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Apparecchio alla Morte di sant'Alfonso Maria de Liguori

Ultimo Aggiornamento: 10/07/2019 00:04
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09/07/2019 23:39

IL GIUDIZIO UNIVERSALE


Cognoscetur Dominus iudicia faciens (Ps 9,17)


PUNTO I


Al presente, se ben si considera, non v'è nel mondo persona più disprezzata di Gesù Cristo. Si fa più conto d'un villano che non si fa conto di Dio; perché si teme che quel villano, vedendosi troppo offeso, mosso a sdegno, si vendichi: ma a Dio si fanno ingiurie, e se gli replicano alla libera, come se Dio non potesse vendicarsi, quando vuole. "Et quasi nihil possit facere Omnipotens, aestimabant eum" (Iob 22,17). Ma perciò il Redentore ha destinato un giorno, che sarà il giorno del giudizio universale (chiamato appunto dalle Scritture, "Dies Domini"), nel quale Gesù Cristo vorrà farsi conoscere per quel gran Signore ch'Egli è. "Cognoscetur Dominus iudicia faciens" (Psal 9,17). Quindi un tal giorno si chiama non più giorno di misericordia e di perdono, ma "Dies irae, dies tribulationis, et angustiae, dies calamitatis, et miseriae" (Soph 1,15). Sì, perché allora giustamente vorrà il Signore risarcirsi l'onore, che han cercato di torgli i peccatori in questa terra. Vediamo come avverrà il giudizio di questo gran giorno.


Prima di venire il giudice, "Ignis ante Ipsum praecedet" (Psal 96,3). Verrà fuoco dal cielo, che brucerà la terra e tutte le cose di questa terra. "Terra, et quae in ipsa sunt opera, exurentur" (2 Petr 3,10). Sicché palagi, chiese, ville, città, regni, tutti han da diventare un mucchio di cenere. Dee purgarsi col fuoco questa casa appestata di peccati. Ecco il fine che avran da avere tutte le ricchezze, le pompe e le delizie di questa terra. Morti che saranno gli uomini, suonerà la tromba e tutti risorgeranno. "Canet enim tuba, et mortui resurgent" (1 Cor 15,52). Dice S. Girolamo: "Quoties diem iudicii considero, contremisco; semper videtur illa tuba insonare auribus meis: Surgite, mortui, venite ad iudicium". Al suono di questa tromba scenderanno l'anime belle de' beati ad unirsi coi loro corpi, con cui han servito a Dio in questa vita; e l'anime infelici de' dannati saliranno dall'inferno ad unirsi con quei corpi maledetti, co' quali hanno offeso Dio.


Oh che differenza ci sarà allora tra i corpi de' beati e quelli dei dannati. I beati compariranno belli, candidi, risplendenti più che il sole. "Tunc iusti fulgebunt sicut sol" (Matth 13,43). Oh felice chi in questa vita sa mortificar la sua carne, con negarle i piaceri vietati; e per tenerla più a freno, le nega anche i gusti leciti del senso, la maltratta, come han fatto i santi! Oh quanto allora se ne troverà contento, come un S. Pietro d'Alcantara, che dopo morte disse a S. Teresa: "O felix poenitentia, quae tantam mihi promeruit gloriam!". All'incontro i corpi de' reprobi compariranno deformi, neri e puzzolenti. O che pena avrà allora il dannato in riunirsi col suo corpo! Corpo maledetto, dirà l'anima, che per contentare te io son perduta. E 'l corpo dirà: Anima maledetta, e tu che avevi in mano la ragione, perché mi hai conceduti quelli gusti, che han fatto perdere te e me per tutta l'eternità.


PUNTO II


Risorti che saranno gli uomini, sarà loro intimato dagli angeli che vadano tutti alla valle di Giosafat, per essere ivi giudicati: "Populi, populi in valle concisionis, quia iuxta est dies Domini" (Ioel 3,14). Radunati poi che saranno ivi, verranno gli angeli e segregheranno i reprobi dagli eletti. "Exibunt angeli, et separabunt malos de medio iustorum" (Matth 13,49). I giusti resteranno alla destra e i dannati saran cacciati alla sinistra. Che pena sarebbe a taluno il vedersi discacciato dalla conversazione o dalla chiesa! Ma quale altra pena sarà allora il vedersi discacciare dalla compagnia dei santi: "Quomodo putas impios confundendos, quando, segregatis iustis, fuerint derelicti!" (Auct. op. imperf.). Dice il Grisostomo che se i dannati non avessero altra pena, questa sola confusione basterebbe a fare il loro inferno: "Et si nihil ulterius paterentur, ista sola verecundia sufficeret eis ad poenam". Il figlio sarà separato dal padre, il marito dalla moglie, il padrone dal servo: "Unus assumetur, et alter relinquetur" (Matth 24,40). Dimmi, fratello mio, qual luogo pensi che allora ti toccherà? Vorresti trovarti alla destra? lascia dunque la via, che ti porta alla sinistra.


Ora in questa terra son tenuti per fortunati i principi, i ricchi, e son disprezzati i santi, che vivono poveri ed umili. O fedeli, che amate Dio, non vi accorate, in vedervi sì vilipesi e tribolati in questa terra: "Tristitia vertetur in gaudium" (Io 16,20). Allora voi sarete chiamati i veri fortunati, e avrete l'onore di esser dichiarati della corte di Gesù Cristo. Oh che bella figura che farà allora un S. Pietro di Alcantara, il quale fu vilipeso quasi apostata! un S. Giovanni di Dio, che fu trattato da pazzo! un S. Pietro Celestino, che avendo rinunziato il papato, morì dentro una carcere! Oh quali onori avranno allora tanti martiri straziati da' carnefici! "Tunc laus erit unicuique a Deo" (1 Cor 4,5). Ed oh che figura orribile all'incontro farà un Erode, un Pilato, un Nerone! e tanti altri grandi della terra, ma dannati! Oh amanti del mondo, alla valle, alla valle vi aspetto. Ivi senza dubbio muterete sentimenti. Ivi piangerete la vostra pazzia. Miseri, che per fare una breve comparsa sulla scena di questa terra, avrete poi a far ivi la parte di dannati nella tragedia del giudizio. Gli eletti dunque saran collocati alla destra; anzi per loro maggior gloria (secondo dice l'Apostolo) saranno sollevati in aria sovra le nubi, per andare cogli angeli ad incontro a Gesù Cristo, che ha da venire dal cielo: "Rapiemur cum illis in nubibus obviam Domino in aera" (1 Thess 4,17). E i dannati come tanti capretti destinati al macello, saran confinati alla sinistra, ad aspettare il loro giudice, che dovrà far la pubblica condanna di tutti i suoi nemici.


Ma ecco già si aprono i cieli, vengono gli angeli ad assistere al giudizio, e portano i segni della passione di Gesù Cristo: "Veniente Domino ad iudicium (dice S. Tommaso), signum crucis, et alia passionis indicia demonstrabuntur". Specialmente comparirà la croce: "Et tunc parebit signum Filii hominis in coelo, et tunc plangent omnes tribus terrae" (Matth 24,30). Dice Cornelio a Lapide: Oh come allora al veder la croce piangeranno i peccatori, che in vita non fecer conto della loro salute eterna, che tanto costò al Figlio di Dio! "Plangent qui salutem suam, quae Christo tam cara stetit, neglexerint". Allora dice il Grisostomo: "Clavi de te conquerentur, cicatrices contra te loquentur, crux Christi contra te perorabit". Assisteranno ancora come assessori a questo giudizio i santi Apostoli e tutti i loro imitatori, che insieme con Gesù Cristo giudicheranno le genti: "Fulgebunt iusti, iudicabunt nationes" (Sap 3,7). Verrà ancora ad assistere la Regina de' santi e degli angeli, Maria Santissima. In fine verrà l'eterno giudice in un trono di maestà e di luce. "Et videbunt Filium hominis venientem in nubibus coeli, cum virtute multa et maiestate" (Matth 24,31). "A facie eius cruciabuntur populi" (Ioel 2,6). La vista di Gesù Cristo consolerà gli eletti, ma a' reprobi ella apporterà più pena che lo stesso inferno: "Damnatis (dice S. Girolamo) melius esset inferni poenas, quam Domini praesentiam ferre". Dicea S. Teresa: Gesù mio, datemi ogni pena, e non mi fate vedere la vostra faccia sdegnata con me in quel giorno. E S. Basilio: "Superat omnem poenam confusio ista". Allora avverrà quel che predisse S. Giovanni che i dannati pregheranno i monti a cader loro sopra e nasconderli dalla vista del loro giudice irato: "Dicent autem montibus: Cadite super nos, et abscondite nos a facie sedentis super thronum, et ab ira Agni" (Apoc 6,6).


PUNTO III


Ma ecco già comincia il giudizio. Si aprono i processi, che saranno le coscienze di ciascuno: "Iudicium sedit et libri aperti sunt" (Dan 7,10). I testimoni contro i reprobi saranno per prima i demoni che diranno (secondo S. Agostino): "Aequissime Deus, iudica esse meum qui tuus esse noluit". Saran per secondo le proprie coscienze: "Testimonium reddente illis conscientia ipsorum" (Rom 2,15). Di più saran testimoni che grideranno vendetta, le stesse mura di quella casa dove i peccatori hanno offeso Dio. "Lapis de pariete clamabit" (Habac 2,11). Testimonio sarà finalmente lo stesso giudice, ch'è stato presente a tutte le offese a Lui fatte. "Ego sum iudex, et testis, dicit Dominus" (Ier 29,23). Dice S. Paolo che allora il Signore "illuminabit abscondita tenebrarum" (1 Cor 4,5). Farà vedere a tutti gli uomini i peccati de' reprobi più segreti e vergognosi, che in vita sono stati nascosti ancora a' confessori. "Revelabo pudenda tua in facie tua" (Nahum 3,5). I peccati degli eletti, vuole il Maestro delle sentenze con altri che allora non si manifesteranno, ma si troveranno coverti, secondo quel che disse Davide: "Beati quorum remissae sunt iniquitates, et quorum tecta sunt peccata" (Ps 31,1). All'incontro, dice S. Basilio che i peccati de' reprobi si vedranno da tutti con un'occhiata, come in un quadro: "Unico intuitu singula peccata velut in pictura noscentur". Dice S. Tommaso: Se nell'orto di Getsemani in dire Gesù Cristo, "Ego sum", caddero a terra tutti i soldati ch'eran venuti a prenderlo; che sarà quand'egli sedendo da giudice dirà a' dannati: Ecco io sono quello che Voi avete così disprezzato? "Quid faciet iudicaturus, qui hoc fecit iudicandus?".


Ma via su, già si viene alla sentenza. Si volterà prima Gesù Cristo agli eletti e dirà loro quelle dolci parole: "Venite, benedicti Patris mei, possidete paratum vobis regnum a constitutione mundi" (Matth 25,34). S. Francesco d'Assisi in essergli rivelato ch'era predestinato, non capiva in sé per la consolazione; qual gaudio sarà sentirsi dire allora dal giudice: Venite, figli benedetti, venite al regno; non vi sono più pene per voi, non vi è più timore, già siete e sarete salvi in eterno. Io vi benedico il sangue che sparsi per voi, e vi benedico le lagrime che voi avete sparse per li vostri peccati: andiamo su al paradiso, dove staremo sempre insieme per tutta l'eternità. Benedirà anche Maria SS. i divoti suoi, e l'inviterà a venir seco in cielo, e così cantando "Alleluia, alleluia", entreranno gli eletti in trionfo al paradiso a possedere, a lodare, ed amare Dio in eterno.


All'incontro i dannati rivolti a Gesù Cristo gli diranno: E noi miseri che ce ne abbiamo da fare? E voi, dirà l'eterno giudice, giacché avete rinunziata e disprezzata la mia grazia, "discedite a me, maledicti, in ignem aeternum" (Matth 25,41). "Discedite", spartitevi da me, ch'io non voglio vedervi, né sentirvi più. "Maledicti", andate ed andate maledetti, giacché avete disprezzata la mia benedizione. E dove, Signore, hanno da andare questi miserabili? "In ignem", nell'inferno a bruciare in anima e corpo. E per quanti anni, o per quanti secoli? Che anni, che secoli! "In ignem aeternum", per tutta l'eternità, mentre Dio sarà Dio. Dopo questa sentenza dice S. Efrem che i reprobi si licenzieranno dagli angeli, da' santi, da' congiunti e dalla divina Madre: "Valete iusti, vale crux, vale paradise. Valete patres ac filii, nullum siquidem vestrum visuri sumus ultra. Vale tu quoque Dei Genitrix Maria". E così in mezzo alla valle si aprirà poi un gran fossa, dove caderanno insieme demonii e dannati, i quali si sentiranno oh Dio dietro le spalle chiudere quelle porte, che non si avranno da aprire, mai, mai, mai più in eterno. O peccato maledetto, a qual fine infelice avrai un giorno da condurre tante povere anime! O anime infelici, a cui sta riservata una fine così lagrimevole!




LE PENE DELL'INFERNO

Et ibunt hi in supplicium aeternum (Matth 25,46)

PUNTO I

Due mali fa il peccatore, allorché pecca, lascia Dio sommo bene, e si rivolta alle creature: "Duo enim mala fecit populus meus, me dereliquerunt fontem aquae vivae, et foderunt sibi cisternas; cisternas dissipatas, quae continere non valent aquas" (Ier 2,13). Perché dunque il peccatore si volta alle creature con disgusto di Dio, giustamente nell'inferno sarà tormentato dalle stesse creature, dal fuoco e da' demonii, e questa è la pena del senso. Ma perché la sua colpa maggiore, dove consiste il peccato, è il voltare le spalle a Dio, perciò la pena principale che sarà nell'inferno, sarà la pena del danno. Ch'é la pena d'aver perduto Dio.

Consideriamo prima la pena del senso. È di fede che vi è l'inferno. In mezzo alla terra vi è questa prigione riservata al castigo de' ribelli di Dio. Che cosa è questo inferno? è il luogo de' tormenti. "In hunc locum tormentorum", così chiamò l'inferno l'Epulone dannato (Luc 16,28). Luogo di tormenti, dove tutti i sensi e le potenze del dannato hanno da avere il lor proprio tormento; e quanto più alcuno in un senso avrà offeso Dio, tanto più in quel senso avrà da esser tormentato: "Per quae peccat quis, per haec et torquetur" (Sap 11,17). "Quantum in deliciis fuit, tantum date illi tormentum" (Apoc 18,7). Sarà tormentata la vista colle tenebre. "Terram tenebrarum, et opertam mortis caligine" (Iob 10,21). Che compassione fa il sentire che un pover'uomo sta chiuso in una fossa oscura per mentre vive, per 40-50 anni di vita! L'inferno è una fossa chiusa da tutte le parti dove non entrerà mai raggio di sole o d'altra luce. "Usque in aeternum non videbit lumen" (Psal 48,20). Il fuoco che sulla terra illumina, nell'inferno sarà tutt'oscuro. "Vox Domini intercidentis flammam ignis" (Psal 28,7). Spiega S. Basilio: Il Signore dividerà dal fuoco la luce, onde tal fuoco farà solamente l'officio di bruciare, ma non d'illuminare; e lo spiega più in breve Alberto Magno: "Dividet a calore splendorem". Lo stesso fumo che uscirà da questo fuoco, componerà quella procella di tenebre, di cui parla S. Giacomo, che accecherà gli occhi de' dannati: "Quibus procella tenebrarum servata est in aeternum" (Iac 2,13). Dice S. Tommaso, che a' dannati è riservato tanto di luce solamente, quanto basta a più tormentarli. "Quantum sufficit ad videndum illa, quae torquere possunt". Vedranno in quel barlume di luce la bruttezza degli altri reprobi e de' demoni, che prenderanno forme orrende per più spaventarli.

Sarà tormentato l'odorato. Che pena sarebbe trovarsi chiuso in una stanza con un cadavere fracido? "De cadaveribus eorum ascendit foetor" (Is 34,3). Il dannato ha da stare in mezzo a tanti milioni d'altri dannati, vivi alla pena, ma cadaveri per la puzza che mandano. Dice S. Bonaventura che se un corpo d'un dannato fosse cacciato dall'inferno, basterebbe a far morire per la puzza tutti gli uomini. E poi dicono alcuni pazzi: Se vado all'inferno, non sono solo. Miseri! quanti più sono nell'inferno, tanto più penano. "Ibi (dice S. Tommaso) miserorum societas miseriam non minuet, sed augebit". Più penano (dico) per la puzza, per le grida e per la strettezza; poiché staran nell'inferno l'un sopra l'altro, come pecore ammucchiate in tempo d'inverno: "Sicut oves in inferno positi sunt" (Psal 48,15). Anzi più, staran come uve spremute sotto il torchio dell'ira di Dio. "Et ipse calcat torcular vini furoris irae Dei" (Apoc 19,15). Dal che ne avverrà poi la pena dell'immobilità. "Fiant immobiles quasi lapis" (Exod 15,16). Sicché il dannato siccome caderà nell'inferno nel giorno finale, così avrà da restare senza cambiare più sito e senza poter più muovere né un piede, né una mano, per mentre Dio sarà Dio.

Sarà tormentato l'udito cogli urli continui e pianti di quei poveri disperati. I demonii faranno continui strepiti. "Sonitus terroris semper in aure eius" (Iob 15,21). Che pena è quando si vuol dormire e si sente un infermo che continuamente si lamenta, un cane che abbaia, o un fanciullo che piange? Miseri dannati, che han da sentire di continuo per tutta l'eternità quei rumori e le grida di quei tormentati! Sarà tormentata la gola colla fame; avrà il dannato una fame canina: "Famem patientur ut canes" (Psal 58,15). Ma non avrà mai una briciola di pane. Avrà poi una tale sete, che non gli basterebbe tutta l'acqua del mare; ma non ne avrà neppure una stilla: una stilla ne domandava l'Epulone, ma questa non l'ha avuta ancora, e non l'avrà mai, mai.

PUNTO II

La pena poi che più tormenta il senso del dannato, è il fuoco del l'inferno, che tormenta il tatto. "Vindicta carnis impii ignis, et vermis" (Eccli 7,19). Che perciò il Signore nel giudizio ne fa special menzione: "Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum" (Matth 41). Anche in questa terra la pena del fuoco è la maggior di tutte; ma vi è tanta differenza dal fuoco nostro a quello dell'inferno, che dice S. Agostino che 'l nostro sembra dipinto. "In eius comparatione noster hic ignis depictus est". E S. Vincenzo Ferreri dice che a confronto il nostro è freddo. La ragione è, perché il fuoco nostro è creato per nostro utile, ma il fuoco dell'inferno è creato da Dio a posta per tormentare. "Longe alius (dice Tertulliano) est ignis, qui usui humano, alius qui Dei iustitiae deservit". Lo sdegno di Dio accende questo fuoco vendicatore. "Ignis succensus est in furore meo" (Ier 15,14). Quindi da Isaia il fuoco dell'inferno è chiamato spirito d'ardore: "Si abluerit Dominus sordes... in spiritu ardoris" (Is 4). Il dannato sarà mandato non al fuoco, ma nel fuoco: "Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum". Sicché il misero sarà circondato dal fuoco, come un legno dentro una fornace. Si troverà il dannato con un abisso di fuoco da sotto, un abisso di sopra, e un abisso d'intorno. Se tocca, se vede, se respira; non tocca, non vede, né respira altro che fuoco. Starà nel fuoco come il pesce nell'acqua. Ma questo fuoco non solamente starà d'intorno al dannato, ma entrerà anche dentro le sue viscere a tormentarlo. Il suo corpo diventerà tutto di fuoco, sicché bruceranno le viscere dentro del ventre, il cuore dentro del petto, le cervella dentro il capo, il sangue dentro le vene, anche le midolla dentro l'ossa: ogni dannato diventerà in se stesso una fornace di fuoco. "Pone eos ut clibanum ignis" (Ps 20,10). Taluni non possono soffrire di camminare per una via battuta dal sole, di stare in una stanza chiusa con una braciera, non soffrire una scintilla, che svola da una candela; e poi non temono quel fuoco, che divora, come dice Isaia: "Quis poterit habitare de vobis cum igne devorante?" (Is 33,14). Siccome una fiera divora un capretto, così il fuoco dell'inferno divora il dannato; lo divora, ma senza farlo mai morire. Siegui pazzo, dice S. Pier Damiani (parlando al disonesto), siegui a contentare la tua carne, che verrà un giorno in cui le tue disonestà diventeranno tutte pece nelle tue viscere, che farà più grande e più tormentosa la fiamma che ti brucerà nell'inferno: "Venit dies, imo nox, quando libido tua vertetur in picem, qua se nutriat perpetuus ignis in tuis visceribus". Aggiunge S. Girolamo che questo fuoco porterà seco tutti i tormenti e dolori che si patiscono in questa terra; dolori di fianco e di testa, di viscere, di nervi: "In uno igne omnia supplicia sentiunt in inferno peccatores". In questo fuoco vi sarà anche la pena del freddo. "Ad nimium calorem transeat ab aquis nivium" (Iob 24,19). Ma sempre bisogna intendere che tutte le pene di questa terra sono un'ombra, come dice il Grisostomo, a paragone delle pene dell'inferno: "Pone ignem, pone ferrum, quid, nisi umbra ad illa tormenta?".

Le potenze anche avranno il lor proprio tormento. Il dannato sarà tormentato nella memoria, col ricordarsi del tempo che ha avuto in questa vita per salvarsi, e l'ha speso per dannarsi; e delle grazie che ha ricevute da Dio, e non se ne ha voluto servire. Nell'intelletto, col pensare al gran bene che ha perduto, paradiso e Dio; e che a questa perdita non vi è più rimedio. Nella volontà, in vedere che gli sarà negata sempre ogni cosa che domanda. "Desiderium peccatorum peribit" (Ps 111,10). Il misero non avrà mai niente di quel che desidera, ed avrà sempre tutto quello che abborrisce, che saranno le sue pene eterne. Vorrebbe uscir da' tormenti, e trovar pace, ma sarà sempre tormentato, e non avrà mai pace.

PUNTO III

Ma tutte queste pene son niente a rispetto della pena del danno. Non fanno l'inferno le tenebre, la puzza, le grida e 'l fuoco; la pena che fa l'inferno è la pena di aver perduto Dio. Dice S. Brunone: "Addantur tormenta tormentis, ac Deo non priventur". E S. Gio. Grisostomo: "Si mille dixeris gehennas, nihil par dices illius doloris". Ed aggiunge S. Agostino che se i dannati godessero la vista di Dio, "nullam poenam sentirent, et infernus ipse verteretur in paradisum". Per intendere qualche cosa di questa pena, si consideri che se taluno perde (per esempio) una gemma, che valea 100 scudi, sente gran pena, ma se valea 200 sente doppia pena: se 400 più pena. In somma quanto cresce il valore della cosa perduta, tanto cresce la pena. Il dannato qual bene ha perduto? un bene infinito, ch'è Dio; onde dice S. Tommaso che sente una pena in certo modo infinita: "Poena damnati est infinita, quia est amissio boni infiniti".

Questa pena ora solo si teme da' santi. "Haec amantibus, non contemnentibus poena est", dice S. Agostino. S. Ignazio di Loiola dicea: Signore, ogni pena sopporto, ma questa no, di star privo di Voi. Ma questa pena niente si apprende da' peccatori, che si contentano di vivere i mesi e gli anni senza Dio, perché i miseri vivono fra le tenebre. In morte non però han da conoscere il gran bene che perdono. L'anima in uscire da questa vita, come dice S. Antonino, subito intende ch'ella è creata per Dio: "Separata autem anima a corpore intelligit Deum summum bonum et ad illud esse creatam". Onde subito si slancia per andare ad abbracciarsi col suo sommo bene; ma stando in peccato, sarà da Dio discacciata. Se un cane vede la lepre, ed uno lo tiene con una catena, che forza fa il cane per romper la catena ed andare a pigliar la preda? L'anima in separarsi dal corpo, naturalmente è tirata a Dio, ma il peccato la divide da Dio, e la manda lontana all'inferno. "Iniquitates vestrae diviserunt inter vos, et Deum vestrum" (Is 59,2). Tutto l'inferno dunque consiste in quella prima parola della condanna: "Discedite a me, maledicti". Andate, dirà Gesù Cristo, non voglio che vediate più la mia faccia. "Si mille quis ponat gehennas, nihil tale dicturus est, quale est exosum esse Christo" (S. Gio. Grisostomo). Allorché Davide condannò Assalonne a non comparirgli più davanti, fu tale questa pena ad Assalonne che rispose: Dite a mio padre, che o mi permetta di vedere la sua faccia o mi dia la morte (2 Reg 14,24). Filippo II ad un grande che vide stare irriverente in chiesa, gli disse: Non mi comparite più davanti. Fu tanta la pena di quel grande, che giunto alla casa se ne morì di dolore. Che sarà, quando Dio in morte intimerà al reprobo: Va via che io non voglio vederti più. "Abscondam faciem ab eo, et invenient eum omnia mala" (Deut 31,17). Voi (dirà Gesù a' dannati nel giorno finale) non siete più miei, io non sono più vostro. "Voca nomen eius, non populus meus, quia vos non populus meus, et ego non ero vester" (Osea 1,9).

Che pena è ad un figlio, a cui gli muore il padre, o ad una moglie quando le muore lo sposo, il dire: Padre mio, sposo mio, non t'ho da vedere più. Ah se ora udissimo un'anima dannata che piange, e le chiedessimo: Anima, perché piangi tanto? Questo solo ella risponderebbe: Piango, perché ho perduto Dio, e non l'ho da vedere più. Almeno potesse la misera nell'inferno amare il suo Dio, e rassegnarsi alla sua volontà. Ma no; se potesse ciò fare, l'inferno non sarebbe inferno; l'infelice non può rassegnarsi alla volontà di Dio, perché è fatta nemica della divina volontà. Né può amare più il suo Dio, ma l'odia e l'odierà per sempre; e questo sarà il suo inferno, il conoscere che Dio è un bene sommo e il vedersi poi costretto ad odiarlo, nello stesso tempo che lo conosce degno d'infinito amore. "Ego sum ille nequam privatus amore Dei", così rispose quel demonio, interrogato chi fosse da S. Caterina da Genova. Il dannato odierà e maledirà Dio, e maledicendo Dio, maledirà anche i beneficii che gli ha fatti, la creazione, la redenzione, i sagramenti, specialmente del battesimo e della penitenza, e sopra tutto il SS. Sagramento dell'altare. Odierà tutti gli angeli e santi ma specialmente l'angelo suo custode e i santi suoi avvocati, e più di tutti la divina Madre; ma principalmente maledirà le tre divine Persone, e fra queste singolarmente il Figlio di Dio, che un giorno è morto per la di lei salute, maledicendo le sue piaghe, il suo sangue, le sue pene e la sua morte.



L'ETERNITÀ DELL'INFERNO

Et ibunt hi in supplicium aeternum (Matth 25,46)

PUNTO I

Se l'inferno non fosse eterno, non sarebbe inferno. Quella pena che non dura molto, non è gran pena. A quell'infermo si taglia una postema, a quell'altro si foca una cancrena; il dolore è grande, ma perché finisce tra poco, non è gran tormento. Ma qual pena sarebbe, se quel taglio o quell'operazione di fuoco continuasse per una settimana, per un mese intero? Quando la pena è assai lunga, ancorché sia leggiera, come un dolore d'occhi, un dolore di mole, si rende insopportabile. Ma che dico dolore? anche una commedia, una musica che durasse troppo, o fosse per tutto un giorno, non potrebbe soffrirsi per lo tedio. E se durasse un mese? un anno? Che sarà l'inferno? dove non si ascolta sempre la stessa commedia, o la stessa musica: non vi è solo un dolore d'occhi, o di mole: non si sente solamente il tormento d'un taglio, o di un ferro rovente, ma vi sono tutti i tormenti, tutti i dolori; e per quanto tempo? per tutta l'eternità: "Cruciabuntur die ac nocte in saecula saeculorum" (Apoc 20,10).

Quest'eternità è di fede; non è già qualche opinione, ma è verità attestataci da Dio in tante Scritture: "Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum" (Matth 25,41). "Et hi ibunt in supplicium aeternum" (Matth 25,46). "Poenas dabunt in interitu aeternas" (2 Thess 1,9). "Omnis igne salietur" (Marc 9,48). Siccome il sale conserva le cose, così il fuoco dell'inferno nello stesso tempo che tormenta i dannati, fa l'officio di sale conservando loro la vita. "Ignis ibi consumit (dice S. Bernardo), ut semper reservet".

Or qual pazzia sarebbe quella di taluno, che per pigliarsi una giornata di spasso, si volesse condannare a star chiuso in una fossa per venti, o trenta anni? Se l'inferno durasse cent'anni; che dico cento? durasse non più che due o tre anni, pure sarebbe una gran pazzia, per un momento di vil piacere, condannarsi a due o tre anni di fuoco. Ma non si tratta di trenta, di cento, né di mille, né di cento mila anni; si tratta d'eternità, si tratta di patire per sempre gli stessi tormenti, che non avranno mai da finire, né da alleggerirsi un punto. Hanno avuto ragione dunque i santi, mentre stavano in vita, ed anche in pericolo di dannarsi, di piangere e tremare. Il B. Isaia anche mentre stava nel deserto tra digiuni e penitenze, piangeva dicendo: Ah misero me, che ancora non sono libero dal dannarmi! "Heu me miserum, quia nondum a gehennae igne sum liber!".

PUNTO II

Chi entra una volta nell'inferno, di là non uscirà più in eterno. Questo pensiero facea tremare Davide, dicendo: "Neque absorbeat me profundum, neque urgeat super me puteus os suum" (Ps 68,16). Caduto ch'è il dannato in quel pozzo di tormenti, si chiude la bocca e non si apre più. Nell'inferno v'è porta per entrare, ma non v'è porta per uscire: "Descensus erit (dice Eusebio Emisseno), ascensus non erit". E così spiega le parole del Salmista: "Neque urgeat os suum; quia cum susceperit eos, claudetur sursum, et aperietur deorsum". Fintanto che il peccatore vive, sempre può avere speranza di rimedio, ma colto ch'egli sarà dalla morte in peccato, sarà finita per lui ogni speranza. "Mortuo homine impio, nulla erit ultra spes" (Prov 11,7). Almeno potessero i dannati lusingarsi con qualche falsa speranza, e così trovare qualche sollievo alla loro disperazione. Quel povero impiagato, confinato in un letto, è stato già disperato da' medici di poter guarire; ma pure si lusinga, e si consola con dire: Chi sa se appresso si troverà qualche medico e qualche rimedio che mi sani. Quel misero condannato alla galea in vita anche si consola, dicendo: Chi sa che può succedere, e mi libero da queste catene. Almeno (dico) potesse il dannato dire similmente così, chi sa se un giorno uscirò da questa prigione; e così potesse ingannarsi almeno con questa falsa speranza. No, nell'inferno non v'è alcuna speranza né vera né falsa, non vi è "chi sa". "Statuam contra faciem" (Ps 49,21). Il misero si vedrà sempre innanzi agli occhi scritta la sua condanna, di dover sempre stare a piangere in quella fossa di pene: "Alii in vitam aeternam, et alii in opprobrium, ut videant semper" (Dan 12,2). Onde il dannato non solo patisce quel che patisce in ogni momento, ma soffre in ogni momento la pena dell'eternità, dicendo: Quel che ora patisco, io l'ho da patire per sempre. "Pondus aeternitatis sustinet", dice Tertulliano.

Preghiamo dunque il Signore, come pregava S. Agostino: "Hic ure, hic seca, hic non parcas, ut in aeternum parcas". I castighi di questa vita passano. "Sagittae tuae transeunt, vox tonitrui tui in rota" (Ps 76,18). Ma i castighi dell'altra vita non passano mai. Di questi temiamo; temiamo di quel tuono ("vox tonitrui tui in rota"), s'intende di quel tuono della condanna eterna, che uscirà dalla bocca del giudice nel giudizio contro i reprobi: "Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum". E dice, "in rota"; la ruota è figura dell'eternità, a cui non si trova termine. "Eduxi gladium meum de vagina sua irrevocabilem" (Ez 21,5). Sarà grande il castigo dell'inferno, ma ciò che più dee atterrirci, è che sarà castigo irrevocabile.

Ma come, dirà un miscredente, che giustizia è questa? castigare un peccato che dura un momento con una pena eterna? Ma come (io rispondo) può aver l'ardire un peccatore per un gusto d'un momento offendere un Dio d'infinita maestà? Anche nel giudizio umano (dice S. Tommaso) la pena non si misura secondo la durazione del tempo, ma secondo la qualità del delitto: "Non quia homicidium in momento committitur, momentanea poena punitur". Ad un peccato mortale un inferno è poco: all'offesa d'una maestà infinita si dovrebbe un castigo infinito, dice S. Bernardino da Siena: "In omni peccato mortali infinita Deo contumelia irrogatur; infinitae autem iniuriae infinita debetur poena". Ma perché, dice l'Angelico la creatura non è capace di pena infinita nell'intensione, giustamente fa Dio che la sua pena sia infinita nella estensione.

Oltreché questa pena dee esser necessariamente eterna, prima perché il dannato non può più soddisfare per la sua colpa. In questa vita intanto può soddisfare il peccator penitente, in quanto gli sono applicati i meriti di Gesù Cristo; ma da questi meriti è escluso il dannato; onde non potendo egli placare più Dio, ed essendo eterno il suo peccato, eterna dee essere ancora la sua pena. "Non dabit Deo placationem suam, laborabit in aeternum" (Ps 48,8). Quindi dice il Belluacense: "Culpa semper poterit ibi puniri, et nunquam poterit expiari"; poiché al dire di S. Antonino "ibi peccator poenitere non potest"; e perciò il Signore starà sempre con esso sdegnato. "Populus cui iratus est Dominus usque in aeternum" (Malach 1,4). Di più il dannato, benché Dio volesse perdonarlo, non vuol esser perdonato, perché la sua volontà è ostinata e confermata nell'odio contro Dio. Dice Innocenzo III: "Non humiliabuntur reprobi, sed malignitas odii in illis excrescet". E S. Girolamo: "Insatiabiles sunt in desiderio peccandi". Ond'è che la piaga del dannato è disperata, mentre ricusa anche il guarirsi. "Factus est dolor eius perpetuus, et plaga desperabilis renuit curari" (Ier 15,18).

PUNTO III

La morte in questa vita è la cosa più temuta da' peccatori, ma nell'inferno sarà la più desiderata. "Quaerent mortem, et non invenient; et desiderabunt mori, et mors fugiet ab eis" (Apoc 9,6). Onde scrisse S. Girolamo: "O mors quam dulcis esses, quibus tam amara fuisti!". Dice Davide che la morte si pascerà de' dannati: "Mors depascet eos" (Psal 48,15). Spiega S. Bernardo che siccome la pecora pascendosi dell'erba, si ciba delle frondi, ma lascia le radici, così la morte si pasce de' dannati, gli uccide ogni momento, ma lascia loro la vita per continuare ad ucciderli colla pena in eterno: "Sicut animalia depascunt herbas, sed remanent radices; sic miseri in inferno corrodentur a morte, sed iterum reservabuntur ad poenas". Sicché dice S. Gregorio che il dannato muore ogni momento senza mai morire: "Flammis ultricibus traditus semper morietur". Se un uomo muore ucciso dal dolore, ognuno lo compatisce; almeno il dannato avesse chi lo compatisse. No, muore il misero per lo dolore ogni momento, ma non ha, né avrà mai chi lo compatisca. Zenone imperadore, chiuso in una fossa, gridava: Apritemi per pietà. Non fu da niuno inteso, onde fu ritrovato morto da disperato, poiché si avea mangiate le stesse carni delle sue braccia. Gridano i presciti dalla fossa dell'inferno, dice S. Cirillo Alessandrino, ma niuno viene a cacciarneli, e niuno ne ha compassione: "Lamentantur, et nullus eripit; plangunt et nemo compatitur".

E questa loro miseria per quanto tempo durerà? per sempre, per sempre. Narrasi negli Esercizi spirituali del P. Segneri Iuniore (scritti dal Muratori) che in Roma essendo dimandato il demonio, che stava nel corpo d'un ossesso, per quanto tempo doveva star nell'inferno; rispose con rabbia, sbattendo la mano su d'una sedia: "Sempre, sempre". Fu tanto lo spavento, che molti giovani del Seminario Romano, che ivi si trovavano, si fecero una confessione generale, e mutarono vita a questa gran predica di due parole: "Sempre, sempre". Povero Giuda! son passati già mille e settecento anni che sta nell'inferno, e l'inferno suo ancora è da capo. Povero Caino! egli sta nel fuoco da cinque mila e 700 anni, e l'inferno suo è da capo. Fu interrogato un altro demonio, da quanto tempo era andato all'inferno, e rispose: "Ieri". Come ieri, gli fu detto, se tu sei dannato da cinque mila e più anni? Rispose di nuovo: Oh se sapessivo che viene a dire eternità, bene intendereste che cinque mila anni non sono a paragone neppure un momento. Se un angelo dicesse ad un dannato: Uscirai dall'inferno, ma quando son passati tanti secoli, quante sono le goccie dell'acqua, le frondi degli alberi e le arene del mare, il dannato farebbe più festa, che un mendico in aver la nuova d'esser fatto re. Sì, perché passeranno tutti questi secoli, si moltiplicheranno infinite volte, e l'inferno sempre sarà da capo. Ogni dannato farebbe questo patto con Dio: Signore, accrescete la pena mia quanto volete; fatela durare quanto vi piace; metteteci termine, e son contento. Ma no, che questo termine non vi sarà mai. La tromba della divina giustizia non altro suonerà nell'inferno che "sempre, sempre, mai, mai".

Dimanderanno i dannati ai demoni: A che sta la notte? "Custos, quid de nocte?" (Is 21,11). Quando finisce? quando finiscono queste tenebre, queste grida, questa puzza, queste fiamme, questi tormenti? E loro è risposto: "Mai, mai". E quanto dureranno? "Sempre, sempre". Ah Signore, date luce a tanti ciechi, che pregati a non dannarsi, rispondono: All'ultimo, se vado all'inferno pazienza. Oh Dio, essi non hanno pazienza di sentire un poco di freddo, di stare in una stanza troppo calda, di soffrire una percossa; e poi avranno pazienza di stare in un mar di fuoco, calpestati da' diavoli e abbandonati da Dio e da tutti per tutta l'eternità!




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