!" Che sarà veder Maria, che comparirà più bella che tutto il paradiso! Che sarà poi vedere l'Agnello divino, lo sposo Gesù! Santa Teresa appena vide una volta una mano di Gesu Cristo, rimase stupida per tanta bellezza. Sarà contentato l'odorato con quegli odori, ma odori di paradiso. Sarà contentato l'udito colle armonie celesti. S. Francesco intese una volta da un angelo una sola arcata di viola, ed ebbe a morirne per la dolcezza. Che sarà sentir tutt'i santi e gli angeli cantare a coro le glorie di Dio! "In saecula saeculorum laudabunt te" (Ps 83,5). Che sarà udir Maria che loda Dio! La voce di Maria in cielo, dice S. Francesco di Sales, sarà come d'un uscignuolo in un bosco, che supera il canto di tutti gli altri uccellini, che vi sono. In somma ivi son tutte le delizie, che possono desiderarsi.

Ma queste delizie sinora considerate sono i minori beni del paradiso. Il bene che fa il paradiso è il sommo bene ch'è Dio. "Totum quod exspectamus (dice S. Agostino), duae syllabae sunt, Deus". Il premio che il Signore ci promette, non sono solamente le bellezze, le armonie e gli altri gaudi di quella città beata: il premio principale è Dio medesimo, cioè il vedere e l'amare Dio da faccia a faccia. "Ego ero merces tua magna nimis" (Gen 15,1). Dice S. Agostino che se Dio facesse veder la sua faccia a' dannati, "continuo infernus ipse in amoenum converteretur paradisum". E soggiunge che se ad un'anima uscita da questa vita stesse ad eleggere o di veder Dio e star nelle pene dell'inferno, o pure di non vederlo ed esser liberata dall'inferno, "eligeret potius videre Dominum, et esse in illis poenis".

Questo gaudio di vedere e amar Dio da faccia a faccia, da noi in questa vita non può comprendersi; ma argomentiamone qualche cosa dal saper per prima che l'amor divino è così dolce, che anche in questa vita è giunto a sollevar da terra non solo l'anime, ma ancora i corpi de' santi. S. Filippo Neri fu una volta rapito in aria con tutto lo scanno a cui s'afferrò. S. Pietro d'Alcantara fu anche alzato da terra abbracciato ad un albero svelto sin dalle radici. In oltre sappiamo che i santi martiri per la dolcezza dell'amor divino giubilavano negli stessi tormenti. S. Vincenzo mentr'era tormentato, parlava in modo (dice S. Agostino) che "alius videbatur pati, alius loqui". S. Lorenzo stando sulla graticola sul fuoco, insultava il tiranno: "Versa, et manduca"; sì, dice lo stesso S. Agostino, perché Lorenzo, "hoc igne (del divino amore) accensus non sentit incendium". In oltre, che dolcezze prova un peccatore in questa terra, anche in piangere i suoi peccati! Onde dicea S. Bernardo: "Si tam dulce est flere pro te, quid erit gaudere de te". Che suavità poi non prova un'anima, a cui nell'orazione se le scopre con un raggio di luce la divina bontà, le misericordie che l'ha usate e l'amore che l'ha portato e porta Gesu Cristo! si sente allora l'anima struggere, e venir meno per l'amore. E pure in questa terra noi non vediamo Dio com'è: lo vediamo allo scuro. "Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem" (1 Cor 13,12). Al presente noi abbiamo una benda avanti gli occhi, e Dio sta sotto la portiera della fede, e non si fa da noi vedere; che sarà quando dagli occhi nostri si toglierà la benda, e s'alzerà la portiera, e vedremo Dio da faccia a faccia? vedremo quant'è bello Dio, quant'è grande, quant'è giusto, quant'è perfetto, quant'è amabile e quant'amoroso.

PUNTO III

In questa terra la maggior pena che affligge l'anime che amano Dio, e sono in desolazione, è il timore di non amare e di non essere amate da Dio. "Nescit homo, utrum amore an odio dignus sit" (Eccle 9,1). Ma nel paradiso l'anima è sicura ch'ella ama Dio, e ch'è amata da Dio; vede ch'ella è felicemente perduta nell'amor del suo Signore, e che 'l Signore la tiene abbracciata come figlia cara, e vede che quest'amore non si scioglierà mai più in eterno. Accrescerà le beate fiamme all'anima il meglio conoscere che farà allora, quale amore è stato di Dio l'essersi fatto uomo, e morire per lei! quale amore l'istituzione del SS. Sagramento, un Dio farsi cibo d'un verme! Vedrà allora anche l'anima distintamente tutte le grazie che Dio le ha fatte in liberarla da tante tentazioni e pericoli di perdersi; ed allora vedrà che quelle tribolazioni, infermità, persecuzioni e perdite, ch'ella chiamava disgrazie e castighi di Dio, sono state tutte amore e tiri della divina provvidenza per condurla al paradiso. Vedrà specialmente la pazienza che ha avuta Dio in sopportarla dopo tanti peccati, e le misericordie che le ha usate, donandole tanti lumi e tante chiamate d'amore. Vedrà lassù di quel monte beato tante anime dannate nell'inferno per meno peccati de' suoi, ed ella si vedrà già salva, che possiede Dio, ed è sicura di non avere più a perdere quel sommo bene per tutta l'eternità.

Sempre dunque il beato goderà quella felicità, che per tutta l'eternità in ogni momento gli sarà sempre nuova, come se quel momento fosse la prima volta in cui la godesse. Sempre desidererà quel gaudio, e sempre l'otterrà: sempre contenta, sempre sitibonda: sempre sitibonda, e sempre saziata; sì, perché il desiderio del paradiso non porta pena, e 'l possesso non porta tedio. In somma siccome i dannati sono vasi pieni d'ira, i beati sono vasi pieni di contento, in modo che non hanno più che desiderare. Dice S. Teresa che anche in questa terra, quando Iddio introduce un'anima nella cella del vino, cioè del suo divino amore, la rende felicemente ubbriaca, talmente ch'ella perde l'affetto a tutte le cose terrene. Ma in entrare in paradiso, oh quanto più perfettamente, come dice Davide, gli eletti "inebriabuntur ab ubertate domus tuae" (Ps 35,9). Allora avverrà che l'anima in vedere alla scoverta, e in abbracciarsi col suo sommo bene, resterà talmente inebriata d'amore, che felicemente si perderà in Dio, cioè affatto si scorderà di se stessa, e non penserà d'allora in poi che ad amare, a lodare e benedire quell'infinito bene, che possiede.

Quando dunque ci affliggono le croci di questa vita, confortiamoci a sopportarle pazientemente colla speranza del paradiso. S. Maria Egizziaca, dimandata in fine della sua vita dall'Abbate Zosimo, come avea potuto soffrire di vivere per tanti anni in quel deserto? Rispose: "Colla speranza del paradiso". S. Filippo Neri, essendogli offerta la dignità cardinalizia, buttò la berretta in aria dicendo: "Paradiso, paradiso". Fra Egidio Francescano in sentir nominare paradiso, era sollevato in aria per lo contento. Così parimenti ancora noi, quando ci vediamo angustiati dalle miserie di questa terra, alziamo gli occhi al cielo e consoliamoci, sospirando e dicendo: "Paradiso, paradiso". Pensiamo, che, se saremo fedeli a Dio, finiranno un giorno tutte queste pene, miserie e timori, e saremo ammessi in quella patria beata, dove saremo pienamente felici, mentre Dio sarà Dio. Ecco che ci aspettano i santi, ci aspetta Maria; e Gesù sta colla corona in mano, per renderci re di quel regno eterno.



LA PREGHIERA

Petite, et dabitur vobis... omnis enim qui petit, accipit (Luc 11,10)

PUNTO I

Non solo in questo, ma in mille luoghi dell'antico e nuovo Testamento promette Dio di esaudir chi lo prega. "Clama ad me, et exaudiam te" (Iob 33,3): Volgiti a me, ed io ti esaudirò. "Invoca me, et eruam te" (Ps 49,15): Chiamami, ed io ti libererò da' pericoli. "Si quid petieritis me in nomine meo, hoc faciam" (Io 14,14): Quel che mi domanderai per li meriti miei, tutto farò. "Quodcunque volueritis, petetis, et fiet vobis" (Io 15,7): Cercate quanto volete, basta che lo cerchiate, e vi sarà conceduto. E tanti altri passi simili. Quindi disse Teodoreto che l'orazione è una ma può ottenere tutte le cose: "Oratio cum sit una, omnia potest". Dice S. Bernardo che quando noi preghiamo, il Signore o ci darà la grazia richiesta, o un'altra per noi più utile. "Aut dabit quod petimus, aut quod nobis noverit esse utilius". Intanto ci fa animo a pregare il profeta, assicurandoci che Dio è tutto pietà verso coloro che lo chiamano in aiuto: "Tu Domine suavis, et mitis, et multae misericordiae omnibus invocantibus te" (Ps 85). E maggior animo ci fa S. Giacomo dicendo: "Si quis vestrum indiget sapientia, postulet a Deo, qui dat omnibus affluenter, nec improperat" (Iac 1,5). Dice questo apostolo che quando il Signore è pregato, allarga le mani e dona più di ciò che gli si domanda, "dat omnibus affluenter, nec improperat", né ci rimprovera i disgusti che gli abbiamo dati; quando è pregato, par che si dimentichi di tutte l'offese che gli abbiamo fatte.

Diceva S. Giovanni Climaco che la preghiera in certo modo fa violenza a Dio a concederci quanto gli cerchiamo: "Oratio pie Deo vim infert". Violenza, ma violenza che gli è cara, e da noi la desidera. "Haec vis grata Deo", scrisse Tertulliano. Sì, perché (siccome parla S. Agostino) ha più desiderio Dio di far bene a noi, che noi di riceverlo: "Plus vult ille tibi beneficia elargiri, quam tu accipere concupiscas". E la ragione di ciò si è, perché Dio di sua natura è bontà infinita: "Deus cuius natura bonitas", scrive S. Leone. E perciò ha un sommo desiderio di far parte a noi de' suoi beni. Quindi dicea S. Maria Maddalena de' Pazzi che Dio resta quasi obbligato a quell'anima, che lo prega, mentre così gli apre la via a contentare il suo desiderio di dispensare a noi le sue grazie. E Davide dicea che questa bontà del Signore in esaudire subito chi lo prega, facea conoscergli ch'Egli era il suo vero Dio: "In quacunque die invocavero te, ecce cognovi quia Deus meus es tu" (Ps 55,10). A torto taluni si lamentano (avverte S. Bernardo) che manchi loro il Signore; molto più giustamente si lamenta il Signore che molti a lui mancano, lasciando di venire a cercargli le grazie: "Multi queruntur deesse sibi gratiam, sed multo iustius gratia quereretur deesse sibi multos". E di ciò appunto par che si lamentasse un giorno il Redentore co' suoi discepoli: "Usque modo non petistis quidquam in nomine meo; petite et accipietis, ut gaudium vestrum sit plenum" (Io 16,24). Non vi lamentate di me (par che dicesse), se non siete stati pienamente felici, lamentatevi di voi, che non mi avete richieste le grazie; chiedetemele da oggi avanti e sarete contenti.

Da ciò i monaci antichi conclusero nelle loro conferenze non esservi esercizio più utile per salvarsi, che 'l sempre pregare e dire: Signore, aiutatemi: "Deus, in adiutorium meum intende". Il Ven. P. Paolo Segneri dicea di se stesso che nelle sue meditazioni prima tratteneasi in fare affetti, ma poi conoscendo la grande efficacia della preghiera, procurava per lo più di trattenersi in pregare. Facciamo noi sempre lo stesso. Abbiamo un Dio che troppo ci ama, ed è sollecito della nostra salute, e perciò sta sempre pronto ad esaudir chi lo prega. I principi della terra, dice il Grisostomo a pochi danno udienza, ma Dio la dà ad ognun che la vuole: "Aures principis paucis patent, Dei vero omnibus volentibus".

PUNTO II

Consideriamo in oltre la necessità della preghiera. Dice S. Gio. Grisostomo che siccome il corpo è morto senza l'anima, così l'anima è morta senza orazione. Dice similmente che come l'acqua è necessaria alle piante per non seccare, così l'orazione è necessaria a noi per non perderci. "Non minus quam arbores aquis, precibus indigemus". Dio vuol salvi tutti: "Omnes homines vult salvos fieri" (1 Tim 2,4). E non vuole che alcuno si perda: "Patienter agit propter vos, nolens aliquos perire, sed omnes ad poenitentiam reverti" (2 Petr 3,9). Ma vuole che noi gli domandiamo le grazie necessarie per salvarci; poiché da una parte non possiamo osservare i divini precetti e salvarci senza l'attuale aiuto del Signore; e dall'altra Egli non vuole darci le grazie (ordinariamente parlando), se non ce le cerchiamo. Che perciò disse il sagro Concilio di Trento che Dio non impone precetti impossibili, poiché o ci dona la grazia prossima ed attuale ad osservarli, oppure ci dà la grazia di cercargli questa grazia attuale: "Deus impossibilia non iubet, sed iubendo monet et facere quod possis, et petere quod non possis, et adiuvat ut possis". Mentre insegna S. Agostino che eccettuate le prime grazie, come sono la chiamata alla fede, o alla penitenza, tutte l'altre (e specialmente la perseveranza) Dio non le concede se non a chi prega: "Constat alia Deus dare etiam non orantibus, sicut initium fidei; alia nonnisi orantibus praeparasse, sicut usque in finem perseverantiam".

Da ciò concludono i Teologi con S. Basilio, S. Agostino, S. Gio. Grisostomo, Clemente Alessandrino ed altri che la preghiera agli adulti è necessaria di necessità di mezzo. Sicché senza pregare è impossibile ad ognuno il salvarsi. E ciò dice il dottissimo Lessio doversi tener di fede: "Fide tenendum est orationem adultis ad salutem esse necessariam, ut colligitur ex Scripturis".

Le Scritture son chiare. "Oportet semper orare" (Luc 18,1). "Orate, ut non intretis in tentationem" (Io 4,2). "Petite, et accipietis" (Io 16,24). "Sine intermissione orate" (1 Thess 5,17). Or le suddette parole: "Oportet, orate, petite" secondo la sentenza comune de' dottori con S. Tommaso importano precetto, che obbliga sotto colpa grave specialmente in tre casi: 1. quando l'uomo sta in peccato; 2. quando è in pericolo di morte; 3. quando è in grave pericolo di peccare; e ordinariamente poi insegnano i dottori che chi per un mese, o al più due non prega, non è scusato da peccato mortale. La ragione è, perché la preghiera è un mezzo, senza di cui non possiamo ottenere gli aiuti necessari a salvarci da' peccati.

"Petite, et accipietis". Chi cerca ottiene; dunque, dice S. Teresa, chi non cerca non ottiene. E prima lo disse S. Giacomo: "Non habetis, propter quod non postulatis" (Iac 4,2). E specialmente è necessaria la preghiera, per ottenere la virtù della continenza. "Et ut scivi, quia aliter non possum esse continens, nisi Deus det... adii Dominum, et deprecatus sum" (Sap 8,21). Concludiamo questo punto. Chi prega, certamente si salva; chi non prega, certamente si danna. Tutti coloro che si son salvati, si son salvati col pregare. Tutti coloro che si son dannati, si son dannati per non pregare; e questa è, e sarà per sempre la loro maggior disperazione nell'inferno, l'aversi potuto così facilmente salvare col pregare, ed ora non essere più a tempo di farlo.

PUNTO III

Consideriamo per ultimo le condizioni della preghiera. Molti pregano e non ottengono, perché non pregano come si dee. "Petitis et non accipitis, eo quod male petatis" (Iac 4,3). Per ben pregare primieramente vi bisogna umiltà. "Deus superbis resistit, humilibus autem dat gratiam" (Iac 4,6). Dio non esaudisce le domande de' superbi, ma all'incontro non fa partire da sé le preghiere degli umili senza esaudirle. "Oratio humiliantis se nubes penetrabit, et non discedet, donec Altissimus aspiciat" (Eccli 35,21). E ciò, benché per lo passato sieno stati peccatori. "Cor contritum et humiliatum Deus non despicies" (Ps 50). Per secondo vi bisogna confidenza. "Nullus speravit in Domino, et confusus est" (Eccli 2,11). A tal fine ci insegnò Gesù Cristo che cercando le grazie a Dio non lo chiamiamo con altro nome che di Padre (Pater noster); acciocché lo preghiamo con quella confidenza, con cui ricorre un figlio al proprio padre. Chi cerca dunque con confidenza ottiene tutto: "Omnia quaecunque orantes petitis, credite quia accipietis, et evenient vobis" (Marc 11). E chi può temere, dice S. Agostino, ch'abbia a mancargli ciò che gli viene promesso dalla stessa verità ch'è Dio? "Quis falli metuit, dum promittit veritas?". Non è Dio come gli uomini, dice la Scrittura, che promettono e poi mancano, o perché mentiscono allorché promettono, o pure perché poi mutano volontà: "Non est Deus quasi homo, ut mentiatur, nec ut mutetur; dixit ergo, et non faciet?" (Num 23). E perché mai, soggiunge lo stesso S. Agostino, tanto ci esorterebbe il Signore a chieder le grazie, se non ce le volesse concedere? "Non nos hortaretur ut peteremus nisi dare vellet". Col promettere Egli si è obbligato a concederci le grazie che gli domandiamo: "Promittendo debitorem se fecit".

Ma dirà colui: Io son peccatore e perciò non merito d'esser esaudito. Ma risponde S. Tommaso che la preghiera in impetrar le grazie non si appoggia a' nostri meriti, ma alla divina pietà: "Oratio in impetrando non innititur nostris meritis, sed soli divinae misericordiae". "Omnis qui petit accipit" (Luc 11,10). Commenta l'autor dell'Opera imperfetta: "Omnis sive iustus, sive peccator sit". Ma in ciò il medesimo nostro Redentore ci tolse ogni timore, dicendo: "Amen, amen dico vobis, si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis" (Io 16,23). Peccatori, (come dicesse) se voi non avete merito, l'ho io appresso mio Padre: cercate dunque in nome mio, ed io vi prometto che avrete quanto dimandate. Qui non però bisogna intendere che tal promessa non è fatta per le grazie temporali, come di sanità, di beni di fortuna e simili, poiché queste grazie molte volte il Signore giustamente ce le nega, perché vede che ci nocerebbero alla salute eterna. "Quid infirmo sit utile, magis novit medicus, quam aegrotus", dice S. Agostino. E soggiunge, che Dio nega ad alcuno per misericordia quel che concede ad un altro per ira: "Deus negat propitius, quae concedit iratus". Onde le grazie temporali debbon da noi cercarsi sempre con condizione, se giovano all'anima. Ma all'incontro le spirituali, come il perdono, la perseveranza, l'amor divino e simili debbon chiedersi assolutamente con fiducia ferma di ottenerle. "Si vos cum sitis mali (disse Gesù Cristo), nostis bona data dare filiis vestris, quanto magis Pater vester de coelo dabit spiritum bonum petentibus se?" (Luc 11,13).

Bisogna sopra tutto la perseveranza in pregare. Dice Cornelio a Lapide che il Signore "vult nos esse perseverantes in oratione usque ad importunitatem". E ciò significano quelle Scritture: "Oportet semper orare" (Luc 11). "Vigilate omni tempore orantes" (Luc 21,36). "Sine intermissione orate" (1 Thess. 5,17). Ciò significano ancora quelle parole replicate: "Petite, et accipietis; quaerite, et invenietis; pulsate, et aperietur vobis" (Luc 11,9). Bastava l'aver detto "petite"; ma no, volle il Signore farc'intendere che dobbiamo fare come i mendici, che non lasciano di cercare d'insistere e di bussare la porta sin tanto che non han la limosina. E specialmente la perseveranza finale è una grazia che non si ottiene senza una continua orazione. Questa perseveranza non si può meritare da noi, ma colle preghiere, dice S. Agostino, che in certo modo si merita: "Hoc Dei donum suppliciter emereri potest: idest supplicando impetrari". Preghiamo dunque sempre, e non lasciamo di pregare, se vogliamo salvarci. E chi è confessore, o predicatore, non lasci mai di esortare a pregare, se vuole veder salvate l'anime. E come dice S. Bernardo, ricorriamo ancora sempre all'intercessione di Maria: "Quaeramus gratiam, et per Mariam quaeramus; quia quod quaerit invenit et frustrari non potest".




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09/07/2019 23:50

LA PERSEVERANZA


Qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit (Matth 24,13)


PUNTO I


Dice S. Girolamo che molti cominciano bene, ma pochi son quelli che perseverano: "Incipere multorum est, perseverare paucorum". Cominciò bene un Saulle, un Giuda, un Tertulliano; ma poi finirono male, perché non perseverarono nel bene. "Non quaeruntur in christianis initia, sed finis". Il Signore (siegue a dire il santo) non richiede solamente i principii della buona vita, ma anche il fine; il fine è quello che otterrà il premio. Dice S. Bonaventura che alla sola perseveranza si dà la corona: "Sola perseverantia coronatur". Che perciò S. Lorenzo Giustiniani chiamava la perseveranza la porta del cielo: "coeli ianuam". Dunque non può entrare in paradiso, chi non trova la porta per entrarvi. Fratello mio, voi al presente avete lasciato il peccato, e giustamente sperate d'essere stato perdonato. Siete dunque amico di Dio, ma sappiate che non ancora siete salvo. E quando sarete salvo? Quando avrete perseverato sino alla fine: "Qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit". Avete cominciata la buona vita, ringraziate il Signore; ma vi avverte S. Bernardo che a chi comincia è solamente promesso il premio, ma poi solamente vien dato a chi persevera: "Incohantibus praemium promittitur, perseverantibus datur". Non basta correre al pallio, ma bisogna correre sino a prenderlo: "Sic currite, ut comprehendatis", dice l'Apostolo (1 Cor 9,24).


Or già avete posta la mano all'aratro, avete principiato a viver bene; ma ora piucché mai temete e tremate. "Cum metu et tremore vestram salutem operamini" (Philip 2,12). E perché? perché se (non voglia mai Dio) vi voltate a guardare indietro e ritornate alla mala vita, Dio vi dichiarerà escluso dal paradiso. "Nemo mittens manum ad aratrum, et respiciens retro, aptus est regno Dei" (Luc 9,62). Ora per grazia del Signore fuggite le male occasioni, frequentate i sagramenti, fate ogni giorno la meditazione; beato voi se seguite a far così, e così facendo vi troverà Gesù Cristo, quando verrà a giudicarvi: "Beatus ille servus, quem cum venerit Dominus eius, invenerit sic facientem" (Matth 24,46). Ma non credete che ora che vi siete posto a servire a Dio, sian quasi finite, o mancate le tentazioni; udite quel che vi dice lo Spirito Santo: "Fili, accedens ad servitutem Dei, praepara animam tuam ad tentationem" (Eccli 2,1). Sappiate che or più che mai dovete apparecchiarvi alle battaglie; perché i nemici, il mondo, il demonio e la carne or più che mai si armeranno a combattervi, per farvi perdere quanto avete acquistato. Dice Dionisio Cartusiano che quanto più alcuno si dà a Dio, tanto più l'inferno cerca di abbatterlo: "Quanto quis fortius nititur Deo servire, tanto acrius contra eum saevit adversarius". E ciò sta abbastanza espresso nel Vangelo di S. Luca, dove si dice: "Cum immundus spiritus exierit ab homine, quaerens requiem et non inveniens, dicit: Revertar in domum meam, unde exivi. Tunc vadit, et assumit septem alios spiritus nequiores se, et ingressi habitant ibi; et fiunt novissima eorum peiora prioribus" (Luc 11,24). Il demonio quando è discacciato da un'anima, non trova riposo e mette tutta l'opera per ritornare ad entrarvi, chiama anche compagni in aiuto, e se gli riesce di rientrarvi, sarà assai più grande per quell'anima la seconda ruina, che non fu la prima.


Andate dunque considerando di qual'armi avete ad avvalervi, per difendervi da questi nemici e conservarvi in grazia di Dio. Per non esser vinto dal demonio, non v'è altra difesa che l'orazione. Dice S. Paolo che noi non abbiamo a combattere contra uomini come noi di carne e sangue, ma contra i principi dell'inferno: "Non est nobis colluctatio adversus carnem et sanguinem, sed adversus principes et potestates" (Eph 6,12). E vuole con ciò avvertirci che noi non abbiamo forze da resistere a tali potenze, onde abbiamo bisogno che Dio ci aiuti. Coll'aiuto divino potremo tutto: "Omnia possum in eo qui me confortat" (Phil 4,13): così egli dicea, e così dobbiamo dire ciascuno di noi. Ma quell'aiuto non si dona, se non a chi lo domanda coll'orazione. "Petite, et accipietis". Non ci fidiamo dunque de' nostri propositi; se mettiamo a questi confidenza, sarem perduti: tutta la confidenza, quando siam tentati dal demonio, mettiamola all'aiuto di Dio con raccomandarci allora a Gesù Cristo ed a Maria SS. E specialmente dobbiamo ciò fare, quando siam tentati contro la castità, poiché questa tentazione fra tutte è la più terribile, ed è quella con cui il demonio riporta più vittorie. Noi non abbiamo forza di conservar la castità. Iddio ce l'ha da dare. Dicea Salomone: "Et ut scivi quoniam aliter non possum esse continens, nisi Deus det... adii Dominum, et deprecatus sum illum" (Sap 8,21). Bisogna dunque in tale tentazione subito ricorrere a Gesù Cristo ed alla sua santa Madre, invocando allora spesso i loro SS. nomi di Gesù, e di Maria. Chi fa così, vincerà; chi non fa così, sarà perduto.


PUNTO II


Vediamo ora, come si ha da vincere il mondo. È un gran nemico il demonio, ma peggiore è il mondo. Se 'l demonio non s'avvalesse del mondo e degli uomini cattivi (per cui s'intende il mondo), non riporterebbe le vittorie che ottiene. Il Redentore non tanto ci avvertì a guardarci da' demoni, quanto dagli uomini: "Cavete autem ab hominibus" (Matth 10,17). Gli uomini spesso son peggiori de' demonii, perché i demonii fuggono all'orazione e all'invocarsi i nomi SS. di Gesù e di Maria; ma i mali compagni se tentano alcuno a peccare, e quegli risponde qualche parola spirituale, essi non fuggono, ma più lo tentano e lo deridono, chiamandolo uomo vile, senza creanza, che non vale a niente; e quand'altro non possono dire, lo chiamano ippocrita che finge santità. E certe anime deboli, per non sentire questi rimproveri o derisioni, miseramente si accompagnano con quei ministri di Lucifero e tornano al vomito. Fratello mio, persuadetevi, che se volete viver bene, avete da esser senza meno burlato e vilipeso da' malvagi. "Abominantur impii eos, qui in recta sunt via" (Prov 29,27). Chi vive male, non può vedere coloro che vivon bene; e perché? perché la loro vita è loro un continuo rimprovero, e perciò vorrebbero che tutti l'imitassero, per non avere la pena del rimorso che loro cagiona la buona vita degli altri. Non v'è rimedio (dice l'Apostolo), chi serve Dio ha da essere perseguitato dal mondo. "Omnes qui pie volunt vivere in Christo Iesu, persecutionem patientur" (2 Tim 3,12). Tutt'i santi sono stati perseguitati. Chi più santo di Gesù Cristo? e 'l mondo lo perseguitò, sino a farlo morir svenato in una croce.


Non v'è riparo a ciò, perché le massime del mondo sono tutte contrarie a quelle di Gesù Cristo. Quel ch'è stimato dal mondo, da Gesù Cristo è chiamata pazzia: "Sapientia enim huius mundi stultitia est apud Deum" (1 Cor 3,19). All'incontro il mondo chiama pazzia ciò, ch'è stimato da Gesù Cristo, come sono le croci, i dolori, i disprezzi. "Verbum enim crucis pereuntibus quidem stultitia est" (1 Cor 1,18). Ma consoliamoci, che se i cattivi ci maledicono e ci vituperano, Iddio ci benedice e ci loda. "Maledicent illi, et tu benedices" (Ps 108,28). Non ci basta forse l'esser lodati da Dio, da Maria, da tutti gli angeli, da' santi e da tutti gli uomini da bene? Lasciamo dunque lor dire a' peccatori quello che vogliono, e seguitiamo noi a dar gusto a Dio, ch'è così grato e fedele con chi lo serve. Con quanta maggior ripugnanza e contraddizione faremo il bene, tanto sarà maggiore il gusto di Dio e 'l merito nostro. Figuriamoci, come nel mondo non vi fosse altro che Dio e noi. Quando questi malvagi ci burlano, raccomandiamoli al Signore; ed all'incontro ingraziamo Dio, che dà luce a noi, che non dona a questi miserabili, e seguiamo il nostro cammino. Non ci vergogniamo di comparir cristiani, perché se noi ci vergogniamo di Gesù Cristo, Egli si protesta che si vergognerà pur di noi e di tenerci alla sua destra nel giorno del giudizio: "Nam qui me erubuerit, et meum sermonem, hunc Filius hominis erubescet, cum venerit in maiestate sua" (Luc 9,26).


Se vogliamo salvarci, bisogna che ci risolviamo a patire e a farci forza, anzi violenza. "Arcta est via, quae ducit ad vitam" (Matth 7,14). "Regnum coelorum vim patitur, et violenti rapiunt illud" (Matth 11,12). Chi non si fa forza, non si salva. Non ci è rimedio, poiché abbiamo da andare contro la nostra natura ribelle, se vogliamo praticare il bene. Specialmente dobbiamo farci forza al principio, per estirpare i mal'abiti ed acquistare i buoni; perché fatto poi il buon abito, si rende facile, anzi dolce l'osservanza della divina legge. Disse il Signore a S. Brigida che chi nel praticar la virtù con pazienza, ed animo soffrisce le prime punture delle spine, dopo le spine gli diventeranno rose. Sta attento dunque, cristiano mio, Gesù Cristo ora ti dice quel che disse al paralitico: "Ecce sanus factus es, iam noli peccare, ne deterius tibi contingat" (Io 5,14). Intendi (ripiglia S. Bernardo), se per disgrazia ricadi, sappi che la tua ruina sarà peggiore di tutte le tue prime cadute: "Audis: recidere quam incidere esse deterius". Guai dice il Signore a coloro, che prendono la via di Dio, e poi la lasciano. "Vae, filii desertores" (Is 30,1). Questi tali son puniti, come ribelli della luce: "Ipsi fuerunt rebelles lumini" (Iob 24,13). E 'l castigo di questi ribelli che sono stati favoriti da Dio d'una gran luce, e poi gli sono infedeli, è il restar ciechi, e così finir la vita ne' loro peccati: "Si autem averterit se iustus a iustitia sua... nunquid vivet? omnes iustitiae eius, quas fecerat, non recordabuntur... in peccato morietur" (Ezech 18,24).


PUNTO III


Veniamo al terzo nemico, ch'è il peggiore di tutti, cioè la carne; e vediamo come abbiamo a difendercene. Per prima, coll'orazione; ma ciò l'abbiam già considerato di sopra. Per secondo col fuggir l'occasione, e questo vogliamo ora ben ponderare. Dice S. Bernardino da Siena che il più grande di tutti i consigli, anzi quasi il fondamento della religione, è il consiglio di fuggir le occasioni pericolose: "Inter consilia Christi unum celeberrimum, et quasi religionis fundamentum est, fugere peccatorum occasiones". Confessò una volta il demonio costretto dagli esorcismi, che tra tutte le prediche quella che più gli dispiace, è la predica della fuga dell'occasione; e con ragione, perché il demonio si ride di tutti i propositi e promesse che fa un peccator che si pente, se colui non lascia l'occasione. L'occasione specialmente in materia di piaceri di senso è come una benda che si mette avanti gli occhi, e non fa vedere più alla persona né propositi fatti, né lumi ricevuti, né verità eterne, in somma la fa scordare di tutto e la rende come cieca. Questa fu la causa della ruina de' nostri primi progenitori, il non fuggir l'occasione. Dio avea proibito anche di toccare il frutto vietato: "Praecepit nobis Deus (disse Eva al serpente) ne comederemus, et ne tangeremus illud" (Gen 3). Ma l'incauta "vidit, tulit, comedit". Prima cominciò a mirare il pomo, dipoi lo prese in mano, e poi lo mangiò. Chi volontariamente si mette nel pericolo, in quello resterà perduto. "Qui amat periculum, in illo peribit" (Eccli 3,27). Dice S. Pietro che il demonio "circuit quaerens quem devoret"; onde per rientrare in un'anima da cui è stato discacciato (dice S. Cipriano), che fa? va trovando l'occasione: "Explorat an sit pars, cuius aditu penetretur". Se l'anima si lascia indurre a mettersi nell'occasione, già di nuovo entrerà in lei il nemico e la divorerà. Dice in oltre Guerrico Abbate che Lazzaro risorse legato, "prodiit ligatus manibus, et pedibus"; e risorgendo così, tornò a morire. Povero (vuol dire questo autore) chi risorge dal peccato, ma risorge legato dall'occasione; questi ancorché risorgesse, pure tornerà a morire. Chi dunque vuole salvarsi, bisogna che lasci non solo il peccato, ma anche l'occasione di peccare, cioè quel compagno, quella casa, quella corrispondenza.


Ma dirai, ora ho mutata vita e non ci ho più mal fine con quella persona, anzi neppure tentazione. Rispondo: Nella Mauritania narrasi esservi certe orse, che vanno a caccia delle scimie; le scimie, vedendo l'orsa, si salvano sugli alberi, e l'orsa si stende sotto l'albero e si finge morta; quando poi vede scese le scimie, s'alza, le afferra e le divora. Così fa il demonio; fa vedere morta la tentazione, ma quando la persona è scesa poi a mettersi nell'occasione, fa sorgere la tentazione che la divora. Oh quante misere anime che frequentavano l'orazione, la comunione, e che poteano chiamarsi sante, col porsi poi all'occasione son rimaste preda dell'inferno. Si riferisce nell'Istorie ecclesiastiche che una santa matrona, la quale facea l'officio pietoso di seppellire i martiri, una volta ne trovò uno, il quale non era ancora spirato, lo portò in sua casa, quegli guarì; che avvenne? coll'occasione vicina questi due santi (come poteano chiamarsi) prima perderono la grazia di Dio e poi anche la fede.


Ordinò il Signore ad Isaia che predicasse che ogni uomo è fieno: "Clama, omnis caro foenum" (Is 40,6). Qui riflette il Grisostomo e dice: È possibile che 'l fieno non arda, quando v'è posto il fuoco? "Lucernam in foenum pone, ac tum aude negare, quod foenum exuratur". E così dice poi S. Cipriano, è impossibile star nelle fiamme e non bruciare: "Impossibile est flammis circumdari, et non ardere". La fortezza nostra, ci avverte il profeta, è come la fortezza della stoppa posta nella fiamma. "Et erit fortitudo vestra ut favilla stupae" (Is 1,32). Parimenti dice Salomone, pazzo sarebbe chi pretendesse camminar sulle brace senza bruciarsi: "Nunquid potest homo ambulare super prunas, ut non comburantur plantae eius?" (Prov 6,17). E così ancora è pazzo chi pretende di porsi all'occasione, senza cadere. Bisogna dunque fuggire dal peccato come dalla faccia del serpente: "Quasi a facie colubri fuge peccatum" (Eccli 21,1). Bisogna fuggire non solo il morso del serpe, dice Galfrido, non solo il toccarlo, ma anche l'accostarsegli vicino: "Fuge etiam tactus, etiam accessum". Ma quella casa, tu dici, quell'amicizia giova agl'interessi miei. Ma se vedi già che quella casa è via dell'inferno per te "via inferi domus eius" (Prov 7,27), non ci è rimedio bisogna che la lasci, se vuoi salvarti. Ancorché fosse l'occhio tuo destro, dice il Signore, se vedi che ti è causa di dannarti, bisogna che lo svelli e lo gitti da te lontano. "Si oculus tuus dexter scandalizat te, erue eum, et proiice abs te" (Matth 5,30). E si noti la parola "abs te"; bisogna gittarlo non vicino, ma lontano: viene a dire che bisogna togliere ogni occasione. Dicea S. Francesco d'Assisi che il demonio tenta d'altra maniera le persone spirituali, che si son date a Dio, di quella che tenta i malviventi; al principio non cerca di legarle con una fune, si contenta legarle con un capello, poi le lega con un filo, poi con uno spago, indi con una fune, e così finalmente le strascina al peccato. E perciò chi vuol esser libero da questo pericolo, bisogna che spezzi a principio tutti i capelli, tutte le occasioni, quei saluti, quei regali, quei biglietti, e simili. E parlando specialmente di chi ha avuto l'abito nel vizio impuro, non gli basterà il fuggire le occasioni prossime: s'egli non fuggirà anche le rimote, pure tornerà a cadere.


È necessario a chi vuole veramente salvarsi stabilire e rinnovare continuamente la risoluzione di non volersi più separare da Dio, con andare spesso replicando quel detto de' santi: "Si perda tutto, e non si perda Dio". Ma non basta il solo risolvere di non volerlo più perdere, bisogna pigliare anche i mezzi per non perderlo. E il primo mezzo è il fuggir le occasioni, del che già si è parlato. Il 2. è frequentare i sacramenti della confessione e comunione. In quella casa che spesso si scopa, non ci regnano l'immondezze. Colla confessione si mantiene purgata l'anima, e con essa non solamente s'ottiene la remissione delle colpe, ma ancora l'aiuto per resistere alle tentazioni. La comunione poi si chiama pane celeste, perché siccome il corpo non può vivere senza il cibo terreno, così l'anima non può vivere senza questo cibo celeste. "Nisi manducaveritis carnem Filii hominis, et biberitis eius sanguinem, non habebitis vitam in vobis" (Io 6,54). All'incontro a chi spesso mangia questo pane, sta promesso che viverà in eterno: "Si quis manducaverit ex hoc pane, vivet in aeternum" (Io 6,52). Che perciò il Concilio di Trento chiama la comunione medicina che ci libera da' peccati veniali, e ci preserva da' mortali: "Antidotum quo liberamur a culpis quotidianis, et a peccatis mortalibus praeservamur". Il 3. mezzo è la meditazione, o sia l'orazione mentale. "Memorare novissima tua, et in aeternum non peccabis" (Eccli 7,40). Chi tiene avanti gli occhi le verità eterne, la morte, il giudizio, l'eternità, non caderà in peccato. Iddio nella meditazione c'illumina: "Accedite ad eum, et illuminamini" (Ps 33,6). Ivi ci parla e ci fa intendere quel che abbiamo da fuggire e quel che abbiamo da fare. "Ducam eam in solitudinem, et loquar ad cor eius" (Osea 2,14). La meditazione poi è quella beata fornace, dove si accende il divino amore. "In meditatione mea exardescet ignis" (Ps 38,4). In oltre, come già più volte si è considerato, per conservarsi in grazia di Dio è assolutamente necessario il sempre pregare e chiedere le grazie che ci abbisognano; chi non fa l'orazione mentale, difficilmente prega, e non pregando certamente si perderà.


Bisogna dunque pigliare i mezzi per salvarsi e fare una vita ordinata. Nella mattina al levarsi fare gli atti cristiani di ringraziamento, amore, offerta e proposito, colla preghiera a Gesù ed a Maria, che lo preservino in quel giorno da' peccati. Dopo far la meditazione e sentir la Messa. Nel giorno poi la lezione spirituale, la visita al SS. Sagramento ed alla divina Madre. Nella sera il Rosario, e l'esame di coscienza. La comunione più volte la settimana, secondo il consiglio del direttore, che stabilmente dee tenersi. Sarebbe molto utile ancor far gli esercizi spirituali in qualche casa religiosa. Bisogna onorare ancora con qualche ossequio speciale Maria SS. per esempio col digiuno del sabato. Ella si chiama Madre della perseveranza, e la promette a chi la serve: "Qui operantur in me, non peccabunt" (Eccli 24,31). Sopra tutto bisogna sempre domandare a Dio la santa perseveranza, e specialmente in tempo di tentazioni, invocando allora più spesso i nomi SS. di Gesù e di Maria, finché la tentazione persiste. Se farete così certamente vi salverete: e se non lo farete, certamente vi dannerete.




LA CONFIDENZA NEL PATROCINIO DI MARIA SANTISSIMA

Qui invenerit me, inveniet vitam, et hauriet salutem a Domino (Prov 8,35)

PUNTO I

Quanto dobbiamo ringraziare la misericordia del nostro Dio in averci data Maria per avvocata, che colle sue preghiere può ottenerci tutte le grazie che desideriamo. "O certe Dei nostri mira benignitas (esclama S. Bonaventura), qui suis reis te Dominam tribuit advocatam, ut auxilio tuo quod volueris valeas impetrare". Peccatori, fratelli miei, se ci troviamo rei colla divina giustizia e già condannati all'inferno per li nostri peccati, non ci disperiamo, ricorriamo a questa divina Madre, mettiamoci sotto il suo manto, ed ella ci salverà. Buona intenzione ci vuole di voler mutar vita: buona intenzione e confidenza grande in Maria, e saremo salvi. E perché? perché Maria è un'avvocata "potente", un'avvocata "pietosa", un'avvocata "che desidera di salvar tutti".

In primo luogo consideriamo che Maria è un'avvocata "potente", che può tutto appresso il giudice a beneficio de' suoi divoti. Questo è un privilegio singolare, concedutole dallo stesso giudice ch'è suo Figlio: "Grande privilegium, quod Maria apud Filium sit potentissima" (S. Bonaventura). Dice Gio. Gersone che la B. Vergine niente chiede da Dio con volontà assoluta, che non l'ottenga; e ch'ella come regina manda gli angeli ad illuminare, purgare e perfezionare i suoi servi. Perciò la Chiesa affin d'infonderci confidenza verso questa grande avvocata, ce la fa invocare col nome di Vergine potente: "Virgo potens, ora pro nobis". E perché il patrocinio di Maria è così potente? perché Ella è Madre di Dio. "Oratio Deiparae", dice S. Antonino, "habet rationem imperii, unde impossibile est eam non exaudiri". Le preghiere di Maria, essendo ella madre, hanno una certa ragion di comando appresso Gesù Cristo: e perciò è impossibile ch'ella, quando prega, non sia esaudita. Dice S. Giorgio Arcivescovo di Nicomedia che 'l Redentore, quasi per soddisfare all'obbligo ch'Egli ha a questa madre, per avergli dato l'esser umano, esaudisce tutte le sue dimande: "Filius quasi exsolvens debitum, petitiones tuas implet". Quindi S. Teofilo Vescovo d'Alessandria lasciò scritto così: "Il Figliuolo gradisce d'esser pregato da sua Madre, perché vuole accordarle quanto gli domanda, per così ricompensare il favore da lei ricevuto in avergli data la carne". Che perciò il martire S. Metodio esclamava: "Euge, euge, quae debitorem habes Filium! Deo enim universi debemus, tibi autem ille debitor est". Rallegrati, rallegrati, o Maria, che hai la sorte di avere per debitore quel Figlio, a cui tutti noi siam debitori, poiché quanto abbiamo, tutto è suo dono.

Quindi dicea Cosma Gerosolimitano che l'aiuto di Maria è onnipotente: "Omnipotens auxilium tuum, o Maria". Sì, è onnipotente, lo conferma Riccardo di S. Lorenzo, mentr'è giusto che la Madre partecipi della potestà del Figlio; il Figlio dunque ch'è onnipotente ha fatta onnipotente la Madre: "Cum autem eadem sit potestas Filii, et Matris, ab omnipotente Filio omnipotens Mater facta est". Il Figlio è onnipotente per natura, la Madre è onnipotente per grazia; viene a dire ch'Ella ottiene colle sue preghiere quanto dimanda, secondo quel celebre verso: "Quod Deus imperio, tu prece, Virgo, potes". E ciò appunto fu rivelato a S. Brigida. Un giorno questa santa intese che Gesù parlando con Maria le disse: "Pete quod vis a me, non enim potest esse inanis petitio tua". Madre mia, cercami quanto vuoi, sai che qualunque tua domanda non può non esser da me esaudita. E poi ne soggiunse la ragione: "Quia tu mihi nihil negasti in terris. Ego nihil tibi negabo in coelis". Voi niente mi avete negato vivendo in terra, è ragione ch'io niente vi neghi ora che state meco in cielo.

In somma non v'è alcuno, quantunque scelerato, che Maria non possa salvarlo colla sua intercessione. "Habes vires insuperabiles (le dicea S. Gregorio Nicomediense), ne clementiam tuam superet multitudo peccatorum. Nihil tuae resistit potentiae; tuam enim gloriam Creator existimat esse propriam". O Madre di Dio, niente può resistere alla vostra potenza, giacché il vostro Creatore stima la gloria vostra come propria. Voi dunque tutto potete, le dice anche S. Pier Damiani, mentre potete salvare ancora i disperati. "Nihil tibi impossibile, quae etiam desperatos in spem salutis potes relevare".

PUNTO II

Consideriamo in secondo luogo che Maria è un'avvocata quanto potente, altrettanto "pietosa", che non sa negare il suo patrocinio ad ognuno che a lei ricorre. Gli occhi del Signore, dice Davide, stan rivolti sopra de' giusti, ma questa Madre di misericordia (come dice Riccardo di S. Lorenzo) tiene gli occhi sopra de' giusti, come sopra de' peccatori, acciocché o non cadano, o se mai son caduti, colla sua intercessione ella gli sollevi: "Sed oculi Dominae super iustos et peccatores, sicut oculi matris ad puerum, ne cadat; vel si ceciderit, ut sublevet". Dicea S. Bonaventura che guardando Maria gli parea di guardare la stessa misericordia: "Certe Domina, cum te aspicio, nihil nisi misericordiam cerno". Quindi ci esorta S. Bernardo a raccomandarci in tutti i nostri bisogni a questa potente avvocata con gran confidenza, poiché ella è tutta dolce e benigna con ognuno che a lei si raccomanda: "Quid ad Mariam accedere trepidat humana fragilitas? nihil austerum in ea, nihil terribile, tota suavis est". Perciò Maria è chiamata uliva: "Quasi oliva speciosa in campis" (Eccli 24). Siccome dall'uliva non esce altro che olio, simbolo della pietà, così dalle mani di Maria non escono che grazie e misericordie, ch'ella dispensa a tutti coloro che si ricoverano sotto il suo patrocinio. Onde con ragione Dionisio Cartusiano la chiama l'avvocata di tutti i peccatori, che a lei ricorrono: "Advocata omnium iniquorum ad se confugientium". Oh Dio, e qual pena avrà un cristiano che si dannerà, pensando che potea in vita salvarsi con tanta facilità, ricorrendo a questa Madre di misericordia, e non l'ha fatto, e poi non sarà più a tempo di farlo! Disse la B. Vergine un giorno a S. Brigida: Io son chiamata la Madre della misericordia, e tale io sono, perché tale mi ha fatta la misericordia di Dio: "Ego vocor ab omnibus mater misericordiae, et vere misericordia illius misericordem me fecit". Ed in verità chi ci ha data questa avvocata a difenderci, se non la misericordia di Dio, perché ci vuole salvi? "Ideo miser erit (soggiunse Maria) qui ad misericordiam, cum possit, non accedit". Misero disse, e misero in eterno sarà chi potendo in questa vita raccomandarsi a me, che sono così benigna e pietosa con tutti, infelice non ricorre e si danna.

Forse temiamo, dice S. Bonaventura, che cercando aiuto a Maria, ella ce lo neghi? No, dice il santo: "Ipsa enim non misereri ignorat, et miseris non satisfacere nunquam scivit". No che non sa, né ha saputo mai Maria lasciar di compatire e di aiutare qualunque miserabile che a lei è ricorso. Non sa, né può farlo, perché ella ci è stata assegnata da Dio per regina e madre di misericordia: come regina di misericordia ella è tenuta ad aver cura de' miseri: "Tu Regina misericordiae (le dice S. Bernardo), et qui subditi misericordiae, nisi miseri?". Onde il santo poi per umiltà le soggiungea così: Giacché Voi dunque, o Madre di Dio, siete la regina della misericordia, dovete avere più cura di me, che fra tutti sono il peccatore più misero: "Tu regina misericordiae, et ego miserrimus peccator, subditorum maximus; rege nos ergo, o regina misericordiae". Come madre poi di misericordia dee attendere a liberar dalla morte i suoi figli infermi, de' quali la sola sua pietà ne la rende madre. Pertanto S. Basilio la chiama, "publicum valetudinarium", pubblico spedale. Gli spedali pubblici son fatti per gl'infermi poveri, e chi è più povero, ha più ragione d'esservi accolto; e così, secondo S. Basilio, Maria dee accogliere con maggior pietà ed attenzione i peccatori più grandi, che a lei ricorrono.

Ma non dubitiamo della pietà di Maria. Un giorno S. Brigida intese che 'l Salvatore diceva alla Madre: "Etiam diabolo misericordiam exhiberes, si humiliter peteret". Lucifero il superbo non si umilierà mai a far questo, ma se il misero si umiliasse a questa divina Madre, e la pregasse ad aiutarlo, Maria colla sua intercessione lo caccerebbe dall'inferno. Con ciò volle darci ad intendere Gesù Cristo ciò che Maria stessa poi disse alla santa che quando ricorre a Lei un peccatore, quantunque sia grande, ella non guarda i peccati che porta, ma l'intenzione con cui viene; che se viene con buona volontà d'emendarsi, ella l'accoglie e lo guarisce da tutte le piaghe che tiene: "Quantumcunque homo peccat, si ex vera emendatione ad me reversus fuerit, statim parata sum recipere revertentem: nec attendo quantum peccaverit, sed cum quali voluntate venit. Nam non dedignor eius plagas ungere et sanare; quia vocor, et vere sum mater misericordiae". Quindi ci fa animo S. Bonaventura: "Respirate ad illam, perditi peccatores, et perducet vos ad portum". Poveri peccatori perduti, non vi disperate, alzate gli occhi a Maria, e respirate confidando alla pietà di questa buona madre. Cerchiamo dunque (dice S. Bernardo) la grazia perduta, e cerchiamola per mezzo di Maria: "Quaeramus gratiam, et per Mariam quaeramus". Questa grazia da noi perduta, ella l'ha ritrovata, dice Riccardo di S. Lorenzo; dunque a lei dobbiamo portarci per ricuperarla: "Cupientes invenire gratiam, quaeramus inventricem gratiae". Quando S. Gabriele andò ad annunziare a Maria la divina maternità, tra l'altre cose le disse: "Ne timeas Maria, invenisti gratiam" (Luc 1). Ma se Maria non fu mai priva della grazia, anzi ne fu sempre piena, come potea dirle ch'ella l'avesse ritrovata? Risponde Ugon Cardinale che Maria non ritrovò la grazia per sé, perch'ella sempre l'avea goduta, ma per noi che l'abbiam perduta: onde dice Ugone che dobbiamo a lei andare e dirle: Signora, la roba dee restituirsi a chi l'ha perduta; questa grazia da Voi ritrovata non è già vostra, perché Voi l'avete sempre posseduta; ella è nostra, noi l'abbiamo per nostra colpa perduta, e a noi dunque dovete renderla: "Currant ergo, currant peccatores ad Virginem, qui gratiam amiserant peccando; secure dicant: Redde nobis rem nostram, quam invenisti".

PUNTO III

Consideriamo in terzo luogo che Maria è un'avvocata così pietosa che non solo aiuta chi a lei ricorre, ma ella stessa va cercando i miseri per difenderli e salvarli. Ecco com'ella chiama tutti, con darci animo a sperare ogni bene, se a lei ricorriamo: "In me omnis spes vitae et virtutis: transite ad me omnes" (Eccli 24,25). Commenta questo passo il divoto Pelbarto: "Vocat omnes, iustos, et peccatores". Il demonio va sempre in giro, dice S. Pietro, cercando chi divorare: "Circuit quaerens quem devoret" (1 Petr 5). Ma questa divina Madre, dice Bernardino da Bustis, va in giro cercando chi può salvare: "Ipsa semper circuit, quaerens quem salvet". Maria è madre di misericordia, perché la misericordia, che ha ella di noi, fa che ci compatisca e cerchi sempre di salvarci; come una madre che non può vedere i suoi figli in pericolo di perdersi, e lasciar d'aiutarli. E chi mai, dice S. Germano, dopo Gesù Cristo, ha più cura della nostra salute, che Voi, o Madre di misericordia? "Quis post Filium tuum curam gerit generis humani sicut tu?". Aggiunge S. Bonaventura che Maria è così sollecita in soccorrere i miserabili, che sembra non avere maggior desiderio che questo: "Undique sollicita es de miseris; solum misereri videris appetere".

Ella certamente ci soccorre, quando a lei ricorriamo, e niuno mai è da lei discacciato. "Tanta est eius benignitas", dice l'Idiota, "ut nemo ab ea repellatur". Ma ciò non basta al cuore pietoso di Maria, soggiunge Riccardo di S. Vittore. Ella previene le nostre suppliche, e s'impiega ad aiutarci prima che noi la preghiamo: "Velocius occurrit eius pietas, quam invocetur, et causas miserorum anticipat". In oltre dice lo stesso autore che Maria è così piena di misericordia, che quando vede miserie, subito sovviene, e non sa vedere il bisogno d'alcuno, e non soccorrerlo: "Adeo replentur ubera tua misericordia, ut alterius miseriae notitia tacta, lac fundant misericordiae, nec possis miserias scire, et non subvenire". Così ella facea sin da che viveva in questa terra, come sappiamo dal fatto accaduto nelle nozze di Cana di Galilea, allorché mancando il vino ella non aspettò d'esser pregata, ma compatendo l'afflizione e 'l rossore di quegli sposi, cercò al Figlio che l'avesse consolati, dicendo: "Vinum non habent"; e già ottenne che 'l Figlio con un miracolo cangiasse l'acqua in vino. Or se, dice S. Bonaventura, era così grande la pietà di Maria verso gli afflitti, mentre ancora stava in questo mondo, molto più grande certamente è la sua pietà, con cui ci soccorre, ora che sta in cielo, donde meglio vede le nostre miserie e più ci compatisce: "Magna fuit erga miseros misericordia Mariae adhuc exsulantis in mundo, sed multo maior est regnantis in coelo". E soggiunge il Novarino che se Maria ancorché non pregata si dimostrò così pronta a soccorrere, quanto sarà ella più attenta a consolar chi la prega? "Si tam prompta ad auxilium currit non quaesita, quid quaesita praestitura est?".

Ah non lasciamo mai di ricorrere in tutti i nostri bisogni a questa divina Madre, la quale si fa trovare sempre apparecchiata ad aiutar chi la prega. "Invenies semper paratam auxiliari", dice Riccardo di S. Lorenzo. E soggiunge Bernardino da Bustis che più desidera ella di far grazie a noi, che noi non desideriamo di riceverle da Lei: "Plus vult illa bonum tibi facere, et gratiam largiri, quam tu accipere concupiscas". E perciò dice che quando a lei ricorreremo, la troveremo sempre colle mani piene di grazie e di misericordie: "Invenies eam in manibus plenam misericordia et liberalitate". È tanto il desiderio, dice S. Bonaventura, che ha Maria di farci bene e di vederci salvi, ch'ella si chiama offesa non solo da chi le fa qualche ingiuria positiva, ma anche da coloro che non le cercano grazie: "In te Domina peccant, non solum qui tibi iniuriam irrogant, sed etiam qui te non rogant". Ed all'incontro afferma il santo che chi ricorre a Maria (s'intende sempre con volontà di emendarsi) egli è già salvo; onde la chiama: "O salus te invocantium": Salute di chi v'invoca. Ricorriamo dunque sempre a questa divina Madre, e diciamole sempre ciò che questo santo le diceva: "In te Domina speravi, non confundar in aeternum". O Signora, o Madre di Dio Maria, no che non mi dannerò, avendo posto in Voi le mie speranze.




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09/07/2019 23:55

L'AMORE DI DIO


Nos ergo diligamus Deum, quoniam Deus prior dilexit nos (Io 4,19)


PUNTO I


Considera primieramente che Iddio merita esser amato da te, perché ti ha amato prima che tu l'amassi; ed Egli è stato fra tutti il primo ad amarti. "In caritate perpetua dilexi te" (Ier 31,3). I primi ad amarti in questa terra sono stati i tuoi genitori, ma essi non ti hanno amato se non dopo che ti han conosciuto. Ma prima che tu avessi l'essere, Dio già ti amava. Non era ancora in questo mondo né tuo padre, né tua madre, e Dio già t'amava; anzi non era ancora creato il mondo, e Dio t'amava; e quanto tempo prima di crearsi il mondo t'amava Dio? forse mille anni, mille secoli prima? non occorre di numerare anni e secoli, sappi che Dio ti ha amato sin dall'eternità. "In caritate perpetua dilexi te, ideo attraxi te miserans tui" (Ier 31,3). In somma Iddio da che è stato Dio, sempre t'ha amato; da che ha amato se stesso, ha amato ancora te. Avea ragione dunque quella santa verginella S. Agnese di dire: "Ab alio amatore praeventa sum". Allorché il mondo e le creature le richiedeano il suo amore, ella rispondea: No, mondo, creature, io non vi posso amare; il mio Dio è stato il primo ad amarmi; è giusto dunque ch'io solo a Dio consacri tutto il mio amore.


Sicché, fratello mio, da una eternità ti ha amato il tuo Dio, e solo per amore ti ha estratto dal numero di tanti uomini che potea creare, ed ha dato a te l'essere e ti ha posto nel mondo. Per amor tuo ancora ha fatte tante altre belle creature, acciocché ti servissero e ti ricordassero l'amore, ch'Egli t'ha portato e che tu gli dei. "Coelum et terra", dicea S. Agostino, "et omnia mihi dicunt, ut amem te". Quand'il santo guardava il sole, la luna, le stelle, i monti, i fiumi, gli parea che tutti gli parlassero e gli dicessero: Agostino, ama Dio, perché egli ha creato noi per te, affinché tu l'amassi. L'Abbate Ransé fondatore della Trappa, quando mirava le colline, i fonti, i fiori, dicea che tutte queste creature gli ricordavano l'amore, che Dio gli avea portato. S. Teresa parimenti dicea che le creature le rinfacciavano la sua ingratitudine verso Dio. S. Maria Maddalena de' Pazzi quando teneva in mano qualche bel fiore o frutto, si sentiva da quello ferire come da una saetta il cuore d'amore verso Dio, dicendo tra sé: Dunque il mio Dio ha pensato da un'eternità a crear questo fiore, questo frutto, acciocché io l'amassi!


Di più considera l'amore speciale, che Dio ti ha portato, in farti nascere in paese cristiano e in grembo della vera Chiesa. Quanti nascono tra gl'idolatri, tra' Giudei, tra' Maomettani, o tra gli eretici, i quali tutti si perdono! Pochi sono quelli che tra gli uomini hanno la sorte di nascere, dove regna la vera fede; e tra questi pochi il Signore ha eletto te. Oh che dono immenso è questo dono della Fede! Quanti milioni di persone sono prive de' sagramenti, di prediche, degli esempi de' buoni compagni, e di tutti gli altri aiuti che vi sono nella nostra vera Chiesa per salvarsi! E Dio ha voluto concedere a te tutti questi grandi aiuti senza alcuno tuo merito, anzi prevedendo i tuoi demeriti; mentre allorché egli pensava a crearti ed a farti queste grazie, già prevedea l'ingiurie che tu gli avevi da fare.


PUNTO II


Ma non solamente Iddio ci ha donate tante belle creature, Egli non si è chiamato contento, se non giungeva a donarci anche se stesso. "Dilexit nos, et tradidit semetipsum pro nobis" (Gal 2,20). Il peccato maledetto aveaci fatta perdere la divina grazia e 'l paradiso, e ci avea renduti schiavi dell'inferno; ma il Figlio di Dio facendo stupire il cielo e la natura, volle venire in terra a farsi uomo per riscattarci dalla morte eterna e farci ottenere la grazia e 'l paradiso perduto. Che maraviglia sarebbe vedere un monarca fatto verme per amore de' vermi? ma infinitamente maggiore dee essere in noi la maraviglia di vedere un Dio fatto uomo per amore degli uomini. "Exinanivit semetipsum, formam servi accipiens, et habitu inventus ut homo" (Phil 2,7). Un Dio vestito di carne! "Et Verbum caro factum est" (Io 1,14). Ma cresce la maraviglia in vedere quel che poi ha fatto e patito per nostro amore questo Figlio di Dio. Bastava per redimerci una sola goccia del suo sangue, una lagrima, una semplice sua preghiera, poiché questa preghiera essendo d'una persona divina, era d'infinito valore, ond'era sufficiente a salvare tutto il mondo ed infiniti mondi. Ma no, dice il Grisostomo, quel che bastava a redimerci, non bastava all'amore immenso, che questo Dio ci portava: "Quod sufficiebat redemtioni, non sufficiebat amori".


Egli non solo volea salvarci, ma perché ci amava assai, voleva ancora essere amato assai da noi; e perciò volle scegliersi una vita tutta colma di pene, e di disprezzi, ed una morte la più amara fra tutte le morti, per farc'intendere l'amore infinito, del quale ardeva verso di noi. "Humiliavit semetipsum, factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis" (Phil 2,8). Oh eccesso dell'amore divino, che tutti gli uomini e tutti gli angeli non arriveranno mai a comprenderlo! Dico "eccesso", perché tale fu chiamato appunto da Mosè e da Elia sul Taborre, parlando essi della passione di Gesù Cristo: "Dicebant excessum quem completurus erat in Ierusalem" (Luc 9,31). "Excessus doloris, excessus amoris", dice S. Bonaventura. Se 'l Redentore non fosse stato Dio, ma un semplice nostro amico e parente, qual maggior segno d'affetto avrebbe potuto dimostrarci che di morire per noi? "Maiorem hac dilectionem nemo habet, ut animam suam ponat quis pro amicis suis" (Io 15,13). Se Gesù Cristo avesse avuto a salvare il suo medesimo Padre, che più avrebbe potuto fare per suo amore? Se, fratello mio, tu fossi stato Dio e 'l creatore di Gesù Cristo, che altro avrebbe potuto egli fare per te, che sagrificar la vita in mezzo ad un mare di disprezzi e di dolori? Se il più vile uomo della terra avesse fatto per voi quel che ha fatto Gesù Cristo, potreste vivere senz'amarlo?


Ma che dite? Credete voi all'incarnazione ed alla morte di Gesù Cristo? Lo credete e non l'amate? e potete pensare ad amare altra cosa fuori di Gesù Cristo? Forse dubitate, se egli v'ami? Egli, dice S. Agostino, a questo fine è venuto in terra a patire e morire per voi, per farvi sapere l'immenso amore che vi porta: "Propterea Christus advenit, ut cognosceret homo quantum eum diligat Deus". Prima dell'incarnazione potea dubitare l'uomo, se Dio l'amasse con tenerezza, ma dopo l'incarnazione e la morte di Gesù Cristo, come può più dubitarne? E qual maggior tenerezza poteva egli dimostrarvi del suo affetto, che in sagrificar per voi la sua vita divina? Abbiam fatto l'orecchio a sentir nominare creazione, redenzione, un Dio in una mangiatoia, un Dio su d'una croce. Oh santa fede, illuminateci voi.


PUNTO III


Cresce la maraviglia in vedere poi il desiderio, che avea Gesù Cristo di patire e di morire per noi. "Baptismo autem habeo baptizari (così Egli andava dicendo, mentre viveva), et quomodo coarctor usquedum perficiatur" (Luc 12,50). Io debbo essere battezzato col battesimo del mio medesimo sangue, e mi sento morire di desiderio che venga presto la mia passione e morte, acciocché così l'uomo presto conosca l'amore ch'io gli porto. Ciò fu ancora che gli fe' dire nella notte precedente alla sua passione: "Desiderio desideravi hoc pascha manducare vobiscum" (Luc 22,15). Dunque, dice S. Basilio di Seleucia, par che il nostro Dio non possa saziarsi di amare gli uomini: "Hominum amore nequit expleri Deus".


Ah Gesù mio, gli uomini non v'amano, perché non pensano all'amore che voi avete loro portato. Oh Dio, un'anima che considera un Dio morto per suo amore e con tanto desiderio di morire per dimostrarle l'affetto che le portava, com'è possibile che possa vivere senz'amarlo? "Caritas Christi urget nos" (2 Cor 5,14). Dice S. Paolo che non tanto quel che ha fatto ed ha patito Gesù Cristo, ma l'amore che ci ha dimostrato nel patire per noi, ci obbliga e quasi ci fa forza ad amarlo. Ciò considerando S. Lorenzo Giustiniani esclamava: "Vidimus sapientem prae nimietate amoris infatuatum!". Abbiam veduto un Dio, che per noi quasi è impazzito per lo troppo amore che ci porta. E chi mai potrebbe credere, se la fede non ce ne assicurasse, che il Creatore abbia voluto morire per le sue creature? S. Maria Maddalena de' Pazzi in un'estasi ch'ebbe, portando tra le mani un'immagine del Crocifisso, così appunto chiamavaGesù Cristo: Pazzo d'amore. "Sì, Gesù mio, (diceva) che tu sei pazzo d'amore". E questo appunto ancora diceano i gentili, quando loro si predicava la morte di Gesù Cristo, la stimavano una pazzia da non potersi mai credere: così attesta l'Apostolo: "Praedicamus Christum crucifixum, Iudaeis quidem scandalum, gentibus autem stultitiam" (1 Cor 1,23). E come mai, essi diceano, un Dio felicissimo in se stesso, che di niuno ha bisogno, ha potuto scendere in terra, farsi uomo e morire per amore degli uomini sue creature? Ciò sarebbe lo stesso che credere un Dio divenuto pazzo per amore degli uomini. Ma pure è di fede che Gesù Cristo vero Figlio di Dio per amore di noi si è dato alla morte: "Dilexit nos et tradidit semetipsum pro nobis" (Eph 5,2).


E perché l'ha fatto? l'ha fatto, acciocché noi vivessimo non più al mondo, ma solamente a quel Signore che ha voluto per noi morire. "Pro omnibus mortuus est Christus, ut et qui vivunt, iam non sibi vivant, sed ei qui pro ipsis mortuus est" (2 Cor 5,15). L'ha fatto, acciocché coll'amore che ci ha dimostrato, Egli si guadagnasse tutti gli affetti de' nostri cuori. "In hoc Christus mortuus est, et resurrexit, ut mortuorum et vivorum dominetur" (Rom 14,9). Quindi i santi, considerando la morte di Gesù Cristo, hanno stimato far poco in dar la vita e tutto per amore d'un Dio così amante. Quanti nobili, quanti principi hanno lasciato i parenti, le ricchezze, le patrie ed anche i regni, per chiudersi in un chiostro a vivere al solo amore di Gesù Cristo! Quanti martiri gli han sagrificata la vita! Quante verginelle, rinunziando alle nozze de' grandi, se ne sono andate giubilando alla morte, per render così qualche ricompensa all'affetto d'un Dio morto per loro amore! E voi, fratello mio, che avete fatto sinora per amore di Gesù Cristo? Egli siccome è morto per li santi, per S. Lorenzo, per S. Lucia, per S. Agnese, così è morto ancora per voi. Almeno che pensate di fare nella vita che vi resta, e che Dio vi concede a fine che l'amiate? Da oggi avanti rimirate spesso l'immagine del Crocifisso, e guardandola ricordatevi dell'amore ch'egli vi ha portato, e dite fra voi: Dunque Voi, mio Dio, siete morto per me? Fate almen questo (dico), e fatelo spesso, che facendo così, non potrete far di meno di sentirvi dolcemente costretto ad amare un Dio che vi ha tanto amato.





LA SANTA COMUNIONE

Accipite, et comedite: hoc est Corpus meum (Matth 26,26)

PUNTO I

Vediamo 1. il gran dono, ch'è il SS. Sagramento: 2. il grande amore, che Gesù in tal dono ci ha dimostrato: 3. il gran desiderio di Gesù che noi riceviamo questo suo dono. Consideriamo in primo luogo il gran dono che ci ha fatto Gesù Cristo, in darci tutto se stesso in cibo nella santa Comunione. Dice S. Agostino ch'essendo Gesù un Dio onnipotente, non ha più che darci: "Cum esset omnipotens plus dare non potuit". E qual tesoro più grande, soggiunge S. Bernardino da Siena, può ricevere o desiderare un'anima, che 'l sagrosanto Corpo di Gesù Cristo? "Quis melior thesaurus in corde hominis esse potest, quam Corpus Christi?". Gridava il profeta Isaia: "Notas facite adinventiones eius" (Is 12). Pubblicate, o uomini, le invenzioni amorose del nostro buon Dio. E chi mai, se il nostro Redentore non ci avesse fatto questo dono, chi mai (dico) di noi avrebbe potuto domandarlo? Chi avrebbe mai avuto l'ardire di dirgli: Signore, se volete farci conoscere il vostro amore, mettetevi sotto le specie di pane, e permetteteci che possiamo cibarci di Voi? Sarebbe stata stimata pazzia anche il pensarlo. "Nonne insania videtur", dice S. Agostino, "dicere, manducate meam carnem, bibite meum sanguinem?". Quando Gesù Cristo palesò a' discepoli questo dono del SS. Sagramento che volea lasciarci, quelli non poterono arrivare a crederlo, e si partirono da Lui, dicendo: "Quomodo potest hic carnes suas dare ad manducandum? Durus est hic sermo, et quis potest eum audire" (Io 6,61). Ma ciò che gli uomini non poteano mai immaginarsi, l'ha pensato e l'ha eseguito il grande amore di Gesù Cristo.

Dice S. Bernardino che 'l Signore ci ha lasciato questo Sagramento per memoria dell'affetto, ch'Egli ci ha dimostrato nella sua passione: "Hoc Sacramentum est memoriale suae dilectionis". E ciò è conforme a quel che ci lasciò detto Gesù stesso per S. Luca: "Hoc facite in meam commemorationem" (Luc 22,19). Non fu contento, soggiunge S. Bernardino, l'amore del nostro Salvatore in sagrificar la vita per noi: prima di morire fu Egli costretto da questo suo stesso amore a farci il dono più grande di quanti mai ci ha fatti, con donarci se medesimo in cibo: "In illo fervoris excessu, quando paratus erat pro nobis mori, ab excessu amoris maius opus agere coactus est, quam unquam operatus fuerat, dare nobis Corpus in cibum". Dice Guerrico Abbate che Gesù in questo Sagramento fe' l'ultimo sforzo d'amore: "Omnem vim amoris effudit amicis". E meglio l'espresse il Concilio di Trento, dicendo che Gesù nell'Eucaristia cacciò fuori tutte le ricchezze del suo amore verso degli uomini: "Divitias sui erga homines amoris velut effudit".

Qual finezza d'amore, dice S. Francesco di Sales, si stimerebbe quella, se un principe stando a mensa, mandasse ad un povero una porzione del suo piatto? Quale poi, se gli mandasse tutto il suo pranzo? quale finalmente, se gli mandasse un pezzo del suo braccio, acciocché se ne cibi? Gesù nella S. Comunione ci dona in cibo non solo una parte del suo pranzo, non solo una parte del suo corpo, ma tutto il suo corpo: "Accipite, et comedite; hoc est Corpus meum". Ed insieme col suo corpo, ci dona anche l'anima e la sua divinità. In somma (dice S. Gio. Grisostomo) dandoti Gesù Cristo se stesso nella S. Comunione, ti dona tutto quello che ha e niente si riserva: "Totum tibi dedit, nihil sibi reliquit"; ed un altro autore scrive: "Deus in Eucharistia totum quod est et habet, dedit nobis". Ecco che quel gran Dio, che il mondo non può contenere (ammira S. Bonaventura) si fa nel SS. Sagramento nostro prigioniero: "Ecce quem mundus capere non potest, captivus noster est". E se il Signore nell'Eucaristia ci dona tutto se stesso, come possiamo temer ch'Egli abbia poi a negarci alcuna grazia che gli domandiamo? "Quomodo non etiam cum illo omnia nobis donavit?" (Rom 8,32).

PUNTO II

Consideriamo in secondo luogo il grande amore, che Gesù Cristo in tal dono ci ha dimostrato. Il SS. Sagramento è un dono fatto solamente dall'amore. Fu necessario già per salvarci, secondo il decreto divino che il Redentore morisse, e col sagrificio della sua vita soddisfacesse la divina giustizia per li nostri peccati; ma che necessità vi era che Gesù Cristo dopo esser morto si lasciasse a noi in cibo? Ma così volle l'amore. Non per altro, dice S. Lorenzo Giustiniani, Egli istituì l'Eucaristia, se non "ob suae eximiae caritatis indicium", se non per farci intendere l'immenso amor che ci porta. E questo è appunto quel che scrisse S. Giovanni: "Sciens Iesus, quia venit hora eius, ut transeat ex hoc mundo ad Patrem, cum dilexisset suos, in finem dilexit eos" (Io 13,1). Sapendo Gesù esser giunto già il tempo di partirsi da questa terra, volle lasciarci il segno più grande del suo amore, che fu questo dono del SS. Sagramento; ciò appunto significano quelle parole, "in finem dilexit eos", cioè "extremo amore, summe dilexit eos", così spiega Teofilatto col Grisostomo.

E si noti quel che notò l'Apostolo che il tempo in cui volle Gesù Cristo lasciarci questo dono, fu il tempo della sua morte. "In qua nocte tradebatur, accepit panem, et gratias agens fregit, et dixit: Accipite et manducate, hoc est Corpus meum" (1 Cor 11). Allorché gli uomini gli apparecchiavano flagelli, spine e croce per farlo morire, allora voll'Egli l'amante Salvatore lasciarci quest'ultimo segno del suo affetto. E perché in morte, e non prima istituì questo Sagramento? Dice S. Bernardino che ciò lo fece, perché i segni d'amore che dimostransi dagli amici in morte, più facilmente restano a memoria, e si conservano più caramente: "Quae in fine in signum amicitiae celebrantur, firmius memoriae imprimuntur, et cariora tenentur". Gesù Cristo, dice il santo, già prima in molti modi s'era a noi donato: s'era dato per compagno, per maestro, per padre, per luce, per esempio e per vittima; restava l'ultimo grado d'amore, ch'era il darsi a noi in cibo, per unirsi tutto con noi, come si unisce il cibo con chi lo prende; e questo fec'egli dandosi a noi nel SS. Sagramento: "Ultimus gradus amoris est, cum se dedit nobis in cibum, quia dedit se nobis ad omnimodam unionem, sicut cibus et cibans invicem uniuntur". Sicché non fu contento il nostro Redentore di unirsi solamente alla nostra natura umana, volle con questo Sagramento trovare il modo d'unirsi anche ad ognuno di noi in particolare.

Dicea S. Francesco di Sales: "In niun'altra azione può considerarsi il Salvatore né più tenero, né più amoroso, che in questa, nella quale si annichila, per così dire, e si riduce in cibo per penetrare l'anime nostre, ed unirsi al cuore de' suoi fedeli". Sicché, dice S. Gio. Grisostomo, a quel Signore, a cui non ardiscono gli Angeli di fissare gli occhi, "Huic nos unimur, et facti sumus unum corpus, et una caro". Qual pastore mai (soggiunge il santo) pasce le sue pecorelle col proprio sangue? anche le madri danno i loro figli alle nutrici ad alimentarli, ma Gesù nel Sagramento ci alimenta col suo medesimo sangue e a Sé ci unisce: "Quis pastor oves proprio pascit cruore? Et quid dico pastor? Matres multae sunt, quae filios aliis tradunt nutricibus; hoc autem ipse non est passus, sed ipse nos proprio sanguine pascit". E perché farsi nostro cibo? perché (dice il santo) ardentemente ci amò, e così volle tutto unirsi e farsi una stessa cosa con noi: "Semetipsum nobis immiscuit, ut unum quid simus; ardenter enim amantium hoc est". Quindi Gesù Cristo ha voluto fare il più grande di tutti i miracoli: "Memoriam fecit mirabilium suorum, escam dedit timentibus se" (Psal 110), affin di soddisfare il desiderio che avea di star con noi e di unire in uno il nostro col suo SS. Cuore. "O mirabilis dilectio tua (esclama S. Lorenzo Giustiniani), Domine Iesu, qui tuo corpori taliter nos incorporari voluisti, ut tecum unum cor, et animam unam haberemus inseparabiliter colligatam!".

Quel gran servo di Dio, il P. della Colombière, dicea così: Se qualche cosa potesse smuovere la mia fede sul mistero dell'Eucaristia, io non dubiterei della potenza, ma dell'amore più presto che Dio ci dimostra in questo Sagramento. Come il pane diventi Corpo di Gesù, come Gesù si ritrovi in più luoghi, dico che Dio può tutto. Ma se mi chiedete come Dio ami a tal segno l'uomo, che voglia farsi cibo suo? altro non so rispondere che non l'intendo, e che l'amore di Gesù non può comprendersi. Ma, Signore, un tale eccesso d'affetto di ridurvi in cibo, par che non convenisse alla vostra maestà. Ma risponde S. Bernardo che l'amore fa scordare l'amante della propria dignità: "Amor dignitatis nescius". Risponde parimente il Grisostomo che l'amore non va cercando ragion di convenienza, quando tratta di farsi conoscere all'amato; egli non va dove conviene, ma dov'è condotto dal suo desiderio: "Amor ratione caret, et vadit quo ducitur, non quo debeat". Avea ragione dunque S. Tommaso l'Angelico di chiamar questo Sagramento, Sagramento d'amore, e pegno d'amore: "Sacramentum caritatis, caritatis pignus". E S. Bernardo di chiamarlo, "Amor amorum". E S. M. Maddalena de' Pazzi di chiamare il giorno di Giovedì santo, in cui fu istituito questo Sagramento, "il giorno dell'amore".

PUNTO III

Consideriamo in terzo luogo il gran desiderio di Gesù Cristo che noi lo riceviamo nella santa Comunione: "Sciens Iesus quia venit hora eius" (Io 13,1). Ma come potea Gesù chiamare "ora sua" quella notte, in cui doveva darsi principio alla sua amara passione? Sì, Egli la chiama "ora sua", perché in quella notte dovea lasciarci questo divin Sagramento, per unirsi tutto coll'anime sue dilette. E questo desiderio gli fe' dire allora: "Desiderio desideravi hoc Pascha manducare vobiscum" (Luc 22,15). Parole con cui volle il Redentore farc'intendere la brama, che avea di congiungersi con ognuno di noi in questo Sagramento. "Desiderio desideravi", così gli fa dire l'amore immenso ch'Egli ci porta, dice S. Lorenzo Giustiniani: "Flagrantissimae caritatis est vox haec". E volle lasciarsi sotto le specie di pane, acciocché ognuno potesse riceverlo; se si fosse posto sotto la specie di qualche cibo prezioso, i poveri non avrebbero avuta la facoltà di prenderlo; e se anche sotto le specie di altro cibo non prezioso, al meno quest'altro cibo forse non sarebbesi trovato in tutt'i luoghi della terra; ha voluto Gesù lasciarsi sotto le specie di pane, perché il pane costa poco, e si ritrova da per tutto, sicché tutti in ogni luogo posson trovarlo e riceverlo.

Per questo gran desiderio che ha il Redentore d'esser ricevuto da noi, non solo Egli ci esorta a riceverlo con tanti inviti: "Venite, comedite panem meum, et bibite vinum quod miscui vobis" (Prov 9,5): "Comedite amici, et bibite, et inebriamini carissimi" (Cant 5,1): ma ce l'impone per precetto: "Accipite, et comedite, hoc est Corpus meum" (Matth 26,26). Di più affìnché noi andiamo a riceverlo, ci alletta colla promessa della vita eterna: "Qui manducat meam carnem, habet vitam aeternam" (Io 6,54). "Qui manducat hunc panem, vivet in aeternum" (Io 6,58). E se no, ci minaccia l'esclusione dal paradiso: "Nisi manducaveritis carnem Filii hominis, non habebitis vitam in vobis" (Io 6,53). Questi inviti, promesse e minacce tutte nascono dal desiderio che ha Gesù Cristo di unirsi con noi in questo sagramento. E questo desiderio, nasce dal grande amore ch'egli ci porta, poiché (come dice S. Francesco di Sales) il fine dell'amore altro non è che unirsi all'oggetto amato; e perché in questo sagramento Gesù tutto si unisce all'anima: "Qui manducat meam carnem, et bibit meum sanguinem, in me manet, et ego in illo" (Io 6,35): perciò, Egli tanto desidera che noi lo riceviamo. Non si trova ape (disse un giorno il Signore a S. Metilde) che con tanto impeto d'amore si gitta sopra de' fiori per succhiarne il mele, con quanto io vengo a quest'anime che mi desiderano.

Oh se intendessero i fedeli il gran bene che porta all'anima la Comunione! Gesù è il Signore di tutte le ricchezze, mentre il Padre l'ha fatto padrone di tutto. "Sciens Iesus, quia omnia dedit ei Pater in manus" (Io 13,3). Onde quando viene Gesù Cristo in un'anima nella santa Comunione, porta Egli seco tesori immensi di grazie. "Venerunt autem mihi omnia bona pariter cum illa", dice Salomone, parlando della Sapienza eterna (Sap 7,11).

Dicea S. Dionisio che il SS. Sagramento ha una somma virtù di santificare l'anima: "Eucharistia maximam vim habet perficiendae sanctitatis". E S. Vincenzo Ferrerio lasciò scritto che più profitta l'anima con una Comunione, che con una settimana di digiuni in pane ed acqua. La Comunione, come insegna il Concilio di Trento, è quel gran rimedio, che ci libera dalle colpe veniali, e ci preserva dalle mortali: "Antidotum quo a culpis quotidianis liberemur, et a mortalibus praeservemur". Onde S. Ignazio martire chiamò il SS. Sagramento: "Pharmacum immortalitatis". Disse Innocenzo III che Gesù Cristo colla passione ci liberò dalla pena del peccato, ma coll'Eucaristia ci libera dal peccare: "Per Crucis mysterium liberavit nos a potestate peccati, per Eucharistiae sacramentum liberat nos a potestate peccandi".

In oltre questo Sagramento accende il divino amore. "Introduxit me Rex in cellam vinariam, ordinavit in me caritatem. Fulcite me floribus, stipate me malis, quia amore langueo" (Cant 2). Dice S. Gregorio Nisseno che appunto la Comunione è questa cella vinaria, dove l'anima è talmente inebriata dal divino amore, che si scorda della terra e di tutto il creato; e ciò è propriamente il languire di santa carità. Diceva anche il Ven. P. Francesco Olimpio Teatino, che niuna cosa val tanto ad infiammarci d'amore verso Dio, quanto la S. Comunione.

Iddio è amore, ed è fuoco d'amore. "Deus caritas est" (Io 4,8). "Ignis consumens est" (Deuter 4,24). E questo fuoco d'amore venne il Verbo eterno ad accendere in terra: "Ignem veni mittere in terram et quid volo nisi ut accendatur?" (Luc 12,49). Ed oh che belle fiamme di santo amore accende Gesù nell'anime, che con desiderio lo ricevono in questo Sagramento! S. Caterina da Siena vide un giorno in mano di un sacerdote Gesù Sagramentato, come una fornace d'amore, da cui si maravigliava poi la santa, come da tanto incendio non restassero arsi ed inceneriti tutti i cuori degli uomini. S. Rosa di Lima dicea che in comunicarsi pareale di ricevere il sole, onde mandava tali raggi dal volto, che abbagliavano la vista, ed usciva tal calore dalla bocca, che chi le porgeva a bere dopo la Comunione, sentivasi scottar la mano, come l'accostasse ad una fornace. S. Venceslao re col gir solamente visitando il SS. Sagramento, s'infiammava anch'esternamente di tanto ardore, che il suo servo che l'accompagnava, camminando sulla neve, metteva i piedi sulle pedate del santo, e così non sentiva freddo. "Carbo est Eucharistia", diceva il Grisostomo, "quae nos inflammat, ut tanquam leones ignem spirantes ab illa mensa recedamus facti diabolo terribiles". Dicea il santo che il SS. Sagramento è un fuoco che infiamma, sicché dovressimo partir dall'altare spirando tali fiamme d'amore, che il demonio non avesse più animo di tentarci.

Ma dirà taluno: Io perciò non mi comunico spesso, perché mi vedo freddo nel divino amore. Ma costui, dice Gersone, farebbe lo stesso che taluno, il quale non volesse accostarsi al fuoco, perché si sente freddo. Quando più dunque ci sentiamo freddi, tanto più dobbiamo accostarci spesso al SS. Sagramento, sempre che abbiamo desiderio di amare Dio. "Se vi dimandano (dice S. Francesco di Sales), perché vi comunicate tanto spesso? Dite loro che due sorte di persone devono comunicarsi spesso, i perfetti e gl'imperfetti: i perfetti per conservarsi nella perfezione, e gl'imperfetti per giungere alla perfezione". E S. Bonaventura parimente dice: "Licet tepide, tamen confidens de misericordia Dei accedas. Tanto magis eget medico, quanto quis senserit se aegrotum". E Gesù Cristo disse a S. Metilde: "Quando dei comunicarti, desidera tutto quello amore che mai un cuore ha avuto verso di me, ed io lo riceverò come tu vorresti che fosse un tal amore".




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10/07/2019 00:04

LA DIMORA AMOROSA CHE FA GESÙ SUGLI ALTARI NEL SS. SAGRAMENTO


Venite ad me omnes qui laboratis, et onerati estis, et ego reficiam vos (Matth 11,28)


PUNTO I


Il nostro amante Salvatore, dovendo partire da questo mondo, dopo di aver colla sua morte compita l'opera della nostra redenzione, non volle lasciarci soli in questa valle di lagrime. "Niuna lingua è bastante (dicea S. Pietro d'Alcantara), a poter dichiarare la grandezza dell'amore, che Gesù porta ad ogni anima; e perciò volendo questo sposo partire da questa vita, acciocché questa sua assenza non le fosse cagione di scordarsi di lui, le lasciò per memoria questo SS. Sagramento, nel quale Egli stesso rimanea, non volendo che tra ambedue restasse altro pegno per tenere svegliata la memoria ch'Egli medesimo". Merita dunque da noi grande amore questo gran tratto d'amore di Gesù Cristo; e perciò in questi ultimi nostri tempi Egli ha voluto che s'istituisse la festa in onore del suo SS. Cuore, come si porta rivelato alla sua serva suor Margherita Maria Alacoque, affinché noi rendessimo co' nostri ossequi ed affetti qualche contraccambio alla sua amorosa dimora che fa sugli altari: e così insieme compensassimo i disprezzi che in questo Sagramento d'amore Egli ha ricevuti e riceve tuttavia dagli eretici e da' mali cristiani.


Gesù si è lasciato nel SS. Sagramento, 1. per farsi trovare da tutti; 2. per dare udienza a tutti; 3. per far grazie a tutti. E per 1. Egli si fa trovare in tanti diversi altari, per farsi trovare da tutti che desiderano di trovarlo. In quella notte in cui il Redentore stavasi licenziando da' discepoli per andar alla morte, addolorati quelli piangeano, pensando di doversi dividere dal loro caro maestro; ma Gesù li consolava dicendo (e lo stesso diceva allora anche a noi): Figli miei, io vado a morire per voi, per dimostrarvi l'amore che vi porto; ma anche morendo non voglio lasciarvi soli; finché voi sarete sulla terra, voglio con voi restarmi nel SS. Sagramento dell'altare. Io vi lascio il mio corpo, l'anima mia, la mia divinità e tutto me stesso. No, finché voi starete sulla terra, io non voglio separarmi da voi. "Ecce vobiscum sum usque ad consummationem saeculi" (Matth 28,20). "Volea lo sposo (scrisse S. Pietro d'Alcantara) lasciare alla sua sposa in questa sì lunga lontananza qualche compagnia, acciocché non rimanesse sola, e perciò lasciò questo Sagramento, in cui rimase esso stesso, ch'era la miglior compagnia che potesse lasciarle". I gentili si han finti tanti dei, ma non han saputo fingersi un Dio più amoroso del nostro, e che ci sta più vicino e ci assiste con tanto amore. "Non est alia natio tam grandis, quae habeat deos appropinquantes sibi, sicut Deus noster adest nobis". Così appunto la S. Chiesa applica questo passo del Deuteronomio (Deut 4,7) alla festa del SS. Sagramento.


Ecco dunque Gesù Cristo, che se ne sta negli altari, come ristretto in tante prigioni d'amore. Lo cacciano i sacerdoti dalle custodie per esporlo, o per dar la comunione, e poi lo ritornano a chiudere. E Gesù se ne contenta di restarsene ivi il giorno e la notte. Ma che serviva, mio Redentore, a restarvi in tante chiese anche la notte, mentre le genti serrano le porte e vi lasciano solo? Bastava trattenervi solamente nelle ore del giorno. No, vuol Egli starsene anche la notte benché solo, aspettando che la mattina subito lo trovi chi lo cerca. Andava la sacra sposa cercando il suo diletto, e dimandava a chi incontrava: "Num quem diligit anima mea vidistis?" (Cant 3,3). E non trovandolo alzava la voce, dicendo: Sposo mio, fatemi sapere dove state: "Indica mihi ubi pascas, ubi cubes in meridie" (Cant 1,6). Allora la sposa non lo trovava, perché non vi era ancora il SS. Sagramento; ma al presente, se un'anima vuol trovare Gesù Cristo, basta che vadi alla parrocchia, o a qualche monastero, ed ivi troverà il suo diletto che l'aspetta. Non vi è villaggio per misero che sia, non vi è monastero di religiosi, che non tenga il SS. Sagramento; ed in tutti quei luoghi il Re del cielo si contenta di starsene chiuso in una cassettina di legno, o in una pietra, dove spesso se ne resta solo, appena con una lampa d'olio, senza chi l'assista. Ma, Signore (dice S. Bernardo), ciò non conviene alla vostra maestà. Non importa, risponde Gesù, se ciò non conviene alla mia maestà, ben conviene al mio amore.


Or qual tenerezza sentono i pellegrini in visitare la santa casa di Loreto, o i luoghi di Terra santa, la stalla di Betlemme, il Calvario, il santo Sepolcro, dove Gesù Cristo nacque, o abitò, o morì, o fu sepolto! Ma quanto maggiore dee esser la nostra tenerezza, in trovarci in una chiesa alla presenza di Gesù medesimo, che sta nel SS. Sagramento? Diceva il Ven. P. Giovanni d'Avila ch'egli non sapea trovare santuario di maggior divozione e consolazione, che una chiesa dove sta Gesù sagramentato. Ma piangeva all'incontro il P. Baltassarre Alvarez in vedere i palagi de' principi pieni di gente, e le chiese dove sta Gesù Cristo abbandonate e sole. Oh Dio, se il Signore si fosse lasciato in una sola chiesa della terra, v. gr. solo in S. Pietro in Roma, e si facesse ivi trovare solamente in un solo giorno dell'anno, oh quanti pellegrini, quanti nobili e quanti monarchi procurerebbero d'aver la sorte di trovarsi ivi in quel giorno, a corteggiare il Re del cielo ritornato in terra! Oh che nobil tabernacolo d'oro adornato di gemme gli sarebbe apprestato! Oh con qual apparato di lumi si solennizzerebbe in quel giorno questa dimora di Gesù Cristo! Ma no, dice il Redentore, Io non voglio dimorare in una sola chiesa, né per un solo giorno; né ricerco tante ricchezze e tanti lumi, io voglio dimorar continuamente in tutti i giorni ed in tutti i luoghi, dove si ritrovano i miei fedeli, acciocché tutti mi ritrovino facilmente, e sempre ad ogni ora che vogliono.


Ah che se Gesù Cristo non avesse pensato a questa finezza d'amore, chi mai avrebbe potuto pensarvi? Quando Egli se n'ascese al cielo, se alcuno gli avesse detto allora: Signore, se volete dimostrarci il vostro affetto, restatevi con noi sugli altari sotto le specie di pane, acciocché ivi possiamo trovarvi quando vogliamo; qual temerità sarebbe stata stimata questa domanda? Ma quello che non ha saputo neppure pensare alcuno degli uomini, l'ha pensato e l'ha fatto il nostro Salvatore. Ma oimè dov'è la nostra gratitudine ad un tanto favore? Se venisse un principe da lontano in un paese a posta per esser visitato da un villano, che ingratitudine sarebbe del villano, se non volesse vederlo, o vederlo sol di passaggio?


PUNTO II


Per 2. Gesù Cristo nel Sagramento dà udienza a tutti. Dicea S. Teresa che non tutti in questa terra possono parlare col principe. I poveri appena posson sperare di parlargli e fargli sentire le loro necessità per mezzo di qualche terza persona: ma col Re del cielo non vi vogliono terze persone, tutti, e nobili e poveri posson parlarci, stando egli nel Sagramento, da faccia a faccia. Perciò si chiama Gesù fiore de' campi: "Ego flos campi, et lilium convallium" (Cant 2,1). I fiori de' giardini stan chiusi e riserbati, ma i fiori de' campi stanno esposti a tutti. "Ego flos campi", commenta Ugon Cardinale, "quia omnibus me exhibeo ad inveniendum".


Con Gesù Cristo dunque nel Sagramento possono parlarci tutti, e ad ogni ora del giorno. S. Pier Grisologo (parlando della nascita del Redentore nella stalla di Betlemme) dice che i re non danno sempre udienza; spesso accade che andando taluno a parlare col principe, le guardie lo licenziano con dirgli che non è tempo allora di udienza, che venga appresso. Ma il Redentore volle nascere in una spelonca aperta, senza porte e senza guardie, per dare udienza a tutti, e ad ogni ora: "Non est satelles, qui dicat non est hora". Lo stesso avviene con Gesù nel SS. Sagramento. Stanno aperte continuamente le chiese, ognuno può andare a parlare col Re del cielo sempre che vuole. E vuole Gesù Cristo che gli parliamo ivi con tutta la nostra confidenza, perciò si è posto sotto le specie di pane. Se Gesù comparisse sugli altari in un trono di luce, come comparirà nel giudizio finale, chi di noi avrebbe l'animo di accostarsegli vicino? Ma perché il Signore, dice S. Teresa, desidera che noi gli parliamo e gli cerchiamo le grazie con confidenza e senza timore, perciò ha coverta la sua maestà colle specie di pane. Egli desidera, come dice ancora Tommaso da Kempis, che noi ci trattiamo, come tratta un amico coll'altro amico, "ut amicus ad amicum".


Quando l'anima si trattiene a piè d'un altare, par che Gesù le dica quelle parole de' Cantici: "Surge, propera, amica mea, formosa mea, et veni" (Cant 2,10). "Surge", alzati, anima, le dice, non temere. "Propera", accostati a me vicino; "amica mea", non mi sei più nemica, mentre m'ami e sei pentita d'avermi offeso: "formosa mea", non sei più deforme agli occhi miei, la mia grazia ti ha fatta bella; "et veni", vieni su, dimmi quel che vuoi, a posta io sto in questo altare. Qual gaudio sentiresti, lettor mio, se ti chiamasse il re nel suo gabinetto e ti dicesse: Dimmi che vuoi? che ti bisogna? io t'amo e desidero di farti bene. Questo dice il Re del cielo Gesù Cristo a tutti coloro che lo visitano: "Venite ad me omnes qui laboratis et onerati estis, et ego reficiam vos" (Matth 11,28). Venite poveri, infermi, afflitti, ch'io posso e voglio arricchirvi, sanarvi e consolarvi. A questo fine io mi trattengo sugli altari. "Clamabis, et dicet: Ecce adsum" (Isa 58,9).


PUNTO III


Gesù nel Sagramento dà udienza a tutti, per far grazie a tutti. Dice S. Agostino che ha più desiderio il Signore di dispensare le sue grazie a noi che noi di riceverle: "Plus vult ille tibi benefacere, quam tu accipere concupiscas". E la ragione è, perché Dio è bontà infinita, e la bontà di sua natura è diffusiva, sì che desidera di comunicare i suoi beni a tutti. Si lamenta Iddio, quando l'anime non vengono a cercargli le grazie: "Nunquid solitudo factus sum Israeli? aut terra serotina? Quare ergo dixit populus meus, non veniemus ultra ad te?" (Ier 2,31). Perché (dice il Signore) non volete più venire a me? che forse mi avete ritrovato come terra sterile o tardiva, quando mi avete cercate le grazie? S. Giovanni vide il Signore col petto pieno di latte, cioè di misericordia, e cinto da una fascia d'oro, cioè dall'amore, col quale egli desidera di dispensare a noi le sue grazie. "Vidi praecinctum ad mamillas zona aurea" (Apoc 1,13). Gesù Cristo sempre sta pronto a beneficarci, ma dice il Discepolo, che specialmente nel SS. Sagramento egli dispensa le grazie con più abbondanza. E 'l B. Errico Susone dicea che Gesù nel Sagramento esaudisce più volentieri le nostre preghiere.


Siccome una madre che tiene il petto ripieno di latte, va trovando bambini che vengano a succhiare, acciocché la sgravino da quel peso, così appunto il Signore da questo Sagramento d'amore ci chiama tutti, e ci dice: "Ad ubera mea portabimini... quomodo si cui mater blandiatur, ita ego consolabor vos" (Is 66,13). Il P. Baltassarre Alvarez vide appunto Gesù nel SS. Sagramento colle mani piene di grazie, per donarle agli uomini; ma non trovava chi le volesse.


O beata quell'anima, che se ne sta a piè d'un altare a domandar grazie a Gesù Cristo! La contessa di Feria, fatta monaca di S. Chiara, se ne stava sempre che poteva avanti il SS. Sagramento, ed ivi riceveva continuamente tesori di grazie. Dimandata un giorno che facesse tante ore innanzi al Venerabile? Rispose: "Io vi starei tutta l'eternità. Che si fa innanzi al SS. Sagramento? e che cosa non si fa? che fa un povero avanti un ricco? che fa un infermo avanti un medico? che si fa? si ringrazia, si ama, si domanda". Oh quanto vagliono queste ultime parole per trattenersi con frutto avanti il SS. Sagramento.


Si lamentò Gesù Cristo colla mentovata serva di Dio suor Margherita Alacoque dell'ingratitudine che gli usano gli uomini in questo Sagramento d'amore, allorché fe' vederle il suo Cuore circondato di spine, con una croce di sopra, in un trono di fiamme, dandole con ciò ad intendere l'amorosa dimora ch'Egli fa nel Sagramento, e poi le disse così: "Ecco quel Cuore che tanto ha amato gli uomini, e che non ha risparmiato niente: è giunto a consumarsi per dimostrar loro il suo amore. Ma io per riconoscenza non ricevo che ingratitudini dalla maggior parte, per le irriverenze e disprezzi che mi fanno in questo Sagramento d'amore. E ciò che più m'è sensibile, è che sono cuori a me consagrati". Non vanno gli uomini a trattenersi con Gesù Cristo, perché non l'amano. Piace loro star le ore intere a parlare con un amico, e poi loro dà tedio il trattenersi una mezz'ora con Gesù Cristo! Dirà taluno: Ma perché Gesù Cristo non mi concede il suo amore? Ma io rispondo: Se voi non discacciate dal cuore l'amore della terra, come vuol entrarvi l'amor divino? Ah che se voi poteste veramente dire col cuore quel che dicea S. Filippo Neri a vista del SS. Sagramento: "Ecco l'amor mio, ecco l'amor mio"; non avreste voi tedio a trattenervi le ore e le giornate intere avanti il SS. Sagramento.


Ad un'anima innamorata di Dio le ore avanti Gesù sagramentato sembrano momenti. S. Francesco Saverio tutto il giorno faticava per le anime, e nella notte poi quale era il suo riposo? era il trattenersi avanti il SS. Sagramento. S. Gio. Francesco Regis, quel gran missionario della Francia, dopo avere spesa tutta la giornata in confessare e predicare, se n'andava la notte alla chiesa, e trovandola qualche volta chiusa, restava a trattenersi fuori della porta al freddo e al vento, per corteggiare almeno così da lontano il suo amato Signore. S. Luigi Gonzaga desiderava di starsene sempre avanti il SS. Sagramento, ma perché gli era stato imposto da' superiori a non trattenervisi; passando per l'altare, e sentendosi da Gesù tirato a trattenersi, era costretto a partire per far l'ubbidienza; onde poi il santo giovine amorosamente gli dicea: "Recede a me, Domine, recede": Signore, non mi tirate, lasciatemi partire, così vuol l'ubbidienza. Ma se tu, fratello mio, non provi questo amore a Gesù Cristo, procura tu di visitarlo ogni giorno, ch'egli ben t'infiammerà il cuore. Ti senti freddo? accostati al fuoco, dicea S. Caterina da Siena. Ed oh beato te, se Gesù ti fa la grazia d'infiammarti del suo amore. Allora certamente che più non amerai altro che Gesù, e disprezzerai tutte le cose della terra. Dice S. Francesco di Sales: "Quando va a fuoco la casa, si buttano tutte le robe dalla finestra".





L'UNIFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO

Et vita in voluntate eius (Ps 29,6)

PUNTO I

Tutta la nostra salute, e tutta la perfezione consiste nell'amare Dio. "Qui non diligit manet in morte" (1 Io 3,14). "Caritas est vinculum perfectionis" (Colos 3). Ma la perfezione dell'amore consiste poi nell'uniformare la nostra alla divina volontà; poiché questo è l'effetto principale dell'amore, come dice l'Areopagita, unire le volontà degli amanti, sicché non abbiano che un solo cuore ed un solo volere. Intanto dunque piacciono a Dio l'opere nostre, le penitenze, le comunioni, le limosine, in quanto sono secondo la divina volontà; poiché altrimenti non sono virtuose, ma difettose e degne di castigo.

Ciò venne principalmente ad insegnarci dal cielo col suo esempio il nostro Salvatore. Ecco quel ch'egli disse in entrare nel mondo, come scrive l'Apostolo: "Hostiam et oblationem noluisti, corpus autem aptasti mihi. Tunc dixi: Ecce venio, ut faciam, Deus, voluntatem tuam" (Heb 10,5). Voi, Padre mio, avete rifiutate le vittime degli uomini, volete ch'io vi sacrifichi colla morte questo corpo che m'avete dato, eccomi pronto a far la vostra volontà. E ciò più volte dichiarò, dicendo ch'egli non era venuto in terra, se non per fare la volontà del suo Padre: "Descendi de coelo, non ut faciam voluntatem meam, sed voluntatem eius qui misit me" (Io 6,38). Ed in ciò volle che conosciamo il suo grande amore al Padre, in vedere ch'Egli andava a morire, per ubbidire al di lui volere: "Ut cognoscat mundus, quia diligo Patrem, et sicut mandatum dedit mihi Pater, sic facio, surgite, eamus" (Io 31,14). Quindi poi disse ch'egli riconoscea per suoi solamente coloro che faceano la divina volontà: "Quicunque enim fecerit voluntatem Patris mei qui in coelis est, ipse meus frater, et soror, et mater est" (Matth 12,38). Questo poi è stato l'unico scopo e desiderio di tutt'i santi in tutte le loro opere, l'adempimento della divina volontà. Il B. Errico Susone diceva: "Io voglio esser più presto un verme più vile della terra colla volontà di Dio, che un Serafino colla mia". E S. Teresa: "Tutto ciò che dee procurare chi si esercita nell'orazione, è di conformare la sua volontà alla divina; e si assicuri (aggiungea) che in ciò consiste la più alta perfezione; chi più eccellentemente la praticherà, riceverà da Dio i più gran doni, e farà più progressi nella vita interiore". I beati del cielo per ciò amano perfettamente Dio, perché sono in tutto uniformati alla divina volontà. Quindi c'insegnò Gesù Cristo a domandar la grazia di far la volontà di Dio in terra, come la fanno i santi in cielo: "Fiat voluntas tua, sicut in coelo et in terra". Chi fa la divina volontà, diventa uomo secondo il cuore di Dio, come appunto il Signore chiamava Davide: "Inveni virum secundum cor meum, qui faciet omnes voluntates meas" (1 Reg 1,14). E perché? perché Davide stava sempre apparecchiato ad eseguir ciò che volea Dio: "Paratum cor meum, Deus, paratum cor meum" (Ps 56,8 et Ps 107,2). Ed altro egli non cercava al Signore, che d'insegnargli a fare la sua volontà: "Doce me facere voluntatem tuam" (Ps 142,10).

Oh quanto vale un atto di perfetta rassegnazione alla volontà di Dio! basta a fare un santo. Mentre S. Paolo perseguitava la Chiesa, Gesù gli apparve, l'illuminò e lo convertì. Il santo allora altro non fece, che offerirsi a fare il voler divino: "Domine, quid me vis facere?" (Act 9,6). Ed ecco che Gesù Cristo subito lo dichiarò vaso d'elezione, e apostolo delle genti: "Vas electionis est mihi iste, ut portet nomen meum coram gentibus" (Act 9,15). Chi fa digiuni, chi fa limosine, chi si mortifica per Dio, dona a Dio parte di sé; ma chi gli dona la sua volontà gli dona tutto. E questo è quel tutto, che Dio ci dimanda, il cuore, cioè la volontà: "Fili mi, praebe cor tuum mihi" (Prov 23). Questa insomma ha da essere la mira di tutt'i nostri desideri, delle nostre divozioni, meditazioni, comunioni ecc. l'adempire la divina volontà. Questo ha da esser lo scopo di tutte le nostre preghiere, l'impetrare la grazia di eseguire ciò che Dio vuole da noi. Ed in ciò abbiamo da domandare l'intercessione de' nostri santi avvocati e specialmente di Maria SS., che c'impetrino luce e forza di uniformarci alla volontà di Dio in tutte le cose; ma specialmente in abbracciar quelle a cui ripugna il nostro amor proprio. Dicea il Ven. Giovanni d'Avila: "Vale più un benedetto sia Dio nelle cose avverse, che sei mila ringraziamenti nelle cose a noi dilettevoli".

PUNTO II

Bisogna uniformarci non solo in quelle cose avverse che ci vengono direttamente da Dio, come sono le infermità, le desolazioni di spirito, le perdite di robe o di parenti; ma anche in quelle che ci vengono anche da Dio, ma indirettamente, cioè per mezzo degli uomini, come le infamie, i dispregi, le ingiustizie e tutte l'altre sorte di persecuzioni. Ed avvertiamo che quando siamo offesi da taluno nella roba, o nell'onore, non vuole già Dio il peccato di colui che ci offende, ma ben vuole la nostra povertà e la nostra umiliazione. È certo che quanto succede, tutto avviene per divina volontà: "Ego Dominus formans lucem et tenebras, faciens pacem, et creans malum" (Is 45,7). E prima lo disse l'Ecclesiastico: "Bona et mala, vita et mors a Deo sunt" (Eccli 11,14). Tutti in somma vengono da Dio, così i beni, come i mali.

Si chiamano mali, perché noi li chiamiamo così, e noi li facciamo mali; poiché se noi l'accettassimo, come dovressimo con rassegnazione dalle mani di Dio, diventerebbero per noi non mali, ma beni. Le gioie che rendono più ricca la corona de' santi, sono le tribolazioni accettate per Dio, pensando che tutto viene dalle sue mani. Il santo Giobbe, quando fu avvisato che i Sabei si avevan prese le sue robe, che rispose? "Dominus dedit, Dominus abstulit" (Iob 1,21). Non disse già, il Signore mi ha dati questi beni, ed i Sabei me l'han tolti; ma il Signore me l'ha dati, e 'l Signore me l'ha tolti. E perciò lo benediceva, pensando che tutto era avvenuto per suo volere: "Sicut Domino placuit, ita factum est, sit nomen Domini benedictum" (Iob 1,21). I santi martiri Epitetto ed Atone, quando erano tormentati con uncini di ferro e torce ardenti, altro non diceano: "Signore, si faccia in noi la vostra volontà!". E morendo, queste furono l'ultime parole che dissero: "Siate benedetto, o Dio eterno, poiché ci date la grazia di adempire in noi il vostro santo beneplacito". Narra Cesario che un certo monaco, con tutto che non facesse vita più austera degli altri, nondimeno facea molti miracoli. Di ciò maravigliandosi l'Abbate, gli domandò un giorno, quali divozioni egli praticasse? Rispose che egli era più imperfetto degli altri, ma che solo a questo era tutto intento, ad uniformarsi in ogni cosa alla divina volontà. E di quel danno (ripigliò il superiore) che giorni sono ci fece quel nemico nel nostro podere, voi non ne aveste alcun dispiacere? No, padre mio, disse, anzi ne ringraziai il Signore, mentr'egli tutto fa o permette per nostro bene. E da ciò l'Abbate conobbe la santità di questo buon religioso.

Lo stesso dobbiamo far noi, quando ci accadono le cose avverse, accettiamole tutte dalle divine mani, non solo con pazienza, ma con allegrezza, ad esempio degli apostoli, che godeano nel vedersi maltrattati per amore di Gesù Cristo: "Ibant gaudentes a conspectu concilii, quoniam digni habiti sunt pro nomine Iesu contumeliam pati" (Act 5,41). E che maggior contento che soffrire qualche croce e sapere che abbracciandola noi diamo gusto a Dio? Se vogliamo dunque vivere con una continua pace, procuriamo da ogg'innanzi di abbracciarci col divino volere, con dir sempre in tutto ciò che ci avviene: "Ita, Pater, quoniam sic fuit placitum ante te" (Matth 11,26). Signore, così è piaciuto a Voi, così sia fatto. A questo fine dobbiamo indrizzare tutte le nostre meditazioni, comunioni, visite e preghiere: pregando sempre Dio che ci faccia uniformare alla sua volontà. Ed offeriamoci sempre dicendo: Mio Dio, eccoci, fatene di noi quel che vi piace. S. Teresa almeno cinquanta volte il giorno si offeriva a Dio, acciocché avesse di lei disposto come volea.

PUNTO III

Chi sta unito alla divina volontà, gode anche in questa terra una perpetua pace: "Non contristabit iustum, quidquid ei acciderit" (Prov 12,21). Sì, perché un'anima non può avere maggior contento che di vedere adempirsi quant'ella vuole. Chi non vuole altro se non quello che vuole Dio, ha quanto vuole, perché già quanto succede, tutto avviene per volontà di Dio. L'anime rassegnate, dice Salviano, se sono umiliate, questo vogliono; se patiscono povertà, vogliono esser povere; in somma vogliono tutto ciò che accade, e perciò menano una vita beata: "Humiles sunt, hoc volunt: pauperes sunt, paupertate delectantur; itaque beati dicendi sunt". Viene il freddo, il caldo, la pioggia, il vento, e chi sta unito alla volontà di Dio, dice: Io voglio questo freddo, questo caldo ecc., perché così vuole Dio. Viene quella perdita, quella persecuzione, viene l'infermità, viene la morte, e quegli dice: Io voglio esser misero, perseguitato, infermo, voglio anche morire, perché così vuole Dio. Chi riposa nella divina volontà, e si compiace di tutto ciò che fa il Signore, è come stesse di sopra alle nubi, vede le tempeste che sotto di quelle infuriano, ma non resta da loro né leso, né perturbato. Questa è quella pace, come dice l'Apostolo, che "exsuperat omnem sensum" (Ephes 3,2), che avanza tutte le delizie del mondo, ed è una pace stabile, che non ammette vicende: "Stultus sicut luna mutatur, sapiens in sapientia manet sicut sol" (Eccli 27,12). Lo stolto (cioè il peccatore) si muta come la luna, che oggi cresce e domani manca: oggi si vede ridere, domani piangere, oggi allegro e tutto mansueto, domani afflitto e furibondo; in somma si muta, come si mutano le cose prospere o avverse che gli accadono. Ma il giusto è come il sole, sempre eguale ed uniforme nella sua tranquillità, in ogni cosa che avviene; poiché la sua pace sta nell'uniformarsi alla divina volontà. "Et in terra pax hominibus bonae voluntatis" (Luc 2,14). S. Maria Maddalena de Pazzi in sentir nominare "Volontà di Dio", sentiva talmente consolarsi, che usciva fuori di sé in estasi d'amore. Nella parte inferiore non manca di farsi sentire qualche puntura delle cose avverse, ma nella superiore regnerà sempre la pace, quando la volontà sta unita a quella di Dio. "Gaudium vestrum nemo tollet a vobis" (Io 16,22). Ma che pazzia è quella di coloro, che ripugnano al volere di Dio! Quel che vuole Iddio, si ha senza meno da adempire. "Voluntati eius quis resistit?" (Rom 9,19). Onde i miseri han da soffrir già la croce, ma senza frutto, e senza pace. "Quis restitit ei, et pacem habuit?" (Iob 9,4).

E che altro vuole Dio, se non il nostro bene? "Voluntas Dei sanctificatio vestra" (1 Thess 4,3). Vuol vederci santi, per vederci contenti in questa vita, e beati nell'altra. Intendiamo che le croci che ci vengono da Dio, "omnia cooperantur in bonum" (Rom 8,28). Anche i castighi in questa vita non vengono per nostra ruina, ma affinché ci emendiamo e ci acquistiamo la beatitudine eterna. "Ad emendationem non ad perditionem nostram evenisse credamus" (Iudt 8,27). Iddio ci ama tanto, che non solo brama, ma è sollecito della salute di ciascuno di noi. "Deus sollicitus est mei" (Psal 39,18). E che mai ci negherà quel Signore, che ci ha dato il medesimo suo Figlio? "Qui proprio Filio suo non pepercit, sed pro nobis omnibus tradidit illum, quomodo non etiam cum illo omnia nobis donavit?" (Rom 8,32). Abbandoniamoci dunque sempre nelle mani di quel Dio, il quale sempre ha premura del nostro bene, mentre siamo in questa vita. "Omnem sollicitudinem vestram proiicientes in eum, quoniam ipsi cura est de vobis" (1 Petr 5,7). Pensa tu a me (disse il Signore a S. Caterina di Siena), ed io penserò sempre a te. Diciamo spesso colla sacra sposa: "Dilectus meus mihi, et ego illi" (Cant 2,16). L'amato mio pensa al mio bene, ed io non voglio pensare ad altro che a compiacerlo, e ad unirmi alla sua santa volontà. E non dobbiamo pregare, dicea il santo Abbate Nilo, che Dio faccia quel che vogliamo noi, ma che noi facciamo quel ch'egli vuole.

Chi fa sempre cosi farà una vita beata ed una morte santa. Chi muore tutto rassegnato nella divina volontà lascia agli altri una moral certezza della sua salvazione. Ma chi in vita non sarà unito al voler divino, non lo sarà neppure in morte, e non si salverà. Procuriamo dunque di renderci familiari alcuni detti della Scrittura, co' quali ci terremo sempre uniti alla volontà di Dio. "Domine, quid me vis facere?". Signore, ditemi che volete da me, che tutto voglio farlo. "Ecce ancilla Domini": Ecco l'anima mia è vostra serva, comandate, e sarete ubbidito. "Tuus sum ego, salvum me fac": Salvatemi, Signore, e poi fatene di me quel che vi piace; io son vostro, non sono più mio. Quando accade qualche avversità più pesante, diciamo subito: "Ita, Pater, quoniam sic fuit placitum ante te" (Matth 11,26). Dio mio, così è piaciuto a Voi, così sia fatto. Sopra tutto siaci cara la terza petizione del Pater noster: "Fiat voluntas tua sicut in coelo et in terra". Diciamola spesso con affetto e replichiamola più volte. Felici noi se viviamo e terminiamo la vita dicendo così: "Fiat, fiat voluntas tua!".



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