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Obiezioni contro la teologia dogmatica

Ultimo Aggiornamento: 02/09/2009 08:07
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02/09/2009 08:06

Obiezioni contro la possibilità di studiare le verità rivelate per mezzo della filosofia. - La fede ha come oggetto la realtà divina; ma Dio è un essere assolutamente trascendente, è " il totalmente altro ". Tra la realtà divina e quella umana non vi è, non vi può essere una misura comune; la distanza è infinita e quindi invalicabile. Applicare a Dio le nozioni che lo spirito ha elaborato astraendole dalla realtà umana, significa cadere nell'antropomorfismo, errore da denunciare e proscrivere energicamente. Ogni affermazione della ragione riguardo a Dio è inquinata da questo vizio. Perciò l'oggetto della fede non è traducibile con le categorie razionali dello spirito (cfr. B. Poschmann, Ver Wissenschaftscharakter der Kaiholischen Theologle pi carattere scientifico della teol. catt], Breslavia 1932, p. 8).

(6) Trattando della o sana filosofia ", la Humani generis ne afferma l'immutabilità e il progresso in questi termini: te Anche in tali questioni essenziali (cfr. nota precedente), si può dare alla filosofia una veste più conveniente e più ricca; si può rafforzare la stessa filosofia con espressioni più efficaci, spogliarla di certi mezzi scolastici meno adatti, arricchirla anche — però con prudenza — di certi elementi che sono frutto del progressivo lavoro della mente umana; però non si deve mai sovvertirla o contaminarla con falsi principi né stimarla solo come un grande monumento sì, ma archeologico. Infatti la verità ed ogni sua manifestazione filosofica non possono essere soggette a quotidiani mutamenti, specialmente trattandosi di principi per sé noti della ragione umana o di quelle asserzioni che poggiano tanto sulla sapienza dei secoli quanto sul consenso e sul fondamento anche della Rivelazione divina. Qualsiasi verità la mente umana con sincera ricerca ha potuto scoprire, non può essere in contrasto con la verità già acquistata ; perché Dio, somma Verità ha creato e regge l'intelletto umano non affinchè alle verità rettamente acquisite ogni giorno esso ne contrapponga delle nuove, ma affinchè rimossi gli errori che eventualmente vi si fossero insinuati, aggiunga verità a verità nel medesimo ordine e con la medesima organicità con cui vediamo costituita la natura stessa delle cose, da cui la verità si attinge. Per tale ragione il cristiano, sia egli filosofo o sia teologo, non abbraccia con precipitazione o leggerezza tutte le novità che ogni giorno vengono escogitate, ma le deve esaminare con la massima diligenza e le deve porre su di una giusta bilancia per non perdere la verità già conquistata o corromperla, certamente con pericolo e danno della stessa fede ".

 

Risposta. -Certamente Dio è trascendente e infinito; quindi i concetti astratti dalle realtà finite non si possono applicare a Lui tali e quali; tagliati come sono alla nostra povera misura umana; altrimenti si cadrebbe nell'antropomorfismo. Ma cosi non si va a finire nell'agnosticismo, cioè nell'impossibilità radicale della teodicea? Nient'affatto. Malgrado l'infinita distanza che li separa, tra Dio e il mondo ci sono dei rapporti, quelli di causa ad effetto; perciò le perfezioni esistenti nelle creature devono trovarsi in Dio, loro fonte prima, e vi si troveranno necessariamente nel modo che conviene all'essere infinito. La nostra conoscenza naturale di Dio è molto imperfetta, ed è essenzialmente analogica. Quando si devono trasferire in Dio le perfezioni delle creature, occorre distinguere tra le perfezioni assolute (perfe-ctiones simplices) e quelle miste (perfectiones mixtae), cioè tra quelle che nel loro concetto non includono nessuna imperfezione (come l'intelligenza e la sapienza), e quelle la cui nozione stessa implica un'imperfezione (p. es. ragionare, cioè comprendere in un modo solo mediato, passando da una verità a un'altra). Inoltre le stesse perfezioni assolute non si possono a affermare a di Dio, senza a negarne " simultaneamente i limiti e aggiungere che in Dio esistono in modo eminente, cioè in un grado illimitato e secondo un modo essenzialmente diverso da quello in atto nelle creature, poiché s'identificano realmente con l'essenza infinita di Dio. Il metodo che abbiamo tracciato è noto sotto il nome di " tre vie ", la via dell'affermazione (via affirmationis), la via della negazione (via negationis) e la via della trascendenza (via eminentiae). La conoscenza analogica è indubbiamente inadeguata, ma non resta meno vera. Notiamo bene che i termini usati dalla stessa rivelazione per descrivere Dio, hanno anch'essi un valore solo analogico, il che dice quanto sia importante il metodo dell'analogia, e quanto sia vasto il suo campo d'applicazione nel dominio della conoscenza religiosa (7).

Obiezioni desunte dalla natura delle conclusioni teologiche. - Si dice: ammettiamo pure che, in una certa misura, la filosofia sia capace di attingere Dio, ma non è provato che sia legittimo applicare nozioni e principi filosofici al dato rivelato. Ci si può chiedere se non ci sia una certa sconvenienza a mescolare tra loro e a fondere insieme un elemento divino, cioè la rivelazione, e un elemento umano, cioè la filosofia. Comunque, il risultato d'una tale operazione avrà sempre un carattere ibrido, cosi la conclusione d'un sillogismo, di cui una premessa è una verità rivelata, e l'altra una verità di pura ragione, non sarà né strettamente rivelata, né strettamente filosofica. La sua natura equivoca la renderà sospetta.

(7) Sull'analogia e il suo compito nella conoscenza filosofica e teologica di Dio, cfr. le seguenti opere: R. Garrioou-Laorange, Dieu, san existence et sa nature. Sohtlion thomìste des soluiìons agnostiques, 5 ed., Beauchesne, Parigi 1928; T. L. Penido, Le ròU de l'analogie en théologie dogmatique, Vrin, Parigi 1931. B. de Solages, Dialogue sur l'analogie, Aubier, Parigi 1946; C. Journet, Conoscenza e inconoscenza di Dio, Ed. di Comunità, Milano 1947.

Risposta. - Perché non dovrebbe essere conveniente servirsi del lume naturale della ragione per voler acquistare un'intelligenza più precisa, profonda e completa della parola di Dio, se questa stessa luce naturale è un dono prezioso del creatore? Sarebbe anzi sconveniente non servirsene per un fine tanto nobile. È superfluo insistere.

La seconda parte dell'obiezione solleva una questione aspramente dibattuta tra i teologi, quella della natura della conclusione teologica propriamente detta. Prendiamo un sillogismo che come premesse ha una verità formalmente rivelata e una verità che è un principio puramente filosofico. Se il ragionamento o discorso non ci porta da un'idea a un'altra, ma solo da un modo di parlare a un altro modo (p. es. dal tutto alla parte, dall'universale al singolare, da un'espressione a un'altra equivalente) la conclusione sarà solo impropriamente teologica, e si dovrà dire che è rivelata o, più esattamente, virtualmente rivelata, come ammettono tutti i teologi anche se con termini diversi. Quando invece si tratta d'un ragionamento o discorso propriamente detto, che porta da un'idea a un'altra (p. es. dall'effetto alla causa, dalla causa all'effetto necessario, dall'essenza alla proprietà o viceversa), è difficile risolvere la questione e i pareri dei teologi sono divisi. Alcuni, come M. Tuyaerts (8) e F. Marin-Sola (9) ammettono, altri, come R. M. Schultes (10), negano il carattere rivelato della verità cosi ottenuta, cioè della conclusione teologica propriamente detta (11). I primi così ragionano: ogni affermazione che cada su un'asserzione qualsiasi, cade anche logicamente su tutto ciò che questa presuppone necessariamente come principio e su ciò che implica necessariamente come conseguenza; perciò l'affermazione divina, che porta sulla premessa rivelata, s'estende pure alla conclusione teologica, la quale non fa altro che enunciare un principio o una conseguenza di questa premessa. Gli altri, appellandosi soprattutto a questo principio di logica o regola del sillogismo: k Pejorem semper sequitur conclusio partem ", dicono che se una premessa non è rivelata, la conclusione non può essere considerata come parola divina.

Questa la questione dibattuta, che però non occorre risolvere per sciogliere l'obiezione, perché anche se la conclusione teologica non ha la stessa natura delle premesse e non è perfettamente omogenea con nessuna delle due premesse non segue che non sia vera, e nel nostro caso importa soprattutto questa verità. La conclusione teologica è un'affermazione strettamente connessa con la testimonianza soprannaturale di Dio e quindi estende e arricchisce la nostra conoscenza religiosa. È vero che se non si può dire k rivelata ", la conclusione teologica propriamente detta non può venir definita dalla Chiesa come domma in senso stretto, ma può sempre, secondo il parere unanime dei teologi, venir infallibilmente proposta dal magistero ecclesiastico. Perciò è incontestabile tanto il valore della conclusione teologica quanto quello della scienza che fornisce la conclusione stessa.

(8) L'évolution du dogmi. Elude théologique, Lovanio 1919, p. 78 ss.

(9) Vevolutìon hornogém du dogmi calholique, Parigi 1924, voi. 1, p. 60 ss.

(10) Introducilo in histcriam dogmatum, Leithelleux, Parigi 1922, p. 192.

(11) Nel determinare l'opinione degli autori occorre tener presente la terminologia che, sfortunatamente, è tutt'altro che uniforme in tutti: le identiche parole hanno spesso un senso molto diverso.

 

Obiezioni desunte dal carattere analogico degli elementi degli argomenti teologici. - Al punto di partenza della speculazione teologica c'è il dato rivelato, i cui termini sono presi dal linguaggio umano e quindi si devono intendere non nel senso che si applica alle creature, ma in un senso analogico. Slmilmente le nozioni, e i principi filosofici non possono essere trasferiti dal campo delle realtà finite a quello dell'Essere infinito se non in senso analogico. Quindi il ragionamento teologico si sviluppa necessariamente sopra un terreno mobile: in realtà non opera mai con elementi perfettamente noti, ma utilizza esclusivamente concetti che, con le nozioni, delle quali il teologo ha una conoscenza propria, presentano soltanto a un'analogia ", cioè una a somiglianzà dissimile ". Perciò il teologo si serve solo di termini e di nozioni gravati da un coefficiente di dissomiglianza e quindi d'indeterminazione. Passando da una deduzione all'altra, il teologo non si mette in pericolo d'allontanarsi sempre più dalla verità? Infatti, pur sforzandosi di unire le " somiglianze ", moltiplica necessariamente i coefficienti di " dissomiglianza " e d'indeterminazione. Mancando l'indispensabile correttivo non è legittima la sfiducia nel valore del ragionamento teologico?

Risposta. - L'obiezione è speciosa ed entra nel vivo della questione del valore della teologia speculativa; perciò merita un attento esame. Non neghiamo il carattere analogico degli elementi, rivelati e filosofici, del ragionamento teologico; notiamo soltanto che, nonostante siano imperfetti, essi hanno un valore reale; la conoscenza che proviene da ciascuna premessa dell'argomento è inadeguata, però è vera. Che cosa avviene dunque quando il ragionamento congiunge queste proposizioni? I coefficienti di dissomiglianza inerenti ai termini e ai concetti, moltiplicandosi, non condurranno lo spirito verso regioni sconosciute, prive d'ogni punto di riferimento, lasciandolo alla fine completamente solo? Finiranno necessariamente coll'impedire alle conclusioni teologiche di raggiungere la certezza? Nient'affatto. Certo, tali fattori impronteranno ogni conclusione dell'analogia, e imporranno quindi alla conclusione un coefficiente di dissomiglianza, non potendo la conclusione avere una natura più perfetta delle premesse. Ma l'analogia comporta pure una somiglianza, non solo dissimiglianza. Ne si può dire essere radicalmente impossibile distinguere nella conclusione la zona che deve offrire l'oggetto delle affermazioni e la zona che appella delle negazioni; fino a un certo punto il teologo può fare la separazione con i criteri somministrati dalla filosofia e dalla fede. La filosofia offre il metodo dell'analogia, delineato più sopra, che distingue tra le perfezioni assolute e le perfezioni miste e che utilizza " le tre vie dell'affermazione, della negazione e della trascendenza "; anche altri punti solidamente stabiliti della teodicea all'occasione possono aiutare nel determinare il senso e la portata della conclusione del ragionamento teologico; infine, è evidente che l'ultimo rilievo vale egualmente, se non a jortiori, per le verità della fede. Evidentemente, il teologo deve estendere la conclusione in un senso compatibile con tutti gl'insegnamenti della rivelazione e questo significa che a l'analogia della fede " è un criterio non meno importante dei criteri filosofici.

Con questi mezzi, principalmente alla luce dell'analogia della fede " e dell'analogia dell'essere ", il teologo potrà continuamente " fare il punto " e, a ogni tappa del suo lavoro teologico, assicurarsi se, nonostante il mistero che incombe sulla sua strada, può avanzare con sicurezza. Tale fiducia però non deve degenerare in temerità, ma allearsi alla prudenza e a una saggia riserva. Il teologo dev'essere praticamente convinto che le sue conclusioni sono di carattere analogico; i suoi schemi e quadri, accanto a zone luminose, presentano ombre più o meno dense e comportano necessariamente dei chiaroscuri. Chi desidera scrutare la realtà divina, deve avere in grado eminente il senso del mistero (12), ed è opportuno ricordare questa verità elementare a certi dialettici inclini ad abusare del valore delle loro speculazioni (13).

Obiezioni contro gli " argomenti di convenienza ". - Non c'è nulla che faccia vedere meglio la debolezza e anche l'inefficacia dei ragionamenti teologici quanto gli " argomenti di convenienza ". L'uomo colto, che non ha ricevuto una formazione teologica o, meglio ancora, che non ha subito la deformazione teologica, li considera una sottigliezza nata spesso dal bisogno della causa ed incapace di mascherare l'estrema fragilità, se non la inanità di ogni ragionamento. Sovente crede che sarebbe molto facile trovare considerazioni analoghe in favore della tesi contraddittoria o di non importa quale dottrina.

Risposta. - Certi teologi hanno innegabilmente abusato di questo genere di considerazioni e dimostrato una virtuosità talvolta di cattiva lega. Però è perfettamente legittimo un moderato uso delle " ragioni di convenienza ". Dio ci ha rivelato questa e quell'altra sua azione, questo e quell'altro elemento dell'ordine soprannaturale; perciò spesso possiamo vedere, in una certa misura, la conformità di una particolare azione o di un particolare elemento con gli attributi di Dio e con le aspirazioni dell'uomo. Gli argomenta ex convenientia espongono tali armonie e le propongono come un indice della verità della dottrina rivelata riguardante quel particolare punto. Essi sono lontani dall'avere sempre la stessa forza, ma lo stesso nome, argumentum ex convenientia, lascia comunque capire abbastanza che i loro autori non danno loro un valore apodittico, e occorre sempre ricordare che, a fianco degli argomenti di convenienza, ci sono altri argomenti teologici pienamente dimostrativi.

(12) Nella sua opera Lesens du mystère et le dair-obsatr intellectuel. Nature et sumalure, (Desclée, Parigi 1934), R. Garrioou-Laorakge ha "sottolineato quanto c'è di chiaro e quanto d'oscuro nella suluzione tomista dei grandi problemi della conoscenza in generale, della nostra conoscenza naturale e soprannaturale di Dio, e in quella delle questioni della grazia "..
(13) Circa l'analogia fidei e l'analogia mtis il lettore troverà utilissime considerazioni negli articoli di G. Soenhoen, Analogia fidei: Gottahnlkhkeit alleiti aus Glauben? in Catholica, (934) fesc- 3) PP- 113-136; e Analogia fidei; Die Einheitin der Glaubmswissenschaft, ivi, 1934, asc. 4, pp. 25-27.

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