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Innamoriamoci della Sacra Scrittura! Essa ha per Autore Dio che, con la potenza dello Spirito Santo solo, è resa comprensibile (cf. Dei Verbum 12) attraverso coloro che Dio ha chiamato nella Chiesa Cattolica, nella Comunione dei Santi. Predisponi tutto perché lo Spirito scenda (invoca il Veni, Creator Spiritus!) in te e con la sua forza, tolga il velo dai tuoi occhi e dal tuo cuore affinché tu possa, con umiltà, ascoltare e vedere il Signore (Salmo 119,18 e 2 Corinzi 3,12-16). È lo Spirito che dà vita, mentre la lettera da sola, e da soli interpretata, uccide! Questo forum è CONSACRATO ALLO SPIRITO SANTO e sottolineamo che questo spazio non pretende essere la Voce della Chiesa, ma che a Lei si affida, tutto il materiale ivi contenuto è da noi minuziosamente studiato perchè rientri integralmente nell'insegnamento della nostra Santa Madre Chiesa pertanto, se si dovessero riscontrare testi, libri o citazioni, non in sintonia con la Dottrina della Chiesa, fateci una segnalazione e provvederemo alle eventuali correzioni o chiarimenti!
 
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Apparecchio alla Morte di sant'Alfonso Maria de Liguori

Ultimo Aggiornamento: 10/07/2019 00:04
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09/07/2019 23:27


VANITÀ DEL MONDO

Quid prodest homini, si mundum universum lucretur, animae vero suae detrimentum patiatur? (Matth 16,26)

PUNTO I

Fuvvi un certo antico filosofo, chiamato Aristippo, che viaggiando una volta per mare, naufragò colla nave, ed egli perdé tutte le sue robe; ma giunto al lido, essendo esso molto rinomato per la sua scienza, fu da' paesani di quel luogo provveduto di tutto ciò che avea perduto. Ond'egli scrisse poi a' suoi amici nella patria che dal suo esempio attendessero a provvedersi solamente di quei beni, che neppur col naufragio si perdono. Or questo appunto ci mandano a dire dall'altra vita i nostri parenti ed amici che stanno all'eternità, che attendiamo a provvederci qui in vita solamente di quei beni, che neppure colla morte si perdono. Il giorno della morte si chiama, "Dies perditionis (Iuxta est dies perditionis. Deut 29,21)". Giorno di perdita, perché in tal giorno i beni di questa terra, gli onori, le ricchezze, i piaceri tutti si han da perdere. Onde dice S. Ambrogio che questi non possiamo chiamarli beni nostri, mentre non possiamo portarli con noi all'altro mondo; ma le sole virtù ci accompagnano all'altra vita: "Non nostra sunt, quae non possumus auferre nobiscum; sola virtus nos comitatur".

Che serve dunque, dice Gesù Cristo, guadagnarsi tutto il mondo, se in morte perdendo l'anima perderemo tutto? "Quid prodest homini, si mundum universum lucretur?". Ah questa gran massima quanti giovani ne ha mandati a chiudersi ne' chiostri, quanti anacoreti a vivere ne' deserti, quanti martiri a dar la vita per Gesù Cristo! Con questa massima S. Ignazio di Loiola tirò molte anime a Dio; e specialmente la bell'anima di S. Francesco Saverio, il quale stava in Parigi, applicato ivi a' pensieri di mondo. Francesco (gli disse un giorno il santo) pensa che il mondo è un traditore, che promette e non attende. Ma ancorché ti attendesse quel che ti promette il mondo, egli non potrà mai contentare il tuo cuore. Ma facciamo che ti contentasse, quando durerà questa tua felicità? può durare più che la tua vita? ed in fine che te ne porterai all'eternità? Vi è forse ivi alcun ricco, che si ha portata una moneta, o un servo per suo comodo? Vi è alcun re, che si ha portato un filo di porpora per suo onore? A queste parole S. Francesco lasciò il mondo, seguitò S. Ignazio e si fece santo. "Vanitas vanitatum", così chiamò Salomone tutti i beni di questo mondo, dopo ch'egli non si negò alcun piacere di tutti quelli che stanno sulla terra, com'egli stesso confessò: "Omnia quae desideraverunt oculi mei, non negavi eis" (Eccl 2,10). Dicea suor Margherita di S. Anna carmelitana Scalza, figlia dell'imperator Ridolfo II: "A che servono i regni nell'ora della morte?". Gran cosa! tremano i santi in pensare al punto della loro salute eterna; tremava il P. Paolo Segneri, il quale tutto spaventato dimandava al suo confessore: Che dici, padre, mi salverò? Tremava S. Andrea d'Avellino, e piangeva dirottamente dicendo: Chi sa, se mi salvo! Da questo pensiero ancora era così tormentato S. Luigi Beltrando, che per lo spavento la notte sbalzava di letto dicendo: E chi sa, se mi danno! E i peccatori vivono dannati, e dormono, e burlano, e ridono!

PUNTO II

"Statera dolosa in manu eius" (Os 12). Bisogna pesare i beni nelle bilance di Dio, non in quelle del mondo, le quali ingannano. I beni del mondo son beni troppo miseri, che non contentano l'anima, e presto finiscono. "Dies mei velociores fuerunt cursore, pertransierunt quasi naves poma portantes" (Iob 9,25). Passano e fuggono i giorni della nostra vita e de' piaceri di questa terra, e finalmente che resta? "Pertransierunt quasi naves". Le navi non lasciano neppure il segno per dove son passate. "Tanquam navis, quae pertransit fluctuantem aquam, cuius, cum praeterierit, non est vestigium invenire" (Sap 5,10). Domandiamo a tanti ricchi, letterati, principi, imperadori, che or sono all'eternità, che si trovano delle loro pompe, delizie e grandezze godute in questa terra? Tutti rispondono: Niente, niente. Uomo, dice S. Agostino: "Quid hic habebat, attendis, quid secum fert, attende". Tu guardi (dice il santo) solamente i beni, che possedea quel grande; ma osserva che cosa si porta seco, or che muore, se non un cadavere puzzolente ed uno straccio di veste per seco infracidirsi? De i grandi del mondo che muoiono, appena per poco tempo si sente parlare, e poi se ne perde anche la memoria. "Periit memoria eorum cum sonitu" (Ps 9,7). E se i miseri vanno poi all'inferno, ivi che fanno, che dicono? Piangono e dicono: "Quid profuit nobis superbia, aut divitiarum iactantia?... transierunt omnia illa, tanquam umbra" (Sap 5,8). Che ci han giovate le nostre pompe e le ricchezze, se ora tutto è passato come un'ombra, ed altro non c'è rimasto che pena, pianto e disperazione eterna?

"Filii huius saeculi prudentiores filiis lucis sunt" (Luc 16,8). Gran cosa! come sono prudenti i mondani per le cose della terra! Quali fatiche non fanno, per guadagnarsi quel posto, quella roba! Che diligenza non mettono, per conservarsi la sanità del corpo! Scelgono i mezzi più sicuri, il miglior medico, i migliori rimedi, la miglior aria. E per l'anima poi sono così trascurati! Ed è certo che la sanità, i posti, le robe un giorno han da finire; ma l'anima, l'eternità non finiscono mai. "Intueamur (dice S. Agostino) quanta homines sustineant pro rebus, quas vitiose diligunt". Che non soffre quel vendicativo, quel ladro, quel disonesto per giungere al suo pravo intento? E poi per l'anima non vogliono soffrir niente? Oh Dio, che alla luce di quella candela, che si accende nella morte, allora in quel tempo di verità si conosce e si confessa da' mondani la loro pazzia. Allora ognuno dice: Oh avessi lasciato tutto, e mi fossi fatto santo! Il Pontefice Leone XI diceva in morte: Meglio fossi stato portinaio del mio monastero, che Papa. Onorio III similmente Papa, anche dicea morendo: Meglio fossi restato nella cucina del mio convento a lavare i piatti. Filippo II re di Spagna morendo si chiamò il figlio, e gittando la veste regale, gli fe' vedere il petto roso da' vermi, e poi gli disse: Principe, vedi come si muore, e come finiscono le grandezze del mondo. E poi esclamò: Oh fossi stato laico di qualche religione e non monarca. Nello stesso tempo si fe' ligare al collo una fune con una croce di legno, e dispose le cose per la sua morte, e disse al figlio: Ho voluto, figlio mio, che voi vi foste trovato presente a quest'atto, acciocché miriate come il mondo in fine tratta anche i monarchi. Sicché la loro morte è uguale a quella de' più poveri del mondo. In somma chi meglio vive ha miglior luogo con Dio. Questo medesimo figlio poi (che fu Filippo III) morendo giovine di 42 anni, disse: Sudditi miei, nel sermone de' miei funerali, non predicate altro se non questo spettacolo che vedete. Dite che non serve in morte l'esser re, che per sentire maggior tormento d'esserlo stato. E poi esclamò: Oh non fossi stato re, e fossi vivuto in un deserto a servire Dio, perché ora anderei con maggior confidenza a presentarmi nel suo tribunale, e non mi troverei a tanto rischio di dannarmi! Ma che servono questi desideri in punto di morte, se non per maggior pena e disperazione a chi in vita non ha amato Dio? Dicea dunque S. Teresa: "Non ha da farsi conto di ciò, che finisce colla vita; la vera vita è vivere in modo, che non si tema la morte". Perciò se vogliamo vedere, che cosa sono li beni di questa terra, miriamoli dal letto della morte; e poi diciamo: Quegli onori, quegli spassi, quelle rendite un giorno finiranno: dunque bisogna attendere a farci santi e ricchi di quei soli beni che verranno con noi, e ci renderanno contenti per tutta l'eternità.

PUNTO III

"Tempus breve est... qui utuntur hoc mundo, tanquam non utantur, praeterit enim figura huius mundi" (1 Cor 7,31). Che altro è la nostra vita su questo mondo, se non una scena che passa e presto finisce? "Praeterit figura huius mundi"; figura cioè scena, commedia. "Mundus est instar scenae (dice Cornelio a Lapide), generatio praeterit, generatio advenit. Qui regem agit, non auferet secum purpuram. Dic mihi, o villa, o domus, quot dominos habuisti?". Quando finisce la commedia, chi ha fatta la parte del re, non è più re; il padrone, non è più padrone. Ora possiedi quella villa, quel palagio; ma verrà la morte, e ne saran padroni gli altri.

"Malitia horae oblivionem facit luxuriae magnae" (Eccli 11,29). L'ora funesta della morte fa scordare e finire tutte le grandezze, le nobiltà ed i fasti del mondo. Casimiro re di Polonia un giorno, mentre stava a mensa co' grandi del suo regno, accostando la bocca ad una tazza per bere, morì, e finì per lui la scena. Celso imperadore, in capo a sette giorni ch'era stato eletto, fu ucciso, e finì la scena per Celso. Ladislao re di Boemia, giovine di 18 anni, mentre aspettava la sposa, figlia del re di Francia, e si apparecchiavano gran feste, ecco in una mattina preso da un dolore se ne muore; onde si spediscono subito i corrieri ad avvisare la sposa, che se ne torni in Francia, poiché per Ladislao era finita la scena. Questo pensiero della vanità del mondo fe' santo S. Francesco Borgia, il quale come di sopra si considerò a vista dell'imperadrice Isabella, morta in mezzo alle grandezze e nel fiore di sua gioventù, risolse di darsi tutto a Dio, dicendo: "Così dunque finiscono le grandezze e le corone di questo mondo? Voglio dunque da ogg'innanzi servire ad un padrone, che non mi possa morire".

Procuriamo di vivere in modo, che non ci sia detto in morte, come fu detto a quel pazzo del Vangelo: "Stulte, hac nocte animam tuam repetent a te, et quae parasti cuius erunt?" (Luc 12,20). Onde conclude S. Luca: "Sic est qui sibi thesaurizat, et non est in Deum dives". E poi dice: Procurate di farvi ricchi, non già nel mondo di robe, ma in Dio di virtù e di meriti, che son beni che saranno eterni con voi in cielo: "Thesaurizate vobis thesauros in coelo, ubi neque aerugo neque tinea demolitur". E perciò attendiamo ad acquistarci il gran tesoro del divino amore. "Quid habet dives, si caritatem non habet? Pauper si caritatem habet, quid non habet?" dice S. Agostino. Se uno ha tutte le ricchezze e non ha Dio, egli è il più povero del mondo. Ma il povero che ha Dio, ha tutto. E chi ha Dio? chi l'ama: "Qui manet in caritate, in Deo manet, et Deus in eo" (1 Io 4,16).




LA PRESENTE VITA È VIAGGIO ALL'ETERNITÀ

Ibit homo in domum aeternitatis suae (Eccl 12,5)

PUNTO I

Dal vedere che in questa terra tanti malviventi vivono tra le prosperità, e tanti giusti all'incontro vivon tribulati, anche i gentili col solo lume naturale han conosciuta questa verità che essendovi Dio, ed essendo questo Dio giusto, debba esservi un'altra vita, in cui siano puniti gli empi e premiati i buoni. Or quello che han detto i gentili col solo lume della ragione, noi cristiani lo confessiamo per fede. "Non habemus hic manentem civitatem, sed futuram inquirimus" (Hebr 13,14). Questa terra non è già la nostra patria, ella per noi è luogo di passaggio, per dove dobbiamo passare tra breve alla casa dell'eternità. "Ibit homo in domum aeternitatis suae". Dunque, lettor mio, la casa dove abiti, non è casa tua, è ospizio, dal quale, tra breve, e quando meno te l'immagini, dovrai sloggiare. Sappi che giunto che sarà il tempo di tua morte, i tuoi più cari saranno i primi a cacciartene. E quale sarà la tua vera casa? una fossa sarà la casa del tuo corpo sino al giorno del giudizio, e l'anima tua dovrà andare alla casa dell'eternità, o al paradiso, o all'inferno. Perciò ti avvisa S. Agostino: "Hospes es, transis et vides". Sarebbe pazzo quel pellegrino, che passando per un paese volesse ivi impiegare tutto il suo patrimonio, per comprarsi ivi una villa o una casa, che tra pochi giorni avesse poi da lasciare. Pensa pertanto, dice il santo, che in questo mondo stai di passaggio; non mettere affetto a quel che vedi; vedi e passa; e procurati una buona casa, dove avrai da stare per sempre.

Se ti salvi, beato te, oh che bella casa è il paradiso! Tutte le reggie più ricche de' monarchi sono stalle a rispetto della città del paradiso, che sola può chiamarsi: "Civitas perfecti decoris" (Ez 23,3). Colà non avrai più che desiderare, stando in compagnia de' santi, della divina Madre e di Gesù Cristo, senza timore più d'alcun male; in somma viverai in un mar di contenti ed in un continuo gaudio che sempre durerà. "Laetitia sempiterna super capita eorum" (Is 35,10). E questo gaudio sarà così grande, che per tutta l'eternità, in ogni momento, sembrerà sempre nuovo. All'incontro, se ti danni, povero te! Sarai confinato in un mare di fuoco e di tormenti, disperato, abbandonato da tutti e senza Dio. E per quanto tempo? Passati forse che saranno cento e mille anni, sarà finita la tua pena? Che finire! Passeranno cento e mille milioni d'anni e di secoli; e l'inferno tuo sempre sarà da capo. Che sono mille anni a rispetto dell'eternità? meno d'un giorno che passa. "Mille anni ante oculos tuos, tanquam dies hesterna quae praeteriit" (Ps 89,4). Vorresti or sapere quale sarà la tua casa, che ti toccherà nell'eternità? Sarà quella che tu ti meriti, e ti scegli tu stesso colle tue opere.

PUNTO II

"Si lignum ceciderit ad austrum, aut ad aquilonem, in quocunque loco ceciderit, ibi erit" (Eccl 11,3). Dove caderà in morte l'albero dell'anima tua, ivi avrai da restare in eterno. E non vi è via di mezzo, o sempre re nel cielo, o sempre schiavo nell'inferno. O sempre beato in un mare di delizie, o sempre disperato in una fossa di tormenti. S. Gio. Grisostomo considerando l'epulone, che fu stimato felice, ma poi era stato confinato all'inferno, e Lazzaro all'incontro, che fu stimato misero, perché povero, ma poi era felice nel paradiso, esclama: "O infelix felicitas, quae divitem ad aeternam infelicitatem traxit! O felix infelicitas, quae pauperem ad aeternitatis felicitatem perduxit!".

Che serve angustiarsi, come fa taluno dicendo: Chi sa se son prescito, o predestinato! L'albero allorché si taglia, dove cade? cade dove pende. Dove pendete voi, fratello mio? che vita fate? Procurate di pender sempre dalla parte dell'austro, conservatevi in grazia di Dio, fuggite il peccato; e così vi salverete e sarete predestinato. E per fuggire il peccato, abbiate sempre avanti gli occhi il gran pensiero dell'eternità, chiamato appunto da S. Agostino: "Magna cogitatio". Questo pensiero ha condotti tanti giovani a lasciare il mondo, ed a vivere ne' deserti, per attendere solo all'anima; e l'hanno accertata. Ora che son salvi, se ne trovan certamente contenti, e se ne troveran contenti per tutta l'eternità.

Una certa dama, che vivea lontana da Dio, fu convertita dal P. M. Avila con dirle solamente: Signora, pensate a queste due parole: "Sempre e Mai". Il P. Paolo Segneri ad un pensiero ch'ebbe di eternità in un giorno, non poté prender sonno per più notti, e d'indi in poi si diede ad una vita più rigorosa. Narra Dresselio che un certo vescovo con questo pensiero dell'eternità menava una vita santa, replicando sempre tra sé: "Omni momento ad ostium aeternitatis sto". Un certo monaco si chiuse in una fossa ed ivi non faceva altro che esclamare: "O eternità, o eternità!". Chi crede all'eternità, e non si fa santo, diceva il medesimo P. Avila, dovrebbe chiudersi nella carcere de' pazzi.

PUNTO III

"Ibit homo in domum aeternitatis suae": dice il profeta, "ibit", per dinotare che ciascuno anderà a quella casa, dove vuole andare; non vi sarà portato, ma esso vi anderà di propria volontà. È certo che Dio vuol tutti salvi, ma non ci vuole salvi per forza. "Ante hominem vita, et mors". Ha posta avanti ad ognuno di noi la vita e la morte, quella ch'eleggeremo, ci sarà data: "Quod placuerit ei, dabitur illi" (Eccli 15,18). Dice finalmente Geremia che il Signore ci ha date due vie da camminare, una del paradiso e l'altra dell'inferno: "Ego do coram vobis viam vitae, et mortis" (Ier 21,8). A noi sta di scegliere. Ma chi vuol camminare per la via dell'inferno, come mai potrà ritrovarsi poi giunto al paradiso? Gran cosa! tutti i peccatori si voglion salvare, e frattanto si condannano da se stessi all'inferno con dire, spero di salvarmi. Ma chi mai, dice S. Agostino, trovasi così pazzo, che voglia prendersi il veleno colla speranza di guarirsi? "Nemo vult aegrotare sub spe salutis". E poi tanti cristiani, tanti pazzi, si danno la morte peccando con dire: Appresso penserò al rimedio! O inganno che ne ha mandati tanti all'inferno!

Non siamo noi così pazzi come questi; pensiamo che si tratta d'eternità. Quante fatiche fanno gli uomini per farsi una casa comoda, ariosa e in buon'aria, pensando che vi han da abitare per tutta la loro vita? E perché poi sono così trascurati, trattando di quella casa, che loro toccherà in eterno? "Negotium pro quo contendimus, aeternitas est", dice S. Eucherio; non si tratta d'una casa più o meno comoda, più o meno ariosa, si tratta di stare o in un luogo di tutte le delizie tra gli amici di Dio, o in una fossa di tutti i tormenti tra la ciurma infame di tanti scelerati, eretici, idolatri. E per quanto tempo? non per venti, o per quarant'anni, ma per tutta l'eternità. È un gran punto. Non è questo negozio di poco momento, è un negozio che importa tutto. Quando Tommaso Moro fu condannato a morte da Arrigo VIII, Luisa sua moglie andò a tentarlo di consentire al volere di Arrigo; egli le disse allora: Dimmi, Luisa, già vedi ch'io son vecchio, quanti anni potrei aver di vita? Rispose la moglie: Voi potreste vivere venti altri anni. O sciocca mercantessa, ripigliò allora Tommaso, e per venti altri anni di vita su questa terra vuoi che perda un'eternità felice, e mi condanni ad una eternità di pene?

O Dio, dacci lume. Se il punto dell'eternità fosse una cosa dubbia, fosse un'opinione solamente probabile, pure dovressimo metter tutto lo studio per viver bene, acciocché non ci ponessimo al pericolo di essere eternamente infelici, se mai quest'opinione si trovasse vera; ma no, che questo punto non è dubbio, ma certo; non è opinione, ma verità di fede: "Ibit homo in domum aeternitatis suae". Oimè che la mancanza di fede, dice S. Teresa, è quella che è causa di tanti peccati e della dannazione di tanti cristiani. Ravviviamo dunque sempre la fede, dicendo: "Credo vitam aeternam". Credo che dopo questa vita vi è un'altra vita, che non finisce mai; con questo pensiero sempre avanti gli occhi prendiamo i mezzi per assicurare la nostra salute eterna. Frequentiamo i sagramenti, facciamo la meditazione ogni giorno e pensiamo alla vita eterna; fuggiamo le occasioni pericolose. E se bisogna lasciare il mondo, lasciamolo, perché non vi è sicurtà che basta per assicurare questo gran punto dell'eterna salute. "Nulla nimia securitas, ubi periclitatur aeternitas" (S. Bernardo).




LA MALIZIA DEL PECCATO MORTALE

Filios enutrivi, et exaltavi, ipsi autem spreverunt me (Isa 1,2)

PUNTO I

Che fa chi commette un peccato mortale? Ingiuria Dio, lo disonora, l'amareggia. Per prima il peccato mortale è un'ingiuria, che si fa a Dio. La malizia di un'ingiuria, come dice S. Tommaso, si misura dalla persona, che la riceve, e dalla persona che la fa. Un'ingiuria che si fa ad un villano, è male, ma è maggior delitto, se si fa ad un nobile; maggiore poi, se si fa ad un monarca. Chi è Dio? è il Re de' Regi. "Dominus Dominantium est, et Rex Regum" (Apoc 17,14). Dio è una maestà infinita, a rispetto di cui tutt'i principi della terra e tutt'i santi e gli angeli del cielo son meno d'un acino d'arena. "Quasi stilla situlae, pulvis exiguus" (Is 40,15). Anzi dice Osea che a fronte della grandezza di Dio tutte le creature son tanto minime, come se non vi fossero: "Omnes gentes quasi non sint, sic sunt coram Eo" (Os 5). Questo è Dio. E chi è l'uomo? S. Bernardo: "Saccus vermium, cibus vermium". Sacco di vermi e cibo di vermi, che tra breve l'han da divorare. "Miser, et pauper, et caecus, et nudus" (Apoc 3,17). L'uomo è un verme misero che non può niente, cieco che non sa veder niente, e povero e nudo che niente ha. E questo verme miserabile vuole ingiuriare un Dio! "Tam terribilem maiestatem audet vilis pulvisculus irritare!" dice lo stesso S. Bernardo. Ha ragione dunque l'Angelico in dire che 'l peccato dell'uomo contiene una malizia quasi infinita. "Peccatum habet quandam infinitatem malitiae ex infinitate divinae maiestatis". Anzi S. Agostino chiama il peccato assolutamente "infinitum malum". Ond'è che se tutti gli uomini e gli angeli si offerissero a morire, e anche annichilarsi, non potrebbero soddisfare per un solo peccato. Dio castiga il peccato mortale colla gran pena dell'inferno, ma per quanto lo castighi, dicono tutt'i teologi che sempre lo castiga "citra condignum", cioè meno di quel che dovrebbe esser punito.

E qual pena mai può giungere a punir come merita un verme, che se la piglia col suo Signore? Dio è il Signore del tutto, perché egli ha creato il tutto. "In ditione tua cuncta sunt posita, tu enim creasti omnia" (Esther 13,9). Ed in fatti tutte le creature ubbidiscono a Dio: "Venti et mare obediunt ei" (Matth 8,27). "Ignis, grando, nix, glacies faciunt verbum eius" (Ps 148,8). Ma l'uomo quando pecca, che fa? dice a Dio: Signore, io non ti voglio servire. "Confregisti iugum meum; dixisti, non serviam" (Ier 2,20). Il Signore gli dice, non ti vendicare: e l'uomo risponde, ed io voglio vendicarmi; non prendere la roba d'altri; ed io me la voglio pigliare; privati di quel gusto disonesto; ed io non me ne voglio privare. Il peccatore dice a Dio, come disse Faraone, allorché Mosè gli portò l'ordine di Dio che lasciasse in libertà il suo popolo, rispose il temerario: "Quis est Dominus, ut audiam vocem eius? nescio Dominum" (Exod 5,2). Lo stesso dice il peccatore: Signore, io non ti conosco, voglio fare quel che piace a me. In somma gli perde il rispetto in faccia e gli volta le spalle; questo propriamente è il peccato mortale, una voltata di spalle che si fa a Dio: "Aversio ab incommutabili bono". Di ciò si lamenta il Signore: "Tu reliquisti me, dicit Dominus; retrorsum abiisti" (Ier 15,6): Tu sei stato l'ingrato, dice Dio, che hai lasciato me, poiché io non ti avrei mai lasciato: "retrorsum abiisti", tu mi hai voltato le spalle.

Iddio s'è dichiarato che odia il peccato; onde non può far di meno di odiare poi chi lo commette. "Similiter autem odio sunt Deo impius, et impietas eius" (Sap 14,9). E l'uomo quando pecca, ardisce di dichiararsi nemico di Dio, e se la piglia da tu a tu con Dio: "Contra Omnipotentem roboratus est" (Iob 15,25). Che direste, se vedeste una formica volersela pigliare con un soldato? Dio è quel potente, che dal niente con un cenno ha creato il cielo e la terra. "Ex nihilo fecit illa Deus" (2 Mach 7,28). E se vuole, con un altro cenno può distruggere il tutto: "Potest universum mundum uno nutu delere" (2 Mach 8,18). E 'l peccatore allorché consente al peccato, stende la mano contra Dio: "Tetendit adversus Deum manum suam; cucurrit adversus eum erecto collo, pingui cervice armatus est". Alza il collo, cioè la superbia e corre ad ingiuriare Dio: e s'arma d'una testa grassa, cioè d'ignoranza (il grasso è simbolo dell'ignoranza), con dire: "Quid feci?". E che gran male è quel peccato che ho fatto? Dio è di misericordia, perdona i peccatori. Che ingiuria! che temerità! che cecità!

PUNTO II

Il peccatore non solo ingiuria Dio, ma lo disonora. "Per praevaricationem legis Deum inhonoras" (Rom 2,23). Sì, perché rinunzia alla sua grazia, e per un gusto miserabile si mette sotto i piedi l'amicizia di Dio. Se l'uomo perdesse la divina amicizia, per guadagnarsi un regno, anche tutto il mondo, pure sarebbe un gran male, perché l'amicizia di Dio vale più che il mondo e mille mondi. Ma perché taluno offende Dio? "Propter quid irritavit impius Deum?" (Psal 10,13). Per un poco di terra, per uno sfogo d'ira, per un gusto di bestia, per un fumo, per un capriccio. "Violabant me propter pugillum hordei, et fragmen panis" (Ez 13,19). Allorché il peccatore si mette a deliberare di dare o no il consenso al peccato, allora (per così dire) prende in mano la bilancia, e si mette a vedere che cosa pesa più, se la grazia di Dio, o quello sfogo, quel fumo, quel gusto; e quando poi dà il consenso, allora dichiara in quanto a sé che vale più quello sfogo, quel gusto, che non vale la divina amicizia. Ecco Dio svergognato dal peccatore. Davide considerando la grandezza e la maestà di Dio dicea: "Domine, quis similis tibi"? (Psal 34,10). Ma Dio all'incontro, quando si vede da' peccatori posto a confronto e posposto ad una soddisfazione miserabile, loro dice: "Cui assimilastis me, et adaequastis me, dicit Sanctus?" (Is 40,25). Dunque (dice il Signore) valeva più quel gusto vile, che la grazia mia? "Proiecisti me post corpus tuum" (Ez 23,35). Non avresti fatto quel peccato, se avessi avuto a perdere una mano, se dieci ducati, e forse molto meno. Dunque solo Dio, dice Salviano, è così vile agli occhi tuoi, che merita d'esser posposto ad uno sfogo, ad una misera soddisfazione: "Deus solus in comparatione omnium tibi vilis fuit". In oltre, quando il peccatore per qualche suo gusto offende Dio, allora fa che quel gusto diventi il suo Dio, facendolo diventare suo ultimo fine. Dice S. Girolamo: "Unusquisque quod cupit, si veneratur, hoc illi Deus est. Vitium in corde, est idolum in altari". Onde dice S. Tommaso: "Si amas delicias, deliciae dicuntur Deus tuus". E S. Cipriano: "Quidquid homo Deo anteponit, Deum sibi facit". Geroboamo quando si ribellò da Dio, procurò di tirarsi seco anche il popolo ad idolatrare, e perciò gli presentò gl'idoli suoi e gli disse: "Ecce dii tui, Israel" (3 Reg 12,28). Così fa il demonio, presenta al peccatore quella soddisfazione e dice: Che ne vuoi fare di Dio? ecco lo Dio tuo, questo gusto, questo sfogo, prenditi questo e lascia Dio. Ed il peccatore, quando acconsente, così fa, adora per Dio nel suo cuore quella soddisfazione. "Vitium in corde est idolum in altari".

Almeno, se il peccatore disonora Dio, non lo disonorasse in sua presenza; no, l'ingiuria, e lo disonora in faccia di lui, perché Dio è presente in ogni luogo. "Coelum et terram ego impleo" (Ier 23,24). E questo lo sa già il peccatore, e con tutto ciò non si arresta di provocare Dio avanti gli occhi suoi. "Ad iracundiam provocant me ante faciem meam" (Is 65,3).

PUNTO III

Il peccato ingiuria Dio, lo disonora e con ciò sommamente l'amareggia. Non vi è amarezza più sensibile, che il vedersi pagato d'ingratitudine da una persona amata e beneficata. Con chi se la piglia il peccatore? ingiuria un Dio che l'ha creato e l'ha amato tanto, ch'è giunto a dare il sangue e la vita per suo amore; ed egli commettendo un peccato mortale lo discaccia dal suo cuore. In un'anima che ama Dio, viene Dio ad abitarvi. "Si quis diligit me, Pater meus diliget eum et ad eum veniemus, et mansionem apud eum faciemus" (Io 14,23). Notisi: "Mansionem faciemus", Dio viene nell'anima per istarvi sempre, sicché non la lascia, se l'anima non lo discaccia: "Non deserit, nisi deseratur", come si dice nel Tridentino. Ma, Signore, Voi già sapete che quell'ingrato fra un altro momento già vi caccerà, perché non vi partite ora? che volete aspettare ch'egli proprio vi discacci? lasciatelo, partitevi, prima ch'egli vi faccia questa grande ingiuria. No, dice Dio, Io non voglio partirmi, sino che proprio esso non mi discaccia.

Dunque, allorché l'anima consente al peccato, dice a Dio: Signore partitevi da me: "Impii dixerunt Deo, recede a nobis" (Iob 21,14). Non lo dice colla bocca, ma col fatto: "Recede, non verbis, sed moribus", dice S. Gregorio. Già sa il peccatore che Dio non può stare col peccato; vede già che peccando dee partirsi Dio; onde gli dice: Giacché Voi non potete starvi col mio peccato, e Voi partitevi, buon viaggio. E cacciando Dio dall'anima sua, fa ch'entri immediatamente il demonio, a prenderne il possesso. Per quella stessa porta, per cui esce Dio, entra il nemico: "Tunc vadit, et assumit septem alios spiritus secum nequiores se, et intrantes habitant ibi" (Matth 12,45). Quando un bambino si battezza, il sacerdote intima al demonio: "Exi ab eo, immunde spiritus, et da locum Spiritui Sancto". Sì, perché quell'anima, ricevendo la grazia, diventa tempio di Dio. "Nescitis, quia templum Dei estis?" (1 Cor 3,16). Ma quando l'uomo consente al peccato, fa tutto l'opposto: dice a Dio che sta nell'anima sua: "Exi a me, Domine, da locum diabolo". Di ciò appunto si lamentò il Signore con santa Brigida, dicendo ch'egli dal peccatore è come un re discacciato dal proprio trono: "Sum tanquam rex a proprio regno expulsus, et loco mei latro pessimus electus est".

Qual pena avreste voi, se riceveste un'ingiuria grave da taluno che aveste molto beneficato? Questa è la pena che avete data al vostro Dio, ch'è giunto a dar la vita per salvarvi. Il Signore chiama il cielo e la terra quasi a compatirlo, per l'ingratitudine che gli usano i peccatori. "Audite coeli desuper, auribus percipe terra; filios enutrivi, et exaltavi, ipsi autem spreverunt me" (Is 1,2). In somma i peccatori coi loro peccati affliggono il cuore di Dio: "Ipsi autem ad iracundiam provocaverunt, et afflixerunt spiritum sanctum eius" (Is 63,10). Dio non è capace di dolore, ma se mai ne fosse capace, un peccato mortale basterebbe a farlo morire di pura mestizia, come dice il P. Medina: "Peccatum mortale, si possibile esset, destrueret ipsum Deum, eo quod causa esset tristitiae in Deo infinitae". Sicché, come dice S. Bernardo, "peccatum quantum in se est, Deum perimit". Dunque il peccatore, allorché commette un peccato mortale, dà per così dire il veleno a Dio; non manca per lui di torgli la vita. "Exacerbavit Dominum peccator" (Hebr 10,4). E secondo dice S. Paolo, si mette sotto i piedi il Figlio di Dio: "Qui Filium Dei conculcaverit" (Hebr 10,29). Mentre disprezza tutto ciò che ha fatto e patito Gesù Cristo per togliere il peccato dal mondo.





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