È soltanto un Pokémon con le armi o è un qualcosa di più? Vieni a parlarne su Award & Oscar!
QUESTO FORUM E' CONSACRATO ALLO SPIRITO SANTO... A LUI OGNI ONORE E GLORIA NEI SECOLI DEI SECOLI, AMEN!
 
Innamoriamoci della Sacra Scrittura! Essa ha per Autore Dio che, con la potenza dello Spirito Santo solo, è resa comprensibile (cf. Dei Verbum 12) attraverso coloro che Dio ha chiamato nella Chiesa Cattolica, nella Comunione dei Santi. Predisponi tutto perché lo Spirito scenda (invoca il Veni, Creator Spiritus!) in te e con la sua forza, tolga il velo dai tuoi occhi e dal tuo cuore affinché tu possa, con umiltà, ascoltare e vedere il Signore (Salmo 119,18 e 2 Corinzi 3,12-16). È lo Spirito che dà vita, mentre la lettera da sola, e da soli interpretata, uccide! Questo forum è CONSACRATO ALLO SPIRITO SANTO e sottolineamo che questo spazio non pretende essere la Voce della Chiesa, ma che a Lei si affida, tutto il materiale ivi contenuto è da noi minuziosamente studiato perchè rientri integralmente nell'insegnamento della nostra Santa Madre Chiesa pertanto, se si dovessero riscontrare testi, libri o citazioni, non in sintonia con la Dottrina della Chiesa, fateci una segnalazione e provvederemo alle eventuali correzioni o chiarimenti!
 
Pagina precedente | 1 | Pagina successiva

Apparecchio alla Morte di sant'Alfonso Maria de Liguori

Ultimo Aggiornamento: 10/07/2019 00:04
Autore
Stampa | Notifica email    
OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
09/07/2019 23:45

RIMORSI DEL DANNATO


Vermis eorum non moritur (Marc 9,47)


PUNTO I


Per questo verme che non muore, spiega S. Tommaso che s'intende il rimorso di coscienza, dal quale eternamente sarà il dannato tormentato nell'inferno. Molti saranno i rimorsi con cui la coscienza roderà il cuore de' reprobi, ma tre saranno i rimorsi più tormentosi: il pensare al poco per cui si son dannati: al poco che dovean fare per salvarsi: e finalmente al gran bene che han perduto. Il primo rimorso dunque che avrà il dannato sarà il pensare per quanto poco s'è perduto. Dopo che Esaù ebbesi cibato di quella minestra di lenticchie, per cui avea venduta la sua primogenitura, dice la Scrittura che per lo dolore e rimorso della perdita fatta si pose ad urlare: "Irrugiit clamore magno" (Gen 27,34). Oh quali altri urli e ruggiti darà il dannato pensando che per poche soddisfazioni momentanee e avvelenate si ha perduto un regno eterno di contenti, e si ha da vedere eternamente condannato ad una continua morte! Onde piangerà assai più amaramente, che non piangeva Gionata, allorché videsi condannato a morte da Saulle suo padre, per essersi cibato d'un poco di mele. "Gustans gustavi paulum mellis, et ecce morior" (1 Reg 14,43). Oh Dio, e qual pena apporterà al dannato il vedere allora la causa della sua dannazione? Al presente che cosa a noi sembra la nostra vita passata, se non un sogno, un momento? Or che pareranno a chi sta nell'inferno quelli cinquanta, o sessanta anni di vita, che avrà vivuti in questa terra, quando si troverà nel fondo dell'eternità, in cui saranno già passati cento e mille milioni d'anni, e vedrà che la sua eternità allora comincia! Ma che dico cinquanta anni di vita? cinquanta anni tutti forse di gusti? e che forse il peccatore vivendo senza Dio, sempre gode ne' suoi peccati? quando durano i gusti del peccato? durano momenti; e tutto l'altro tempo per chi vive in disgrazia di Dio, è tempo di pene e di rancori. Or che pareranno quelli momenti di piaceri al povero dannato? e specialmente che parerà quell'uno ed ultimo peccato fatto, per lo quale s'è perduto? Dunque (dirà) per un misero gusto brutale ch'è durato un momento, e appena avuto è sparito come vento, io avrò da stare ad ardere in questo fuoco, disperato ed abbandonato da tutti, mentre Dio sarà Dio per tutta l'eternità!


PUNTO II


Dice S. Tommaso che questa sarà la pena principale de' dannati, il vedere che si son perduti per niente, e che con tanta facilità poteano acquistarsi la gloria del paradiso, se voleano: "Principaliter dolebunt, quod pro nihilo damnati sunt, et facillime vitam poterant consequi sempiternam". Il secondo rimorso dunque della coscienza sarà il pensare al poco che dovean fare per salvarsi. Comparve a S. Umberto un dannato e gli disse che quest'appunto era la maggiore afflizione, che cruciavalo nell'inferno, il pensiero del poco per cui s'era dannato, e del poco che avrebbe avuto a fare per salvarsi. Dirà allora il misero: S'io mi mortificava a non guardare quell'oggetto, se vincea quel rispetto umano, se fuggiva quell'occasione, quel compagno, quella conversazione, non mi sarei dannato. Se mi fossi confessato ogni settimana, se avessi frequentata la Congregazione, se avessi letto ogni giorno quel libretto spirituale, se mi fossi raccomandato a Gesù Cristo ed a Maria, non sarei ricaduto. Ho proposto tante volte di farlo, ma non l'ho eseguito; o pure l'ho cominciato a fare, e poi l'ho lasciato, e perciò mi son perduto.


Accresceranno la pena di questo rimorso gli esempi, che avrà avuti degli altri suoi buoni amici e compagni; e più l'accresceranno i doni che Dio gli avea concessi per salvarsi: doni di natura, come buona sanità, beni di fortuna, talenti che 'l Signore gli avea dati affin di bene impiegarli, e farsi santo: doni poi di grazia, tanti lumi, ispirazioni, chiamate, e tanti anni conceduti a rimediare il mal fatto: ma vedrà che in questo stato miserabile, al quale è arrivato, non v'è più tempo da rimediare. Sentirà l'Angelo del Signore che grida e giura: "Et Angelus, quem vidi stantem, iuravit per viventem in saecula saeculorum... quia tempus non erit amplius" (Apoc 10,6). Oh che spade crudeli saranno tutte queste grazie ricevute al cuore del povero dannato, allorché vedrà esser finito già il tempo di poter più dar riparo alla sua eterna ruina. Dirà dunque piangendo cogli altri suoi compagni disperati: "Transiit messis, finita est aestas, et nos salvati non sumus" (Ier 8,20). Dirà: Oh se le fatiche che ho fatte per dannarmi, l'avessi spese per Dio, mi troverei fatto un gran santo; ed ora che me ne trovo, se non rimorsi e pene, che mi tormenteranno in eterno? Ah che questo pensiero crucierà il dannato più che il fuoco, e tutti gli altri tormenti dell'inferno; il dire: Io poteva essere per sempre felice, ed ora ho da essere per sempre infelice.


PUNTO III


Il terzo rimorso del dannato sarà il vedere il gran bene, che ha perduto. Dice S. Giovanni Grisostomo che i presciti saranno più tormentati dalla perdita fatta del paradiso, che dalle stesse pene dell'inferno: "Plus coelo torquentur, quam gehenna". Disse l'infelice principessa Elisabetta regina d'Inghilterra: Diami Dio quarant'anni di regno, ed io gli rinunzio il paradiso. Ebbe la misera questi quarant'anni di regno, ma ora che l'anima sua ha lasciato questo mondo, che dice? certamente che non la sente così; oh come ora se ne troverà afflitta e disperata, pensando che per quarant'anni di regno terreno, posseduto fra timori ed angustie, ha perduto eternamente il regno del cielo.


Ma quello che più affliggerà in eterno il dannato, sarà il vedere che ha perduto il cielo e 'l sommo bene ch'è Dio, non già per sua mala sorte, o per malevolenza altrui, ma per propria colpa. Vedrà ch'egli è stato creato per lo paradiso; vedrà che Dio ha dato in mano di lui l'elezione a procurarsi, o la vita, o la morte eterna. "Ante hominem vita, et mors... quod placuerit ei dabitur illi" (Eccli 15,18). Sicché vedrà essere stato in mano sua, se voleva, il rendersi eternamente felice, e vedrà ch'egli da se stesso ha voluto precipitarsi in quella fossa di tormenti, dalla quale non potrà più uscirne, né vi sarà mai alcuno che procurerà di liberarnelo. Vedrà salvati tanti suoi compagni, che si saran trovati negli stessi, e forse maggiori pericoli di peccare, ma perché han saputo contenersi con raccomandarsi a Dio, o pure se vi son caduti, perché han saputo presto risorgere e darsi a Dio, si son salvati; ma egli perché non ha voluta finirla, è andato infelicemente a finir nell'inferno, in quel mare di tormenti, senza speranza di potervi più rimediare.


Fratello mio, se per lo passato ancora voi siete stato così pazzo, che avete voluto perdere il paradiso e Dio per un gusto miserabile, procurate di darvi presto rimedio ora ch'è tempo. Non vogliate seguire ad esser pazzo. Tremate di andare a piangere la vostra pazzia in eterno. Chi sa se questa considerazione che leggete, è l'ultima chiamata che vi fa Dio. Chi sa se ora non mutate vita, ad un altro peccato mortale che farete, il Signore v'abbandoni, e per questo poi vi manderà a penare eternamente tra quella ciurma di pazzi, che ora stanno all'inferno, e confessano il loro errore ("ergo erravimus"), ma lo confessano disperati, vedendo che al loro errore non v'è più rimedio. Quand'il demonio vi tenta a peccare di nuovo, ricordatevi dell'inferno, e ricorrete a Dio, alla SS. Vergine; il pensier dell'inferno vi libererà dall'inferno. "Memorare novissima tua, et in aeternum non peccabis" (Eccli 7), perché il pensier dell'inferno vi farà ricorrere a Dio.




IL PARADISO

Tristitia vestra vertetur in gaudium (Io 16,20)

PUNTO I

Procuriamo al presente di soffrir con pazienza le afflizioni di questa vita, offerendole a Dio in unione delle pene che patì Gesu Cristo per nostro amore; e facciamoci animo colla speranza del paradiso. Finiranno un giorno tutte queste angustie, dolori, persecuzioni, timori; e salvandoci, diventeranno per noi gaudii e contenti nel regno de' beati. Così ci fa animo il Signore: "Tristitia vestra vertetur in gaudium" (Io 16,20). Consideriamo dunque oggi qualche cosa del paradiso. Ma che diremo di questo paradiso, se neppure i santi più illuminati han saputo darci ad intendere le delizie, che Dio riserva a' suoi servi fedeli? Davide altro non seppe dirne che 'l paradiso è un bene troppo desiderabile: "Quam dilecta tabernacula tua, Domine virtutum!" (Ps 83,2). Ma voi almeno, S. Paolo mio, voi che aveste la sorte d'essere stato rapito a vedere il cielo ("Raptus in paradisum"), diteci qualche cosa di ciò che avete veduto. No, dice l'Apostolo, ciò che ho veduto, non è possibile spiegarlo. Son le delizie del paradiso: "Arcana verba, quae non licet homini loqui" (2 Cor 12,4). Sono sì grandi che non possono spiegarsi, se non si godono. Altro io non posso dirvi, dice l'Apostolo, che "oculus non vidit, nec auris audivit, neque in cor hominis ascendit, quae praeparavit Deus iis, qui diligunt illum" (1 Cor 2,9). Niun uomo in terra ha vedute mai, né udite, né comprese le bellezze, le armonie, i contenti, che Dio ha preparati a coloro che l'amano.

Non possiamo noi esser capaci de i beni del paradiso, perché non abbiamo altre idee, che de' beni di questa terra. Se i cavalli avessero mai il discorso, e sapessero che il padrone sposandosi ha preparato un gran banchetto, s'immaginerebbero che il banchetto non consisterebbe in altro, che in buona paglia, buona avena ed orzo: perché i cavalli non hanno idea d'altri cibi che di questi. Così pensiamo noi de i beni del paradiso. È bello il vedere in tempo d'està nella notte il cielo stellato: è gran delizia in tempo di primavera trovarsi in una marina, quando il mare è placido, in cui vi si vedono dentro scogli vestiti d'erba, e pesci che guizzano: è gran delizia il trovarsi in un giardino pieno di frutti e fiori, circondato da fontane che scorrono, e con uccelli che van volando e cantando d'intorno. Dirà taluno: Oh che paradiso! Che paradiso? che paradiso? altri sono i beni del paradiso. Per intendere qualche cosa in confuso del paradiso, si consideri ch'ivi sta un Dio onnipotente, impegnato a deliziare le anime che ama. Dice S. Bernardo: Vuoi sapere che cosa vi è in paradiso? "Nihil est quod nolis, totum est quod velis". Ivi non vi è cosa che dispiaccia, e vi è tutto quello che piace.

Oh Dio, che dirà l'anima in entrare in quel regno beato! Immaginiamoci che muoia quella verginella, o quel giovine, ch'essendosi consagrato all'amore di Gesu Cristo, arrivata la morte, lascia già questa terra. L'anima è presentata al giudizio, il giudice l'abbraccia e le dichiara ch'è salva. Le viene ad incontro l'Angelo Custode, e se ne rallegra; ella lo ringrazia dell'assistenza fattale, e l'Angelo poi le dice: Via su, anima bella, allegramente già sei salva, vieni a vedere la faccia del tuo Signore. Ecco l'anima già passa le nubi, le sfere, le stelle: entra nel cielo. Oh Dio, che dirà nel metter piede la prima volta in quella patria beata, e in dar la prima occhiata a quella città di delizie! Gli angeli e i santi le verranno ad incontro, e giubilando le daranno il benvenuto. Ivi che consolazione avrà in incontrarsi co' suoi parenti, o amici entrati già prima in paradiso, e co' suoi santi avvocati! Vorrà l'anima allora genuflettersi avanti di loro per venerarli, ma le diranno quei santi: "Vide ne faceris, conservus tuus sum" (Apoc 22,9). Indi sarà portata a baciare i piedi a Maria ch'è la Regina del paradiso. Qual tenerezza sentirà l'anima in conoscere di vista la prima volta quella divina Madre, che tanto l'ha aiutata a salvarsi! poiché allora vedrà l'anima tutte le grazie, che le ha ottenute Maria, dalla quale poi si vedrà amorosamente abbracciata. Indi dalla stessa Regina sarà l'anima condotta a Gesù, che la riceverà come sposa e le dirà: "Veni de Libano, sponsa mea, veni, coronaberis" (Cant 4,8). Sposa mia, allegramente, son finite le lagrime, le pene e i timori; ricevi la corona eterna, ch'io t'ho acquistata col mio sangue. Gesù stesso poi la porterà a ricever la benedizione dal suo Padre divino, che abbracciandola la benedirà dicendole: "Intra in gaudium Domini tui" (Matth 25,21). Ella sarà beata della medesima beatitudine ch'Egli gode.

PUNTO II

Entrata che sarà l'anima nella beatitudine di Dio, "nihil est quod nolit", non avrà cosa più che l'affanni. "Absterget Deus omnem lacrimam ab oculis eorum, et mors ultra non erit; neque luctus, neque clamor, neque dolor erit ultra; quia prima abierunt. Et dixit qui sedebat in throno: Ecce nova facio omnia" (Apoc 21,4). Nel paradiso non vi sono più infermità, non povertà, né incomodi: non vi sono più vicende di giorni e di notti, né di freddo o di caldo. Ivi è un continuo giorno sempre sereno, una continua primavera sempre deliziosa. Ivi non vi sono più persecuzioni o invidie; in quel regno d'amore tutti s'amano teneramente, e ciascuno gode del bene dell'altro come fosse suo. Non vi sono più timori, perché l'anima confermata in grazia non può più peccare e perdere il suo Dio. "Ecce nova facio omnia". Ogni cosa è nuova, ed ogni cosa consola e sazia. "Totum est quod velis". Ivi sarà contentata la vista, in rimirare quella città di perfetta bellezza: "Urbs perfecti decoris" (Thren 2,15). Che delizia sarebbe vedere una città, dove il pavimento delle vie fosse di cristallo, i palagi d'argento con i soffitti d'oro, e tutt'adorni di festoni di fiori? Oh quanto sarà più bella la città del paradiso! Che sarà poi vedere que' cittadini tutti vestiti alla regale, poiché tutti sono re, come parla S. Agostino: "Quot cives tot reges!" Che sarà veder Maria, che comparirà più bella che tutto il paradiso! Che sarà poi vedere l'Agnello divino, lo sposo Gesù! Santa Teresa appena vide una volta una mano di Gesu Cristo, rimase stupida per tanta bellezza. Sarà contentato l'odorato con quegli odori, ma odori di paradiso. Sarà contentato l'udito colle armonie celesti. S. Francesco intese una volta da un angelo una sola arcata di viola, ed ebbe a morirne per la dolcezza. Che sarà sentir tutt'i santi e gli angeli cantare a coro le glorie di Dio! "In saecula saeculorum laudabunt te" (Ps 83,5). Che sarà udir Maria che loda Dio! La voce di Maria in cielo, dice S. Francesco di Sales, sarà come d'un uscignuolo in un bosco, che supera il canto di tutti gli altri uccellini, che vi sono. In somma ivi son tutte le delizie, che possono desiderarsi.

Ma queste delizie sinora considerate sono i minori beni del paradiso. Il bene che fa il paradiso è il sommo bene ch'è Dio. "Totum quod exspectamus (dice S. Agostino), duae syllabae sunt, Deus". Il premio che il Signore ci promette, non sono solamente le bellezze, le armonie e gli altri gaudi di quella città beata: il premio principale è Dio medesimo, cioè il vedere e l'amare Dio da faccia a faccia. "Ego ero merces tua magna nimis" (Gen 15,1). Dice S. Agostino che se Dio facesse veder la sua faccia a' dannati, "continuo infernus ipse in amoenum converteretur paradisum". E soggiunge che se ad un'anima uscita da questa vita stesse ad eleggere o di veder Dio e star nelle pene dell'inferno, o pure di non vederlo ed esser liberata dall'inferno, "eligeret potius videre Dominum, et esse in illis poenis".

Questo gaudio di vedere e amar Dio da faccia a faccia, da noi in questa vita non può comprendersi; ma argomentiamone qualche cosa dal saper per prima che l'amor divino è così dolce, che anche in questa vita è giunto a sollevar da terra non solo l'anime, ma ancora i corpi de' santi. S. Filippo Neri fu una volta rapito in aria con tutto lo scanno a cui s'afferrò. S. Pietro d'Alcantara fu anche alzato da terra abbracciato ad un albero svelto sin dalle radici. In oltre sappiamo che i santi martiri per la dolcezza dell'amor divino giubilavano negli stessi tormenti. S. Vincenzo mentr'era tormentato, parlava in modo (dice S. Agostino) che "alius videbatur pati, alius loqui". S. Lorenzo stando sulla graticola sul fuoco, insultava il tiranno: "Versa, et manduca"; sì, dice lo stesso S. Agostino, perché Lorenzo, "hoc igne (del divino amore) accensus non sentit incendium". In oltre, che dolcezze prova un peccatore in questa terra, anche in piangere i suoi peccati! Onde dicea S. Bernardo: "Si tam dulce est flere pro te, quid erit gaudere de te". Che suavità poi non prova un'anima, a cui nell'orazione se le scopre con un raggio di luce la divina bontà, le misericordie che l'ha usate e l'amore che l'ha portato e porta Gesu Cristo! si sente allora l'anima struggere, e venir meno per l'amore. E pure in questa terra noi non vediamo Dio com'è: lo vediamo allo scuro. "Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem" (1 Cor 13,12). Al presente noi abbiamo una benda avanti gli occhi, e Dio sta sotto la portiera della fede, e non si fa da noi vedere; che sarà quando dagli occhi nostri si toglierà la benda, e s'alzerà la portiera, e vedremo Dio da faccia a faccia? vedremo quant'è bello Dio, quant'è grande, quant'è giusto, quant'è perfetto, quant'è amabile e quant'amoroso.

PUNTO III

In questa terra la maggior pena che affligge l'anime che amano Dio, e sono in desolazione, è il timore di non amare e di non essere amate da Dio. "Nescit homo, utrum amore an odio dignus sit" (Eccle 9,1). Ma nel paradiso l'anima è sicura ch'ella ama Dio, e ch'è amata da Dio; vede ch'ella è felicemente perduta nell'amor del suo Signore, e che 'l Signore la tiene abbracciata come figlia cara, e vede che quest'amore non si scioglierà mai più in eterno. Accrescerà le beate fiamme all'anima il meglio conoscere che farà allora, quale amore è stato di Dio l'essersi fatto uomo, e morire per lei! quale amore l'istituzione del SS. Sagramento, un Dio farsi cibo d'un verme! Vedrà allora anche l'anima distintamente tutte le grazie che Dio le ha fatte in liberarla da tante tentazioni e pericoli di perdersi; ed allora vedrà che quelle tribolazioni, infermità, persecuzioni e perdite, ch'ella chiamava disgrazie e castighi di Dio, sono state tutte amore e tiri della divina provvidenza per condurla al paradiso. Vedrà specialmente la pazienza che ha avuta Dio in sopportarla dopo tanti peccati, e le misericordie che le ha usate, donandole tanti lumi e tante chiamate d'amore. Vedrà lassù di quel monte beato tante anime dannate nell'inferno per meno peccati de' suoi, ed ella si vedrà già salva, che possiede Dio, ed è sicura di non avere più a perdere quel sommo bene per tutta l'eternità.

Sempre dunque il beato goderà quella felicità, che per tutta l'eternità in ogni momento gli sarà sempre nuova, come se quel momento fosse la prima volta in cui la godesse. Sempre desidererà quel gaudio, e sempre l'otterrà: sempre contenta, sempre sitibonda: sempre sitibonda, e sempre saziata; sì, perché il desiderio del paradiso non porta pena, e 'l possesso non porta tedio. In somma siccome i dannati sono vasi pieni d'ira, i beati sono vasi pieni di contento, in modo che non hanno più che desiderare. Dice S. Teresa che anche in questa terra, quando Iddio introduce un'anima nella cella del vino, cioè del suo divino amore, la rende felicemente ubbriaca, talmente ch'ella perde l'affetto a tutte le cose terrene. Ma in entrare in paradiso, oh quanto più perfettamente, come dice Davide, gli eletti "inebriabuntur ab ubertate domus tuae" (Ps 35,9). Allora avverrà che l'anima in vedere alla scoverta, e in abbracciarsi col suo sommo bene, resterà talmente inebriata d'amore, che felicemente si perderà in Dio, cioè affatto si scorderà di se stessa, e non penserà d'allora in poi che ad amare, a lodare e benedire quell'infinito bene, che possiede.

Quando dunque ci affliggono le croci di questa vita, confortiamoci a sopportarle pazientemente colla speranza del paradiso. S. Maria Egizziaca, dimandata in fine della sua vita dall'Abbate Zosimo, come avea potuto soffrire di vivere per tanti anni in quel deserto? Rispose: "Colla speranza del paradiso". S. Filippo Neri, essendogli offerta la dignità cardinalizia, buttò la berretta in aria dicendo: "Paradiso, paradiso". Fra Egidio Francescano in sentir nominare paradiso, era sollevato in aria per lo contento. Così parimenti ancora noi, quando ci vediamo angustiati dalle miserie di questa terra, alziamo gli occhi al cielo e consoliamoci, sospirando e dicendo: "Paradiso, paradiso". Pensiamo, che, se saremo fedeli a Dio, finiranno un giorno tutte queste pene, miserie e timori, e saremo ammessi in quella patria beata, dove saremo pienamente felici, mentre Dio sarà Dio. Ecco che ci aspettano i santi, ci aspetta Maria; e Gesù sta colla corona in mano, per renderci re di quel regno eterno.



LA PREGHIERA

Petite, et dabitur vobis... omnis enim qui petit, accipit (Luc 11,10)

PUNTO I

Non solo in questo, ma in mille luoghi dell'antico e nuovo Testamento promette Dio di esaudir chi lo prega. "Clama ad me, et exaudiam te" (Iob 33,3): Volgiti a me, ed io ti esaudirò. "Invoca me, et eruam te" (Ps 49,15): Chiamami, ed io ti libererò da' pericoli. "Si quid petieritis me in nomine meo, hoc faciam" (Io 14,14): Quel che mi domanderai per li meriti miei, tutto farò. "Quodcunque volueritis, petetis, et fiet vobis" (Io 15,7): Cercate quanto volete, basta che lo cerchiate, e vi sarà conceduto. E tanti altri passi simili. Quindi disse Teodoreto che l'orazione è una ma può ottenere tutte le cose: "Oratio cum sit una, omnia potest". Dice S. Bernardo che quando noi preghiamo, il Signore o ci darà la grazia richiesta, o un'altra per noi più utile. "Aut dabit quod petimus, aut quod nobis noverit esse utilius". Intanto ci fa animo a pregare il profeta, assicurandoci che Dio è tutto pietà verso coloro che lo chiamano in aiuto: "Tu Domine suavis, et mitis, et multae misericordiae omnibus invocantibus te" (Ps 85). E maggior animo ci fa S. Giacomo dicendo: "Si quis vestrum indiget sapientia, postulet a Deo, qui dat omnibus affluenter, nec improperat" (Iac 1,5). Dice questo apostolo che quando il Signore è pregato, allarga le mani e dona più di ciò che gli si domanda, "dat omnibus affluenter, nec improperat", né ci rimprovera i disgusti che gli abbiamo dati; quando è pregato, par che si dimentichi di tutte l'offese che gli abbiamo fatte.

Diceva S. Giovanni Climaco che la preghiera in certo modo fa violenza a Dio a concederci quanto gli cerchiamo: "Oratio pie Deo vim infert". Violenza, ma violenza che gli è cara, e da noi la desidera. "Haec vis grata Deo", scrisse Tertulliano. Sì, perché (siccome parla S. Agostino) ha più desiderio Dio di far bene a noi, che noi di riceverlo: "Plus vult ille tibi beneficia elargiri, quam tu accipere concupiscas". E la ragione di ciò si è, perché Dio di sua natura è bontà infinita: "Deus cuius natura bonitas", scrive S. Leone. E perciò ha un sommo desiderio di far parte a noi de' suoi beni. Quindi dicea S. Maria Maddalena de' Pazzi che Dio resta quasi obbligato a quell'anima, che lo prega, mentre così gli apre la via a contentare il suo desiderio di dispensare a noi le sue grazie. E Davide dicea che questa bontà del Signore in esaudire subito chi lo prega, facea conoscergli ch'Egli era il suo vero Dio: "In quacunque die invocavero te, ecce cognovi quia Deus meus es tu" (Ps 55,10). A torto taluni si lamentano (avverte S. Bernardo) che manchi loro il Signore; molto più giustamente si lamenta il Signore che molti a lui mancano, lasciando di venire a cercargli le grazie: "Multi queruntur deesse sibi gratiam, sed multo iustius gratia quereretur deesse sibi multos". E di ciò appunto par che si lamentasse un giorno il Redentore co' suoi discepoli: "Usque modo non petistis quidquam in nomine meo; petite et accipietis, ut gaudium vestrum sit plenum" (Io 16,24). Non vi lamentate di me (par che dicesse), se non siete stati pienamente felici, lamentatevi di voi, che non mi avete richieste le grazie; chiedetemele da oggi avanti e sarete contenti.

Da ciò i monaci antichi conclusero nelle loro conferenze non esservi esercizio più utile per salvarsi, che 'l sempre pregare e dire: Signore, aiutatemi: "Deus, in adiutorium meum intende". Il Ven. P. Paolo Segneri dicea di se stesso che nelle sue meditazioni prima tratteneasi in fare affetti, ma poi conoscendo la grande efficacia della preghiera, procurava per lo più di trattenersi in pregare. Facciamo noi sempre lo stesso. Abbiamo un Dio che troppo ci ama, ed è sollecito della nostra salute, e perciò sta sempre pronto ad esaudir chi lo prega. I principi della terra, dice il Grisostomo a pochi danno udienza, ma Dio la dà ad ognun che la vuole: "Aures principis paucis patent, Dei vero omnibus volentibus".

PUNTO II

Consideriamo in oltre la necessità della preghiera. Dice S. Gio. Grisostomo che siccome il corpo è morto senza l'anima, così l'anima è morta senza orazione. Dice similmente che come l'acqua è necessaria alle piante per non seccare, così l'orazione è necessaria a noi per non perderci. "Non minus quam arbores aquis, precibus indigemus". Dio vuol salvi tutti: "Omnes homines vult salvos fieri" (1 Tim 2,4). E non vuole che alcuno si perda: "Patienter agit propter vos, nolens aliquos perire, sed omnes ad poenitentiam reverti" (2 Petr 3,9). Ma vuole che noi gli domandiamo le grazie necessarie per salvarci; poiché da una parte non possiamo osservare i divini precetti e salvarci senza l'attuale aiuto del Signore; e dall'altra Egli non vuole darci le grazie (ordinariamente parlando), se non ce le cerchiamo. Che perciò disse il sagro Concilio di Trento che Dio non impone precetti impossibili, poiché o ci dona la grazia prossima ed attuale ad osservarli, oppure ci dà la grazia di cercargli questa grazia attuale: "Deus impossibilia non iubet, sed iubendo monet et facere quod possis, et petere quod non possis, et adiuvat ut possis". Mentre insegna S. Agostino che eccettuate le prime grazie, come sono la chiamata alla fede, o alla penitenza, tutte l'altre (e specialmente la perseveranza) Dio non le concede se non a chi prega: "Constat alia Deus dare etiam non orantibus, sicut initium fidei; alia nonnisi orantibus praeparasse, sicut usque in finem perseverantiam".

Da ciò concludono i Teologi con S. Basilio, S. Agostino, S. Gio. Grisostomo, Clemente Alessandrino ed altri che la preghiera agli adulti è necessaria di necessità di mezzo. Sicché senza pregare è impossibile ad ognuno il salvarsi. E ciò dice il dottissimo Lessio doversi tener di fede: "Fide tenendum est orationem adultis ad salutem esse necessariam, ut colligitur ex Scripturis".

Le Scritture son chiare. "Oportet semper orare" (Luc 18,1). "Orate, ut non intretis in tentationem" (Io 4,2). "Petite, et accipietis" (Io 16,24). "Sine intermissione orate" (1 Thess 5,17). Or le suddette parole: "Oportet, orate, petite" secondo la sentenza comune de' dottori con S. Tommaso importano precetto, che obbliga sotto colpa grave specialmente in tre casi: 1. quando l'uomo sta in peccato; 2. quando è in pericolo di morte; 3. quando è in grave pericolo di peccare; e ordinariamente poi insegnano i dottori che chi per un mese, o al più due non prega, non è scusato da peccato mortale. La ragione è, perché la preghiera è un mezzo, senza di cui non possiamo ottenere gli aiuti necessari a salvarci da' peccati.

"Petite, et accipietis". Chi cerca ottiene; dunque, dice S. Teresa, chi non cerca non ottiene. E prima lo disse S. Giacomo: "Non habetis, propter quod non postulatis" (Iac 4,2). E specialmente è necessaria la preghiera, per ottenere la virtù della continenza. "Et ut scivi, quia aliter non possum esse continens, nisi Deus det... adii Dominum, et deprecatus sum" (Sap 8,21). Concludiamo questo punto. Chi prega, certamente si salva; chi non prega, certamente si danna. Tutti coloro che si son salvati, si son salvati col pregare. Tutti coloro che si son dannati, si son dannati per non pregare; e questa è, e sarà per sempre la loro maggior disperazione nell'inferno, l'aversi potuto così facilmente salvare col pregare, ed ora non essere più a tempo di farlo.

PUNTO III

Consideriamo per ultimo le condizioni della preghiera. Molti pregano e non ottengono, perché non pregano come si dee. "Petitis et non accipitis, eo quod male petatis" (Iac 4,3). Per ben pregare primieramente vi bisogna umiltà. "Deus superbis resistit, humilibus autem dat gratiam" (Iac 4,6). Dio non esaudisce le domande de' superbi, ma all'incontro non fa partire da sé le preghiere degli umili senza esaudirle. "Oratio humiliantis se nubes penetrabit, et non discedet, donec Altissimus aspiciat" (Eccli 35,21). E ciò, benché per lo passato sieno stati peccatori. "Cor contritum et humiliatum Deus non despicies" (Ps 50). Per secondo vi bisogna confidenza. "Nullus speravit in Domino, et confusus est" (Eccli 2,11). A tal fine ci insegnò Gesù Cristo che cercando le grazie a Dio non lo chiamiamo con altro nome che di Padre (Pater noster); acciocché lo preghiamo con quella confidenza, con cui ricorre un figlio al proprio padre. Chi cerca dunque con confidenza ottiene tutto: "Omnia quaecunque orantes petitis, credite quia accipietis, et evenient vobis" (Marc 11). E chi può temere, dice S. Agostino, ch'abbia a mancargli ciò che gli viene promesso dalla stessa verità ch'è Dio? "Quis falli metuit, dum promittit veritas?". Non è Dio come gli uomini, dice la Scrittura, che promettono e poi mancano, o perché mentiscono allorché promettono, o pure perché poi mutano volontà: "Non est Deus quasi homo, ut mentiatur, nec ut mutetur; dixit ergo, et non faciet?" (Num 23). E perché mai, soggiunge lo stesso S. Agostino, tanto ci esorterebbe il Signore a chieder le grazie, se non ce le volesse concedere? "Non nos hortaretur ut peteremus nisi dare vellet". Col promettere Egli si è obbligato a concederci le grazie che gli domandiamo: "Promittendo debitorem se fecit".

Ma dirà colui: Io son peccatore e perciò non merito d'esser esaudito. Ma risponde S. Tommaso che la preghiera in impetrar le grazie non si appoggia a' nostri meriti, ma alla divina pietà: "Oratio in impetrando non innititur nostris meritis, sed soli divinae misericordiae". "Omnis qui petit accipit" (Luc 11,10). Commenta l'autor dell'Opera imperfetta: "Omnis sive iustus, sive peccator sit". Ma in ciò il medesimo nostro Redentore ci tolse ogni timore, dicendo: "Amen, amen dico vobis, si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis" (Io 16,23). Peccatori, (come dicesse) se voi non avete merito, l'ho io appresso mio Padre: cercate dunque in nome mio, ed io vi prometto che avrete quanto dimandate. Qui non però bisogna intendere che tal promessa non è fatta per le grazie temporali, come di sanità, di beni di fortuna e simili, poiché queste grazie molte volte il Signore giustamente ce le nega, perché vede che ci nocerebbero alla salute eterna. "Quid infirmo sit utile, magis novit medicus, quam aegrotus", dice S. Agostino. E soggiunge, che Dio nega ad alcuno per misericordia quel che concede ad un altro per ira: "Deus negat propitius, quae concedit iratus". Onde le grazie temporali debbon da noi cercarsi sempre con condizione, se giovano all'anima. Ma all'incontro le spirituali, come il perdono, la perseveranza, l'amor divino e simili debbon chiedersi assolutamente con fiducia ferma di ottenerle. "Si vos cum sitis mali (disse Gesù Cristo), nostis bona data dare filiis vestris, quanto magis Pater vester de coelo dabit spiritum bonum petentibus se?" (Luc 11,13).

Bisogna sopra tutto la perseveranza in pregare. Dice Cornelio a Lapide che il Signore "vult nos esse perseverantes in oratione usque ad importunitatem". E ciò significano quelle Scritture: "Oportet semper orare" (Luc 11). "Vigilate omni tempore orantes" (Luc 21,36). "Sine intermissione orate" (1 Thess. 5,17). Ciò significano ancora quelle parole replicate: "Petite, et accipietis; quaerite, et invenietis; pulsate, et aperietur vobis" (Luc 11,9). Bastava l'aver detto "petite"; ma no, volle il Signore farc'intendere che dobbiamo fare come i mendici, che non lasciano di cercare d'insistere e di bussare la porta sin tanto che non han la limosina. E specialmente la perseveranza finale è una grazia che non si ottiene senza una continua orazione. Questa perseveranza non si può meritare da noi, ma colle preghiere, dice S. Agostino, che in certo modo si merita: "Hoc Dei donum suppliciter emereri potest: idest supplicando impetrari". Preghiamo dunque sempre, e non lasciamo di pregare, se vogliamo salvarci. E chi è confessore, o predicatore, non lasci mai di esortare a pregare, se vuole veder salvate l'anime. E come dice S. Bernardo, ricorriamo ancora sempre all'intercessione di Maria: "Quaeramus gratiam, et per Mariam quaeramus; quia quod quaerit invenit et frustrari non potest".




Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Nuova Discussione
 | 
Rispondi
Cerca nel forum
Tag discussione
Discussioni Simili   [vedi tutte]

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 10:21. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com