È soltanto un Pokémon con le armi o è un qualcosa di più? Vieni a parlarne su Award & Oscar!
QUESTO FORUM E' CONSACRATO ALLO SPIRITO SANTO... A LUI OGNI ONORE E GLORIA NEI SECOLI DEI SECOLI, AMEN!
 
Innamoriamoci della Sacra Scrittura! Essa ha per Autore Dio che, con la potenza dello Spirito Santo solo, è resa comprensibile (cf. Dei Verbum 12) attraverso coloro che Dio ha chiamato nella Chiesa Cattolica, nella Comunione dei Santi. Predisponi tutto perché lo Spirito scenda (invoca il Veni, Creator Spiritus!) in te e con la sua forza, tolga il velo dai tuoi occhi e dal tuo cuore affinché tu possa, con umiltà, ascoltare e vedere il Signore (Salmo 119,18 e 2 Corinzi 3,12-16). È lo Spirito che dà vita, mentre la lettera da sola, e da soli interpretata, uccide! Questo forum è CONSACRATO ALLO SPIRITO SANTO e sottolineamo che questo spazio non pretende essere la Voce della Chiesa, ma che a Lei si affida, tutto il materiale ivi contenuto è da noi minuziosamente studiato perchè rientri integralmente nell'insegnamento della nostra Santa Madre Chiesa pertanto, se si dovessero riscontrare testi, libri o citazioni, non in sintonia con la Dottrina della Chiesa, fateci una segnalazione e provvederemo alle eventuali correzioni o chiarimenti!
 
Pagina precedente | 1 | Pagina successiva

La Fede: un sacrificio ragionevole

Ultimo Aggiornamento: 03/09/2009 12:14
Autore
Stampa | Notifica email    
OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
03/09/2009 12:08

Il rapporto individuo-società è anzitutto questione di giustizia ossia di diritto-dovere. L'uomo è per natura soggetto di diritto, perché in virtù della sua dimensione spirituale emerge dal mondo circostante, non è posseduto, ma possiede. Nel contempo tuttavia il singolo, dominatore delle cose in particolare, è sottomesso, non già alle cose, ma al bene comune e globale della società di cui fa parte. Ciò si esprime chiaramente nel diritto fondamentale alla proprietà privata che San Tommaso concepisce come una facoltà di acquisire e di dispensare, mentre nota che l'uso dei beni è per natura comune, non certo nel senso che tutti usano indiscriminatamente di tutto, ma nel senso che il benessere del singolo deve ordinata a quello della collettività. Similmente il singolo gode in sé di diritti inalienabili che la società non può che approvare, ma nel contempo ha anche precisi doveri nei riguardi di quest'ultima. Ciò vuol dire che ogni società correttamente ordinata consiste in un regime di libertà o, meglio, per non equivocare su un termine assai compromesso, di rispetto dell'individuo, ma anche in un insieme di istituzioni che ordinano il singolo al bene di tutti e qui non c'è da pensare al fisco od altro, perché il bene comune più che nel reddito nazionale consiste in beni di altro genere e di altro livello, in quel patrimonio spirituale che il singolo si trova innanzi e nei riguardi del quale deve avvertire il preciso obbligo di amministrarlo con saggezza e non di sperperarlo con stolto disprezzo.

T. Todorov propone una certa (e molto giusta) asimmetria tra tolleranza ed intolleranza, ma usa purtroppo i termini illuministici di libertà e di uguaglianza affermando la necessità di limitare la prima e di stabilire incondizionatamente la seconda. Non è la libertà da limitare, ma la tolleranza, in quanto libertà è scelta sovrana indirizzata al bene, mentre tolleranza è sopportazione del male ed è chiaro che il dominio del proprio agire è già in sé moderato dall'indirizzo finalistico buono (se così non è, la libertà si realizza psicologicamente, ma fallisce moralmente, e non è più libertà in senso pieno), la sopportazione del male invece ha, sì, dei precisi limiti dettati dalla prudenza politica ed esteriormente imposti. L'uguaglianza poi non è certo quel valore assoluto per il quale la si vorrebbe far passare 0, almeno, c'è bisogno di chiarimento: l'unica uguaglianza vera è quella di tipo metafisicoetico, in quanto la natura umana non ammette variazioni di grado, o c'è o non c'è, ma non c'è più o meno, la quale poi si esprime nell'uguaglianza davanti alla legge, ma la legge positiva, se è, saggia, sa già distinguere all'interno del suo ordinamento tra situazioni sociali diverse, poiché ed è qui il grande inganno dell'illuminismo - sul piano sociale l'uguaglianza è più un anti-valore che un valore, anzi, di essa vale proprio il detto summum jus, summa injuria. Pretendere che tutti siano ugualmente forti, sani, sensibili, intelligenti, raffinati nei gusti ecc. è contro natura e, se imposto per vie di "utopia realizzata", genera violenza e per di più violenza ingiusta. A livello sociale-politico occorrerebbe piuttosto vedere la duplice linea ascendente di solidarietà del soggetto con il bene comune (valore di obbligo, dovere, fondato sulla giustizia legale) e quella discendente di sussidiarietà che collega la collettività all'individuo da rispettare e da proteggere nel contempo (valore di libertà, diritto, fondato sulla giustizia distributiva). Solo quando i due movimenti entrano in collisione (come accade in tempi di crisi culturale), entra in scena l'intolleranza che richiama il singolo a rispettare il patrimonio spirituale comune e la tolleranza proclamata dinanzi alle istituzioni dalla parte di privati cittadini che non ne condividono più l'impostazione.

I valori trascendentali sono in sé immutabili, eppure l'approccio dell'uomo e delle nazioni ad essi è storico dimodoché ogni cultura esprime temporalmente (e purtroppo anche temporaneamente) un riflesso stupendo dell'oggettivo ed eterno Vero, Bene e Bello. Tali Idee (per usare H linguaggio del grande Platone), senza le quali muoiono le anime e intere popolazioni, prive di veri profeti, periscono, hanno dei diritti che i loro opposti, anche se appoggiati da una massa ormai assiologicamente svincolata, non potranno mai reclamare; e su tali cose, inutile dirlo, non si decide in plebisciti, anzi, il solo tentativo di farlo è prova eloquente che se ne è persa la sensibilità.

Innanzitutto va accuratamente distinta la religione dalla fede: entrambe obbligano moralmente l'uomo nei riguardi di Dio, ma su piani ben diversi, in quanto la prima fa parte della stessa natura umana, l'altra invece è dono soprannaturale e gratuito, ma, si badi bene, comunemente obbligante (seppure in gradi diversi a seconda della consapevolezza più o meno esplicita del dato rivelato) perché universalmente proposto a tutti da Dio in Cristo, Signore e Salvatore nostro. Una società apostata dalla fede perde un bene più sublime, una collettività irreligiosa (empia) perde un bene più fondamentale. Eppure, al di là della doverosa distinzione, sta il fatto che la fede, proprio perché soprannaturale, suppone ed afferra la natura con la sua dimensione religiosa così che, nel nostro contesto culturale, perdere l'una significa perdere l'altra e viceversa. E si faccia ben attenzione - a chi molto è stato dato, sarà richiesto molto di più - un popolo con semplice religione può ancora trovare la fede, ma un popolo che assieme alla sua fede perde anche la sua religione si priva della sua anima stessa.

Dare il dovuto culto a Dio e, a rivelazione avvenuta e proclamata, credere il Suo mistero, costituiscono precisi doveri obiettivi, ma si tratta, com'è ovvio, di doveri di ordine morale, tali cioè che obblighino ad una adesione soggettivamente libera e convinta. E' inutile voler togliere di mezzo tale imprescindibile diritto di Dio sull'uomo invocando, secondo la solita e per dir la verità un po' noiosa antifona, i "tempi cambiati" (cambiati poi in che senso? Moralmente certo non in meglio!). E recente la chiara e precisa condanna del card. Ratzinger di quei tentativi che vorrebbero dividere la storia della Chiesa in fantomatiche epoche pre e post-conciliari. In questa luce (che ogni cristiano soprannaturalmente credente avverte col sensus fidei) è per dir poco allucinante (espressione di gergo giornalistico e di scarsa eleganza, ma che qui trova il suo posto giusto) parlare di "mutamenti" nella Chiesa riguardo a temi così basilari quali quelli della Rivelazione e di errori dottrinali invocando persino l'autorità di Giovanni XXIII, come fa G. Alberigo citando un brano del discorso inaugurale del Concilio Ecumenico Vaticano II che basta leggere per esteso (cf. Enchiridion Vaticanum, vol. 1, Bologna - ed. Dehoniane 1976/10, p. 45, n. 55) per accorgersi che il rimpianto Pontefice, mentre auspica formule pastorali, non solo non annulla (e come potrebbe?!) quelle dottrinali, ma esplicitamente esige l'adeguamento di quelle a queste, come pure rinuncia, sì, alle condanne, ma non perché non siano più valide, bensì per il motivo della loro superfluità data la maturità dottrinale dei cristiani (sicché ciò che cambia non è la dottrina, ma le circostanze storiche in cui essa viene annunciata, anche se, su quest'ultimo punto, l'ottimismo di Giovanni XXIII fu "crudelmente deluso" secondo l'espressione dello stesso card. Ratzinger). Lo stesso dicasi dell'esigenza espressa da L. Kolakowski di reinterpretare il principio "extra Ecclesiam nulla salus", mentre di fatto, quando tale principio era ancora in via di dogmatica elaborazione e fissazione. San Tommaso conosce già l'espressione "Deus non alligavit misericordiam suam sacramentis". L'obbligo di onorare Dio e di sottomettersi alla sua parola non cambia con il mutare dei tempi e non è dalla storia, bensì dall'essenza delle norme morali che ci si può e ci si deve aspettare un'equa soluzione del problema.

Abbiamo già avuto modo ci constatare che la cultura di un popolo è sempre piena di riferimenti a concezioni decisamente religiose. Così era anche per la Cristianità europea in cui la fede diede l'anima a interi popoli che si riconoscevano fratelli in Cristo formando tra loro una vera e propria res publica christiana. Le eresie sovvertitrici della fede e della cultura, nel contempo (basta pensare alla furia iconoelastica, dei vari settari di estrazione pauperistica) disturbavano, ma non potevano danneggiare tale unità religiosa ed istituzionale. Un mutamento decisivo, un crollo della suddetta coesione spirituale, avvenne solo all'epoca della Riforma dove non più movimenti più o meno esagitati, ma intere nazioni si allontanavano dall'unità cattolica. Ed è allora e solo allora che emerse da un lato l'intolleranza (il tentativo di dare alla società l'uno o l'altro indirizzo religioso), ma dall'altro si fece avanti anche la tolleranza (là dove una consistente minoranza non poteva essere né convertita né sottomessa, essa era appunto "sopportata"). E' innegabile merito di A. Prosperi aver messo in luce questo stato di cose.

In tali circostanze che perdurano tuttora, anche se l'apostasia nel frattempo ha mietuto ben più vittime, assunto volti ben più mostruosi e il deserto (spirituale) si è accresciuto a dismisura, giova ricordare ancora una volta con N. Bobbio che se la tolleranza ha le sue ragioni, l'intolleranza non è priva delle sue. E infatti fuori dubbio che le istituzioni dello Stato devono educare i cittadini alla virtù (il fatto che vi abbiano rinunciato già da un bel po' non cambia nulla alla verità di questa asserzione) il che comporta anche spronarli a mantenersi fedeli ai principi religiosi ereditati dai padri. E la Gaudium et spes che imperterrita insegna la necessità, eloquentemente ribadita dal regnante Pontefice nel suo recente discorso a Loreto, di iscrivere la legge di Cristo nelle istituzioni dello Stato. La distinzione del livello naturale da quello soprannaturale esige giustamente che la religione rispetti l'autonomia della vita politica (che appartiene all'ordine morale naturale), ma la decadenza dell'umanità in seguito al peccato originale vuole anche che la vita sociale si ispiri ai principi della religione rivelata che sola è in grado di elargire ai singoli e alle collettività la medicina della gratia sanans.

Ma che dire di coloro che non vogliono né credere né lodare Dio? Ebbene, costoro vanno anzitutto invitati a correggersi, se poi, data l'iniquitas temporum, non ci riescono, vanno tollerati, ma non elogiati, vanno rispettati, ma solo come persone che onestamente cercano la verità e non già in quanto non la trovano. D'altra parte è proprio così che si configura l'esigenza della carità secondo la dottrina tomistica: amare il prossimo in vista di Dio o perché è già in Dio o affinché, se sfortunatamente non lo è ancora, lo sia al più presto con una scelta libera, matura, convinta. Quanto poi alla tolleranza elevata a principio, assolutizzata, vantata come pluralismo e larghezza di vedute, è facile accorgersi in base all'esperienza stessa come essa educhi all'indifferentismo, al relativismo e, in ultima analisi, all'immoralità poiché infatti la moralità e l'integrità sono un tutt'uno: per essere buoni occorre essere integri, per essere cattivi basta il "pluralismo" di valori fabbricati ad hoc secondo il proprio comodo: bonum ex causa integra, malum ex quocumque defectu. E tale tolleranza assoluta, dove è possibile, andrebbe emendata, dove nemmeno ciò risulta sfortunatamente realizzabile va tollerata, ma tollerata proprio come uno dei mali più gravi che possano capitare ad un popolo ricco di tradizione e di cultura.

P. Thomas M. Tyn O.P.

[SM=g27998]


Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Nuova Discussione
 | 
Rispondi

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 19:06. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com