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Obiezioni contro l'Antico Testamento

Ultimo Aggiornamento: 02/09/2009 08:35
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02/09/2009 08:28

Obiezioni contro la Religione e la Morale dell'Antico Testamento

tratto dall'Enciclopedia di Apologetica - quinta edizione - traduzione del testo APOLOGÉTIQUE Nos raisons de croire - Réponses aux objection

 

CAPITOLO III. - OBIEZIONI CONTRO LA RELIGIONE E LA MORALE DELL'ANTICO TESTAMENTO

La religione insegnata dai libri sacri e attribuita ai figli d'Israele non solo sarebbe inferiore alla dottrina di Cristo, ma anche opposta alle nozioni e ai precetti della religione cristiana, e perfino alla religione in se stessa.

L'obiezione s'appoggia a fatti che si possono dividere in tre categorie. La prima categoria comprende le pratiche e le credenze che si vuole provengano dalle forme elementari della vita religiosa osservabile in tutti i popoli di cultura inferiore; cosi nell'Antico Testamento si segnalano vestigia non equivoche di credenze animistiche, feticistiche, totemiche, magiche, ecc; la seconda categoria di fatti dimostrerebbe indirettamente l'inferiorità della fede e della morale israelitica relativamente all'insegnamento del Nuovo Testamento; infine una terza categoria unisce le obiezioni che si fanno valere contro il monoteismo e il messianismo, le due credenze israelitiche che la Chiesa considera come il meglio della rivelazione anticotestamentaria.

 

§ I. - Le pretese forme elementari della religione e della morale anticotestamentaria.

La maggior parte dei manuali di storia della religione ebraica d'autori indipendenti indica un numero più o meno elevato di credenze e di pratiche infrareligiose, che gli agiografi avrebbero riportato e quindi approvato. Per una buona esposizione della questione rimandiamo all'opera del compianto professor Ed. Konig, Geschichte der alttestamentlichen Religion, 2 ed., Gutersloh, 1915.

I fatti principali.

a) Vestigia d'un culto agli animali o a certe specie dì animali. - La venerazione del serpente di bronzo fabbricato da Mosè e conservato nel tempio di Gerusalemme fino alla riforma di Ezechia; la distinzione tra animali puri e animali impuri; l'attribuzione dei nomi di animali alle tribù o agli antenati delle famiglie patriarcali, come Simeone, Caleb, Lea, Rachele.

b) Vestigia d'un culto dei morti e degli antenati. La venerazione delle tombe, la pratica dei sacrifici funebri, l'ampiezza e bizzarria dei riti dei funerali, l'attribuzione del titolo te elohim " dato agli spiriti dei trapassati.

c) Vestigia d'un culto agli alberi, alle fonti, ai fiumi, alle montagne e alle pietre. - Ricordiamo prima di tutto la frequente menzione delle montagne sacre; le pratiche rituali osservate o prescritte verso certe pietre, che forse venivano considerate come tabernacoli di spiriti o anche di divinità; le colonne erette all'ingresso del tempio di Gerusalemme; il titolo di " rupe " che Dio decretò a se stesso; la venerazione religiosa agli alberi, ai quali la tradizione legava questo o quel fatto dell'antica storia religiosa: i terebinti di Sichem, di Manre, d'Ofra, il tamarisco di Beer-Sheba, il roveto del Sinai, ecc; infine la venerazione religiosa delle fonti e dei fiumi con acqua considerata miracolosa, come la sorgente di Qadesh, di Beer-Sheba, di Lahai-Roi e, nella stessa Gerusalemme, quelle di Rogel e di Gihon, senza contare l'acqua santa del tempio. Siamo indubbiamente vicini al senso originale di queste pratiche, scrive A. Lods, ammettendo che in questi oggetti abitasse costantemente un dio o uno spirito.

Vestigia d'un culto a certi gruppi di spiriti rappresentati come indipendenti dalla natura. Rimandiamo ai serafim, temibili serpenti alati; ai se'irim, demoni vellosi del deserto; al demonio Azazel e a Lilith, il demonio femminile, temuto anche dagli Assiri,
Vestigia d'un culto agli astri. - Alcune feste degli Ebrei, la cui origine si può far risalire all'epoca premosaica, nota A. Lods, hanno un pronunciato carattere lunare, come la Pasqua, rito pastorale che si celebrava di notte al plenilunio di primavera; tale certamente la festa del novilunio al principio d'ogni mese.
Vestigia d'un politeismo, cioè d'un culto ai baalim, divinità locali o tribali della terra di Canaan. Però sulle credenze politeistiche gli autori indipendenti propongono opinioni divergenti. Così, ad esempio, in disaccordo con l'assiriologo Hommel e l'ebraicista Baentsch, lo storico protestante A. Lods, rifiutandosi di attribuire agli Ebrei nomadi un politeismo sviluppato e sapiente mente organizzato, conclude : " Probabilmente non saremmo lontani dal vero se definissimo lo stato religioso al tempo della fondazione del jahvismo come un polidemonismo leggermente tinto di politeismo" (1).

Principi per una soluzione. - Per non perdere tempo, non esamineremo i numerosi fatti che nel passato accumularono i seguaci della scuola wellhausiana. Simile esame solleverebbe più d'un problema interessante d'esegesi, e rettificherebbe discretamente le spiegazioni, ma lo scopo limitato, che ci siamo proposti, rende inutile una simile inchiesta. Quindi preferiamo dare ai nostri lettori alcuni princìpi di buona esegesi, che non sarà difficile applicare.

Farebbe torto alla rivelazione anticotestamentaria chi la facesse responsabile delle credenze o delle pratiche religiose delle quali si limita a segnalare la diffusione tra i figli d'Israele, indicandole o descrivendole senza approvarle o condannarle. La rivelazione è responsabile delle pratiche e delle credenze predicate e imposte agli Ebrei dai messi del jahvismo in nome di Jahvé stesso.

C'è da stupire se la religione jahvistica non conquistò subito tutto il popolo d'Israele e nemmeno tutta l'anima israelitica di ciascun individuo? Il fallimento parziale non ci può meravigliare, poiché il jahvismo formulava esigenze spirituali elevate e perfino le anime religiose dell'Antica Legge opponevano non poche tenebre e debolezze alla luce e alla grazia divina. I libri dell'Antico Testamento non attestano forse che il monoteismo jahvistico dovette intraprendere un'atroce guerra di conquista contro le religioni cananee e che, anche dopo il trionfo del movimento profetico, fu sempre minimo il numero dei credenti perfetti, sotto la protezione d'Abramo, di Mosè, Samuele, ed Elia? Possiamo quindi credere che le forme elementari della vita religiosa, come le credenze animistiche, naturistiche, polidemoniache e altre ancora abbiano avuto vita tenace tra i figli d'Israele, proprio nella misura in cui questi continuavano a sottrarsi alla luce divina; però sarebbe ingiusto imputare queste credenze erronee al jahvismo o trattarle alla pari della religione rivelata. Esse non riuscirono mai a soffocare la voce dello Spirito di Dio, e tanto meno si stabilirono in mezzo ai figli d'Israele fino ad assumere la vera fisionomia della religione di Jahvé (2).

(1) Sulla presente questione vedi l'esposizione di A. Lods, Israèl. Des origine* au milieu
da Vili siede, Parigi 1930, pp. 241-293.
(2) Fr. X. Kortle:tner, Cananaeorum auetoritas num ad rdigionem Israèlitanon aliquid
perlinuerit, Innsbruck 1932. - A varie riprese citeremo le opere di quest'autore la cui sintesi storica lascia certo a desiderare, ma che ha una documentazione straordinariamente abbondante.

Oltre le vestigia delle antiche religioni pagane della terra di Canaan, al margine del jahvismo e nell'anima ancor rozza degli Ebrei vi fu una fioritura di pratiche superstiziose, provenienti dalla mescolanza di credenze pagane con la fede monoteistica. Siamo nel campo del folklore e di quella che venne chiamata la religione popolare. Ovunque e sempre l'anima popolare resta avvolta da numerosi concetti religiosi di qualità inferiore, d'ispirazione elementare; non avendo una cultura sufficiente, spesso reagisce, seguendo tali concetti, sulle nozioni religiose più elevate. Se tale è l'anima popolare davanti alla religione cristiana, come avrebbe potuto essere diversamente davanti al mosaismo? Spesso i jahvisti semplici potevano comprendere male i princìpi della loro religione, oppure, ricevendoli e comunque depositandoli nel terriccio delle cre

denze popolari, che sappiamo quanto valgano, potevano essere più o meno viziati, sviluppando così un folklore e una religione popolare cui alludono ripetutamente gli scritti ispirati, ne segnalano le pratiche, alle volte senza condannarle (3).

Alla luce delle distinzioni che occorre fare tra il jahvismo, il mosaismo e la religione rivelata da una parte, e dall’altra i culti cananei, il folklore religioso, la religione popolare, crediamo possibile risolvere tutte le obiezioni. I fatti citati o derivano dagli antichi culti della terra di Canaan, condannati dallo jahvismo, o riguardano la religione popolare o il folklore religioso, che sembrano tollerati a lungo dagli organi della rivelazione, finché non comportano la negazione di qualche articolo del credo jahvistico; oppure fanno parte della religione rivelata, ma portano il segno dell'imperfezione, propria di tutta l'antica economia biblica. Altrove abbiamo spiegato diffusamente che l'Antico Testamento richiede un complemento; quindi è nell'errore chi vuoi trovare in esso l'espressione perfetta e senza macchia delle credenze donateci dal cristianesimo, espressione che, anche dopo la rivelazione neotestamentaria, i grandi uomini spirituali non cessano di scavare e approfondire (4).

Conclusione. - Finiamo con un rilievo. Oggi nessuno sogna di sottoscrivere le vedute, per quanto brillanti, sviluppate da Ernesto Renan nell'Histoire du peuple d'Israèl, né si può in particolare accogliere il suo quadro della vita religiosa degli Ebrei, quale fu vissuta al tempo delle peregrinazioni in Siria, in Palestina e anche in Egitto. Però c'è un'ipotesi di Renan, della quale egli abusò, cui non si può rifiutare ogni valore, cioè quella delle profonde differenze che distinguono e oppongono le istituzioni dei popoli nomadi e quelle dei popoli di civiltà più raffinata, che hanno una dimora fìssa nelle città e nei grandi villaggi. Secondo Renan sarebbe propria dei popoli pastori la purezza dei costumi e la relativa elevatezza delle credenze religiose.

Il tempo ha decantate le affermazioni esagerate dello storico francese, di cui riteniamo quanto hanno di fondato. Nella terra di Ganaan non mancò un certo numero di famiglie o di clan di pastori, poiché dal tempo di Abramo fino all'epoca di Cristo, anzi fino ad oggi, intere famiglie continuano ad abitare sotto le tende, nelle steppe e nei deserti. Non è possibile attribuire a questi raggruppamenti di nomadi o seminomadi, viventi al margine della civiltà materiale, un compito importante nel conservare, trasmettere ed epurare la religione? Alla fede jahvista, più o meno contaminata dei cittadini e dei grandi proprietari rurali, sui quali la civiltà cananea aveva lasciato la sua impronta, essi opposero le tradizioni delle origini, spogliate da ogni alleanza pagana e conservate intatte sulle montagne d'Israele o nelle steppe di Giuda. Non è forse alla fede e alle condizioni di vita di questi clan nomadi privilegiati del jahvismo, che i grandi profeti del secolo vm volsero gli occhi fino a intravvedere e descrivere con i colori della vita patriarcale l'avvenire messianico della nazione? Se cosi stanno i fatti, si spiega più facilmente l'esistenza e la trasmissione del jahvismo puro e fedele ai principi della riforma religiosa mosaica, e fa piacere constatare come uno studioso tanto apprezzato, come Emery Barnes, se ne renda conto e sia prontissimo ad accogliere una simile spiegazione (5).

(3) Id., De religione pupillari Israèlitarum, Innsbruck 1937.
(4)Vedi J. Coppens, Pour mieux comprendre et mieux enseigner l'histoìre sainte de l'Ancien
Testament, Parigi, Desclée de Br. 1936.
(5) The Mosaic Religion, in Theology, 1935, t. xxxi, pp. 6-17. - L'atteggiamento di
Korti.eitner nei confronti di quest'ipotesi mi sembra troppo severo ; Relitto Jahvae cohae-
realne tum simplicitak tdtae nomadum, Innsbruck 1933 ; va bene condannare l'ipotesi come una spiegazione razionalistica del jshvismo, però mi sembra contenga alcuni elementi di verità.

 

§ 2. - Le dottrine religiose morali dell'Antico Testamento dette contrarie al cristianesimo.

In questa seconda categoria di difficoltà dovremo esaminare le considerazioni svolte dagli autori razionalisti per scavare un abisso invalicabile tra la dottrina cristiana e l'insegnamento della Legge Antica.

Enunciazione di tali obiezioni. - Si dice che il cristianesimo predica la continenza e la castità; invece i costumi israelitici erano poco sensibili ai disordini sensuali: i patriarchi praticavano la poligamia; Abramo lascia equivocare sulla condizione di Sara sua sposa; Giuditta espone la sua virtù per salvare la patria, ecc. Il cristianesimo esige la purezza del cuore e l'onestà assoluta; invece gli Ebrei tollerano la menzogna e la frode, come si vede nella storia di Giacob-be; Gesù Cristo esige il rispetto assoluto alla vita umana e promulga la suprema legge della carità; invece Israele inclina alla vendetta (la maledizione di Canaan e i salmi imprecatori) e non indietreggia davanti all'omicidio ordinato a fini superiori, profani o sacri, come il sacrificio d'Isacco, l'immolazione della figlia di Jefte, l'uccisione d'Eglon e di Sisara, lo sterminio dei Cananei, ecc La morale cristiana proibisce il suicidio; invece vari grandi uomini dell'Antico Testamento si diedero la morte: Abimelec, colpito al capo da un pezzo di macina si fa uccidere dallo scudiero, onde non si possa dire: "Fu ucciso da una donna "; Sansone, imprigionato dai Filistei, si fa crollare addosso il tempio di Da-gon; Saul, inseguito dall'esercito nemico, si trafigge con la propria spada; Achitofel, respinto da Assalonne, s'impicca, ecc. Soprattutto poi, mentre nella nuova economia il primo principio fondamentale della legge morale è l'imputabilità strettamente personale, in Israele imperversa la legge implacabile della responsabilità collettiva: Mosè soffre per il suo popolo, e in ogni famiglia i figli espiano le mancanze morali dei genitori.

Risposta. - Di alcuni dei fatti elencati è discutibile il senso che vien loro attribuito; cosi la storia della figlia di Jefte, che venne variamente interpretata (6); il sacrificio d'Isacco presenta alcuni particolari che potrebbero dargli un senso diverso da quello adottato dall'esegeta comune (7). Però non insistiamo, perché la soluzione delle difficoltà non consiste nel proporre interpretazioni nuove e più ingegnose di quelle antiche; essa è infinitamente più semplice, riguarda la generalità dei casi e consiste nel riconoscere generosamente il carattere imperfetto della religione e della morale israelitica di fronte alla morale e alla religione neotestamentaria.

(6) V. J. Coppens, Le chan. Albin Vati Hoonacker, ecc, p. 33.
(7) Cfr. A. C. Welch, Prophet and Priest in Old Israel, Londra 1936, pp. 81-82.

 

In ciò è unanime tutta quanta la tradizione ecclesiastica, ma sfortunatamente certi autori in pratica si diportano come se la rivelazione da Abramo a Gesù non avesse fatto nessun progresso. L'insegnamento anticotestamentario ha una perfezione limitata e a salvare il principio dell'inerranza biblica basta che le affermazioni degli agiografi conducano al nocciolo luminoso, e non all'involucro di tenebre, le cui frontiere furono fatte indietreggiare gradatamente dalle rivelazioni che Dio fece successivamente agli uomini dell'Antico Testamento. È possibile ridurre a due categorie la maggior parte delle limitazioni: quelle dettate dallo spirito nazionale dell'antica economia e quelle provenienti da un'escatologia deficiente. La rivelazione dell'Antico Testamento non si affrancò dai contorni nazionali e non dispensò lumi definitivi sull'aldilà; perciò molti insegnamenti conservano aspetti d'una morale terrena, provvisoria, collettiva, sui quali trionferà poi completamente la predicazione di Cristo (8).

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