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I LIBRI APOCRIFI E LA TRADIZIONE

Ultimo Aggiornamento: 01/09/2009 08:44
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01/09/2009 08:43

III CAPITOLO DEL LIBRO:

"MA IL VANGELO NON DICE COSI'":

 

Fascicoli dal n° 101 al n°112

 

I libri apocrifi e la tradizione

 

A cura di frà Tommaso Maria di Gesù dei frati minori rinnovati

Via alla Falconara n° 83 - 90100 Palermo  - Tel. 0916730658

 

 

Con questo numero iniziano lo studio e la confutazione del terzo capitolo del libro "Ma Il Vangelo non dice così". Tutto il capitolo è sintetizzato in questa. frase:    "I libri apocrifi e la tradizione". Cercherò di rispondere in maniera breve, ma esauriente al tema svolto dall"autore. Per maggiore chiarezza scelgo la forma del dialogo svolto tra un "cattolico" e un "non cattolico".

 

Cattolico. Con tutta la buona volontà che mi anima, riconosco, carissimo fratello, la mia grave difficoltà nel dialogare con un "cristiano",  il quale, per principio, rigetta l'autorità da Dio costituita per il governo della Chiesa fondata da Cristo. Questo rifiuto rende, più o meno, quasi impossibile la comprensione tra noi. Vorrei pregare umilmente te e tutti i tuoi fratelli di fede non cattolici, a riflettere con serenità e umiltà sulla necessità, anche soltanto naturale, che qualunque società ha di avere una autorità, un principio di unità senza dei quali la società stessa si dissolverebbe. La Parola di Dio in merito è molto chiara: a Pietro Gesù ingiunge di "confermare i suoi fratelli nella fede", su di lui fonda la Sua, unica Chiesa, che non sarebbe mai stata travolta dal tempo e dall'errore; a lui consegna le "chiavi del Regno dei Cieli" (queste parole si riferiscono principalmente all'interpretazione della S. Scrittura, ossia alla fede e alla morale), e concede la potestà di sciogliere e legare (Cf anche Mt 18,18 e Gv 20,21-23, in cui Gesù estende la stessa potestà agli altri apostoli e discepoli); a Pietro, infine, Gesù commette il compito di pascere Il Suo gregge. Oltre a ciò troviamo ancora scritto (Lc 10  16): "Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza Colui che mi ha mandato".  S. Paolo ci fa sapere come comportarci "nella Casa di Dio, che é la Chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della Verità' (1 Tm 3,14-15).

E' certo che quando S. Paolo parla della Chiesa di Dio intende riferirsi all'unica Chiesa fondata da Cristo su Pietro (Cf Mt 16,18-20).

 

Non cattolico. Sai bene, fratello cattolico, che qui ci proponiamo di chiarire il problema dei libri "apocrifi" ai quali la Chiesa Cattolica attribuisce l'ispirazione divina, mentre tutti sanno che soltanto i libri canonici, poi detti protocanoníci, devono ritenersi ispirati.

Ti ringrazio e ti perdono per la predica iniziale. Ma tiriamo avanti e rispondi alle mie chiare domande che ti rivolgo: Che cosa sono per te i libri apocrifi? Noi sappiamo che si chiamano "apocrifi", cioè nascosti, i seguenti libri ebraici, contemporanei agli ultimi scritti dell 'A.T. , e cioè: Tobia, Giuditta, Baruc, Ecclesiastico, la Sapienza, i due libri del Maccabei e alcuni brani aggiunti al libro di Ester e a quello di Daniele. Questi libri sono stati sempre chiamati "apocrifi", cioè non ispirati, per i quali il domenicano Sisto Seneto inventò la parola "deuterocanonici".

 

Con questo termine, che significa "secondo elenco dei libri ispirati", la Chiesa Romana mette i libri apocrifi sullo stesso piano dei libri ispirati. Giustamente, noi tutti ci domandiamo: come mai la Chiesa Romana perpetra cosi gravi errori e poi pretende di essere nel vero?

 

Cattolico. Fratello, la risposta sarà un po' lunga ma necessaria. TI prego di ascoltarmi con mente serena e cercando di accantonare un po' i tuoi pregiudizi.

Nei nn. 4 e 5 ho riferito già qualche cosa sui libri "canonici", "protocanonici" e "deuterocanoníci". Ora ne parlerò più diffusamente. Nei nn. da 29 a 39 ho trattato sufficientemente il problema della "ispirazione", strettamente connesso alle questioni che stiamo trattando.

Nei nn. 3 e 4 sono elencati i libri dell'A. e del N.T. aventi carattere sacro.

Tali libri "sacri" sono stati ritenuti ispirati` sia dalla tradizione giudaica che da quella cristiana.

La parola greca "canon" significa "regola", "norma" ed è impiegata dal sec. IV per designare la collezione dei libri sacri. Da allora si parla di libri "canonici" in contrapposizione ai "non canonici". I termini "protocanonici" e "deuterocanonici" sono invece stati inventati, come tu stesso dici, da Sisto Senese il quale volle distinguere quelli che concordarono sempre con l'A.T., da quelli sui quali alla fine del 1° secolo dopo Cristo, sorsero delle polemiche e dei dubbi che si protrassero per molti anni. Gli Ebrei e i Protestanti chiamano i libri deuterocanonicí "apocrifi", escludendoli dal canone biblico.

Non dovrebbe essere difficile - almeno per chi crede nella divina istituzione della Chiesa - comprendere che, trattandosi di questioni a carattere soprannaturale, la facoltà di dichiarare infallibilmente quale libro sia dotato del carattere dell'ispirazione, e sia perciò da inserirsi nel canone biblico, é soltanto della Chiesa, depositaria della dottrina di Gesù Cristo. Quindi il criterio sicuro e anche logico per conoscere se un libro debba far parte di questa collezione è la tradizione che risalga fino all'età apostolica.

Sta di fatto che i libri, oggi detti deuterocanoníci, sono compresi nella versione greca detta dei "Settanta", realizzata da Giudei alessandrini qualche secolo prima di Cristo. Essi erano letti nelle sinagoghe ed erano considerati ispirati. La divergenza è dovuta ad un rigorismo degli scribi e rabbini palestinesi, che non tollerarono alcun libro originariamente in greco, e che anche verso libri composti originariamente in ebraico ed aramaico si mostrarono sospettosi quando non si presentassero come dovuti ad un autore insignito di carisma profetico (cf 1 Macc 4,46; 14,42); cosicché i requisiti indispensabili di un libro sacro furono quasi fissati nella lingua ebraica, nella qualità profetica dell'autore supposto anteriore ad Esdra, e nell'origine palestinese del libro. Tale rigorismo non era condiviso dai Giudei ellenizzati della diaspora (=dispersione, migrazione degli Ebrei fuori la Palestina) che leggevano la Bibbia nella versione greca dei Settanta. Notizie storiche ci assicurano che anche presso i Giudei palestinesi in un primo tempo questi libri, specialmente i più antichi, fossero ammessi.

Quanto a Gesù e agli Apostoli, dalle loro allusioni conservate nel N.T. e dall'uso frequente della versione dei Settanta, risulta in pratica che ritenevano per ispirati anche i "deuterocanonici". Tale è la norma anche dei più antichi Padri, i quali citano o usano indifferentemente le due serie di libri (Clemente, Ippolito, Ireneo, Tertulliano, Clemente Alessandrino, Cipriano). Di modo che, per i primi due secoli non risulta alcuna incertezza circa l'ispirazione e l'autorità dei libri in questione. Solo verso la fine del 2° secolo, le controversie frequenti con i Giudei, che ormai concordemente rigettavano i libri "deuterocanonici", condussero gli apologisti (=difensori della fede) a non desumere i loro argomenti da questi scritti non ammessi dagli avversari. Si trattava di una norma pratica da seguire, più che di un principio teorico.

 

Cattolico. Ne riscontriamo i sintomi in Melitone di Sardi (+160 -180), in Origene, che tuttavia usa i deuterocanonici come libri ispirati. In tempi successivi tale opinione si diffuse più sensibilmente nella Chiesa greca; ad essa si attennero Atanasío, Cirillo di Gerusalemme, Epifanio, Gregorio di Nazianzio, e alcuni altri, sebbene anch'essi in pratica non si mantennero aderenti a quella opinione, giacché non è difficile ritrovare nelle loro opere citazioni di deuterocanonici come libri ispirati.

Allora cominciò a circolare presso i Greci una triplice distinzione di libri della Bibbia: si parlò di libri certi od ammessi da tutti, di libri controversi e di libri spuri o apocrifi.

Con il termine  "controversi" si intendevano i nostri "deuterocanonici". Ma quanto poco fosse radicato il rifiuto di tali libri è confermato dall'accettazione incondizionata di essi da parte di numerosi altri dottori della Chiesa e dalla decisione del Concilio di Costantinopoli del 692, detto Trullano, che sebbene in una forma non del tutto perspicua riferì il canone integrale, mantenuto SEMPRE incontrastato nella Chiesa greca, almeno sino al Protestantesimo.

Nella Chiesa latina i primi ad attenersi al canone giudaico furono Ilario di Poitiers, Rufino di Aquileia e Girolamo. I primi due furono indotti dall'esempio di Origene, di cui si professavano discepoli; il terzo, che prima di recarsi in Oriente, sembra che ritenesse il canone completo, con la sua autorità ingenerò dubbi in autori posteriori.

Tuttavia la grande maggioranza degli scrittori mantenne categoricamente la ispirazione e la canonicità dei libri "controversi". Rappresentante di questa opinione della maggioranza fu Agostino che conservò intatta la genuina tradizione della Chiesa.

La sede romana già con Innocenzo I (405) si pronunziò in modo deciso in favore di tali libri; alcuni anni più tardi il "Decreto", erroneamente detto "Gelasiano", segnò la norma costante di fede per i secoli successivi , finche i Concili ecumenici Fiorentino (1441~1446) e Tridentino (1546) lo sancirono solennemente. Tuttavia l'autorità di Girolamo, che aveva fatto esitare e fuorviare taluni nel medioevo (Ugo di S. Vittore, Niccolé Lirano e qualche altro), si risente ancora in S. Antonio arcivescovo di Firenze (+1459), e nel cardinale Gaetano (1532), che negavano al libri "controversi" (deuterocanonici) un'autorità impegnativa in materia di fede.

 

Lutero, pur rigettando la tradizione ecclesiastica, manifestò una certa esitazione nel ripudiare i "deuterocanonici" e si accontentò di relegarli in fondo alla sua traduzione.

Dopo quanto ho detto, possiamo trarre una conclusione. Col sorgere del Cristianesimo l'Antico Testamento fu usato nella sua traduzione greca dei "Settanta", i cui inizi risalgono al 3° secolo avanti Cristo.

I cristiani non escluso Cristo e gli Apostoli, traevano da questa versione le citazioni bibliche nelle loro polemiche contro i Giudei.

QUESTA FU LA PRINCIPALE RAGIONE per cui, lungo il 2° sec. dopo Cristo, i

Giudei ripudiarono come infedele la versione dei "Settanta", sebbene in precedenza l'avevano circondata di particolare venerazione, e la sostituirono con altre versioni greche, totali o parziali, fatte da Giudei e giunte fino a noi soltanto in modo frammentario.

 

I veri libri apocrifi, cioè quelli non ispirati, furono ben presto smascherati dalla Chiesa Cattolica ed esclusi dall'ispirazione.

Caro fratello non cattolico, conosci tutta questa storia sui libri che tu chiami "apocrifi"?

Non cattolico.  No, a dir la verità, non la conosco e non nascondo che essa mi lascia sconcertato.

 

Cattolico.  Il guaio è che non sei il solo a non sapere queste cose, ma è la massa dei non cattolici i quali tutti rifiutano e rigettano quanto la Chiesa decide con tanta prudenza e saggezza dopo studi e travaglio di secoli.

 

Non cattolico. Pur ammirando la tua erudizione in merito, io resto fermo nelle mie idee, però mi propongo di attuare seri accertamenti prima di cambiare opinione.

 

Cattolico. Si, accertati bene e sappi intanto che non è vero che i "deuterocanonicí" sono stati sempre chiamati "apocrifi"; che non è vero che la Chiesa Cattolica l'8 aprile 1546 al Concilio di Trento decise di metterli sullo stesso piano degli altri libri ispirati. In tale occasione la Chiesa volle derimere qualunque dubbio e questione in merito, definitivamente. Non è vero che la Chiesa dei primi secoli non li riconosceva ispirati. E neppure è vero che S. Girolamo col suo prestigio ha messo in imbarazzo la Chiesa di Dio, ma solo alcuni studiosi.

 

S. Agostino, tra i maggiori geni del Cristianesimo, credeva, con la Chiesa, alla "ispirazione" dei libri "controversi" (deuterocanonici). Essi sono letti nella Chiesa anche allo scopo di trarvi una dottrina, proprio perché ispirati.

 

Non cattolico. Ma tu li conosci questi sette libri contestati?

 

Cattolico. Un po' soltanto, tanto però da poterti dare un giudizio fugace e sommario di ognuno di essi. Ti prego di ascoltarmi.

 

1. Il libro di Tobia è stato composto tra il 3°-2° sec. a.C. con lo scopo di mantenere nella fede tradizionale i Giudei rimasti fuori della Palestina anche dopo il ritorno di molti di loro dall'esilio. L'eroe del racconto (a sfondo storico, sapienziale e poetico, un po' come "I Promessi Sposi" del Manzoni é esemplare; è un vero giudeo, osserva fedelmente la legge di Mosé e Dio lo ricompensa di questa fedeltà assoluta. L'autore, con molta arte e da vero saggio, si preoccupa soprattutto di far rivivere agli occhi del lettore un uomo giusto. Egli vuol mostrare che la vera sapienza, il cammino che conduce alla felicità, consiste nell'amare Dio e nell'osservare i suoi comandamenti, qualsiasi cosa succeda.

Ecco la chiave del libro, che è un gioiello letterario. Molto prima del Vangelo, celebra la nobiltà che caratterizza il matrimonio fin dalla sua origine: un solo sposo, una sola sposa. L'autore scopre la Provvidenza nella vita quotidiana, supera le situazioni dolorose mediante la fede; elogia la fedeltà vissuta nel quadro di una vita familiare, il senso dell'elemosina, il rispetto dei morti, la preoccupazione della purezza, il gusto della preghiera, anticipando cosi molti concetti della vita cristiana.

Dell'originale del libro, scritto in ebraico o aramaico, si sono trovati frammenti nei manoscritti del Mar Morto.

 

2. Giuditta. Anche il libro di Giuditta, come quello di Tobia, messo dopo i libri storici, va collocato tra i libri sapienziali.

Dal punto di vista letterario è un'opera riuscita e non manca di fascino. L'autore racconta un dramma nazionale e vuol fissarne il ricordo, ma soprattutto vuole attirare l'attenzione sul senso religioso del conflitto che oppone continuamente il popolo di Dio agli empi. Il libro assomiglia a quelle storie edificanti tanto care ai Giudei degli ultimi secoli prima dell'era cristiana; fa rivivere i racconti della terra santa... la Chiesa vi ha attinto immagini e testi per la preghiera liturgica; ciò che esso insegna sulla potenza, e la fedeltà di Dio, sullo svolgimento della storia e la vittoria finale del bene è sempre di attualità.

Se non parla molto di amore,  è però, anche per il lettore di oggi, un libro di fede e di speranza.

 

3. Baruc. Il prestigio che dopo l'esilio si unisce al nome del profeta Geremia, si riflette sul suo servo fedele segretario Baruc. Perciò, secondo un procedimento dell'epoca, si fa di lui l'autore di un insieme di scritti, posteriori di più secoli, di cui la Bibbia ha conservato almeno un libretto.

Si crede che il libro debba essere anteriore al 2° sec. avanti Cristo. La cosiddetta lettera di Geremia, che è stata aggiunta, potrebbe essere dello stesso tempo, se non più recente.

Il libro di Baruc ha il pregio di rivelare l'anima profondamente religiosa dei Giudei dispersi nel mondo e tuttavia rimasti, in modo sorprendente, uniti al loro popolo. La loro fede testimonia un senso vivissimo del peccato nazionale: l'infedeltà, rifiuto dell'obbedienza, disprezzo della parola di Dio gridata dai profeti, rigetto della legge e della sapienza. La disfatta e la prigionia sono la disastrosa conclusione e il giusto castigo di quella costante ribellione. Ma questo libro contiene soprattutto un messaggio di speranza: di fronte all'infedeltà di Israele, resta l'immutabile fedeltà di Dio.

Contiene una preghiera di confessione e di speranza (1,55-3,8); un poema sapienziale (3,9-4,4); un brano profetico (4,5-5,9) dove Gerusalemme personificata si rivolge agli esiliati e dove il profeta la incoraggia con il richiamo delle speranze messianiche. Un piccolo frammento del testo greco è stato scoperto in una delle grotte di Qumran.

Sotto il nome di Baruc vengono messe due apocalissi scritte nel 2° secolo dopo Cristo.

 

4. Ecclesiastico, oggi detto Siracide.

I due terzi circa di questo testo ebraico sono stati ritrovati nel 1896 nei frammenti di diversi manoscritti del medioevo provenienti da una vecchia sinagoga dal Cairo.

Più recentemente, piccoli frammenti sono venuti alla luce in una grotta di Qumran, e nel 1964 è stato scoperto a Masada (fortezza su di una collina rocciosa del deserto di Giuda a ovest del Mar Morto) un lungo testo nel quale sono contenuti i capitoli 39,27-44,17 in una scrittura degli inizi del 1° sec. a.C.

La Chiesa riconosce come canonico il testo greco. Il nipote dell'autore spiega che tradusse il libro quando si trovò in Egitto nel 38° anno del regno di Erergete, ossia il 132 a.C.

Suo nonno scrisse verso il 190-180.

Ben-Sira, o Siracide, è uno scriba che unisce l'amore della sapienza a quello della Legge. La sapienza annunziata da Ben Sira proviene dal Signore; suo principio è il timor di Dio; forma la gioventù e procura la felicità.

Egli identifica la sapienza con la legge proclamata da Mosé (24,23-24), cosa che farà anche il poema sapienziale di Baruc (3,9-4,4).

Ben Sira è l'ultimo testimone canonico della sapienza ebraica In Palestina. Benché non sia stato accolto nel canone ebraico, il Siracide è citato frequentemente negli scritti rabbinici; nel N.T. la lettera di Giacomo vi attinge molte espressioni; il Vangelo di Matteo vi si riferisce più volte e ancora oggi la liturgia si fa portavoce

di questa antica tradizione di sapienza.

 

5. Sapienza. Verso la metà del 1° sec. a.C., la grande città di Alessandria di Egitto contava una importante comunità giudaica, fedele alle tradizioni religiose dei suoi padri. Il paganesimo, dai volti più diversi, si presentava talmente ovvio per il costume che minacciava costantemente d'infiltrarsi nel seno delle comunità giudaiche lontane dalla patria.

Il libro della Sapienza ha voluto venire incontro a questa situazione, ma ci si intravede anche la preoccupazione di non urtare i pagani che fossero indotti a leggerlo.

L'autore scrive in lingua greca, caso unico nell'A.T.; egli stesso è un giudeo d'Alessandria, formato alla cultura greca, ma non meno nutrito della S. Scrittura. E' un saggio che preferisce però far parlare Salomone, il sapiente per eccellenza. Egli ci porge una sapienza che viene da Dio e che ci dà la visione giusta delle cose, che spinge a cercare la vera felicità. Questa sapienza divina, di fatto, ha rivelato - guidando magistralmente la storia del popolo eletto - che la vera felicità appartiene agli amici di Dio. In altre parole, non scoprono il senso della vita se non coloro cui il Signore lo rivela..

L'autore ci dona un primo abbozzo di filosofia religiosa, che si unisce, d'altra parte, ad una bella meditazione di fede cui la liturgia si ispira volentieri.

Il libro della Sapienza prepara Giudei e Greci alla venuta di Gesù Cristo.

Le pagine, perciò finiscono con l'apparire più attraenti.

Nella nostra cultura i Cristiani tentati di "allinearsi" a tutte le mode troveranno qui uno stimolo per riflettere sulla loro originalità, per accettare la rude tensione che esiste tra Vangelo e società.

 

6. 1° MACCABEI. Questo libro é stato scritto in ebraico da un giudeo di Gerusalemme, probabilmente verso l'inizio del 1° sec. a.C. Ci resta solo qualche traduzione ed è il testo greco che fa fede per la Chiesa. L'autore tratta l'epopea di una resistenza e si riferisce quasi a mezzo secolo di storia ebraica (175-134 a.C.), dall'avvento cioè al trono di Siria di Antioco IV Epifane alla  morte di Simone Maccabeo. L'autore segue scrupolosamente l'ordine cronologico degli avvenimenti. Le sue tendenze politiche lo rendono parziale. Ciononostante, rimane uno storico serio, oggettivo, riporta ciò che ha visto, utilizza la testimonianza dei contemporanei e i documenti ufficiali. Questo storico è anche un credente, persuaso che la Provvidenza conduce e sostiene l'improvvisa rinascita del popolo. Come nel libro di Ester, Dio, per rispetto, non è mai nominato; lo si evoca dicendo "il Cielo". Ma è Lui che sostiene Giuda e i suoi fratelli e che dà la vittoria; è Lui che anima questa guerra santa. Ciò che caratterizza questi Giudei del 2° sec. a.C. sono lo zelo per la Legge, il culto del Tempio, l'orrore della impurità e delle bestemmie dei pagani.

 

7. 2° MACCABEI Non é il seguito o il completamento del primo. Vi si riferiscono avvenimenti svoltisi tra il 175 e il 161 a.C. al tempo della grande persecuzione.

Siamo all'inizio della resistenza giudaica di cui il 1° libro ci presenta tutta l'epoca.

Scritto anteriormente a quest'ultimo da cui non dipende in alcun modo: se ne differenzia anzitutto per lo stile e per il sentimento religioso, ma anche per il racconto dei fatti. L'autore sembra un giudeo d'Alessandria che scrive poco dopo il 124 a.C. e direttamente in greco. Egli dice che riassume l'opera, molto più vasta, di un altro giudeo della Colonia di Cirene (Africa settentrionale), un certo Giasone di cui non sappiamo altro. Si tratta certo di un libro di storia ma anche di una sorta di "leggenda aurea" dei martiri, vittime della persecuzione di Antioco IV Epífane.

In effetti, l'autore si trasforma in predicatore e vuole colpire l'immaginazione e la sensibilità del lettore. Esalta l'eroismo della fede giudaica, esagera l'empietà e la crudeltà dei nemici di cui aumenta le forze e le perdite, evoca con realismo i supplizi e si mette a descrivere le manifestazioni celesti che vengono a sconvolgere gli avvenimenti, ma c'è una cura reale di verità storica. L'autore però è più preoccupato di religione che di politica. E un credente appassionato, vede Dio all'opera per sanzionare la condotta degli uomini. I giusti soffrono il martirio, ma essi sono sicuri che un giorno

risusciteranno e otterranno il premio. Finora la fede giudaica non era mai penetrata a tal punto nel mistero della retribuzione e dell'aldilà. Questi insegnamenti costituiscono un arricchimento considerevole per la teologia dell'A.T. Ripresi e sviluppati nel N.T., essi hanno assicurato il successo del 2° Maccabei negli ambienti cristiani.

 

Non cattolico. Comunque il 2° Maccabei termina così: "Se la disposizione della materia è stata buona e come si conviene alla storia, è quello che ho desiderato. Se poi è mediocre e di scarso valore, è quanto ho potuto fare" (2° Macc 15,38). Quindi, lo stesso autore esclude trattarsi di libro ispirato.

 

Cattolico. Fratello, forse per capire quello che l'autore vuol dire, sarà bene andare a rileggere 2,25-31 e vi troverai l'intento dell'autore, il quale sta sunteggiando una storia... Egli è cosciente dello sforzo letterario compiuto per unire l'utile al dilettevole. Il lettore moderno deve comprendere.... e, come gli uomini dell'oriente, deve rinunciare per un certo tempo al vino puro (ciò era prescritto per ragioni igieniche). Sapendolo, troverà piacevole la parola di Dio che gli è proposta in questo libro. Questo vuol dire modestamente l'autore. Il giudizio dell'ispirazione non è sua competenza. "Ai posteri l'ardua sentenza!".  Difatti, la tradizione ebraica, come ho già detto, fino al rifiuto categorico degli Ebrei e alle polemiche con i cristiani aveva accettata la canonicità dei libri in questione compreso i due Maccabei.

Non cattolico. Inoltre, noi non consideriamo ispirati dei libri che, come ben dice San Girolamo, contengono favole. Tali appaiono 1° e 2° Maccabei quando ci raccontano la morte del re Antioco IV Epifane in tre modi diversi: il re muore di crepacuore (1° Macc 6,13-16); una seconda volta è lapidato dai sacerdoti; la terza volta muore in seguito ad una orribile malattia intestinale.

 

Cattolico. Non mi è facile rispondere ad una obiezione del genere. Ho consultato diversi libri senza poterne ricavare un gran che, anche se ho capito che i libri dei Maccabei, pur presentando delle impressioni su fatti e personaggi, raccontano storie edificanti scritte da Giudei, di gran fede che vogliono sostenere i fratelli della diaspora nella loro fedeltà al Dio unico e vero, onnipotente e misericordioso. Dalla esegesi riportata dalla Bibbia di Civiltà Cattolica viene una parola abbastanza chiarificatrice. Sunteggio quanto ho letto.

In 1 Macc 6,13-16, Il racconto risulta felice nel fare convergere le disgrazie che colpiscono l'empio persecutore. L'autore vuol dimostrare che la morte di Antioco IV Epifane è un'azione della giustizia di Dio. Ciononostante, l'insieme del racconto é esatto. In 2 Macc 1,15-16, gli esegeti ritengono che il popolo fa presto a ricamare sulle notizie. Così l'avventura di Antioco si è mescolata a quella del padre morto in Persia dopo avere saccheggiato il tempio del dio Bel. L'autore del 2 Maccabei sembra dare ai fatti una versione più esatta di quella presentata dalla lettera (due lettere danno inizio al 2 Macc) scritta forse fin dal momento stesso dell'arrivo delle prime voci sulla morte del re detestato.

In 2 Macc 9,5 è raccontata per la terza volta la morte del persecutore, essa diventa un racconto edificante: Dio abbatte sempre l'orgoglio smisurato degli empi, il loro pentimento avviene troppo tardi. Colui che si faceva dio, giace come un morto, già divorato dalla putrefazione. E' difficile sapere quale sia la malattia che portò l'empio re alla tomba.

Qui la storia prende la libertà della leggenda per meglio sottolineare la lezione morale dell'evento. 

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