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La Fede: un sacrificio ragionevole

Ultimo Aggiornamento: 03/09/2009 12:14
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03/09/2009 12:05

La fede: sacrificio ragionevole


Pensare che, per acquistare la fede, occorre rinunciare alla ragione, è cattiva teologia, sebbene molto diffusa nella modernità. La fede è obbedienza, non annullamento dell'intelletto

Rm 12, 1: "Obsecro itaque vos, fratres, per misericordiam Dei, ut exhibeatis corpora vestra hostiam viventem, sanctam, Deo placentem, rationabile obsequium vestrum..."

La vita secondo la fede è un sacrificio a Dio e più ancora la fede stessa è sacrificio concernente addirittura la parte più nobile dell'uomo, la sua intellettualità. Eppure, se è vero che, nel credere, la ragione umana si piega all'infinita, divina, Verità compiendo un ossequio che scaturisce dalla ragione e, realizzandosi sotto la sua guida, merita di essere chiamato "ragionevole", tale ossequio non comporta per nulla l'annientamento dell'umano intelletto, ma ben al contrario la sua somma e nobilissima elevazione. La ragione, aderendo alla Rivelazione, non diventa meno, ma più che mai ragionevole. Pensare che, per acquistare la fede, occorre rinunciare alla ragione, è cattiva teologia ' sebbene molto diffusa nella modernità segnata dal programma kantiano di "limitare la ragione per far spazio alla fede". Queste parole che leggiamo senza battere un ciglio, con ingenua noncuranza, allarmerebbero i nostri antenati medievali come vere e proprie "bestemmie ereticali". La fede è obbedienza, non annullamento dell'intelletto (cf. Rm 1,5) e la sottomissione non è certo abbrutimento a meno che non si parta dal presupposto alquanto pessimistico che il mondo alla pari della società è governato dal puro arbitrio e da vicendevoli sopraffazioni. La fede può essere, si, "distruzione di ragionamenti" (cf. 2 Co 10, 5), ma solo di ragionamenti sragionanti, quelli "che si levano contro la conoscenza di Dio" e per conseguenza non sono veri. Il vero non contraddice il vero, il vero soprannaturale della fede non può essere smentito da quello naturale della ragione.

Tuttora, sebbene non vada certo per la maggiore essere apertamente cattolici, è ancora un po' di cattivo gusto essere francamente atei. Si sente allora dire "io sono credente, ma a modo mio". Se già la religione, ch'è connaturale all'uomo, può essere plurima solo secondo le umane opinioni, mentre è unica nella sua obiettiva verità, quanto più sarà sottratta all'arbitrio delle scelte umane, la fede, ch'è religione divina, connaturale a Dio solo, soprannaturale riguardo ad ogni creatura! I pagani avevano qualche sano istinto naturale e perciò erano (spesso fin troppo) religiosi, ma non avevano ancora la fede. La religione è una dimensione naturale dell'anima, la fede è dono gratuito di Dio. Gli atei moderni ci provano, con strani contorcimenti di animo, ad essere "indifferenti" rispetto a Dio senza mai riuscirci, perché la natura è più forte delle loro velleità. Per non credere invece basta deliberatamente resistere alla divina grazia.

La fede è una conoscenza intellettiva e precisamente una conoscenza di Dio nella Sua Essenza inaccessibile ad ogni intelletto creato o creabile. Credere significa conoscere Dio come Dio solo si conosce, è un entrare nel segreto intimo della Mente divina. Infatti, "per alcuni effetti della Divinità l'uomo è aiutato a tendere nel godimento divino" (S. Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, 11-11, 1, c.). Dio ci vuole beati non solo della nostra, ma della Sua, divina ed infinita, beatitudine e il primo passo che facciamo in quella direzione è appunto quello della fede.

Ciò che si crede in ogni proposizione di fede è l'Unico Dio, Prima Verità, e tutto ciò che di non divino entra nella fede ne fa parte solo in ordine a Dio. Con tutto ciò le formule dogmatiche (tanto deprecate in ogni salotto che si rispetti) rimangono indispensabili, perché solo tramite esse avviciniamo il mistero. Dato poi che il falso non può far parte del vero né il male del bene, nella fede tutto è vero, perché essa tutto vede alla luce dell'infinito Essere e dell'infinito Intelligibile.

L'oggetto della fede non è però "visto" né "saputo" dall'intelletto umano. La verità divina non è adeguatamente afferrabile dalla concettualità umana. L'eccesso della divina intelligibilità acceca gli occhi deboli della mente creata, un effetto, questo, che i mistici descrivono come "caligine" o "tenebra" della fede.

L'atto interiore del credere consiste in un "riflettere con assenso" (cum assensione cogitare). La fede implica da un lato una ferma adesione alla verità e così differisce dall'opinione (timore che il contrario sia vero), sospetto (beve probabilità) e dubbio (indecisione della ragione). Essa differisce però anche della scienza, perché la sua certezza, pur essendo dalla ragione, non è però solo intellettualmente fondata, ma deriva dalla volontà mossa a sua volta dalla divina grazia.

La fede si presenta allora come una certezza che tuttavia non giunge alla chiara visione del suo oggetto. Affermare che il credente deve rinunciare ad ogni certezza per metterla in questione nell'ambito di un fraterno dialogo, dire che non si deve bloccare il dinamismo della continua ricerca con verità fisse ed acquisite una volta per sempre ed altri discorsi simili porta a dei luoghi comuni non solo oltremodo banali, ma che hanno altresì il gravissimo torto di non essere per nulla veri. Sarà anche intolleranza, ma S. Tommaso, come ogni buon cattolico, è convinto che la fede è una certezza e il credere un dovere morale indispensabile per l'eterna salvezza. La fede non poggia su motivi personali del tipo "mi butto nel buio, perché me n'è venuta la voglia" - né tradizionali sullo stile "sono credente, perché lo è la mia famiglia" né infine folcloristici - "credere è un valore positivo, perché fa parte del patrimonio culturale del nostro popolo" - come per dire che, alla fine dei conti, anche i musei hanno il loro posto nella vita. Per giungere alla visione di Dio l'uomo non può fare a meno di lasciarsi condurre come un discente da Dio Docente per le vie della rivelazione e della fede.

Di chi, senza colpa, non poté udire la predicazione del Vangelo si incaricherà Dio stesso. Certo, nemmeno costoro si salvano senza la fede, almeno implicita e misteriosamente comunicata dall'alto. Epperò, più che pensare a come Dio salvi l'umanità, i Cristiani dei paesi largamente evangelizzati dovrebbero meditare piuttosto sulla loro parte del dovere. Che ne sarà di noi, se rifiutiamo la fede così facilmente accessibile? Quali responsabilità abbiamo dinanzi ad una società più pagana che ci sia, ovvero pagana dopo essere stata una volta cristiana? Basta che ci compiacciamo di essere "pochi, ma buoni" o dobbiamo fare nostro il mandato di "andare ed ammaestrare tutte le genti"? Dio vuole che siamo democratici non in cose da poco come la politica, ma in ciò, che veramente conta qual è la salvezza dell'anima. Questa sì che è una possibilità, anzi, un dovere, uguale per tutti.

Dato l'intervento della volontà, e per conseguenza della libertà, nell'atto di fede, questo risulta certamente meritorio a condizione di rivestirsi della carità. La fede si compie nel conoscere il mistero di Dio, il che può verificarsi anche senza amare Dio al di sopra di tutto. Anche un peccatore può e deve credere, ma la carità c'è solo nei giusti. Spesso i semplici con fede meno esplicita, ma più "affettuosa", guadagnano più meriti dei dotti che con freddezza di cuore allontanano l'intelletto troppo compiaciuto dì sé dalla sottomissione alla Rivelazione. Se infatti la ragìone pretendesse di sostituirsi alla volontà di credere, ne sminuirebbe il merito, se essa al contrario esplora il mistero della fede cui la volontà ha già prestato la sua ubbidiente ed amorosa adesione, ciò diventa segno di una scelta più determinata e quindi anche di un merito più grande.

"La fede è fondamento (sostanza) delle cose che si sperano e prova (argomento) di quelle che non si vedono" [Eb, 11, 1 ]. Quel che si spera non si possiede ancora, ma in qualche misura può già essere iniziato in chi ha speranza, Così la volontà del credente è già protesa alla divina promessa dì cui non si ha ancora il pieno adempimento, ma la si possiede nel suo inizio, dato che la fede è il primo passo che conduce all'eterna beatitudine. L'intelletto credente non vede ancora il suo oggetto, ma vi aderisce con certezza convinto, più ancora che se si trattasse di una prova rigorosa, dall'autorità di Dio che ci svela il Suo mistero.

Nella fede l'intelletto aderisce alla verità rivelata mosso dalla volontà che già ama il mistero del Dio che si rivela, cosicché la virtù della fede suppone una buona disposizione sia nell'intelletto che nella volontà. Eppure immediatamente la fede trova il suo soggetto proprio nella facoltà intellettiva, perché il suo oggetto non è un bene, ma piuttosto un vero. L'atto di fede è dunque ordinabile, al di là del suo oggetto proprio, ch'è il vero divino, a quel bene soprannaturale che è ancora Dio, ma questa volta Dio-Sommo Bene in sé, oggetto della carità. Così la carità risulta "forma" della fede e la virtù che, ispirando la fede, la connette con il fine ultimo della vita umana. Da sola, checché ne dica Lutero, la fede non giustifica. Anche il peccatore che non ama Dio può e deve credere ed otterrà il perdono solo quando la sua fede si rivestirà di nuovo del soprannaturale amore.

Quanto spesso si sente dire "non ha importanza quel che uno crede, importante è solo che gli uomini sì amino tra loro". L'amore senza fede e senza verità - ecco, secondo san Pio X che in quella materia era un intenditore, là quintessenza del modernismo. Dì fatto non è possibile amare il bene soprannaturale, se non si ha la previa conoscenza, altrettanto soprannaturale, del bene suddetto. In altre parole, se è vero che la carità oltrepassa la fede, sempre rimane che, senza la fede, almeno rudimentale, ma vera e divinamente rivelata, si ha semmai una presunzione di carità, ma non la carità secundum veritatem. Inutile aggiungere che la filantropia naturale, anche se per assurdo fosse spinta fino all'eroismo, a nulla gioverebbe, perché non sarebbe all'altezza del soprannaturale e quindi non meriterebbe davanti a Dio, sebbene sia per il resto umanamente lodevolissima. E' facile allora capire che cosa pensa la dottrina autenticamente cattolica di altri luoghi comuni come "è un ateo, sì, ma anche una gran brava persona" (sarà, certo, brava persona, in tutto, ma disgraziatamente non proprio nel suo ateismo) o meglio ancora, perché più personale, "io in Chiesa non ci vado, ma con tutto ciò sono molto più onesto di tanti bigotti" (prova inconfondibile che la razza dei farisei è difficile a morire), oppure "non sono un praticante, ma ho una mia onestà" (e c'è infatti da temere che quella "onestà" sia un po' troppo a misura delle vedute personali dell'ego stimatissimo).

La fede è più certa della prudenza e dell'arte, perché conosce l'eterno e l'assolutamente necessario, non il fattibile contingente. Per la causa della sua certezza, ch'è Dio, essa è più certa anche della stessa scienza. Per la debolezza dell'intelletto umano invece avviene che essa sia troppo elevata e quindi meno connaturale rispetto alla mente creata e persino legata all'esperienza sensibile qual è la mente umana. La Santa Chiesa, convinta della ragionevolezza e nel contempo della soprannaturale mistericità della fede, insegna che, se la ragione non può certo dimostrare i dogmi nei loro rispettivi contenuti, essa però può e deve accertarsi della loro credibilità. Tra le proposizioni della morale lassista condannate dal papa Innocenzo XI (1679) leggiamo anche questa: "L'assenso della fede soprannaturale e salutare può aver luogo assieme alla nozione solo probabile della rivelazione, anzi, assieme al timore che Dio non abbia parlato" [DS 2121].

Il Magistero del Concilio ecumenico Vaticano I (cf. DS 3009 ss.) sottolinea la dipendenza della ragione creata dall'uomo da quella increata e creatrice di Dio e per conseguenza H dovere di prestare l'ossequio dell'intelletto e della volontà a Dio che si rivela. La fede, inizio dell'umana salvezza, costituisce una virtù essenzialmente soprannaturale, per mezzo della quale, con l'aiuto della divina grazia, crediamo essere veri i misteri rivelati da Dio. Questo non per la intrinseca verità delle cose intelligibile alla luce naturale della ragione, ma per l'autorità del Dio rivelante che non può né ingannarsi né ingannare. Epperò, per rendere ragionevole l'ossequio della nostra fede, Iddio volle aggiungere all'ispirazione interiore dello Spirito Santo degli argomenti convincenti della sua rivelazione, dei fatti divini, anzitutto i miracoli e le profezie, che dimostrano abbondantemente (luculenter) l'onnipotenza e l'infinita scienza di Dio, così da costituire segni certi della rivelazione divina, adatti all'intelligenza di ogni uomo.

E cosa risaputa che dinanzi ai prodigi del Signore Gesù la folla si spaccava in due: alcuni dicevano che un grande profeta era in mezzo a loro e che Dio ha visitato il suo popolo, altri invece bestemmiavano accusando il Salvatore di scacciare i demòni a nome di Beelzebub, il capo dei demòni. Vi sono alcune cose, prodigiose e nel contempo buone e sante, che solo Dio può fare e che il demònio, benché possa mimare delle meschine imitazioni di segni soprannaturali (ì maghi del faraone riescono a produrre dei serpenti, ma il serpente di Mosè se li mangia tutti), non farebbe mai a meno di contraddire se stesso e quella triste intelligenza non è capace di nessuna incoerenza logica. Nella natura appaiono dunque dei segni di una potenza che oltrepassa la natura e che, essendo infinita e inoltre moralmente retta, non può che derivare da Dio. Tutto ciò può anche andare bene, si dirà, ma come c'entriamo noi che dei miracoli non ne abbiamo visti? Ebbene, beati coloro che, pur non avendo visto, crederanno. La loro fede non sarà senza ragionevole appoggio, perché ogni mente priva di pregiudizi farà la giustizia accordando ai Vangeli un'assoluta attendibilità storica. Così, quando san Giovanni ci racconta della risurrezione di Lazzaro, siamo noi stessi che lo vediamo uscire dal sepolcro e quando ci dice che entrò nella tomba vuota di Gesù e vide e credette, anche noi crediamo, ma prima ancora assieme a lui vediamo le bende per terra e il sudario piegato messo in disparte. Il fatto della risurrezione è un fatto storicamente e perciò razionalmente accertabile, sempre misterioso invece ne rimane il profondo significato nell'economia della salvezza.

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03/09/2009 12:07

Ma non si raccontano dei miracoli anche in altre religioni? Sì e come, ma l'intelligenza umana è in grado di discernere tra il vero e il falso, tra la realtà obiettiva e le invenzioni fantastiche. D'altronde un potente motivo di credibilità è la stessa connessione dei misteri cristiani tra loro, lo splendore razionale che sprigiona da sé l'analogia della fede e che non si trova in nessun'altra religione puramente naturale ed umana. Questi segni e prodigi però andavano forse bene per quei sempliciotti che erano i nostri rozzi antenati, noi uomini critici possiamo ancora ritenerli attendibili? Possiamo e dobbiamo, essi infatti sono argomenti che dimostrano il fatto della rivelazione abbondantemente adattandosi ad ogni umano intelletto senza differenze (dovute a quel razzismo diacronico che condanna il passato a nome del magico progresso) tra intelletti più o meno aggiornati. L'incredulità ha trovato un nuovo mito, quello della demitizzazione. I farisei accusavano Gesù di essere preda di Beelzebùb, il criticismo bultmanniano lo accusa di essere preda di un mito. Le due invettive in fondo si equivalgono, solo che quella moderna, più sofisticata, è per ciò stesso anche più diabolica.

La ragione non dimostra allora la fede il cui atto rimane sempre libero, tant'è vero che persino testimoni oculari dei prodigi di Cristo ne rifiutavano la missione divina, ma essa è in grado di accertarsi che credere è molto ragionevole, perché la fede è molto credibile. Per credere basta sottomettere la ragione a Dio, per non credere bisogna farle violenza piegandola su se stessa. La ragione dei credenti è certo più ubbidiente, ma quella degli increduli è infinitamente più sacrificata e lo è per giunta sull'altare più profano che ci sia - quello dell'adorazione che l'uomo dà a se stesso.

LE DIFFICILI VIE DELL'ETICA.

Nei risultati del Convegno sull'intolleranza (che riguardano anzitutto la tolleranza in quanto la negazione risulta pienamente conoscibile solo alla luce dell'affermazione) è sorprendente notare che accenni etici, di principio, non mancano, certo, eppure sono ben lontani dal ricevere quel primato che spetta loro di diritto dinanzi alla. preponderanza di trattati per così dire "applicativi". Tutto ciò sarà probabilmente da addebitare a quello spirito pragmatico che, da Galileo in poi, non ama "tentare le essenze", eppure quella della tolleranza è una questione soprattutto di principio, una problematica squisitamente etica, anzi, metafisica, in quanto riguarda l'agire umano e le sue motivazioni. Ci sia permesso dunque di supplire un po' a tale mancanza osando sollevare anzitutto la domanda del "che cosa è" prima di giungere a quelle altre del "come si usa" e "dove si applica". In latino il verbo "tolerare", suscettibile di molte sfumature, può essere globalmente tradotto con il termine "sopportare". Sembra fuori dubbio che ognuno di noi abbia molte occasioni di sopportare nella sua vita certe circostanze generalmente dovute ad altre persone con cui viviamo, che incontriamo, ecc. Portare pazienza appartiene alle esigenze della vita di tutti i giorni e, se per convincersene non bastasse il buon senso. l'autorità delle stesse divine Scritture è assai abbondante a questo riguardo.

La pazienza inoltre, quella virtù che per eccellenza consiste nel sopportare, viene indicata come effetto spontaneo della carità, della comunione dell'uomo con Dio stesso. Detto ciò, subito si suole elevare l'accusa dettata da superficialità se viene da ambienti che si vantano del proprio laicismo, ma ulteriormente arricchita di autolesionismo se proviene da chi continua a definirsi cristiano pur battendo il petto non già a se stesso, ma preferibilmente alla Santa Chiesa di Dio: "Ecco la purezza della dottrina evangelica che la Chiesa-istituzione ha rinnegato assumendo atteggiamenti intolleranti lungo il corso della sua storia!". Tali sempliciotti dimenticano che lo stesso apostolo che canta l'inno alla carità, che è paziente, prorompe in condanne decisamente "inquisitoriali" davanti ai pericoli di eresia o di immoralità nella comunità cristiana. Dato poi che, nonostante un carattere decisamente energico, l'irrazionalità rientra nelle caratteristiche di San Paolo, forse sarebbe il caso di astenersi da accuse affrettate concedendosi prima una salutare pausa di riflessione.

Come mai la tolleranza può tollerare accanto a sé l'intolleranza? A parte l'autorità scritturistica, la risposta starà forse nella natura della tolleranza stessa. Dato che l'agire umano riceve la sua determinazione dall'oggetto (fine), occorre chiedersi quale sia la materia in cui si esercita la suddetta sopportazione. Ciò che si tollera non è un bene, un valore autentico, bensì un male, un qualcosa di pesante e di insopportabile in sé. Elevare alle stelle la tolleranza e condannare altrettanto perentoriamente la intolleranza suppone l'oblio dell'oggetto, spiegabile, certo, nell'attuale clima soggettivistico, ma imperdonabile in chiunque voglia affrontare la questione con spirito autenticamente critico.

Proviamo anzitutto ad esaminare l'atteggiamento, la forma mentis, dell'uomo tollerante a livello individuale. Come abbiamo visto, si tratta di pazienza e la pazienza è "la virtù dei forti", perché appartiene alla virtù cardinale della fortezza. Essere moralmente forti significa non abbandonare il bene onesto a causa di un timore riguardante qualche danno nell'ambito dei beni utili. Tra l'altro si tratta anche di conservare la pace d'animo dinanzi a dispiaceri di ogni tipo il che richiede una certa grandezza spirituale (magnanimità) che non bada alle piccole faccende più o meno piacevoli dell'esistenza, ma le supera largamente attendendo unicamente a qualche grande e nobile scopo che un uomo si propone di realizzare nella sua vita. Non sorprende allora l'aggancio paolino della pazienza alla carità se si pensa che quest'ultima unisce l'anima a Dio, fine ultimo soprannaturale della vita umana. Similmente è agevole scorgere nell'"anima paziente o tollerante" un certo distacco da desideri e piaceri più immediati, una certa disposizione "liberale" dell'anima che conferisce all'uomo che la possiede un'indefinibile, ma spiritualmente intuibile, grandezza e sublimità interiore. Ma il tollerante non è solo libero in se stesso, riesce anche a circondare di un clima di libertà H suo prossimo, è disposto alla benevolenza, perché possiede il senso della libertà altrui il che altro non è se non H rispetto, condizione e compimento di ogni buona amicizia.

Sembra facile allora, basta essere tolleranti e il gioco è fatto. Ma, come generalmente accade, anche qui la via più ovvia e semplice conduce, se non alla perdizione, almeno all'inganno. Di fatto il magnanimo non insiste sulle piccolezze, cioè sulla maggior parte delle vicende umane, ma risulta inamovibile su quelle poche cose che sole contano per lui. Il benevolo rispetta certo l'amico, ma rispetta più ancora quel bene superiore che, se condiviso, si pone a fondamento dell'amicizia stessa. Paradossalmente si potrebbe dire che l'intolleranza riguardo ad alcune realtà basilari condiziona e rende possibile proprio la tolleranza autentica riguardo a tante altre realtà derivate e secondarie. Ciò risulta più chiaro se si fa attenzione all'essenza stessa della libertà che consiste nel dominio delle proprie scelte. Scegliere infatti equivale a disporre dei mezzi al fine e proprio perché chi sceglie vuole determinatamente un fine, è in grado di sottomettergli i mezzi che conducono al suo raggiungimento. Qualcosa di analogo si verifica anche nell'intelligenza: solo l'evidenza dei principi permette di raggiungere molteplici conclusioni. In entrambi i casi, quello intellettuale e quello morale, la cosiddetta "apertura mentale" poggia saldamente su una decisa adesione al vero e al bene. Al contrario menti "aperte" a livello di principi risultano alquanto ottuse, grette, litigiose ecc., sul piano di conseguenze pratiche. Porre poi il limite alla libertà, dopo aver "liberato" l'uomo da Dio, nella persona altrui, come ci si perita l'illuminismo francese, non dà nessuna garanzia che la libertà suddetta non si trasformi in "furia, distruttrice" in quanto non basta dichiarare che il prossimo è da rispettare, occorre anche farne valere il motivo e la norma morale regolatrice. Di fatto, di quale disposizione meschina e tirannica sia l'anima dei cosiddetti "libertini", lo sa chiunque li abbia minimamente esaminati dal punto di vista psicologico. La libertà correttamente intesa, posta cioè nell'ambito dei mezzi e radicata nella adesione ai fini, non solo non esclude, ma richiede ed esige l'obbligo di migliorare se stessi: "Felix necessitas est quae in meliora compellit" (S. Agostino). Perciò non si vede quale utilità in vista della tolleranza vera potrebbe arrecare alla Chiesa l'abbandono "del concetto tradizionale agostiniano cosiddetto "positivo" della libertà", del quale si vuole negare l'appartenenza al corpo dogmatico della Chiesa, mentre di fatto affonda le sue radici nelle stesse divine Scritture.

La tolleranza o sopportazione del male non può essere nulla di assoluto, dato che il male è talvolta, certo, da subire, ma altre volte è da aggredire e da togliere di mezzo. Eccessiva tolleranza diventa permissivismo, come un'esagerata intolleranza porta alla tirannide. Entrambi gli estremi poi sono più vicini tra loro di quanto comunemente non si pensi. La soluzione, attenta a salvare il mondo ossia la natura umana, dovrà dunque porsi non semplicemente al di là, ma al di sopra della alternativa "tolleranza-intolleranza", impresa che sarà ben riuscita solo se si saprà relativizzare quest'ultimo binomio, cosa tuttavia tutt'altro che facile in una mentalità che, dimentica degli oggetti, bada solo ad atteggiamenti soggettivi. Di fatto la tolleranza si relativizza solo se la si restringe all'ambito che le spetta, quello cioè del soggetto, mentre l'intolleranza al contrario viene incontro alle leggi e alle esigenze dell'oggetto.

Ancora una volta occorre guardare al principio stesso dell'agire umano. Di nuovo appare il rapporto soggetto (azione libera) -oggetto (bene morale che le è dovuto). In ciò sta l'essenza stessa della moralità. In una simile relazione l'oggetto è (moralmente) dovuto e quindi crea attorno a sé come un'esigenza di intolleranza, al contrario l'azione procedente dal soggetto operante è (psicologicamente parlando) libera creando attorno a sé come un'atmosfera di postulata tolleranza.

Nell'etica dunque libertà e dovere si appartengono a vicenda e similmente la tolleranza richiesta dal soggetto e limitata ad esso non potrà togliere di mezzo quella lodevole intolleranza con cui il dover essere richiama perentoriamente i suoi diritti. Da ciò appare come neppure tra la relatività della tolleranza e quella dell'intolleranza vige perfetta parità, infatti l'oggetto si costituisce come misura e regola del soggetto il quale gli si sottomette, dimodoché l'intolleranza, a condizione che si eserciti attorno ad un oggetto buono, sarà a sua volta buona se ulteriormente moderata dalla prudenza, la tolleranza invece si fa avanti dalla parte di un soggetto libero che tuttavia non si è realizzato a dovere: se l'uomo liberamente aderisce al bene, è assurdo parlare di tolleranza, questa si esercita nei riguardi di uno che nell'espressione della sua libertà difetta dal realizzare il valore morale dovuto, così che "tolleranza" sensu stricto è due volte relativa, sia in quanto confinata alla sfera della libertà soggettiva, sia in quanto realmente urgente.

Dato che ogni seria etica sociale parte dal dato incontrovertibile che è l'individuo il fondamento della socialità, la quale dunque non è una specie di sostanza a se stante né tanto meno un mostruoso automaton la cui dialettica passa sopra le nostre teste e, se occorre, sopra i nostri cadaveri, era necessario esaminare l'essenza della tolleranza anzitutto sul piano della singola persona, soggetto di moralità. Ciò non toglie tuttavia che la prima e privilegiata applicazione della tolleranza (o intolleranza) si verifichi proprio sul piano dei complicati rapporti sociali non solo degli individui tra loro, ma anche e soprattutto nella relazione reciproca del singolo alla comunità e viceversa. Tale delicato ordine del singolo cittadino alla moltitudine politica non è dovuto al caso, né a circostanze storiche, né a iniziative contrattuali ma ancora una volta alla natura. immutabile in sé, il che non vuol dire inerte o inattiva, che nell'uomo è sociale in se stessa.

Duplice è il fondamento della tendenza naturale alla vita sociale, uno è legato all'amore detto di concupiscenza e consiste nella necessità di lasciarci aiutare dai nostri simili, l'altro invece scaturisce dalla naturale benevolenza o amicizia che ogni essere umano prova, salvo eccezioni patologiche, per il suo prossimo, quella benevolenza che si compiace nel fare del bene agli altri e, si capisce, con la dovuta discrezione, lo desidera spontaneamente. In tal modo l'unione di molti individui diventa società in virtù di un ordine al fine sociale che è l'amicizia politica, un bene condiviso da tutti, ma anche superiore a tutti, perché mentre è di tutti insieme, non è, essenzialmente di nessuno in particolare, anche se, e ciò è di capitale importanza, per partecipazione torna a vantaggio di ciascuno: si tratta del noto "bonum commune omnium" di tomistica memoria. Siccome poi tale bene, com'è ovvio, supera ogni individuo, il singolo gli è organicamente sottomesso, il che potrebbe far pensare ad una concezione totalitaristica, senonché l'individuo, sottomesso al bene della società tutto, non lo è però totalmente, vi è insomma in lui una dimensione, quella del bene morale appunto, che, lungi dall'essere un mezzo rispetto alla società, è, anzi, il fine di quest'ultima. San Tommaso ama distinguere due tipi di bene comune, uno immanente che è la pace sociale intrinseca al corpo politico, l'altro, più alto ancora, trascendente, che è la piena realizzazione morale dell'uomo, il conseguimento della sua beatitudine, del fine ultimo della sua vita. E' noto come l'etica sociale della Chiesa poggi sul duplice principio di solidarietà e di sussidiarietà: ebbene, il primo esprime appunto la sottomissione del singolo al bene comune, l'altro esprime invece il rispetto dovuto dalla parte della collettività alle entità minori, e, in ultima analisi, ai singoli individui che vivono in essa. Anche qui è agevole vedere come intolleranza (adesione al bene comune) e tolleranza (rispetto dell'individualità), lungi dall'escludersi a vicenda, si postulino l'un l'altro. E una verità facilmente constatabile che grandi società poggiano su grandi individualità e che grandi uomini trovano il loro ambiente connaturale in società idealmente affascinate che servono con amorevole dedizione.

Ciò che interessa in particolare è appunto quel bene, squisitamente appartenente al "bonum commune omnium", che abbiamo chiamato con un termine a prima vista enigmatico "società idealmente affascinata". Si tratta di una realtà delicatissima, che capita alle grandi nazioni in momenti fortunati della loro storia, e che comunemente viene detta "cultura". L'inflazione attuale di tale parola costituisce un signum mali ominis, perché solo culture decadenti amano parlare troppo di cultura, quelle che l'hanno per così dire "nel sangue" la vivono quasi inavvertitamente. Una lettura anche superficiale di O. Spengler, dal quale si può dissentire su tanti punti, ma al quale non si può onestamente negare il merito di aver affrontato con profonda intuizione ciò che egli stesso chiama "morfologia delle culture", convince subito d'un fatto basilare: non c'è cultura dove un popolo non condivide un patrimonio spirituale, ideale, e, in ultima analisi, religioso. Può dispiacere ai cosiddetti laici (o laicisti), ma le religioni sono levatrici e nutrici di tutti i popoli culturali. In tali epoche "di grazia" nella vita di una nazione è superfluo e fuorviante parlare in termini di tolleranza-intolleranza: tutti la pensano, in un certo senso ovviamente, intelligentibus pauca, allo stesso modo, ma tutti la pensano così, ed ecco la meraviglia, spontaneamente e senza costrizioni. Le nazioni culturali non sono quindi né intolleranti né tolleranti in se stesse, semmai lo sono rispetto a coloro che non ne fanno parte.

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Il rapporto individuo-società è anzitutto questione di giustizia ossia di diritto-dovere. L'uomo è per natura soggetto di diritto, perché in virtù della sua dimensione spirituale emerge dal mondo circostante, non è posseduto, ma possiede. Nel contempo tuttavia il singolo, dominatore delle cose in particolare, è sottomesso, non già alle cose, ma al bene comune e globale della società di cui fa parte. Ciò si esprime chiaramente nel diritto fondamentale alla proprietà privata che San Tommaso concepisce come una facoltà di acquisire e di dispensare, mentre nota che l'uso dei beni è per natura comune, non certo nel senso che tutti usano indiscriminatamente di tutto, ma nel senso che il benessere del singolo deve ordinata a quello della collettività. Similmente il singolo gode in sé di diritti inalienabili che la società non può che approvare, ma nel contempo ha anche precisi doveri nei riguardi di quest'ultima. Ciò vuol dire che ogni società correttamente ordinata consiste in un regime di libertà o, meglio, per non equivocare su un termine assai compromesso, di rispetto dell'individuo, ma anche in un insieme di istituzioni che ordinano il singolo al bene di tutti e qui non c'è da pensare al fisco od altro, perché il bene comune più che nel reddito nazionale consiste in beni di altro genere e di altro livello, in quel patrimonio spirituale che il singolo si trova innanzi e nei riguardi del quale deve avvertire il preciso obbligo di amministrarlo con saggezza e non di sperperarlo con stolto disprezzo.

T. Todorov propone una certa (e molto giusta) asimmetria tra tolleranza ed intolleranza, ma usa purtroppo i termini illuministici di libertà e di uguaglianza affermando la necessità di limitare la prima e di stabilire incondizionatamente la seconda. Non è la libertà da limitare, ma la tolleranza, in quanto libertà è scelta sovrana indirizzata al bene, mentre tolleranza è sopportazione del male ed è chiaro che il dominio del proprio agire è già in sé moderato dall'indirizzo finalistico buono (se così non è, la libertà si realizza psicologicamente, ma fallisce moralmente, e non è più libertà in senso pieno), la sopportazione del male invece ha, sì, dei precisi limiti dettati dalla prudenza politica ed esteriormente imposti. L'uguaglianza poi non è certo quel valore assoluto per il quale la si vorrebbe far passare 0, almeno, c'è bisogno di chiarimento: l'unica uguaglianza vera è quella di tipo metafisicoetico, in quanto la natura umana non ammette variazioni di grado, o c'è o non c'è, ma non c'è più o meno, la quale poi si esprime nell'uguaglianza davanti alla legge, ma la legge positiva, se è, saggia, sa già distinguere all'interno del suo ordinamento tra situazioni sociali diverse, poiché ed è qui il grande inganno dell'illuminismo - sul piano sociale l'uguaglianza è più un anti-valore che un valore, anzi, di essa vale proprio il detto summum jus, summa injuria. Pretendere che tutti siano ugualmente forti, sani, sensibili, intelligenti, raffinati nei gusti ecc. è contro natura e, se imposto per vie di "utopia realizzata", genera violenza e per di più violenza ingiusta. A livello sociale-politico occorrerebbe piuttosto vedere la duplice linea ascendente di solidarietà del soggetto con il bene comune (valore di obbligo, dovere, fondato sulla giustizia legale) e quella discendente di sussidiarietà che collega la collettività all'individuo da rispettare e da proteggere nel contempo (valore di libertà, diritto, fondato sulla giustizia distributiva). Solo quando i due movimenti entrano in collisione (come accade in tempi di crisi culturale), entra in scena l'intolleranza che richiama il singolo a rispettare il patrimonio spirituale comune e la tolleranza proclamata dinanzi alle istituzioni dalla parte di privati cittadini che non ne condividono più l'impostazione.

I valori trascendentali sono in sé immutabili, eppure l'approccio dell'uomo e delle nazioni ad essi è storico dimodoché ogni cultura esprime temporalmente (e purtroppo anche temporaneamente) un riflesso stupendo dell'oggettivo ed eterno Vero, Bene e Bello. Tali Idee (per usare H linguaggio del grande Platone), senza le quali muoiono le anime e intere popolazioni, prive di veri profeti, periscono, hanno dei diritti che i loro opposti, anche se appoggiati da una massa ormai assiologicamente svincolata, non potranno mai reclamare; e su tali cose, inutile dirlo, non si decide in plebisciti, anzi, il solo tentativo di farlo è prova eloquente che se ne è persa la sensibilità.

Innanzitutto va accuratamente distinta la religione dalla fede: entrambe obbligano moralmente l'uomo nei riguardi di Dio, ma su piani ben diversi, in quanto la prima fa parte della stessa natura umana, l'altra invece è dono soprannaturale e gratuito, ma, si badi bene, comunemente obbligante (seppure in gradi diversi a seconda della consapevolezza più o meno esplicita del dato rivelato) perché universalmente proposto a tutti da Dio in Cristo, Signore e Salvatore nostro. Una società apostata dalla fede perde un bene più sublime, una collettività irreligiosa (empia) perde un bene più fondamentale. Eppure, al di là della doverosa distinzione, sta il fatto che la fede, proprio perché soprannaturale, suppone ed afferra la natura con la sua dimensione religiosa così che, nel nostro contesto culturale, perdere l'una significa perdere l'altra e viceversa. E si faccia ben attenzione - a chi molto è stato dato, sarà richiesto molto di più - un popolo con semplice religione può ancora trovare la fede, ma un popolo che assieme alla sua fede perde anche la sua religione si priva della sua anima stessa.

Dare il dovuto culto a Dio e, a rivelazione avvenuta e proclamata, credere il Suo mistero, costituiscono precisi doveri obiettivi, ma si tratta, com'è ovvio, di doveri di ordine morale, tali cioè che obblighino ad una adesione soggettivamente libera e convinta. E' inutile voler togliere di mezzo tale imprescindibile diritto di Dio sull'uomo invocando, secondo la solita e per dir la verità un po' noiosa antifona, i "tempi cambiati" (cambiati poi in che senso? Moralmente certo non in meglio!). E recente la chiara e precisa condanna del card. Ratzinger di quei tentativi che vorrebbero dividere la storia della Chiesa in fantomatiche epoche pre e post-conciliari. In questa luce (che ogni cristiano soprannaturalmente credente avverte col sensus fidei) è per dir poco allucinante (espressione di gergo giornalistico e di scarsa eleganza, ma che qui trova il suo posto giusto) parlare di "mutamenti" nella Chiesa riguardo a temi così basilari quali quelli della Rivelazione e di errori dottrinali invocando persino l'autorità di Giovanni XXIII, come fa G. Alberigo citando un brano del discorso inaugurale del Concilio Ecumenico Vaticano II che basta leggere per esteso (cf. Enchiridion Vaticanum, vol. 1, Bologna - ed. Dehoniane 1976/10, p. 45, n. 55) per accorgersi che il rimpianto Pontefice, mentre auspica formule pastorali, non solo non annulla (e come potrebbe?!) quelle dottrinali, ma esplicitamente esige l'adeguamento di quelle a queste, come pure rinuncia, sì, alle condanne, ma non perché non siano più valide, bensì per il motivo della loro superfluità data la maturità dottrinale dei cristiani (sicché ciò che cambia non è la dottrina, ma le circostanze storiche in cui essa viene annunciata, anche se, su quest'ultimo punto, l'ottimismo di Giovanni XXIII fu "crudelmente deluso" secondo l'espressione dello stesso card. Ratzinger). Lo stesso dicasi dell'esigenza espressa da L. Kolakowski di reinterpretare il principio "extra Ecclesiam nulla salus", mentre di fatto, quando tale principio era ancora in via di dogmatica elaborazione e fissazione. San Tommaso conosce già l'espressione "Deus non alligavit misericordiam suam sacramentis". L'obbligo di onorare Dio e di sottomettersi alla sua parola non cambia con il mutare dei tempi e non è dalla storia, bensì dall'essenza delle norme morali che ci si può e ci si deve aspettare un'equa soluzione del problema.

Abbiamo già avuto modo ci constatare che la cultura di un popolo è sempre piena di riferimenti a concezioni decisamente religiose. Così era anche per la Cristianità europea in cui la fede diede l'anima a interi popoli che si riconoscevano fratelli in Cristo formando tra loro una vera e propria res publica christiana. Le eresie sovvertitrici della fede e della cultura, nel contempo (basta pensare alla furia iconoelastica, dei vari settari di estrazione pauperistica) disturbavano, ma non potevano danneggiare tale unità religiosa ed istituzionale. Un mutamento decisivo, un crollo della suddetta coesione spirituale, avvenne solo all'epoca della Riforma dove non più movimenti più o meno esagitati, ma intere nazioni si allontanavano dall'unità cattolica. Ed è allora e solo allora che emerse da un lato l'intolleranza (il tentativo di dare alla società l'uno o l'altro indirizzo religioso), ma dall'altro si fece avanti anche la tolleranza (là dove una consistente minoranza non poteva essere né convertita né sottomessa, essa era appunto "sopportata"). E' innegabile merito di A. Prosperi aver messo in luce questo stato di cose.

In tali circostanze che perdurano tuttora, anche se l'apostasia nel frattempo ha mietuto ben più vittime, assunto volti ben più mostruosi e il deserto (spirituale) si è accresciuto a dismisura, giova ricordare ancora una volta con N. Bobbio che se la tolleranza ha le sue ragioni, l'intolleranza non è priva delle sue. E infatti fuori dubbio che le istituzioni dello Stato devono educare i cittadini alla virtù (il fatto che vi abbiano rinunciato già da un bel po' non cambia nulla alla verità di questa asserzione) il che comporta anche spronarli a mantenersi fedeli ai principi religiosi ereditati dai padri. E la Gaudium et spes che imperterrita insegna la necessità, eloquentemente ribadita dal regnante Pontefice nel suo recente discorso a Loreto, di iscrivere la legge di Cristo nelle istituzioni dello Stato. La distinzione del livello naturale da quello soprannaturale esige giustamente che la religione rispetti l'autonomia della vita politica (che appartiene all'ordine morale naturale), ma la decadenza dell'umanità in seguito al peccato originale vuole anche che la vita sociale si ispiri ai principi della religione rivelata che sola è in grado di elargire ai singoli e alle collettività la medicina della gratia sanans.

Ma che dire di coloro che non vogliono né credere né lodare Dio? Ebbene, costoro vanno anzitutto invitati a correggersi, se poi, data l'iniquitas temporum, non ci riescono, vanno tollerati, ma non elogiati, vanno rispettati, ma solo come persone che onestamente cercano la verità e non già in quanto non la trovano. D'altra parte è proprio così che si configura l'esigenza della carità secondo la dottrina tomistica: amare il prossimo in vista di Dio o perché è già in Dio o affinché, se sfortunatamente non lo è ancora, lo sia al più presto con una scelta libera, matura, convinta. Quanto poi alla tolleranza elevata a principio, assolutizzata, vantata come pluralismo e larghezza di vedute, è facile accorgersi in base all'esperienza stessa come essa educhi all'indifferentismo, al relativismo e, in ultima analisi, all'immoralità poiché infatti la moralità e l'integrità sono un tutt'uno: per essere buoni occorre essere integri, per essere cattivi basta il "pluralismo" di valori fabbricati ad hoc secondo il proprio comodo: bonum ex causa integra, malum ex quocumque defectu. E tale tolleranza assoluta, dove è possibile, andrebbe emendata, dove nemmeno ciò risulta sfortunatamente realizzabile va tollerata, ma tollerata proprio come uno dei mali più gravi che possano capitare ad un popolo ricco di tradizione e di cultura.

P. Thomas M. Tyn O.P.

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L'UOMO E LA FEDE
Il pensiero del cristiano è privo di razionalità? Il fideismo tende a ciò, il laicismo ne fa un capo d'accusa. Eppure la fede è una attività dell'uomo


Uno degli equivoci più incresciosi e più dannosi parimenti alla filosofia e alla fede cristiana consiste nel non saper accuratamente distinguere tra il naturale e il soprannaturale nell'ambito del conoscere nel quale la suddetta distinzione coincide con quella tra ragione e fede, tra filosofia e teologia. S. Tommaso dichiara senza mezzi termini il suo punto di vista: "Necessarium fuit, ad humanam salutem, esse doctrinam quamdam secundum revelationem divinam, praeter philosophicas disciplinas, quae ratione humana investigantur" (1, 1, 1 c). La teologia, la sacra dottrina, si ispira alla luce soprannaturale della divina rivelazione e perciò si colloca al di là (praeter) delle discipline filosofiche che affidano la loro indagine alla sola ragione.

Contro questa netta distinzione che vede i due ambiti separati nella diversità del loro oggetto cosiddetto formale ovvero dell'approccio intellettivo alla conoscenza del vero, ma anche coordinati e complementari reciprocamente e sempre amici nella coerenza della verità, poiché, se non tutto ciò che è coerente (non-contraddittorio) è vero, certamente tutto ciò che è vero è invece coerente e vicendevolmente non ripugnante, si oppone un duplice errore. Uno è quello del fideismo, l'altro, opposto nelle motivazioni, ma identico nei contenuti, è quello del laicismo. Entrambi dichiarano che il pensiero del cristiano non può che essere un pensiero cristiano che poggia sul mero "rischio della fede), ed è perciò privo di qualsivoglia razionalità naturale solo che il fideismo se ne rallegra dichiarando che se un cristiano pensasse diversamente, cioè in chiave puramente filosofica e naturale, cadrebbe nell'idolatria della ragione (basta pensare all'opposizione, di pascaliana memoria, tra il Dio dei Patriarchi e il Dio dei filosofi) mentre il laicismo ne fa un capo d'accusa contro il cristianesimo parlando d'un pensiero plagiato in partenza da un ché di irrazionale e di storicamente e "dogmaticamente" condizionato.

Questo stato di cose costituisce una vera e propria piaga della cultura moderna che si scinde in una razionalità riduttiva da una parte e in un fallimentare tentativo di ricuperare le idee metafisiche (Dio, anima ecc .) sul piano dell'irrazionale dall'altra parte. Lo si trova facilmente in Kant, padre della modernità, il quale dichiara illegittima ogni metafisica speculativa affidandone poi i contenuti alla morale pratica e pensando molto ingenuamente, che così essi continuano ad essere razionali e per giunta al riparo da eventuali attacchi degli scettici. Di fatto la metafisica, appena estromessa dal suo ambito proprio, ovvero razionale e speculativo, fu distrutta e la trascendenza fu affidata al più bizzarro arbitrio di sentimenti più o meno edificanti. 2 un fatto che potrebbe sorprendere, eppure è innegabile, che cioè l'illuminismo razionalistico è il più grande fautore non solo dell'ateismo, ma anche della superstizione più primitiva e ributtante.

Identificando filosofia e kantismo e scordandosi ogni istanza critica nel momento stesso in cui solennemente la proclamano, i laicisti riducono la filosofia al fenomenismo e all'immanentismo, il che li induce a pensare che ogni anelito al trascendente che osasse apparire nel pensiero razionale sia già un contenuto dipendente da convinzioni religiose se non addirittura dall'"inganno dei preti". Ma se così fosse, Platone non sarebbe filosofo perché a differenza dei sofisti egli vede in Dio e non nell'uomo la misura di tutte le cose e non lo sarebbe nemmeno Aristotele, il quale definisce la metafisica senza mezzi termini come disciplina teologica,, in quanto il suo sommo oggetto non può essere che Dio. Certo, negare che ci sia religione naturale e che il pensiero umano può e deve pensare Dio, è sfortunatamente ancora "filosofia", ma pessima filosofia come lo fu la sofistica in tutta la sua hybris antropocentrica ed implicitamente atea contrapposta al messaggio socratico tutto vibrante di una tanto sentita quanto ragionata religiosità.

I fideisti pensano di difendere la religione dagli attacchi dei laicisti concedendo loro proprio ciò che costituisce il loro cavallo di battaglia: l'impossibilità d'una religione naturale e di una metafisica (teologia) razionale. Essi sono convinti che il razionalismo va combattuto non in ciò in cui pecca, ovvero nell'esclusione della religione e del soprannaturale, bensì in ciò che esso ha di buono, nella affermazione della ragione. Orbene, è sempre cattiva teologia quella che per difendere la fede ha bisogno di prendersela con la ragione. 1 fideisti dunque sono d'accordo coi razionalisti che la metafisica è già sotto l'influsso della fede, ma si limitano a rinfacciare loro che in fondo non c'è filosofia che non sia già sotto l'influsso di qualche "fede,,, vera o falsa che essa sia.

Con questa affermazione si sbarra ogni strada verso una filosofia razionale: il pensiero più alto, la sapienza, altro non sarebbe che un'estrinsecazione di condizioni culturali nelle quali si vive. Sono davvero pochi i temi nei quali la metafisica classica può trovarsi d'accordo con il criticismo kantiano, ma uno di essi è decisamente quello della netta distinzione tra epistemologia e psicologia. Nessuno nega l'ovvia constatazione che l'atto cognitivo ha anche una componente psicologica, ma si ribadisce che la psicologia non è per nulla in grado di spiegare tutto il conoscere, anzi, proprio la natura, l'essenza del conoscere, non è afferrabile da essa. La differenza concerne l'universale e il particolare in quanto l'apporto psicologico è sempre singolare, valido o per un individuo o per un gruppo, ma mai accettabile da tutti, mentre la natura stessa del conoscere, così come si costituisce oggetto dell'epistemologia (gnoseologia), è universalmente valida, così che tutti dovrebbero riconoscerne i contenuti purché sufficientemente pensati o meditati. Kant ripudiò la metafisica proprio perché secondo il suo punto di vista non fondava sufficientemente la caratteristica dell'universalità e dì necessità nell'a priori del soggetto pensante. Di fatto la scienza e la metafisica sono conoscenze razionali e come tali devono presentare le caratteristiche di universalità solo che, mentre la fisica, data la povertà ontologica del suo oggetto, facilmente giunge a tale mèta, nella sapienza filosofica l'ideale sarà sempre presente, ma mai perfettamente raggiunto ed anche le sue parziali realizzazioni saranno dovute non già a modelli teorici più o meno applicabili ai fenomeni, bensì a ragionamenti che pensano un oggetto come già almeno implicitamente presente alla mente del pensatore (non però come un a priori, ma come un oggetto realtà).

Il fideismo non imperversa però solo nella teologia, perché il suo parallelo filosofico, lo psicologismo, devasta la speculazione razionale non meno rovinosamente. Perciò la constatazione che, in fondo, se la teologia può influire sul pensiero cristiano, a sua volta ogni umana filosofia contiene parimenti il suo condizionamento psicologico (storico, culturale), costituisce davvero una magra consolazione. Di fatto ritenere che la sapienza non può nemmeno essere partecipe del rigore razionale e della validità universale equivale alla distruzione e della rivelazione che deriverebbe tale e quale da stati psichici, tesi fin troppo ovviamente modernistica, e del pensiero filosofico che si limiterebbe ad esplicitare delle originarie intuizioni poetiche (Heidegger) che saranno belle finché si vuole, ma vere solo hic et nunc e per tale individuale soggetto ossia non sono, alla fine dei conti, vere affatto.

S. Tommaso, e la Chiesa su questo punto fece largamente suo il pensiero del Dottore Comune, proclama la distinzione delle discipline razionali -sia scientifiche che sapienziali - le quali entrambe, seppure in modi diversi, sono razionali, naturali ed universali da una parte e, dall'altra, della conoscenza soprannaturale che poggia sulla divina rivelazione e su un assenso dell'umano intelletto premosso dalla volontà (amore della verità rivelata) e dalla grazia attuale. Ed è solo rimanendo bene consistente in se stessa che la natura può dare testimonianza alla fede e similmente mantenendo la propria indipendente intellettualità naturale la filosofia potrà servire da buona ancella la teologia il che, come si vede, rivela che la tanto malintesa frase "philosophia ancilla theologiae" non solo non diminuisce la dignità della filosofia, ma addirittura ne postula la reale indipendenza. Ed in verità non vi è migliore aiuto al razionalismo immanentistico, tendenzialmente ateo, di quello datogli dal suo apparente avversario che è il fideismo irrazionale - se tutto fosse fede, la fede stessa potrebbe anche essere pura opinione, ma, siccome Dio obiettivamente è, e la ragione da sé, antecedentemente all'assenso di fede, lo riconosce tale, la Sua parola sarà a sua volta altrettanto obiettiva e reale. Se Dio esiste solo perché si crede in Lui, la stessa fede sarà priva di un fondamento nell'essere e risulterà opera del solo pensiero, edificante finché si vuole, ma solo soggettivo e al limite arbitrario. E allora avrà ragione Feuerbach a dire che in tal caso non l'uomo è opera di Dio, largitore di essere, ma al contrario Dio è opera dell'uomo elucubratore di ideali o, come direbbe Kant, costruttore di castelli in aria. Una teologia che disprezza la ragione non può che essere cattiva teologia e una fede che pensa di poter prescindere dalla natura intellettiva dell'uomo, aperta alla realtà dell'ente, di fatto distrugge se stessa. La fede suppone la ragione e la rivelazione soprannaturale suppone la certezza razionale naturale che Dio esiste e che può comunicarsi all'uomo.

Passiamo ora ad esaminare i diversi significati del termine "filosofia cristiana" per vedere se ce n'è uno che rispetti la ragione nella sua indipendenza e rispettandola rispetti anche la fede cristiana stessa perché, secondo quanto è emerso sinora, non si rispetta la fede nella sua reale obiettività se non si rispetta la ragione nella sua reale indipendenza dalla fede. Anzitutto si potrebbe intendere per filosofia cristiana una riflessione razionale sullo stesso dato di fede, ma in tal caso non si avrebbe più una filosofia bensì precisamente una teologia, giacché la differenza tra le due discipline consiste proprio nel fatto che, mentre la prima procede da principi naturali e naturalmente conosciuti, l'altra appoggia la sua ricerca sul dato soprannaturalmente rivelato da Dio e altrettanto soprannaturalmente creduto dall'uomo. Non si può trattare nemmeno di un pensiero positivamente influenzato dalla fede cristiana, perché in tal caso si avrebbe sempre una ricerca teologica almeno in quelle parti di essa che sottostanno all'influsso diretto della fede. Non si può trattare nemmeno, secondo la moda esistenzialistica che in teologia corrisponde al neomodernismo, di una riflessione che porta l'uomo alla coscienza del bisogno di ricevere una rivelazione soprannaturale, perché in tal caso l'ordine della grazia non sarebbe più di grazia, ovvero gratuito, ma entrerebbe a far parte delle esigenze stesse della natura che si comprende come radicalmente insufficiente in sé e inoltre una simile conclusione sarebbe falsa anche nello stesso ordine naturale, in quanto non tiene debitamente conto della sua consistenza e indipendenza propria. Né si può trattare della semplice ricezione della filosofia platonica, aristotelica e neo-platonica nell'ambito del cristianesimo che corrisponde ad un momento storico molto limitato e non risponde per conseguenza alla domanda globale sulla filosofia cristiana in sé; inoltre i padri della Chiesa che accolsero tale eredità erano formalmente teologi e non filosofi. Che poi vi sia una "teologia" che pretende di fare a meno della filosofia non costituisce nulla di strano, solo che si tratta in tal caso di una teologia mentalmente immatura, rozza e primitiva, in breve, settaria, o di un'elaborazione in chiave razionalistica scientistica delle fonti della rivelazione che non è teologia né filosofia, ma, semmai, un'interpretazione scientifica dei testi.

Da tutto ciò appare con chiarezza che ogni pensiero influenzato dalla fede non può dirsi filosofia cristiana per la semplice ragione che è cristiano, sì, ma non filosofico, bensì teologico. Ma non basta nemmeno dire che la filosofia cristiana consiste in una ricerca razionale compatibile con la fede o aperta alla fede nel senso, che solo è corretto, della non-contraddittorietà rispetto alla fede. E questo per la semplice ragione che tale caratteristica spetta alla filosofia senza varcarne i limiti naturali, ma non costituisce nulla di specificamente cristiano. Infatti, il non contraddire la rivelazione compete alla filosofia non perché cristiana, ma perché vera nel suo stesso ordine naturale e razionale. La verità non è mai contraddittoria sicché ciò che è vero nell'ordine naturale non può escludere ciò che è vero nell'ordine soprannaturale. Ogni filosofia è compatibile con il cristianesimo in virtù della sua intrinseca verità, la sua non compatibilità con esso è sicuro indice della sua falsità nel suo stesso ambito di filosofia.

Non vogliamo negare che accidentalmente certi temi filosofici possono essere messi maggiormente in evidenza in quanto adoperati nella riflessione teologica (basta citare a titolo di esempio il problema della sussistenza nel contesto cristologico), ma con ciò essi non cessano di essere per sé sempre filosofici, accessibili alla sola ragione naturale indipendentemente dalla fede. In conclusione ci resta solo questo da dire: la filosofia cristiana è un malinteso, esiste solo filosofia di cristiani e ci auguriamo che molti cristiani si dedichino alla filosofia, perché la filosofia, purché veramente tale, dà testimonianza alla fede non dipendendo dalla fede o confondendosi con essa, ma spingendosi nella sua più alta speculazione all'affermazione dell'esistenza obiettiva e necessaria del Dio personale la cui Rivelazione studiata dalla teologia riceve così una garanzia imparzialmente attestata di obiettività e di intelligibilità.

P. Thomas M. Tyn O.P.


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03/09/2009 12:14


I limiti della vita
(questo saggio è stato scritto prima della pubblicazione
dell'enciclica Evangelium vitae e del Catechismo universale della Chiesa Cattolica, N.d.R.)


Un principio valido per la ragione e per la fede è quello secondo il quale la vita umana, la sopravvivenza biologica non è né potrà mai essere il fine ultimo dell'uomo

Potrebbe sembrare alquanto strano, se non addirittura contraddittorio, parlare di valori morali limitati, giacché per la loro stessa natura i contenuti delle norme morali comportano una certa quale assolutezza che li esime da qualsivoglia limite. Essi sono sempre e comunque da cercare, da realizzare, da affermare, da difendere. Orbene la limitazione non è da intendersi del valore morale in sé, bensì della sua applicazione universale ai soggetti umani. In altre parole, sosteniamo che il diritto alla vita non compete all'uomo in virtù del suo essere umano fisicamente considerato, bensì tramite il suo essere ben più profondo e ben più specificamente umano ch'è quello morale. Il diritto alla vita rimane un valore imprescindibile ed assoluto, ma non tutti gli esseri umani hanno sempre e comunque diritto alla vita, si danno dei casi nei quali il diritto può essere perso e di fatto è perso. Là dove tale diritto vige, esso va osservato scrupolosamente come valore morale e per conseguenza come bene assoluto, ma l'estensione di tale diritto ammette eccezioni e, in questo senso, limitazioni. Se infatti l'uomo possedesse il diritto alla vita come possiede la vita stessa, ovvero fisicamente, allora sì che chiunque ha la vita non potrebbe mai esserne lecitamente privato. In tal caso i soggetti dotati del diritto suddetto sarebbero esattamente tanti quanti sono ì soggetti fisicamente viventi di vita umana. Senonché il diritto alla vita, essendo valore morale e non fisico, non si può legittimamente confondere con la vita stessa che invece, lungi dall'essere un valore morale, non è altro che un bene prettamente ed esclusivamente fisico.

Vi è, nel mondo cattolico e fuori dì esso, chi tende a minimizzare questioni come la liceità della pena di morte o quella della guerra giusta. Contro le inequivocabili prese di posizione del Magistero ecclesiale (DS 795) si suole controbattere che si tratta di verità suscettibili di cangiamento con lo sviluppo della civiltà da costumi più selvaggi e rozzi a leggi di convivenza più umana e raffinata. Si tratterebbe in fondo di questioni del tutto secondarie in quella che di solito si chiama "gerarchia delle verità". Ora, a parte la predilezione, tipicamente modernistica, di quelli tra i figli della Chiesa, che non sono dei più fedeli ed esemplari, a datare ogni pronunciamento magisteriale e a maneggiare la scala delle verità con una disinvoltura che minaccia di trasformarla piuttosto in una graduatoria di bugie sottilmente sfumate, rimane il fatto che nelle soluzioni contrapposte del problema dell'universalità o meno del diritto alla vita si celano due concezioni di etica e di dottrina morale fondamentalmente e radicalmente opposte. Non si tratta di quisquilie modificabili a piacimento, ma di contenuti della legge morale naturale dei quali o si riconosce la portata metafisica, superiore alla fisicità dei fatti biologici e quindi la specificità morale o lì si riduce alla fenomenicità materiale dello stesso dato fisico con conseguenze disastrose per le sorti della moralità ut sic. Basta pensare alla mentalità corrente che scagiona impudentemente l'aborto, mentre con lo stesso fiato denuncia la ferocia barbarica della pena capitale. Ebbene la differenza è proprio qui: tra chi ritiene che il criterio decisivo stia nella linea di demarcazione tra innocente e reo (realtà morali metafisicamente e obiettivamente fondate) e chi invece riduce tutto alla sola diversità, del tutto soggettiva, fenomenica, materialisticamente fisicistica, di un organismo più o meno sviluppato e capace di sopravvivenza autonoma. Vogliamo dire che si tratta di cose serie che implicano al di là dei temi particolari la base stessa della moralità e ribadiamo altresì che in questa materia il magistero della Chiesa non può ammettere arbitrari mutamenti, pena il decadimento totale della stima dì cui esso gode negli stessi tempi nostri. Infatti, se qualche Papa medievale ha sbagliato in una materia così gravosa nel contesto di una solenne dichiarazione, non sì vede perché non potrebbe sbagliare anche il magistero attuale e, se si dice, assai modernisticamente, che l'attualità è comunque un innegabile vantaggio, non si sfugge alla domanda della "durata" di quella effimera attualità (1 anno, 10 anni, 100 anni per i "dogmi" più robusti?). Siamo nel ridicolo. Infine ci sia permesso di premettere che, certo, de gustibus non est disputandum, ma che ciononostante troviamo perlomeno sconcertante quella concezione del progresso che si limita ai soli fatti di civiltà ignorando ottusamente quelli della cultura veramente degna di tal nome - che i chirurghi moderni ammazzano i feti con bisturi sofisticatissimi, mentre il boia medievale mozzava le teste ai delinquenti con scuri rozze segna un innegabile miglioramento dal punto di vista tecnico, ma, per anime che non hanno ancora del tutto perso il senso della moralità, ciò significa un altrettanto innegabile decadimento dal punto di vista umano, perché, se al reo la testa può essere anche talvolta de iure tagliata, non vi è nessuna legittimazione per il massacro di soggetti moralmente e per conseguenza anche giuridicamente del tutto innocenti.

E' nella natura stessa del tema trattato e dei tempi che corrono che con questa presa di posizione non guadagneremo un gran che di simpatie, ma tutto ciò non sarà doloroso più di tanto se avremo la consolazione di rendere qualche modesto, eppure sincero, servizio alla verità conculcata da quell'egoismo di massa che fin troppo facilmente si affermò come una moda pseudointellettuale perfettamente proporzionata all'edonismo dell'ambiente in cui è nato. Rimane comunque una vera curiosità la facilità con cui accuse di arretratezza culturale, bieco fanatismo, sanguinaria crudeltà ecc., vengono lanciate da una sponda che peraltro si propone come modello di tolleranza, pluralismo, dialogo civile e rispettoso delle opinioni altrui ecc. Sarà forse che i temi della vita tagliano nel vivo di un qualcosa che è superiore persino alla vita stessa e ciò anche là dove non se ne ha la piena coscienza.

Un principio di base valido parimenti per la ragione umana e la fede cristiana è quello secondo il quale la vita umana, la sopravvivenza biologica, fisica, non è né mai potrà essere il fine ultimo dell'uomo, né un qualcosa di essenzialmente legato alla realizzazione del fine ultimo suddetto. Cambiare le carte in tavola su questo punto vitale significa trasformare il cristianesimo in un'ideologia formalmente materialistica e implicitamente atea. Non è forse la principale intenzione della religio christiana quella di distogliere la mente umana dalle cose mondane per rivolgerla al mondo trascendente, al mondo dell'al di là, al mondo "a venire"? Ma anche la stessa ragione umana ci persuade che il nostro corpo con tutti i suoi beni compreso quello supremo (sul piano fisico) della vita, è mezzo e non fine. "E' cosa impossibile che di ciò che si ordina ad un altro come al suo fine l'ultimo fine sia la conservazione nell'essere" [San Tommaso, S. Th. 1-11, 2, 5 c.]. Di fatto, è qui il nerbo della questione: mentre il pensiero classico vede nell'uomo umilmente una creatura che trova il suo ultimo fine all'infuori di sé, la sovversione neoterica pone surrettiziamente il fine ultimo dell'uomo nell'uomo stesso divinizzandolo gnosticamente e dichiarandolo in seguito "dio fallito" in modo tale da ripercorrere le strade di quello spirito che da presuntuoso nel voler essere come Dio si fece disperato e triste nel non poter essere come Dio. Siamo dinanzi ad un quesito che può trovare una soluzione solo al di là dell'antropologia, nella metafisica e nella religione rivelata. O l'uomo è fine a se stesso e allora la sua vita è il bene supremo e assoluto e la morte è la sciagura definitiva, il naufragio, la caduta degli dèi, oppure l'uomo non ha l'ultimo senso nella sua sopravvivenza terrena, perché non l'ha nemmeno in se stesso, ma solo al di sopra di se stesso in Dio. E allora tutto cambia, perché il vivere sarà Cristo e il morire un guadagno (cf. Fil 1, 21), saranno da temere non gli uccisori del corpo, ma il giudice dell'anima (cf. Mt 10, 28 e par.), l'amore supremo sarà dare la vita per gli amici (cf. Gv 15, 13).

Orbene, se ragionevolmente e cristianamente si ritiene che la vita sia un mezzo e non un fine, il suo possesso sarà un bene utile e non un bene onesto o morale. Sarà al contrario un bene morale onesto ed assoluto il dovere di rispettare la vita in chi ha diritto alla vita, ma non chiunque dì fatto (fisicamente) possiede la vita avrà anche diritto a possederla indipendentemente dalla sua qualità morale. In particolare la natura stessa della società postula che l'uomo assuma un duplice rapporto verso di essa. Uno di sottomissione in quanto la parte è organicamente subordinata al tutto. Non c'è dubbio che questo aspetto tocca l'uomo nei suoi beni fisici ed utili nell'àmbito dei quali il bene comune supera il bene privato. Dato che la vita costituisce un bene fisico, supremo sì nell'ambito dei beni fisici, ma sempre e solo fisico, la vita umana dovrà essere arrischiata là dove lo richiede il bene della società (ad esempio nella difesa della patria) o anche tolta per sentenza giudiziaria (ad esempio applicando la pena capitale là dove la vita associata non potrebbe svolgersi serenamente lasciando sopravvivere il delinquente). L'altro è il rapporto di subordinazione della società all'uomo che riguarda l'essere umano non nei suoi beni fisici, ma solo in quei beni che lo costituiscono in quanto è uomo ovvero nei beni onesti e morali. La virtù dei cittadini e il conseguimento del loro fine ultimo costituiscono il fine stesso della società. Quest'ultima ha dunque un duplice bene comune - uno immanente che è quello della pacifica convivenza dei cittadini, l'altro trascendente che è il bene morale di ogni cittadino in particolare. In tal modo, se la sopravvivenza fisica del delinquente comporta un prossimo pericolo per la sopravvivenza degli onesti cittadini, lo Stato commette un'ingiustizia lasciando sopravvivere il delinquente pericoloso per la società stessa perché potenziale aggressore al bene morale della sopravvivenza degli innocenti che hanno, questi sì, il diritto imprescindibile alla vita, diritto che la comunità politica deve comunque tutelare. Similmente, se una comunità politica aggredisce l'indipendenza e la sovranità di un'altra, quest'ultima non solo ha il diritto, ma ha altresì il preciso dovere di difendersi, perché la sua difesa non concerne qualche diritto individuale al quale si potrebbe anche lodevolmente rinunciare, ma il diritto dì tutti gli associati che è amministrato ma non posseduto dai governanti. E se il Vangelo ci insegna a porgere l'altra guancia a chi ci percuote (cf. Mt 5, 39), è nella natura stessa della cosa che chi compie quel nobile gesto si premuri di rinunciare ai diritti suoi propri, ma non certo a quelli altrui, che badi, in breve, a porgere la guancia sua e non quella del suo prossimo.

Se la comunità politica può sopprimere la vita di un delinquente privato anche dopo la cessazione dell'atto di aggressione perché la stessa sopravvivenza del criminale costituisce pericolo prossimo per quella dei cittadini onesti (basta pensare a ricatti terroristici, noti a tutti, intenti a costringere le autorità a rilasciare elementi rinchiusi nelle carceri, caso in cui la pena detentiva risulta manifestamente insufficiente, per non parlare dei boss mafiosi che dal carcere ordinano rinnovate stragi, o agli ergastolani "plurimi" che si prestano come killers, perché un ergastolo in più o in meno non fa un gran che di differenza), nel caso di aggressione dalla parte di un'altra nazione sovrana ci si dovrà attenere al principio della difesa commisurata al moderamen inculpatae tutelae. Ci si può difendere, si, ma moderatamente e badando alla gravità dell'aggressione. E' lecito respingere con violenza giusta la violenza ingiusta (vim vì repellere), ma non sarebbe certo giusto spingere la "difesa" fino all'annientamento spietato dall'avversario. Similmente il diritto dei privati alla legittima difesa vige solo durante l'atto di aggressione, non quando l'aggressore è stato respinto e messo in fuga. Se un privato cittadino continuasse a danneggiare l'aggressore ormai respinto, la sua non sarebbe più difesa, ma vendetta che va lasciata interamente all'autorità giudiziaria che sola può punire senza vendicarsi. In tutti questi casi dell'aggressione ingiusta di un privato contro un altro, di un privato contro la società e di una società contro un'altra vige il principio secondo cui il delinquente, per il fatto stesso di volere commettere il delitto, deliberatamente si priva del diritto alla vita -l'essere morale qualifica l'uomo ben più profondamente del suo essere fisico. Quel fine pensatore al trono di San Pietro che fu l'indimenticabile Pontefice di venerata memoria Pio XII disse in uno dei suoi discorsi: "Anche laddove si tratta dell'esecuzione di un condannato a morte lo Stato non dispone del diritto dell'individuo alla vita. Resta riservato in tal caso all'autorità pubblica il potere di privare il condannato del bene della vita in espiazione della sua colpa dopo che egli, per il suo delitto, si è già privato del suo diritto alla vita" (AAS, 1952, pp. 779 ss... - la traduzione è nostra). Checché ne dicano i neoterici della crudeltà della pena di morte e addirittura della sua contrarietà al cristianesimo, ogni buon cattolico si sentirà in compagnia assai rassicurante accanto a quel grande Papa del nostro tempo. Dato comunque che la vita dell'aggredito e quella dell'aggressore, considerati entrambi come persone private, è in astratto "alla pari", solo nell'atto concreto dell'aggressione sorge una disparità a favore dell'aggredito così che questo si può difendere durante l'attuale svolgimento dell'aggressione senza cercare l'uccisione dell'avversario, eppure arrivando persino ad ucciderlo di fatto. E' chiaro che non è lecito uccidere per difendersi in un modo per così dire "preventivo", caso in cui la pretesa difesa sarebbe slegata da ciò da cui ci si difende perdendo così il suo carattere e di legittimità e di dìfesa.

Per quanto concerne la pena di morte si è sempre avanzata l'obiezione fideistica di privare il prossimo del suo diritto alla salvezza. Ora non è bene capovolgere le parti - ognuno può pentirsi in ogni momento, ché Dio gliene dà la grazia sufficiente, se dunque non si pente, la colpa è interamente sua. Inoltre ciò che è buono nell'ordine più fondamentale della natura non è tolto in quello, sebbene più sublime, della grazia, dimodoché, se la pena capitale è legittima iure naturali, lo è anche iure divino positivo. E' bene notare che chi non si converte in articulo mortis è difficile che si converta in tutto il resto della sua vita. Viceversa per chi si converte in un frangente così critico, il suo atto di sottomissione alla pena giusta acquista un valore espiatorio e meritorio che altrimenti non avrebbe.

Abbiamo accennato al diritto della società a difendersi sacrificando il bene utile minore del privato offensore. Vi è anche l'argomento, non trascurabile, del carattere dissuasivo della pena capitale. Ci limitiamo solo a rimandare, al di là delle statistiche che dicono poco o nulla, ad un argomento essenziale sviluppato da Romano Amerio nel suo profondo libro intitolato Iota unum (Milano-Napoli [Riccardo Ricciardi] 1985) -la testimonianza all'efficacia della pena di morte la danno gli stessi criminali che spesso stringono tra loro patti di morte per realizzare i loro loschi fini e ottenere la doverosa omertà dalla parte di presunti "traditori". Sarebbe, sì, bello se lo Stato potesse fare sempre a meno di questa dolorosa ed ultima ratio, ma bisognerebbe che i criminali per primi abrogassero siffatta pena. Un'ultima considerazione riguarda la natura della pena e tramite essa il lato soggettivo dell'atto umano e la stessa dignità della persona umana. Tutti sono giustamente d'accordo che l'atto umano può subire e di fatto subisce degli influssi che ne attenuano la responsabilità o addirittura la tolgono di mezzo, ma voler sostituire al peccato la malattia e alla morale la psichiatria è solo una delle tipiche perversioni dei nostri tempi. In fondo un delinquente onestamente pentito sente per primo il desiderio di espiazione adeguata e si considera giustamente leso nella sua dignità umana, se non gli si consente di riparare a dovere. Essere peccatori è cosa infinitamente più grave che essere pazzi, ma poter peccare è infinitamente più dignitoso che vedersi riconosciuto solo il diritto alla devianza mentale (per giunta anche quella parificata de facto con la normalità tramite l'abolizione dei manicomi Come Beccaria, anche San Tommaso insegna che la pena dev'essere medicinale e non vendicativa, eppure la differenza tra i due pensatori sta nell'ampiezza della visione del bene offeso da medicare. Non c'è solo il benessere fisico dell'offendente da curare, ma il benessere della società, la maestà divina lesa dal peccato e, anzitutto, le stesse leggi dell'essere trasgredite, quelle leggi che Dio stesso non produce, ma è, poiché, essendo la pienezza dì Essere, Dio si costituisce come la legge morale eterna. La pena ha una dimensione metafisica che si proporziona alla dimensione metafisica della colpa, la quale a sua volta rivela che l'uomo non è un essere esclusivamente fisico, fatto per sopravvivere, ma un essere morale segnato da un destino che si compie solo nell'eternità.

Tutto sommato ci permettiamo di affermare che, se l'umanità tornasse, se non all'evangelico "grano caduto in terra", almeno al pagano "turpissimum atque vilissimum est propter vitam vivendi perdere causas", si limiterebbero forse i tanto conclamati diritti umani, ma si risolleverebbe infinitamente la stima dovuta alla dignità dell'uomo la cui vita non finisce, ma si trasforma con la sua morte fisica.

P. Thomas M. Tyn O.P.




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