QUESTO FORUM E' CONSACRATO ALLO SPIRITO SANTO... A LUI OGNI ONORE E GLORIA NEI SECOLI DEI SECOLI, AMEN!
 
Innamoriamoci della Sacra Scrittura! Essa ha per Autore Dio che, con la potenza dello Spirito Santo solo, è resa comprensibile (cf. Dei Verbum 12) attraverso coloro che Dio ha chiamato nella Chiesa Cattolica, nella Comunione dei Santi. Predisponi tutto perché lo Spirito scenda (invoca il Veni, Creator Spiritus!) in te e con la sua forza, tolga il velo dai tuoi occhi e dal tuo cuore affinché tu possa, con umiltà, ascoltare e vedere il Signore (Salmo 119,18 e 2 Corinzi 3,12-16). È lo Spirito che dà vita, mentre la lettera da sola, e da soli interpretata, uccide! Questo forum è CONSACRATO ALLO SPIRITO SANTO e sottolineamo che questo spazio non pretende essere la Voce della Chiesa, ma che a Lei si affida, tutto il materiale ivi contenuto è da noi minuziosamente studiato perchè rientri integralmente nell'insegnamento della nostra Santa Madre Chiesa pertanto, se si dovessero riscontrare testi, libri o citazioni, non in sintonia con la Dottrina della Chiesa, fateci una segnalazione e provvederemo alle eventuali correzioni o chiarimenti!
 
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"A TE, Seminarista" parole al cuore del cardinale Giuseppe Siri

Ultimo Aggiornamento: 08/09/2009 09:09
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03/09/2009 15:28

A TE SEMINARISTA [SM=g27998]

CARD. GIUSEPPE SIRI

CASA MARIANA Santuario Madonna del Buon Consìglio 83040 FRIGENTO (AV)

I TRAGUARDI
Cari seminaristi, per la seconda volta mi rivolgo a voi con una lettera. Potrei parlare, ma lo scritto rimane ed è stimolo di riflessioni maggiormente protratte nel tempo.

Alcuni anni or sono vi ho rivolto una prima lettera, che voi conoscete, nella quale spiegavo come tutta la concezione e la disciplina di un seminario è determinata dallo scopo a cui tende, costituendo un allenamento a quello che dovrete fare «dopo».

Intendo riprendere quel discorso, nella stessa luce, con lo stesso criterio per specificare maggiormente gli scopi ai quali deve essere tempestivamente volto il vostro «allenamento». Infatti dire che ci si deve allenare al «dopo» è giusto, ma può restare un'affermazione teorica, se non si precisano gli ambienti ed i casi per i quali ora si richiede il,generoso allenamento.



Incontro con gli altri
Non abbiate ideali vaghi e teorici; nella vostra futura vita sacerdotale non avrete da incontrarvi con dei cartoni animati ed animati secondo il vostro gusto, bensì con una realtà di fatti e di uomini concreti.

Siete voi che dovete andare verso gli altri; mentre non è detto che gli altri vengano sempre verso di voi. Tutto ciò significa molto. È il pastore per le pecorelle, non sono le pecore per il pastore (cfr. Gv. 10, 1 sgg.). Per andare verso gli altri bisogna saper rompere in tempo certi diaframmi e bisogna possedere in modo sostanziale talune virtù.

Ecco i principali diaframmi da rompere.

a) La pigrizia. Bisogna muoversi e lavorare, non bisogna cercare quiete ed evasioni più di quanto sia calcolato necessario e utile al ricupero delle forze perdute ed all'accumulo delle forze da spendere. Non vale rifugiarsi in una forma di dolce e pio perbenismo, coprendo con gemiti sul male altrui la poca o nessun voglia di compiere il proprio dovere. Se non cominciate ora...

b) La diffidenza. Se non avrete la giusta fiducia, parlo di quella di un pastore (che è specifica), in tutti gli altri e non saprete opportunamente mostrarla, sarete incatenati. Parlo di «giusta fiducia» che è richiesta nella casa di nostro Signore «siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Mt. 10, 16). La giusta prudenza non presume mai il male negli altri, mentre tiene attiva la ragione per evitare l'inganno. Essa non lascia regolare tutto dall'istinto, ossia dalla simpatia o dalla antipatia. Essa crede che al fondo, tutti gli uomini, anche i peggiori, hanno qualcosa di buono e pertanto spera; è attenta più ai difetti propri che hanno la funzione di deformare quanto sta negli altri.

Non è facile comporre la fiducia vera nei fratelli con la giusta dose di prudenza e di riservatezza, ma è proprio nella ricerca del necessario equilibrio che entra lo spirito di orazione. Non solo, ma bisogna imparare ad amare i fratelli «per amore di Dio»; questa vera carità è illuminante. È meglio essere qualche volta stupidi che, con la scusa di una difesa, diventare abitualmente ingiusti verso gli altri.

Aggiungo che la fiducia bisogna dimostrarla. Nel dimostrarla possiamo mettere più libertà e generosità, perché la dimostrazione costa poco e non elimina affatto la giusta prudenza quando si tratta di venire al sodo.

La gente che è avara di sorriso, di serena accoglienza, di meritati elogi, di incoraggiamenti finisce con l'isolarsi. La diffidenza non va propagata ad altri, se non per certa ragione di giustizia o carità. La fiducia è figlia dell'amore.

c) La creduloneria. Vi è ben noto come la lingua riempia per gli uomini e le donne tutti gli spazi vuoti del cervello, supplisca a tutte le possibili ignoranze, costituisca il più facile e meno costoso divertimento per i tempi liberi da serio impegno. Ne viene fuori un mondo di falsità, di detrazioni, di calunnie, di insinuazioni malevoli. Non lasciatevi avviluppare e state attaccati alla massima: «Nemo praesumitur malus nisi probetur». Se non curate di correggere la disposizione alla chiacchiera, ci cascherete malamente dentro e diventerete, anche contro voglia, ingiusti. Ricordatevi che qualun­que confronto interessato col prossimo, qualunque invidia (troppo facile), qualunque gelosia generano la più vile delle rivalse nella mormorazione e nella calunnia. È buona regola non riportare mai ad altri quanto si sa di male circa il prossimo, a meno che non ci sia una adeguata ragione di giustizia o di carità. Per voi le insinuazioni debbono sempre cadere nel dimenticatoio, a meno che non possano darvi una forma di dubbio, quale proviene dal vostro ufficio o da un dovere.

Solo se saprete emergere con la vostra robusta e decisa volontà da questo mondo di chiacchiere, sarete liberi, avrete una chiara, onesta faccia, avrete un decoroso prestigio e potrete più facilmente amare Dio e il prossimo.

d) 1 vostri difetti di temperamento. Questi difetti fungeranno sempre da respingente, è bene ficcarselo fortemente e stabilmente in testa. L'introversione, l'estroversione, l'ipersensibilità, l'emotività, 1'ag­grovigliamento nervoso sui propri diritti e sui doveri altrui, la faciloneria, la lingua pendula, le reazioni colleriche, la eccessiva secchezza del tratto, la mania di giudicare e di aver sempre ragione, l'istinto di preminenza... la timidità diventeranno a titolo ben diverso dei diaframmi tra voi ed il vostro prossimo, soprattutto quello immediato. Se il vostro orgoglio non domato vi impedirà di perdonare sempre, subito e definitivamente, la vostra vita, qualunque sia, avrà dei tratti grami.

Ho citato per ultima la timidezza. Pare che almeno una metà del genere umano civilizzato ne patisca. Se la riscontrate in voi, dovete imporvi, aiutati da chi deve aiutarvi, una severa cura spirituale. Questo è di importanza massima, perché la timidezza, che è curabilissima, vi potrebbe fermare in molti passi giusti e doverosi e nella vita vi potrebbe consigliare vie oscure invece di quelle chiare, ipocrite invece che sincere, deformando anche di fronte agli altri la vostra figura morale.

e) La vita sacerdotale scolorita. La gente può essere pessima, ma in genere mantiene il gusto sano nell'esigere che il prete sia prete e non sia mai in discordanza con la propria Fede, con le proprie obbligazioni, con la serietà del suo ministero; non tollera sia invece libero pensatore, facile nei costumi, millantatore, damerino...

La gente comincerà a giudicarvi dal vostro vestito e perderà fiducia in voi se vi vedrà vestiti come non dovete vestire, se vi coglierà linguacciuti impenitenti come non potete essere, arroccati su posizioni di potere e cercatori di danaro.

Non ho detto tutto, ma ritengo sufficiente questo campionario. Di quello che ho scritto, la parte maggiore dovrei scriverla per tutti i giovani che si preparano alla vita. Non crediate quindi che tutto questo sia un fardello del seminario, è semplicemente una grande cambiale comune, che se uno non sconta subito, la paga duramente con interessi composti e con peggio per tutta la vita. Beati voi, se queste cose qualcuno ve le dice o ve le dirà per tempo; disgraziati tanti giovani i quali marciano in avanti spavaldi senza accorgersi di camminare sopra un terreno minato. La storia, anche quella spicciola, vendica sempre l'ordinamento stabilito da Dio.

Ma da questo primo argomento scende limpida una conclusione. Diventa chiaro perché il seminario debba dare un'educazione, debba abituare ad una regola, debba costruire col sacrificio vite interiori così robuste da poter resistere a tutte le vicende umane depressive. Chi ha intelligenza capirà probabilmente perché esista una severità, una donazione, un limite in molte cose: si tratta infatti di formare degli uomini che siamo talmente liberi da se stessi da poter veramente servire Dio e i fratelli. Dio li ha chiamati per questo.

Per l'incontro con gli altri, evangelizzatore e santificatore, non basta togliere i diaframmi; occorrono positivamente delle doti.
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03/09/2009 15:29

Naturalmente occorrono tutte le virtù che sono richieste dalla legge del Signore e dalla dignità soprannaturale conferita ai suoi sacerdoti. Ma tra tutte le virtù occorre sottolinearne alcune. Questo non significa che tutte le altre possano essere disattese, significa solo che talune debbono essere tratte dalla zona d'ombra, nella quali sono relegate. Se ne parla qualche volta, ma più per fare della retorica, che per ottenere impegni seri. Sono le così dette «virtù di relazione». Il nome è dovuto al fatto che innervano e sostengono i rapporti con gli altri.

Qualche volta si chiamano virtù umane, il che è erroneo, perché qualunque virtù esercitata in un battezzato è sempre attratta nell'ordine soprannaturale. Questo è certo: che la media degli uomini le stima più di altre virtù obiettivamente più importanti.

Resta in ogni caso che sono importanti e dirimenti di situazioni. Eccole: la sincerità, la lealtà, la costanza, la fedeltà, la coerenza, il coraggio, la generosità sono le virtù di relazione.

Costa l'acquisirle, ma la remunerazione che danno nel sacro ministero è talmente grande da essere difficilmente valutabili. Esse non fanno da sole un uomo, ma davanti a tutti dimostrano ad evidenza che è uno veramente «uomo» nel senso morale.

Le porte si aprono, i pregiudizi cadono, la solidarietà si stabilizza, il giusto prestigio si concreta, la faccia è presentabile a chiunque quando ci sono le virtù di relazione. La fiducia diventa facile nei fedeli, la confidenza è spontanea nei penitenti, la correttezza è legge anche tra persone di diverso sentire, quando ci sono le virtù di relazione.

Non averle, o averle deboli o scolorite, porta il giudizio delle parti avverse a qualificarci: baciapile, tartufi, imbroglioni, etc. La vita di seminario. che vi mette gomito a gomito tra condiscepoli per tutto il giorno e vi obbliga pertanto ad una vita di relazione continua, è la incomparabile arena nella quale si fanno gli esercizi giornalieri, senza posa, per anni ed anni, allo scopo di esser «uomini prima di essere preti».

L'argomento convincente lo avete in voi stessi: quale è la stima per quelli che trovate insinceri, quelli che hanno più facce, quelli che non sanno assumersi chiaramente le proprie responsabilità, quegli amici che vi abbandonano al primo vostro insuccesso, che cambiano parere e compagnie ogni momento, che sono tirchi nelle faccende materiali ed in quelle spirituali, che trapelano una viltà? Non vi dico affatto di giudicarli e di disprezzarli, se siete cristiani, ma rilevate che voi dovete essere tutto quello che vi aspettate sempre dagli altri.

Tutte queste cose non vi saranno elargite gratuitamente il giorno della vostra ordinazione, salvo intervento speciale di Dio; dovrete acquistarvele pazientemente attraverso anni di disciplina, di accettazione, di obbedienza, di fatica. Il prezzo certo è alto, la resa altissima.

Capite allora, perché il seminario non è una pensione, capite perché dovete accettare con gratitudine le riprensioni e quelle pacate messe a punto che si fanno da parte di qualunque superiore di seminario. Capite perché dovete permettere , senza resistenza, che altri vi coltivi. Siete fiori destinati all'Altare di Dio: fiori che, per essere presentati tali e degni, debbono accettare la coltivazione en­tro la serra. Se odierete la serra, non avrete capito niente. Se la sopporterete soltanto, esaminatevi bene: il vostro prezzo davanti al futuro che vi attende resterebbe molto basso.



La polivalenza del ministero
I ministeri proprio del sacerdote sono molti. Non basta: i molti identici ministeri debbono esercitarsi in ambienti, condizioni, stati d'animo diversi. Questa è la polivalenza. Voi seminaristi dovete allenarvi a questa polivalenza.

In genere è difficile pensare nei seminari ad una preparazione verso questo o quel ministero, questo o quell'ambiente. Ciò per una ragione molto semplice: il seminario non può sapere che cosa toccherà a questo o a quello tra i sacerdoti novelli, salvo qualche eccezione per settori ristrettissimi di studio. Se il seminario non può, è inutile addurre ragioni in contrario. Creare specializzazioni di un indirizzo nuocerebbe gravemente al clima di un'unità amica, di fraterna comprensione che debbono mantenere invece caldo e favorevole l'ambiente del seminario stesso. Infatti alcuni tentativi in questo sensó,fatti circa trent'anni innanzi, hanno fallito.

Non rimane in via di fatto che una soluzione: coltivare la polivalenza che, mantenendo viva una comprensione multipla, pos­sa avere innestata al tempo giusto la indicazione, l'allenamento necessario, il proficuo noviziato.

È necessario io spieghi bene questo discorso.

La polivalenza la si attua creando una conoscenza verso i diversi settori della pastorale e una simpatia per le diverse esperienze apostoliche, acquistando in tal modo una multipla disponibilità nelle mani del superiore secondo le esigenze della Chiesa.

Anzitutto bisogna trasportare il discorso dal generico e dal teorico allo specifico e al pratico. Se si ipotizzano davanti solo delle «anime» alle quali dare la propria opera faticosa, si centrano solo dei fantasmi aerei. E la cosa finisce così, quando si arriva davanti ad un ministero specifico di ambiente si resta perplessi, si geme, si chiedono consigli a quelli che sanno meno e non mettono pertanto in vergogna, ci si dibatte e si debbono attendere mesi e anni, per ritrovare la quiete del proprio lavoro. Conoscenza adunque dei vari tipi di ambiente e di ministero. Voglio spiegarmi meglio venendo subito a presentare diversi campioni.

Ci sono ambienti operai. I lavoratori, tutto il mondo del lavoro ha caratteristiche sue ed esige diete spirituali non meno specifiche. Si apre per la Chiesa la necessità di pensare al mondo del lavoro in modo specifico. Il mondo specifico lo si troverà solo dopo aver acquisito personalmente una esperienza concreta di quell'ambiente. Ecco l'imperativo di conoscerlo. È ora, dopo aver opportunamente elaborato dottrine sociali per novant'anni, rendersi conto che la elaborazione meravigliosa non è ancora interamente giunta al mondo del lavoro. Di questo mondo è viva la preoccupazione e soprattutto la paura. Memorie sbiadite ormai, ma tuttavia vive e oralmente trasmesse, circa l'anticlericalismo che ha afflitto la fine del secolo precedente e l'inizio del nostro secolo ispirano un movimento di fuga e di quasi terrore. E invece si tratta della parte maggiore dei nostri fedeli. Mondo del lavoro sono tutte le persone, aziende, istituzioni, associazioni che ruotano in esso. È chiaro che fuori ne restano pochi, anche se i lavoratori etichettati tali sono, nel nostro Paese, solamente diciotto milioni.

Non mi sono affatto meravigliato che pochi tra voi abbiano risposto al mio invito di partecipare ad attività dell'ONARMO, perché il modo col quale avrete sentito parlare da molti del «mondo del lavorò» penso che non vi abbia affatto incoraggiati. Nulla quindi di negativo. Ma è assolutamente necessario per la vostra preparazio­ne all'intero ministero che voi prendiate conoscenza del mondo del lavoro. Vi posso garantire, per la mia lunga e personale.esperienza, che, quando quel mondo l'avrete conosciuto, cambierete parere ed avrete trovato l'ambiente dove alligna la onestà, la fedeltà e genero­sità, più che in altri ambienti.

Ci sono degli ambienti di Azione Cattolica. Questa è garantita dal fatto del suo collegamento diretto e collaborativo con la sacra Gerarchia. Là si forgiano veramente gli uomini che oggi e domani aiuteranno e completeranno l'opera del sacerdote, senza dei quali il pastore d'anime può essere destinato ad un penoso e sterile isolamento. L'Azione Cattolica ha dovuto passare negli ultimi lustri una dolorosa crisi, può essere che gli echi di questa vi abbiano raggiunto e vi abbiano messo in uno stato di neutralità prudente. La crisi c'è stata, ma oggi si sta pienamente, anche se gradualmente, risolvendo e voi dovrete, per obbedienza alla Chiesa, lavorare molto in essa. Essa forgia i collaboratori e voi di collaboratori avrete estremo bisogno. E necessario pertanto che fin da ora vi volgiate verso di essa ed evitiate di arrivare alla Ordinazione, ossia al dovere di occuparvene, con l'animo paralizzato da riserve ed antipatie infondate.

Può essere incontriate, Dio non voglia, chi vi consigli di entrare in ghetti personali. State attenti. Agite sempre in campo aperto, sapendo che chiese e chiesette servono solo a Dio, non a scopi personali.

Ci sono gli ambienti di carità e di assistenza. Per essi saranno più facili e conoscenza e accostamento e iniziali esperimenti. Infatti tutto il mondo di oggi, anche se in parte notevole fa i propri comodi, esalta la solidarietà (così dicono, per paura di impegolarsi con la «carità» evangelica), ed i suoi veri o presunti eroi. Non si accorge affatto di qualche nuova santa Teresina, nascosta tra l'erba dei conventi (ce ne sono), ma fa correre tre o quattro nomi che sembrano soli passeggiare per le vie della dedizione ai propri simili. Ciò porta, per lo meno, che vi sarà facile, più facile, dichiararvi maggiormente disponibili ai servizi ed opere di carità. Ma vi debbo mettere sulla chiara avvertenza che in più d'un caso tale foga è semplicemente sostitutiva di altri doveri, è evasiva da una disciplina ecclesiastica, è giustificata per rivolte o prese di posizioni o giudizi contro la legittima Autorità eccelsiastica, è subdola ricerca di pubblicazioni e di rinomanza. Di quanti peccati è colpevole la voglia di essere citato!

Voi dovete amare l'ambiente dei poveri perché Cristo lo ha amato e perché - escluso la pubblicità, che vi consiglio di fuggire nella maggior parte dei casi - non vi darà soddisfazioni d'orgoglio e piaceri evasivi, ma la reale possibilità di agire solo e completamente per amore di Dio. Quando le mode solidarizzanti saranno passate, come passano tutte le mode, è necessario che voi continuiate ad amare i poveri. Perché li ama il Signore! Questo è l'argomento che vale e vi sostiene.

E se non ho da spendere molte parole per rivolgere la attenzione verso il mondo sofferente, dato che il vento spira per ora da quella parte, ritengo di dovervi raccomandare lo spirito e il motivo al tutto soprannaturali, dai quali dovrete essere mossi in soccorso dei fratelli. Dato che le mode non insegnano questo. Come sempre!

Ci sono le tante forme con le quali gli uomini si mettono insieme (pare proprio abbiano paura di essere soli e sentire dentro il perenne richiamo di Dio!): iniziative, fondazioni, clubs, ritrovi, indefinite complicazioni burocratiche nella pubblica amministrazione... È una colluvie a non finire, che ha precise sorgenti (da non trattarsi qui), ma che per noi, ministri del Signore, ha un aspetto solo: dobbiamo salvare anche quelli! Non posso esattamente specificare, ma si tratta di una ebollizione che assilla il nostro tempo di evoluzione, quartieri, consultori, comitati scolastici, etc... Che fare? Si deve avere la faccia pulita da qualunque imputazione per poter, senza esitare, guardare tutti negli occhi. Questo apre delle porte. Abituatevici, come se chiunque incontriate sia in grado di leggervi nell'anima pensieri e intenzioni.

Assolvere ogni dovere, per poter tappare la bocca a chiunque. È un argomento che anche gli avversari capiscono. Essere così umili da esporvi anche a rischi calcolati, a doveri dall'esito incerto, pronti al sacrificio, anche se nessuno sul momento lo scopre.

Perdonare sempre, perché sul perdono cammina la grazia di Dio. Ricordo sempre quanto, molti anni innanzi, mi fu raccontato da un buon sacerdote. Era stato perseguitato per anni da un maggiorente della sua parrocchia, lui aveva sempre perdonato e taciuto. Quando il tristo personaggio arrivò vicino alla morte, chiamò quel prete per ricevere i Sacramenti, dai quali prima era ben lontano. Il prete accorse e, tutto concluso, disse al moribondo ancora in sensi: « come mai avete chiamato me?». Risposta: «perché, avendone tutti i motivi per farlo, non avete mai detto una sola parola contro di me».

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03/09/2009 15:30

Mostrarvi aperti all'incontro sul piano umano, onesti; salutare anche chi non saluta; esser seri e fedeli nella amicizia. Tenetevi informati e sempre collegati alle indicazioni dei Superiori. Gli avversari hanno sempre, almeno segreta, stima di coloro che trovano giusti, onesti e rispettosi delle persone, attenti al dovere, anche se di opposta estrazione.

Esiste tutto un apostolato verso questo mondo intricato, che ho ora chiamato in causa, che non può essere escluso dalla nostra carità e dal nostro servizio ed 'al quale dobbiamo mirare sempre. Vi spinge l'anima missionaria della Chiesa, che mentre cura i frequentatori dei suoi templi non cessa di avere lo sguardo amoroso a quanti ne stanno fuori. Ecco lo spirito missionario: guardare sempre alla conquista spirituale per il completamento del regno di Dio. Questa intima tensione deve far parte dello spirito in cui vi formate. E quando si ha questo, quante sciocchezze cadono da sé, quante viltà si dissolvono, quante preoccupazioni ridicole scompaiono, dal momento che nell'anima è entrato qualcosa di grande: l'ansito redentore di Gesù Cristo!

C'è il mondo della cultura. Può essere che taluno, molti di voi, vi si sentano attratti. Volete prepararvi a quello, nella forma che sarà delineata dai vostri futuri doveri? Seguite i vostri corsi istituzionali e non perdete tempo in libri che farciscono e non formano. Sono i corsi istituzionali che fanno un «uomo» di cultura. Quando sarà forte in questi, il resto gli sarà facile e, forse, innocuo.

Tutti siete chiamati ad agire con gente che ha studiato; qualunque pigrizia del vostro studio rappresenta qualcosa di non concluso nel vostro futuro ministero.

Non esiste il mondo della educazione. Ma esiste la educazione, che è dote dell'anima più del contegno esterno o formale. Tuttavia anche la educazione formale è necessaria. Ed è necessaria perché esiste un mondo «formale» al quale dobbiamo pure evangelizzazione e santificazione. Ci si bada poco. Ma la educazione apre molte porte, salva da tante complicazioni, dona un certo prestigio e qualche volta riesce persino a supplire ai vuoti che si trovano in noi. Penso che anche questa entri nell'allenamento per il vostro domani.

Vi sono delle situazioni, che paiono ovvie e per le quali si direbbe non occorra né precipitarsi né allenarsi: qualche complimento con più o meno sorriso ed è tutto sistemato. Non credo questo sia vero soprattutto se si pensa che spesso abbiamo bisogno degli altri e la espressione che invoca un soccorso per sé, per le proprie opere, per gli altri, ha sempre da guadagnare da una introduzione tanto sincera quanto educata. Vorrei che il discorso sulla educazione formale non cadesse mai tanto facilmente tra voi. Ho conosciuto tanta gente la cui buona reputazione poggiava solo sulla loro buona educazione formale. Anche questa serve.



L'allenamento alla santità
Tutti siamo chiamati da Dio ad essere santi. Lo scopo immediato del sacerdozio è la santificazione dopo aver evangelizzato, il che significa aver noi per primi il dovere di mirare ad essere «santi». Il nostro traguardo non è certo un equilibrio morale, il perbenismo, la frequenza della Chiesa: è la santità. Non ci fermi la constatazione che molti né sono santi, né mirano a fare dei santi, né riescono a fare dei santi. Per ottenere dieci bisogna mirare a cento. Per salvare la parte si deve tendere al tutto. Se ci provassimo a calmierare questo essenziale dovere finiremmo col perdere ogni incentivo per la vita anche semplicemente onesta.

Questo fine del sacerdozio deve splendere alto, perché voi riusciate a fare almeno il possibile. Qualora questa luce si spegnesse, la vostra vita diventerebbe sciatta ed incolore.

Voler la santità è certamente ardito; ma è questo ardimento che accende il fuoco degli entusiasmi e sostiene nelle depressioni morali. È necessario volere la santità. Non confondete la santità coi carismi dei quali parla san Paolo e dei quali si tratta nei testi di teologia mistica. La santità vive anche senza quegli straordinari carismi, anche se talvolta piace a Dio decorare di carismi straordinari delle anime, perché sante. Guardatevi dal confondere le cose.

La santità sta nell'amore di Dio vissuto nella Sua santa grazia e l'amore di Dio consiste nel fare la Sua volontà. Dal grado di diligenza e di sacrificio, di pura intenzione col quale si fa la volontà di Dio si hanno i gradi della santità. A questi Dio può aggiungere ben altro, ma questo «altro» non appartiene alla via ordinaria della Provvidenza. La vostra santità consiste nell'obbedire sempre, anche quando obbedire è estremamente duro.

Al fondo dell'iter preparatorio del seminario ci sta questo meraviglioso trattare le anime per condurle in alto. Si tratta di un ricamo che impegnerà tutta la vostra attenzione e tutta la vostra preghiera, ma è un impegno che supera tutti gli altri. La finezza di spirito, la flessibilità dei vostri gusti al bene spirituale altrui, la stupenda rinuncia a non vedere voi il ricamo che uscirà anche dalle vostre mani, per non riceverne alcuna soddisfazione umana e per non aumentare il vostro corteggio, renderanno tutto questo stupendamente squisito e bastante da solo ad impegnare una vita nell'amore di Dio.

Che la azione santificatrice non renda a voi, non vi prodighi amici . plagiati, ammiratori, che non abbia ad arenarsi in intrighi umani, stupidamente rivestiti di ascetica falsa e di azioni insincere!

Allenatevi a lasciare sempre tutto il posto a Dio. Se ne resterà per voi sarà indice che «copiosa è la vostra mercede nei Cieli» (Mt. 5, 12).



Conclusione
La mia lettera finisce qui, anche se ho in programma una terza lettera per voi. Spero vi abbia dimostrato che il seminario, non solo è il sito del vostro preciso e concreto allenamento, ma che esso appartiene ad una storia viva, che è ben diversa da quella della terra.





[SM=g27998]

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03/09/2009 15:31

GUARDATE AL «DOPO» PER ALLENARVI BENE «ORA» [SM=g27998]


Cari seminaristi, scrivo per aiutarvi nella vostra ascesa. Intendo fare con voi un discorso cordiale, ma logico. Forse si tratta di un discorso necessario.

Per fare un discorso logico bisogna partire da un principio certo che enuncio subito ed eccolo: voi siete in seminario unicamente perché volete diventare sacerdoti, ministri di Dio. In seminario non ci si sta per alcun altro motivo.

Certo, può accadere ed accade che taluni di voi non siano ancora perfettamente certi della loro vocazione al sacerdozio, che in altri, ad uno stato di tranquilla certezza, sia subentrato un dubbio penoso e sofferto. Ciò richiederà da voi e dagli altri - che vi aiutano - uno studio e l'impiego di tutti i mezzi per arrivare ad una capacità decisionale maturata, qualunque essa sia. Però, in seminario ci rimanete proprio per la parte, che il dubbio non estingue, di tendenza al sacerdozio. Se questa parte positiva mancasse, sarebbe vostro dovere uscire. Se non manca e rimanete per risolvere il dubbio, dovete essere leali verso l'Istituto che vi ospita e comportarvi, in forza di questa umana lealtà e dignità, nei suoi confronti come se foste certi e sicuri del vostro libero orientamento. Chi - in dubbio - rimane in seminario per trovare una certezza e non si diporta da seminarista, sarebbe semplicemente disonesto. Il dubbio riguarda lui, la certezza riguarda lui e la Chiesa; tutto questo esige il rispetto ai seminari, ai propri compagni, all'ordinamento interno, alla spiritualità propria di un aspirante al sacerdozio, a chi in seminario guida e istruisce.

Il principio enunciato non è completo; esso va integrato da un secondo principio logico: il seminario vi deve preparare a quello che dovrete fare domani nel sacerdozio. Dovrete, insomma, allenarvi. Questa parola «allenarvi» è il vero tema della mia lettera.



1. Allenarsi ad obbedire ai bisogni spirituali e materiali di tutti

I doveri del sacerdote riguardano i fedeli commessi dall'ufficio, tutti gli altri fedeli, il recupero di quelli che si sono resi praticamente infedeli, la conversione di tutti gli uomini. C'è una gradazione, naturalmente, ma il dovere del sacerdozio è verso tutti. Domani dovrete obbedire alle leggi ed ai Superiori legittimi, non a tutti (ci mancherebbe!), ma dovrete obbedire alle necessità spirituali e spesso materiali, di tutti.

Guardate bene questa obbedienza alle necessità degli altri: occorre fare quello che non piace, che non si desidera, che scomoda, che ripugna, farlo quando e come noi non vorremmo. Occorrerà piegarsi, dimenticarsi, non fare questioni di dignità, di personalità, di onore. E questo ad ogni passo. Bisognerà farlo con i nemici, con gli avversari, con i concorrenti e non sarà virtù sovrabbondante, sarà solo il nostro dovere. Più avrete autorità, responsabilità e più si aggraverà questo peso. Sarà necessario diventare flessibili, pazienti, umili, perché per servire ci si inginocchia.

Naturalmente potrete anche scansare tutto questo, ritirandovi in una torre d'avorio, rifiutandovi, evitando fatiche, gettando tutto sulle altrui spalle; ma credo che nessuno di voi coltivi una simile caricatura del sacerdozio.

Per fare quella obbedienza dovrete lasciare molti vostri punti di vista. Il mondo, che nel suo seno quasi non trova più questa dedizione, ha sete di questa dedizione.

Credete di allenarvi ora a questa obbedienza connaturata col servizio del sacerdozio, disobbedendo, ribellandovi, anche solo nell'istinto dell'anima? È chiaro che l'allenamento alla obbedienza imposta dal proprio servizio, lo farete con la obbedienza.

Credete di fare l'allenamento, convincendovi che ora la obbedien­za è una minorazione, prendendo per regola voi stessi, aspirando sempre ad una autentica indipendenza? L'allenamento di questo genere vi porterebbe alla spavalderia, alla tracotanza, al continuo tentativo di dominare e questo vi preparerebbe una vita infernale in un sacerdozio che gioverebbe forse a nessuno e che attirerebbe sulla Chiesa tutte le trite accuse di interesse e di volontà di dominio. Sarebbe meglio cambiare subito. Solo la profonda, convinta abitudine acquisita oggi potrebbe salvarvi domani.

Non parliamo delle reazioni, che si leverebbero contro di voi e della probabile solitudine esasperata, alla quale sareste condannati. Potrei illuminare quanto dico con una infinità di racconti, personalmente raccolti e constatati nel mio episcopato di ormai quasi trent'anni, ma mi riferisco solo ad uno.

Ero in sacra visita, molti anni innanzi, nei monti. Il convisitatore mi riferì segretamente che il parroco temeva una reprimenda da me. «Perché?» chiesi. Mi rispose: «In una famiglia di contadini i due soli abili al lavoro si erano uno rotto una gamba, l'altro ammalato di tifo

all'inizio della primavera. Ciò significava la perdita del raccolto e la la miseria per un anno, se non di peggio. Il parroco andò lui ogni giorno per tre mesi a lavorare per due e così aggiustò tutto. Ora teme un rimprovero». Risposi: «Ce ne fosse di gente che sa fare questo». Il servizio di poi lo si prepara con la obbedienza di oggi.



2. Il senso del sacro domani è preparato oggi

Tutto nel sacerdote è sacro. Egli non viene consacrato o votato in parte, bensì tutto. La sua elezione è totale. Poiché è «sacro» quello che è riservato a Dio, tutto nel sacerdote è riservato al Signore. Questo carattere viene difeso dalla Tradizione e dalla legge ecclesiastica col celibato, con la preparazione nei seminari, con le abitudini del tutto estranee alle abitudini mondane, con la ascetica propria dello stato, con la pratica della orazione, con i mezzi soprannaturali e sacramentali.

Il carattere sacro è voluto dal popolo, che non lesina mormorazio­ni e condanne ai preti nei quali scopre a torto o a ragione qualche contaminazione mondana, qualche debolezza. Perdere il carattere sacro costa generalmente al sacerdote perdere la stima dei buoni fedeli; forse gli resteranno gli amiconi (supplizio dei successori!), non sempre raccomandabili.

Il carattere sacro mette dei limiti a tutte le manifestazioni ed esuberanze, impone a suo tempo dignità e riserbo, obbliga ad uno stile caratteristico di vita anche nelle azioni comuni e civili. Il vestito e il contegno, ispirato (senza recitazione od affettazione) dall'intimo, «presentano» il sacerdote e ne rendono efficace per tutti anche la sola presenza. Questo non significa esigere musoneria, introversione, durezza, fare scostante, stranezza; significa solo limite e controllo (magari costosi) al temperamento, che natura ci ha dato, e spiritualità capace di elevare qualunque tipo o carattere.

Il sacro lo si salva con abitudini esteriori sostenute da una Fede interiore. Abbandonarlo è depravare il sacerdozio.

Non credete di allenarvi a questa parte delicata e grande, che dovrà qualificarvi per la intera vita, facendo ora tutto l'opposto, disprezzando e negligendo i mezzi e gli atti che inducono in noi lo stile delle cose sacre. Come domani l'Altare sarà il vostro vero sito, così oggi l'Altare e quanto rappresenta è l'orientamento della vostra educazione.

Non lasciatevi trarre in inganno credendo che la mondanità, comunque espressa, vi avvicini agli uomini. Vi avvicinerà ai loro difetti e taluni ne sarebbero anche lieti, ma solo perché diventereste un argomento per coprire i loro peccati. Sarebbe un tradimento. A voi toccherà fare qualcosa di più di quello che è toccato a noi, perché il senso del sacro è distrutto ogni giorno, anche da chi non dovrebbe. Facilmente il vostro avvenire sarà più scomodo, ma anche più meritorio. Il tentativo di distruggere o per lo meno celare quanto è sacro va di pari passo con la disattenzione pigra nella quale, nonostante le declamazioni e le denunce, si va giorno per giorno demolendo l'ambiente naturale e quello morale dell'uomo. Pensateci a tempo!

Passiamo, anzi, innalziamoci dal sacro al soprannaturale. Domani tutto dovrà essere soprannaturale per voi, tutto lo dovrà esprimere, dovrete portare tutti a quello. Perché?

Il vero clima del vero cristiano è soprannaturale. La grazia santificante eleva tutta la natura umana a partecipare alla grazia divina, ogni atto libero nostro sarà preceduto e accompagnato dalla grazia attuale, anche nel caso in cui la nostra cattiva volontà, declinando al male, ne frustrasse l'effetto. Il vero respiro dell'anima, che è l'orazione, porta al colloquio con Dio. La vera azione del cristiano, con la sola intenzione e obiettiva moralità, meglio se con sacrificio e dono, si colloca nella infinita scala delle ascesi verso Dio.

Solo quando ci sarà in atto tutto questo soprannaturale, noi sacerdoti renderemo la piena testimonianza a Dio. Ci sarà chi andrà più su e chi resterà più giù; ma il combattimento spirituale nostro sarà per salire questa scala del Cielo.

Credete di prepararvi a tutto questo, oggi, senza orazione personale, senza sforzo di ascesi, senza sacrificio delle intemperanze di carattere, senza ordine nella mente, nel cuore, nella vita? Credete di realizzare tanto dispregiando o addirittura odiando un ordine esterno, che si chiama «Regola»? La Regola non è un ingrediente per imbalsamarvi, è solo una impalcatura per sostenervi mentre crescete.

La elezione del sacro vi farà moralmente dei sacerdoti, come ontologicamente vi costituirà tali la sacra ordinazione. Non ne potete fare a meno. Non potete rassegnarvi fin d'ora a starnazzare come le galline, sarebbe un cedimento troppo prematuro; Dio solo sa se spiritualmente volerete come le aquile, ma per non ridurvi a starnazzare, voi dovete puntare al volo dell'aquila.

Sacro e soprannaturale non ammettono in voi compromessi con i sensi, con i miti mondani tanto intellettuali che di costume, con le piccinerie, con qualunque comportamento menzognero.



3. L'uomo di Dio di domani non è preparato dal bellimbusto di oggi

L'uomo di Dio è quello che prega, che agisce sempre alla presenza di Dio, che serve il Signore e i fratelli per portali a Dio.

È inganno affermare che per essere uomini di Dio si debba perdere il sorriso, la umanità del tratto, la serenità gaudiosa dello spirito; rivestendosi invece di una compostezza e durezza meramente artificiali o riducendosi addirittura soltanto a recitare una parte.

Basta tale affermazione per fare intendere quanto delicata, fine e complessa deve essere l'opera della vostra formazione. Quando il popolo intuisce l'uomo di Dio, non solo lo ama; lo segue e lo venera. Forse l'uomo di Dio riesce a dare un vero e duraturo ideale agli altri uomini.

Infatti - e ve ne accorgerete con gli anni - tutti i creduti ideali umani, col tempo - non lungo -, si annebbiano e svaniscono! Credete di poter essere passabilmente uomini di Dio (almeno questo!) domani, se oggi non si avrà sufficientemente compenetrato lo spirito di orazione?

Non si fa un pieno, sommando dei vuoti. La orazione è comunitaria. Questa ha un valore che si basa su un noto discorso del Salvatore. Ma la orazione in cui la azione meritoria personale raggiunge il massimo è quella privata. La sovrabbondanza, la devozione, lo slancio sono impostati e sorretti da questa ultima.

Il domani vi sarà ben duro, quando incontrerete le variazioni e le contraddizioni della vita, se non avrete l'abitudine dell'immediato sfogo dell'anima davanti a Dio, davanti al Tabernacolo. Ma a questo salutare e pronto rimedio ci si abitua oggi.

La divina liturgia, se ne vorrete beneficato il popolo, chiederà a voi il gusto profondo, la soddisfazione intima, che l'atteggiamento spontaneamente rivela.

Credete ciò sia facile se non avrete oggi il senso della liturgia, fatto di desiderio, di entusiasmo, di amore a tutti i particolari del culto divino, del canto veramente sacro, della sacra solennità? La liturgia è bisognosa di dignità, di compostezza, di raccoglimento, di attenzione interna. Credete che queste cose vi vengano spontanee dopo averle dimenticate nel periodo di vostra formazione?

Non rimandate le soluzioni ad un tempo in cui le, soluzioni diventano per lo meno difficili.

Domani, dal modo con cui vi vestirete, dalla eventuale voluttà di togliervi di dosso quello che vi mostrerà a tutti palesemente sacerdoti, dalla acconciatura dei capelli, dalle esteriorità tributarie di povere mode, vi giudicheranno, vi condanneranno, vi fuggiranno o vi cercheranno.

Credete di potervi preparare a questo giudizio, che durerà tutta la vita, che potrebbe dare oblio o solitudine nera ai vostri ultimi anni, se oggi lasciate insinuare in voi la vocazione del bellimbusto? Che questo accada, con le arie che tirano, è cosa facilissima e troverete anche chi vi potrebbe aiutare in questa «costruzione di personalità creatrice»; ma è mio dovere dirvi chiaro che questa gramigna non può toccare l'Altare e che è sacrosanto dovere di chi deve «imporre le mani» guardarsi dalla invasione della gramigna.

Domani dovrete celebrare la santa Messa. Sarebbe triste per tutti vedervela celebrare in modo abitudinario senza quella attenzione, raccoglimento e fervore, che testimonierebbero la vostra Fede. I fedeli accetteranno soprattutto la vostra testimonianza.

Ma come potrete domani diportarvi degnamente in questo divino, altissimo ministero, se oggi la santa Messa, non attesa, forse sopportata, non desiderata come accade al sitibondo di desiderare la fonte, entrasse invece come il peso morto di una morta abitudine nel piatto grigiore della routine?

Domani ogni atto sacerdotale che elargisca sacramenti o sacramentali porterà con sé un esercizio divino, una realtà nascosta che confonde e che ci supera; la devozione costante, la preoccupazio­ne serena ed insistente vi permetterà di non essere dei materiali e svogliati distributori di cose divine. Come sarà possibile questo se oggi, nell'allenamento, non coltiverete la costante attenzione alle cose di Dio? In tal caso svaniranno da sé tutte le ipoteche mondane che ancora potrebbero gravare su di voi.

Vedete quanto sia necessario che squarciate ogni giorno il velo con l'esercizio della Fede, per creare l'abitudine dell'anima a sentirsi strumento di una salvezza eterna, canale di un dono divino, braccio del Signore per l'amplesso di carità verso quanti anche incosciamen­te Lo attendono. Squarciato quel velo è per voi la luminosità perenne. Il mondo esterno non regge al paragone di questo realissimo mondo interiore, nel quale la vocazione appare sovrana­mente bella, ma gioiosamente incapace di compromessi, di esitazioni, di restrizioni.



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03/09/2009 15:32

4. Domani dovrete lavorare per Dio; non vi si addice oggi la pígrizia

Il sacerdozio non è solo sacrificale, ma anche essenzialmente ministeriale. Ciò indica che non esaurisce il suo dovere solo nel culto pubblico, ma deve essere di natura sua apostolico. Significa: lavoro. Il sacerdote dovrà uscire di Chiesa e di sacrestia, percorrere le vie del mondo, senza mai assorbirne la malizia, portarsi ovunque ci sono uomini per invitarli, istruirli nella Fede, santificarli dopo averli convinti. Si tratta di un lavoro multiforme, attento ai segni dei tempi per cambiare ed adattare i suoi strumenti, condotto spesso nella contraddizione, nella sofferenza, tra la ingratitudine di molti.

Non è soltanto questione di «fatica»; sarà questione di umiltà per capire a tempo, di forza d'animo per non lasciarsi abbattere dalle difficoltà. Solo in parte domanderà dispendio di energie fisiche; sarà più greve la sua richiesta di energie morali. Potrà avere immense consolazioni, ma queste potranno anche mancare, pertanto il computo deve tener conto della usura.

Accettate voi di essere dei preti comodi? Inutili? Penso di no e allora allenatevi. Le cose che ora non vi piacciono, rispetto alle quali la passione troppo umana reclamerebbe ozio e indipendenza sono quelle che ora vi allenano. Enumeratele bene e ringraziate Dio di averne.

Date ancora un breve sguardo al vostro lavoro di domani. Il mondo che vi attende è fortemente segnato dalle conseguenze del secolo scorso, voi porterete le conseguenze ben peggiori di questo nostro secolo. Di giorno in giorno appare più chiaro che la modernità, tradotta in termini ministeriali, significa maggiore disponibilità e pertanto maggiore sacrificio. Fate i vostri conti per tempo.

Nessuno può credere che il domani chieda ai sacerdoti le spavalderie del demagogo, le aberrazioni del libertino, le gesticola­zioni del mimo. Il domani vi chiederà più virtù e più sacrificio; se questo non avrete, non temete, raccoglierete più ampia messe di dileggi e di canzonature. Come già talvolta accade di vedere.

La stampa galeotta ha sedotto molti, può giungere anche a voi; difendetevene, giacché non tutti vi difendono, e mirate giusto. Le cose comode generalmente ingannano. Il succo di molti scritti, porti anche da ecclesiastici, è questo: fatevi degli alibi, per il resto quietate. Se scrivessi per far polemica e non per amore verso di voi, qui di alibi in uso per scaricare responsabilità e fatiche ne potrei enunciare un lungo elenco.



5. Acquistare le abitudini per tempo

Si tratta di un argomento di estrema importanza per voi. Cominciamo da alcune chiare idee.

- Si chiama «abitudine» la «facilità a compiere un atto, acquisita attraverso la ripetizione dell'atto stesso». Ripetendo gli atti necessari alla maleducazione, con le mani e con le braccia e coi denti e con la deglutizione, noi abbiamo acquisito la «abitudine di mangiare» in modo tale che mentre mangiamo possiamo fare altre cose, parlare, cantare, leggere...

Per capire la importanza della abitudine bisogna chiarire il concetto della «facilità» che essa, con la ripetizione dell'atto, induce. È in questa facilità la importanza della abitudine. Infatti -la «abitudine» man mano che rafforza la facilità, gradatamente dispensa dalla attenzione, dallo sforzo, dalla diligenza. Risultato: ad un certo punto l'abitudine ci dona di compiere un atto, qualunque esso sia, senza richieder impegno di attenzione o dispendio di energia. La abitudine fa sì che l'atto costi poco o nulla.

- A questo punto si capisce che è la abitudine a permetterci, nonché facilitarci, tutto nella vita. Noi parliamo, camminiamo, compiamo moltissimi atti del nostro impegno e del nostro dovere, senza essere impegnati in un intervento attivo o in un erogazione di energia. Pensate quale complicata operazione di ossa o di muscoli, quale commensurazione di sforzo muscolare adatto al raggio visivo, sia la semplice operazione di sederci sopra di una sedia. Se non esistessero tutte le inerenti abitudini, noi forse impiegheremmo un giorno per sederci una volta sola. In grazia della «abitudine» noi ci sediamo con la massima indifferenza.

- In conclusione: la grandissima parte delle azioni della nostra vita sono compiute dalla abitudine. Dobbiamo essere riconoscenti a Dio che ce l'ha data. E non è a credere che ci'soccorrano solo abitudini materiali, muscolari, visive, uditive, etc.; noi abbiamo anche l'aiuto di abitudini spirituali, il cui numero è difficile enumerare.

- Anche se uno non conosce la teoria delle abitudini (e quale bambino la conosce?) acquista ugualmente, spinto dall'istinto, dalla necessità, dal piacere e dalla conoscenza albeggiante, le abitudini necessarie alla vita vegetativa, sensitiva, di relazione. Pertanto anche il più disattento e distratto degli uomini vive e campa sulle abitudini bene o male acquisite.

Perché le «abitudini» si acquisiscano «buone», vigila ed opera la «educazione». Essa si inserisce a questo punto e non solo a questo punto, ma a questo punto siamo in grado di riconoscerne la insostituibilità.

Con l'intervento della «educazione» (che deve cominciare subito), poi, dell'intelletto e della volontà del soggetto, si acquistano le abitudini buone e le abitudini cattive. Le prime renderanno facile la bontà e moralità della vita; le seconde renderanno scorrevolissimi il disordine e la immoralità. Ecco perché la «educazione» deve durare assai.

- Ma siamo ad un punto veramente cruciale, che logicamente consegue da quanto detto fin qui. Chi acquista abitudini consone al tipo di vita, di impiego, di missione, di livello che ha scelto compirà il suo dovere con una notevole facilità, soccorrendogli la abitudine stessa. Questo sia che miri a cose buone, sia che miri a cose cattive. In altri termini qualunque ragazzo o giovane che è attento ad acquistare per tempo le abitudini omogenee al suo ideale avrà in gran parte acquisito la facilità della propria vita.

- Applichiamo dunque. Voi volete essere sacerdoti e, penso, nessuno tra voi si rassegna ad essere un pessimo prete. Tutti volete servire Dio decorosamente. Avrete, per questo, bisogno di facilitazioni continue nel vostro operato e queste, al di sotto della grazia di Dio, vi saranno fornite dalle abitudini omogenee acquistate in seminario. Oggi decidete per allora. Siete nella situazione di scalatori, che debbono preparare minuziosamente se stessi, gli strumenti, i sussidi eventuali, i rifornimenti, mentre stanno al campo base ed attendono il tempo stabilito per l'ordine di partenza. Voi siete ora al campo base e la vostra scalata verso il Cielo la preparate ora. Guai allo scalatore, il quale aspetti, per acquistare la somma di abitudini muscolari, sensorie, di riflessi, di volontà per affrontare un sesto grado, quando :.la prima volta si trova a sormontare un sesto grado.

Basterebbe aver detto questo: siete intelligenti. Mi sia concesso qualche riferimento pratico.

- Vi necessiterà un contegno da ecclesiastico, né untuoso, né introverso, sereno e controllato, secondo il tipo del vostro temperamento. Guai se gli «altri» vi dovessero giudicare un laico vestito da prete (come quelli che si vedono nei films e sono generalmente sgraziati). Le abitudini del contegno, della modestia ecclesiastica, della edificazione si acquistano ora.

Dovrete celebrare gli uffizi divini. Non sarà solo questione di rubriche, che da sole fanno soltanto rappresentazione, ma di animo, di convinzione, di fede, di dominio su se stessi. Le abitudini inerenti acquistatele ora.

Dovrete trattare con gente intrattabile, senza mettervi al livello della maleducazione e della volgarità. È ora il momento di pensarci. Dovrete essere pronti a rinunce anche penose, ad atti di pazienza non.comune, dovrete entrare nei contatti sociali con semplicità, ma sempre irradiando uno spirito sacerdotale. Pensateci oggi; domani sarebbe troppo tardi. Si potrebbe esemplificare all'infinito. Mi basta di aver chiarito il principio.

Non dimenticate che la «abitudine» e il «subcosciente» faranno in gran parte il vostro domani, benedetto o disgraziato. E, quanto al subcosciente, del quale non intendo parlare qui, ritenete che le abitudini ve le acquista anche a vostra insaputa. Ragion per cui in tutto dovete esercitare la virtù della prudenza. Ne parleremo un'altra volta.



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03/09/2009 15:33

6. Domani dovrete «fare» la comunità; provatevici ora, senza indugi!

Non parlo di convivenze sacerdotali, per quanto le desideri; parlo della comunità dei fedeli, di quella grande, di quella piccola che è generalmente la parrocchia.

La comunità è tale quando ci sono legami spirituali; un carcere , un ospedale, un riformatorio, un albergo difficilmente si potranno chiamare «comunità». La comunità si lega, si fonde quando i membri esercitano le cosiddette virtù di «relazione» e sanno evitare i difetti direttamente contrari ad un sano vivere comune.

Questo significa più cose, che vi attendono al varco. Significa anzitutto dominio e riduzione in limiti ragionevoli del proprio temperamento. Questione difficile, che fuori del seminario raramen­te viene risolta, che voi avete tutto l'agio e tutti gli aiuti per risolvere. Significa avere in larga misura la pazienza, la sincerità, l'educazione, la generosità.

Ritengo difficile che voi possiate risolvere tali questioni dopo. Infatti in quasi trent'anni di episcopato raramente ho visto superare i difetti che già si vedevano in seminario.

Significa ancora tagliare recisamente e senza tentennamenti: la invidia, la gelosia, la lingua lunga e malevola. Questi tre difetti fanno fare ai loro detentori un purgatorio poco utile, vita naturale durante. Talvolta creano addirittura un inferno.

Voi più grandi avete certamente acquisita la visione del tempo che occorre per liberarsi da gravi difetti. Per questo vi si inculca l'uso dell'esame particolare. L'idea di uscire dal seminario con questi difetti non corretti deve farvi profondamente riflettere, perché, se così fosse, una cosa è certa: tutto vi sarà più difficile, più amaro, più greve; si aumenteranno con essi i contrasti e le contradddizioni.

Dovrete avere molta umanità. Questa, ad onta del termine che parrebbe indicare il contrario, risulta dalla somma di notevoli virtù soprannaturali. Per averla dovrete perdonare sempre, pur compien­do le parti anche dure del vostro compito od ufficio; dovrete sorridere quando non ne avrete voglia; dovrete vivere di Fede e di fiducia in Dio quando foste scoraggiati e depressi; dovrete rimandare indietro tutti i giudizi negativi che la fretta volesse introdurre con reazioni immediate nel vostro sentimento; dovrete anche rinnegarvi, se occorresse.

La mancanza di queste doti rende bruttissima la vita anche a quanti restano fuori del sacerdozio, perché il mondo lo si conquista con la bontà e difatti gli uomini nella parte maggiore - passati gli splendori della illusoria giovinezza - non fanno che lamentarsi, immaginate voi!

La humanitas di domani dipende dalla vostra profonda serietà di oggi nel vivere completamente i valori del seminario.



Conclusione
Cari figlioli forse qualcuno leggerà malvolentieri questa mia lettera. Sappiate - lo ripeto - che l'ho scritta per amore.

L'ho scritta perché, se diventerete sacerdoti, il vostro sacerdozio non sia inutilmente doloroso, solcato da crisi e da depressioni, ridotto a crearsi delle illusioni ogni giorno privo della gioia che accompagna sempre chi è a posto nell'anima, anche se sta in croce.

L'ho scritta perchè - se qualcuno non diventerà sacerdote - abbia ad abbandonare questa nostra via con la coscienza di averne ben misurato prima l'ampiezza e perché, quanto è detto qui, può fare in gran parte figura in un discorso di un padre che licenziasse suo figlio per le diverse strade del mondo.

Non ho scritto questa lettera per spaventarvi, perché il suo naturale epilogo sarebbe il discorrere della gioia di una vita sacerdotale: questo argomento lo tratterò, se Dio me ne darà il modo, un'altra volta. Ho parlato solo per mettervi di fronte alla realtà, od almeno ad una parte della realtà. Vi ho trattato da uomini, perché vi ritengo tali e sono convinto che vogliate essere tali. Nessuno di voi certamente aspira ad essere un illuso, un povero travicello, un leggero bambolotto.

Vorrei che - fatte le proporzioni - si potesse dire di voi quello che afferma il salmista: «Exultavit ut gigas ad currendam viam» (Sal. 18, 6). Tra la parte del somarello rassegnato e quella dell'umile gigante, vi conviene eleggervi la parte del gigante.

E, finalmente, ricordiamoci della santità! Voi dovrete aspirare a quella. La vostra linea nella vita sarà producente e orientata solo se avrete come punto di riferimento la santità!

Viceversa rischiate di fare il gioco di quelli che vi vogliono perdere: essi parlano di «testimonianza» (cosa ottima, ma insuffi­ciente), di personalità (non distinguendo, in modo da fare della personalità una infelice esaltazione dell'orgoglio personale), coscienza personale (che non è tribunale ed organo direttivo se non riceve la Legge dall'esterno di sé), di virtù umane (quasi che nei battezzati possano esistere virtù che non siano soprannaturali!), di autenticità (con tutta l'aria di cercare alibi, per non fare le cose che costano).

Parlate di santità! Con un mondo in decomposizione non abbiamo bisogno degli eroi di Cervantes, ma di Santi!

Che Dio ce li conceda tra voi! Ne Lo supplichiamo tutti i giorni.





[SM=g27998]
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03/09/2009 15:34

LA GIOIA [SM=g27998]

Cari seminaristi, il Signore nel Suo ultimo discorso disse ai discepoli questa parola: «La vostra gioia sia piena» (Gv. 16, 24). Poco dopo, nella grande orazione sacerdotale, pregò così: «Ma ora vengo a Te (Padre) e questo dico nel mondo, affinché abbiano la pienezza della mia gioia in se stessi» (Gv. 17, 13).

Il discorso era certamente rivolto agli Apostoli, ma, per la nostra partecipazione alla loro dignità soprannaturale e al loro mandato apostolico, era rivolto anche a tutti noi, a voi.

Gesù vuole la gioia. Egli stesso, per il mistero sublime della unione ipostatica, la ebbe nel momento della Sua passione.

Perché vi scrivo sulla gioia Ecco le ragioni:

- Anzitutto mantengo una promessa. Quando scrissi a voi la mia prima lettera pastorale, dissi che, dopo avere indicato i motivi del vostro allenamento alla vita sacrificata del sacerdote, vi avrei scritto sul rovescio della medaglia.

- In secondo luogo perché dovete ora allenarvi anche alla gioia. - La gioia vi renderà più facile tutto e vi aprirà nel ministero tante porte, che diversamente sarebbero per voi chiuse.

- Essa vi permetterà di rendere testimonianza obiettiva che nella Casa del Signore, comunque vadano le cose, si sta sempre bene. - La vostra gioia aiuterà le vocazioni. Forse, sul piano comune, nulla aiuta i germi di vocazione posti dal Signore come il frequentare sacerdoti gioiosi del proprio stato, ossia del servizio di Dio e dei fratelli.

- Tra le «illuminazioni radiose», che possono cambiare col loro splendore la «giornata della nostra vita», c'è la gioia.

- La vita di un sacerdote può conoscere, avere e godere la soprannaturale gioia in tutte le sue età, ben più che lo stato laicale. Che cosa è la gioia

Cominciamo col dire quello che «non è».

1. La gioia non è l'allegria; anche se può con questa coesistere, ed anzi ne è la più genuina fonte, l'allegria indica più un fatto esterno. La gioia è essenzialmente un fatto interiore.

Per lo stesso motivo ed a maggior ragione la gioia non è il «ridere», il divertimento, il chiasso, la capacità di scherzare, anche se può entrare in tutto questo, per dare a tutto un fondamento autentico, genuino e moderatore contro ogni eccesso.

Ecco ora quello che è. Si tenga ben presente che intendo parlare della gioia cristiana, pertanto soprannaturale, la sola - penso - che possa resistere a tutte le stagioni e a tutte le inevitabili prove.

2. La gioia è uno stato dell'anima in pace con Dio, con se stessa, con gli altri. Non è solo «pace», essa ha un altro elemento fondamentale: fruisce di una luce della quale gode e che spande su tutto l'ambiente, al quale (anche se repellente in se stesso) dà una imperturbabile festosità. È dunque certamente un fatto interno, sottratto di sua natura - quando è vera - ai conturbanti movimenti esterni. Ma di che «luce» si parla? Si tratta della «luce» di Fede, che riflette costantemente su tutto il suo illuminante splendore, rendendo bello il sacrificio e il dolore per il loro valore redentorio; rende moderate ed anche contenute le attrattive umane; dà il valore di messaggio paterno divino a tutto il cosmo ed a tutte le vicende contenute; trasforma la esistenza in una sorta di grande «antifona» del cantico eterno. Parlo della luce, che tra le ostinate nubi erranti nel nostro cielo arriva, anche a sole lame, sulla nostra terra. Parlo del riflesso indistruttibile che, con la Fede, ha l'Eternità sul pellegrinaggio terreno. È uno sfondo che può diventare costante quando si adoperano gli strumenti per rendere sempre attivamente presente all'anima la nostra Fede.

Tale gioia coesiste benissimo con la serietà dell'aspetto, con la espressione del dolore e della preoccupazione, ma arriva sempre più facilmente al sorriso, quando il rapporto con gli altri, sciogliendo i legami, chiama al tratto esterno, al contatto, alla azione.



Come si fa ad averla?
Meglio sarebbe dire «come si fa a conquistarla». Perché la gioia, nelle vie ordinarie della ascesi, è una grande conquista. Costa piuttosto caro.

Ecco alcuni pratici consigli per averla e farne una irresistibile forza. Sì, una irresistibile forza. Essa è il mistero della attrazione soave e del fascino che emana da talune persone. Tutti ne incontriamo. Dio ve ne faccia incontrare molte, soprattutto nei momenti di prova!

1. La vivezza della Fede, sentita e vissuta è il primo elemento, generatore di gioia, questo mi pare risulti chiaro da quanto detto e da quanto ancora dirò. Parlo della Fede custodita dai dubbi con lo studio, alimentata soprattutto dalla orazione, dall'esercizio della volontà di Dio e della presenza di Dio, difesa da un indomito attaccamento alla Chiesa. Non si può disgiungere una vita di Fede da una vita di orazione. La Fede dona alla orazione la coralità di tutta la Comunione dei Santi. Ricordo una persona, molti anni fa, che quando si ritirava alla sera nella sua stanza diceva: «me ne vado coi miei Santi». Era vero,, perché il divino ufficio lo recitava come se la alternativa corale fosse la Comunione dei Santi. Proprio questo meraviglioso dogma, fuori di ogni fantasia e suggestione sentimen­tale, può illuminare e cambiare aspetto a tutta la vita. E non solo ...

2. L'anima pulita in grazia di Dio. Ogni peccato è un ingombro, ogni cedimento ai sensi scompiglia, ogni cattiveria avvelena. Se la bellezza affascina, bisogna ricordare il «bello infinito» al quale siamo chiamati ed avviati, dopo il fugace momento di attesa, che è la nostra vita. Se il più ignobile tenta avvinghiare, non si dimentichi che Esaù ha venduto la primogenitura per un piatto, di lenticchie. Le cose mondane illudono per qualche momento, ma poi non diventano altro che povere lenticchie e ghiande (come nella parabola del figliol prodigo, cfr. Lc. 15, 11).

Il mondo dei sensi, donde molti traggono vergogna e depressione, è invece la palestra nella quale con la rinuncia si diventa forti, dispositori di se stessi, nobilissimi sovrani.

Tutto ciò che vien dalla materia, se non è filtrato attraverso la severa volontà, uccide la pace interiore e vela ogni gioia profonda e duratura.

3. Saper perdonare: sempre, subito, in modo definitivo e irripetibile. Il perdono non è il rimedio delle grandi offese soltanto. Esso è per tutto quello che nel prossimo eccita, infastidisce, contraria, anche se il prossimo non si accorge di questo. Il perdono bisogna esercitarlo ad ogni ora del giorno, perché ad ogni ora del giorno si presenta alla nostra esperienza qualcosa, appunto, che eccita, infastidisce, contraria. E se su queste cose ci si arena, è finita la pace e la gioia. La legge del perdono bisogna accoglierla in tutte le sue versioni. Infatti, significa arrivare alla capacità di non offendersi mai; e tale capacità è utilissima nella vita a tutti gli effetti, salvaguardia la pace e la gioia. Saper perdonare vuol dire non fare questioni giuridiche, di giustizia, di prestigio per coprire la propria incapacità di donare. Il perdono è sempre un dono, che rasserena tutti, toglie le asprezze, tronca le sequele della miseria umana.

Quando si vive in una comunità, con gli altri, questa legittima versione della legge del perdono bisogna applicarla da mane a sera. Ma dopo esser perdonati da Dio e dopo aver perdonato tutti, alla sera, stanchi, si chiudono gli occhi in pace.

Una gran parte della gioia è legata all'osservanza di questo precetto evangelico. Il quale non solo ha, come si è visto, diverse versioni; ma ha anche diverse conseguenze. Questa, per esempio: elimina decisamente il malanimo contro chiunque e per qualunque ragione; brucia l'invidia e la gelosia, le quali aduggiano in tutti i moti del nostro orgoglio.

L'invidioso, il geloso non hanno pace e non conoscono la gioia. Perché si fanno esami di coscienza, se non per togliere continuamente dall'anima questo ciarpame che la tiene prigioniera? Che razza di vita spirituale abbiamo, quando essa non è in grado di togliere queste complicazioni onerose ed inutili? Come possiamo piacere a Dio se gli diciamo in modo bugiardo nel Pater Noster: «rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Lc. 11, 4)?

Purezza, libera volontà, umiltà, frutto di serena luce, perdono, epilogo della capacità di «donare», sono guardiani della nostra gioia. 4. L'umiltà risolve tutto. La più grande responsabilità delle nostre agitazioni burrascose è la nostra superbia. Se non la si contiene entro severe dighe, essa alluviona tutto e ci rende tutto amaro. Chi è umile risparmia la parte più grande dei dolori inutili. L'umiltà (bisogna intenderlo bene) costituisce la più grande furbizia.

5. « È più beato il dare che il ricevere» (At. 20, 35). È parola del Signore. Essa dà un tono di meravigliosa munificenza a tutta la vita cristiana. Essa costituisce la via di una particolare rassomiglianza con Dio (cfr. Mt. 5, 48). La generosità, né interessata, né spavalda, né in chiave di pubblicità o - peggio - di populismo, tanto più sincera quanto meno esibita, è come un sole che illumina.

Il «dare» evangelico non è soltanto una questione di borsa, ma involve tutta la persona, le sue capacità, le sue energie; diventando, senza sforzo, servizio, completamento, supplenza, pazienza, amici­zia, amore. Può essere paragonato ad una aureola: allora è la gioia.

Molti altri mezzi potrebbero essere recensiti come generatori di gioia, ma quelli esposti sono sufficienti. È facile concludere che la gioia diventa un «contenitore» di tutta la vita spirituale. Essa è facilmente comunicativa, perché ha ragioni profonde, tutte arricchi­te dalla grazia del Signore.

Appare chiaro anche il motivo per cui la vera gioia cristiana può esistere e resistere nelle più grandi prove dei dolori.



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03/09/2009 15:35

I motivi particolari di gioia di un seminarista
Ritengo che, non per ragione di dignità, ma per un motivo di­dattico, la prima verità gaudiosa da tener presente sia la seguente: con la grazia del Signore ogni dolore può essere trasformato in gioia, senza nulla togliere al merito della nostra sofferenza. Come?

l. Cominciando a ringraziare Dio che ce lo ha mandato o che lo ha permesso. È incredibile quello che può trasformare della nostra vita l'abitudine di esser grati a Dio per quello che non ci piace. E non perché in realtà questo stato d'animo serva a diminuire notevolmen­te la sofferenza umana nostra, ma perché è questa la via direttissima per essere uniti a Cristo sofferente e la via direttissima per giovare a tutti i nostri fratelli. Ci sono momenti nei quali, con umiltà, si possono chiedere a Dio le più grandi grazie, la salvezza di altri, la manifestazione della Sua gloria.

Tutto ciò richiede un allenamento che dovete iniziare ora. Esso sarà la vostra salvezza, perché, imprimendo una inclinazione quasi connaturata ad amare piuttosto quello che non piace che quello che piace, avrete in mano il talento della forza per muovervi verso la perfezione.

2. I sacerdoti che fanno tutti i giorni decorosamente la loro meditazione od orazione mentale e, per merito di questa, si mettono in grado di compiere meglio gli altri sacerdotali doveri, hanno in mano il talento per arrivare a tanto. Non se lo lascino sfuggire e godano della tranquilla fiducia di poter resistere ad ogni crisi e tentazione, stringendo bene nella mano quello stesso talento.

Tutto questo discorso può valere per qualunque fedele; ne ho conosciuti molti che questo discorso intendevano e santamente sfruttavano. Ma per voi ha una forza ed un valore speciale: voi sarete sempre (per forza dei sacri misteri che celebrerete, della orazione tipica sacerdotale) più vicini a Dio! Qui sta la formula per operare il meglio in ordine alla perseveranza nel proprio sacerdozio.

3. Cercate di capire le particolarità della vostra orazione. Prepara il vostro domani. La orazione del sacerdote prende forza dal suo «carattere» impresso dall'Ordine sacro. Per questo egli è «deputato» alle «cose sacre». Se prenderà coscienza di questo particolare valore, tanto più lo accrescerà e ne trarrà efficacia.

Questo accade soprattutto nella recita delle «Ore». In esse, in modo speciale se ex Officio, non è lui che prega, ma in lui prega la Chiesa intera, perché si tratta di un atto ufficiale.

Se la sua Fede lo soccorrerà, potrà sentire la sua preghiera delle Ore, le alternanze dei suoi versetti, la sua eco, come il coro della Gerusalemme celeste e della Comunione dei Santi. Non è questa una fantasia, è una realtà nella quale ci si può serenamente e dolcemente adagiare. Nella storia dei Santi si sa che qualcuno di loro, recitando o cantando il divino uffizio, si trovò in compagnia della Vergine e degli Angeli. Vide e fu fortunato; ma tutti possono, se sanno elevare la propria anima fino a quel livello, credere di entrare ad accompagnare in qualche modo il cantico della eternità.

Chi è deputato alle cose superne dal sacramento dell'Ordine è deputato a fruire una speciale presenza nelle realtà eterne. Nell'Ufficio della Dedicazione delle chiese, il vecchio Breviario faceva cantare per secoli tutta la Chiesa: «Sed illa sedes Coelitum / semper resultat laudibus / illi canentes jungimur / àlmae Sionis aemuli». E tutto questo lo porterà, con gioia e senza rimpianti di esperienze terrene, ben lontano da ogni mondanità e da ogni espressione della medesima.

Chi vive così la sua orazione rende a poco a poco inoperanti tutte le pericolose attrazioni mondane. Inquadra la propria vita ad un livello nel quale il Sole splende sempre.

4. Avrete la divina presenza della Eucarestia. Tale presenza darà frutti in voi quanto più la vostra Fede in essa sarà non solo attuale e viva, ma da voi continuamente tenuta accesa con i piccoli espedienti della pietà, adatti a noi piccoli esseri e che la vita del seminario vi deve insegnare. Le frequenti visite, anche brevissime, al Santissimo Sacramento a poco a poco vi daranno, quasi fisicamente, il senso di una santa fortezza resistente a tutti gli attacchi e contraddizioni della vita. Non permettete che l'abitudine sciatta vi renda atoni alla presenza di Colui che vi è sempre vicino e che nel santo sacrificio stringerete nelle vostre mani. Avete ben più che un talismano a favore!

5. Avrete la grazia dello stato. È una realtà gigantesca, che domanda a noi di essere sempre consci e di trarne fiducia. Essa vi renderà capaci di quella polivalenza nell'apostolato, che vi sarà domandata dalla obbedienza e dall'ufficio assegnato. Vi può rendere capaci di quello che non avrete mai stimato possibile alle vostri doti, vi renderà non spavaldi, ma arditi ad ogni impresa difficile.

6. Purché vi teniate ad un livello di Fede vissuta, avrete con voi il Cielo. Esperimenterete che Madre amabile e provvida sarà per voi la Santissima Vergine, vi saranno vicini gli Angeli, i Santi. Soprattutto la Santissima Vergine: vi terrà per mano. Sentirete lo stile dolcissimo e pronto della Sua materna protezione. Accanto, anzi sopra questo mondo visibile, se ne dischiuderà per voi un altro,, dandovi il senso di una forza, di una dignità e di una indipendenza invidiabili. Non è questione di fantasia, e non è necessario per questo che si arrivi alla vita mistica; Dio è Signore e vi chiede solo Fede attuale e coerenza con la Fede nel contegno.

7. Avrete sempre la tranquillità del frutto della vostra azione sacerdotale, certi che la «Parola di Dio non ritornerà a voi vuota» (Is. 55, 11).

Sarà necessario che non pretendiate di vedere voi i frutti: è sufficiente che li veda Dio e ve ne custodisca il merito per la vita eterna: «altri semina ed altri miete» (Gv. 4, 37).

8. Avrete intorno la famiglia delle anime. Questa è ben più grande, costante e duratura che la famiglia del sangue. Conosce un affetto che è puro perché nascerà dall'apostolato, dal sacrificio, insomma dalla erogazione dei beni di Dio.

Certo, questa famiglia non deve nascere da simpatie insulse, da plagi, da sentimenti troppo umani; non dovrà essere curata in funzione di una vostra corte o di un appannaggio di vanità (guardatevene bene!), ma sorgerà naturalmente nel misterioso lavorio che la grazia del Signore farà attraverso la vostra opera. Le vostre sofferenze, le contraddizioni subite ne scalderanno l'effetto. Il discorso su questa «grande famiglia» è serio e grave.

Dovrete curare i difetti del vostro temperamento, perché possono diventare le cause di un isolamento penoso; dovrete non chiudervi in una torre d'avorio; dovrete avere ampiezza di perdono, di pazienza e di servizio; dovrete dare al vostro sacerdozio un volto umano e soprannaturale insieme. Dovrete essere attenti a nulla sacrificare agli idoli della moda corrente, per piacere, per avere pubblicità e risalto. Questi costituiscono tentazioni perniciose e talvolta fatali. Lasciate nei piccoli la sincera impressione di sollecitudine affettuosa e vedrete, almeno in molti di loro, brillare la luce degli occhi che esprimono riconoscenza quando saranno grandi. Gli spettatori della vostra cura per i poveri, i diseredati, gli ammalati, i vecchi avranno prima ammirazione, poi salutare riflessione e finalmente affetto per voi.

Per decenni e decenni ho fatto caso a questo o a quello che succedeva all'Ospedale Galliera quando c'era degente qualche buon prete, qualche degno parroco. Nessuno aveva tanti visitatori come loro, nessuno aveva tanta gente che si interessasse all'andamento della malattia e della cura. Ricordo che qualche volta si sono dovuti prendere provvedimenti per arginare questo flusso invadente. Ma era una testimonianza.

Siate pazienti, generosi, di retta e purissima intenzione: non vi mancheranno amici seri.

La vita del buon prete prende addirittura una dimensione diversa dalla vita degli altri uomini. Non saranno sempre rose e fiori di questo mondo, ma quando la terra si facesse per voi arida ci sarebbe sempre per voi, ed anche in modi inauditi, la rugiada del Cielo. Questo vale tanto più perché potreste avere momenti di desolazione e depressione legati a qualunque esperienza di vita non sacerdotale; allora potrete capire quanto siano preziosi per voi il Cielo, del quale ho parlato, e la terra con il calore della riconoscenza da voi suscitata. La grande famiglia della terra potrà qualche volta apparirvi anche un po' assente, perché esistono stati d'animo che, chiedendo troppo, pensano di avere nulla; non temete. Non chiudete mai le porte a nessun confratello, anche se colpevole verso di voi; il perdono e la carità disinteressata ve lo potrà restituire nei momenti per voi amari.

Vi possono essere momenti in cui dovrete camminare da soli, per difendere la verità, la giustizia, la sacra disciplina. Non abbiate paura: in quei momenti, se manterrete il livello della vostra Fede, Dio stesso camminerà avanti a voi, accanto a voi. E la grande famiglia, se il vostro sacerdozio l'avrà creata, nulla cercando per sé, si farà sempre sentire.

Mi sono chiesto molte volte nella mia vita perché tanta gente abbia una tale acrimonia verso i preti. Ho sempre dovuto darmi questa risposta: nessuno, in qualunque situazione, riesce ad amalgamare tanta gente intorno a sé quanto un buon prete. L'ho visto negli ospedali, nelle scuole, soprattutto negli ambienti di lavoro, nelle caserme; questo «imbattibile», sempre che sia con la testa e con il cuore a posto, vince in concorrenza, quanto più non lavora per sé e lavora per amore di Dio.

La storia della «grande famiglia» è una storia lunga, assai lunga, ma è anche la storia della vostra vita. Essa resiste, anche se può avere eclissi. Cambia completamente la prospettiva: insieme nell'amore di Dio, è una storia che con volontà potete sctivere ora. È non tutta, ma una grande contropartita del dono di una castità perfetta, di una inalterata obbedienza e di un distacco del cuore dalle cose umane.

Nessuno come il sacerdote ha davanti un simile cammino. È per questo che ho potuto parlare di gioia, anche se questa non è, come ho scritto, l'unica sorgente della letizia sacerdotale. Altre ve ne sono e sono tante, a seconda della virtù acquisita, che la fantasia non basta ad enumerarle.

9. Ho assistito al tramonto, anzi al crepuscolo di tanti preti. La mia conclusione è questa: talis vita finis ita.

Quelli che possono dire di avere speso la vita solo per Dio e per i fratelli portano con sé una inesprimibile letizia, perché allora vale solo quello ed è quello che si porta con sé. È triste aver finito una vita senza orizzonti superni: è solo gioia avere accumulato, per una vita, merito al servizio di Dio.

Questo ho scritto perché sappiate già quale sarà il vostro avvenire, sappiate che è nelle mani vostre, sappiate che dipenderà dalla disciplina austera e senza tristezze, che oggi vi saprete imporre!



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03/09/2009 15:35

Nel mondo
Tocco l'argomento perché fa parte del mio assunto principale. Entrateci a testa alta: se vi sarete allenati ad essere sempre con Cristo, sarete i più forti.

Non abbiate bisogno di nascondervi, mai. L'abito ecclesiastico sarà la prima testimonianza, ma allenatevi ora a sentirne il valore e ad assimilarlo come una seconda natura. Voi sapete che esiste un abito ecclesiastico «tollerato» (e questo lo si deduce dal testo di concessione della CEI) ed uno «proprio». La scelta deve essere operata dalla vostra generosità e questa guarda al meglio. Sentirete la gioia di testimoniare così meglio il vostro Signore, vi sentirete alfieri suoi, netti e coraggiosi, con la onesta baldanza che la giovane età può sempre dare a tutto ciò che è più nobile.

La vostra figura, così, non passerà mai occultata tra la anonima folla. E questa vi accoglierà sempre, forse con un moto di interna reazione, il quale però è sempre il primo passo verso l'interessamen­to, la ricerca, l'amore. Meglio l'odio sopra di noi che la indifferenza; ma, se vi nasconderete, opterete necessariamente e forse colpevol­mente per la indifferenza. La quale non recepisce bene la testimonianza a Cristo. Siate in questo generosi, coscienti: avrete la gioia di essere «qualcosa».

Il mondo nel quale entrerete è malato, ha bisogno di voi. Non condannate, servite. Il servizio, con lo stile della generosità, vi riempirà di gioia.

Il mondo spesso è impazzito: ha bisogno di voi. Il vostro equilibrio, la vostra incondizionata obbedienza alla Chiesa vi faranno maestri di saggezza. Anche questa è gioia esaltante, quando è dono fatto umilmente ai nostri fratelli, nelle più disparate circostanze.

Il mondo sta per fare delle nuove grandi e forse dolorose esperienze. Sono le circostanze in cui il sacerdozio diventa prezioso sul piano storico, come lo è sempre stato. Allenatevi per 1'aignoto». Con la grazia del Signore non lo temerete e sarete pronti ad affrontare tutti i compiti. È un tocco di avventura esaltante. Non sarà la gioia di una avventura umana; ma la gioia di essere strumenti di cose grandi nella perfetta disponibilità ed obbedienza a Dio nostro Signore!

Il sacerdozio, veramente vissuto e ardentemente preparato, ha sempre la sua inesauribile risorsa di gioia, che nessuno potrà togliervi. Avanti!



La gioia del seminario
Tutto quello che ho scritto porta ad un conclusione: poiché la sostanza del discorso è situata in seminario e conduce alla gioia di essere in seminario. Ve la auguro e vi incito ad averla. Ogni esperimento di questo mondo porta con sé, anche incolpevolmente, dei difetti; a questa legge non si sottrae il seminario. Voler cercare soprattutto i difetti è opera di un complesso deformante, che prego Dio non vi investa.

Questa gioia potete averla. Quando in futuro aveste a trovarvi isolati, imparerete la preziosità della comunità. Quando potreste essere attanagliati da responsabilità, avreste la nostalgia del tempo in cui, bastando obbedire a dei superiori e ad una regola, tutte le responsabilità si scaricavano naturalmente. Quando vi perseguitasse la aridità di ogni sentimento ed aveste a sentirvi come alberi d'autunno che perdono le foglie, intendereste che cosa sia quella serena, placida, innocente fraternità ed amicizia che avrete goduto in seminario. Quando la esperienza delle ignobilità, delle torture, delle deformazioni fosse per appesantirsi sopra di voi spingendovi al gemito desolato del pessimismo, allora sareste in grado di valutare che cosa sia stato per voi incontrare tra mura sempre severe, uomini, compagni, superiori, professori della cui statura morale avete goduto ammirando, ed ammirando con la infinita generosità della primavera. Quando risorgeranno alla memoria momenti felici, dolci esperimentazioni di vita liturgica, amabilità di trattenimenti, lepidezze innocenti, gioiosità di vittorie interiori, volti cari, affetti incoraggianti, allora sarà chiaro per voi il bene che avete avuto.

Quando troverete in voi stessi sedimenti antichi di sacra dottrina lucidamente certa, facilità di soluzioni nella direzione spirituale, soddisfazioni nel riconoscimento tributato da onesti superiori e non sarà spento il caldo di quella dolce famiglia di anime, allora avrete la nozione del seminario.

Quando foste in grado di ricordare che con la vostra pazienza generosa avete mantenuto con i compagni di studio anche fastidiosi una inalterata serenità sorridente; quando foste in grado di dire a voi stessi che non avete giudicato nessuno, non menomato la fama di nessuno raggiungendo un pieno controllo di voi; quando vi ritornasse alla mente quanto conforto avete dato a seminaristi pari vostri bisognosi di comprensione, sorreggendoli con la vostra limpida carità ed esercitando prima del sacerdozio le virtù necessarie al ministero, l'onda della gioia pacata e soddisfatta vi raggiungereb­be ad ogni ora della vita. E il seminario manterrebbe per voi i colori dell'alba.

Perché non avere ora una tale gioia? Perché permettere prevalga in questo momento della vostra primavera la nebbia portata dalle piccole noie quotidiane, dalle inevitabili differenze di gusti e di temperamenti, dagli insignificanti smacchi, sulla realtà di una vocazione divina, di una chiamata a cooperare con Dio, di una predestinazione alla salvezza altrui?

Un giorno il ricordo di questa casa paterna vi farà tenerezza; perché non permettere sia essa oggi la casa della gioia? Guardate oltre e vedrete giusto. Nella vita vi sarà utile vedere oltre!

Che la Santa Vergine vi conduca per mano, sempre!


[SM=g27998]

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08/09/2009 09:09



Lettera del Cardinale Siri alla Diocesi

[Dalla «Rivista Diocesana Genovese», gennaio 1975, pp. 22-36]

Viviamo nell'epoca delle «parole».

Per vincere battaglie civili (e non solo queste) si coniano parole e detti icastici, riassuntivi (slogans). Per abbattere uomini si impiega qualche termine o classifica, che le circostanze suggeriscono atti allo scopo di demolire. Per anestetizzare cittadini e fedeli si coniano parole. Ciò che stupisce è il fatto per il quale gli uomini, invece di lasciarsi abbattere da autentiche spade, si lascino abbattere da sole parole. Perciò i termini, gli slogans, le classifiche di moda vanno vagliati, capiti, eventualmente smascherati. Comincio pertanto a pubblicare delle note chiarificatrici. Spero che il nostro clero vorrà leggersele bene, per evitare una sorte ingloriosa. Cominciamo dal termine più in voga, usato come un fendente o come una protezione per il proprio operato: «progressismo». Di tanta gente si dice che è o non è «progressista». Vediamoci chiaro e, se ci fosse da restituire un termine alla esatta funzione, non coartata, come è serena e dolce la nostra italica parlata, non bisogna ricusare quel merito. Elenchiamo pertanto i casi più frequenti nei quali si usa il termine «progressista». Porgiamo uno specchio perché ognuno ci si guardi.

1. Essere indipendenti dalla logica teologica

Molte volte il «progressismo» significa questo, o, piuttosto quando ci si attribuisce una tale indipendenza, ci si gloria di essere «progressista». Vediamo dunque che vuol significare. Le conclusioni a poi. Che è questo «disimpegno totale dalla logica teologica»? Logica teologica è l’insieme di queste norme, applicando le quali si può documentatamente arrivare ad affermare come rivelata od anche come semplicemente certa una proposizione. Queste norme, costituenti la logica teologica, in realtà si riducono (parliamo, si badi bene, della «logica», non della Rivelazione) ad un principio: il magistero infallibile della Chiesa. Infatti è al magistero infallibile della Chiesa, sia solenne, sia ordinario, che è affidata la certa autentica interpretazione sia della Scrittura che della divina tradizione. Ed è logico. Infatti, se Dio avesse consegnato agli uomini una quantità di rotoli scritti o di nastri magnetici per far udire la viva parola e si fosse fermato lì, ad un certo punto niente avrebbe funzionato, si sarebbe trovato modo di far dire alla divina Parola tutto quello che si vuole, il contrario di quel che si vuole, il contraddittorio di quel che si vuole e non si vuole, all’infinito. La verità salvifica non avrebbe potuto funzionare tra gli uomini. Le prove? Le abbiamo sotto gli occhi e ci appelliamo solo a due. La prima è che con una natura immensamente nitida, la storia umana ha avuto in continuazione filosofie torbide, il contrario, il contradditorio di esse. La dimostrazione di quello che sa fare l’uomo nel suo pensiero, lasciato a se stesso ed agli stimoli del proprio io o delle proprie tenebre, la dà la storia della filosofia ed ancor meglio la filosofia della storia della filosofia. La seconda sta nella sedicente larga produzione teologica d’oggi, dove proprio per l’oblio della logica si afferma il contrario di tutto, non esclusa la morte di Dio. Il disegno divino nella istituzione del Magistero, al quale è collegato tutto quanto sta nell’opera della salvezza, si leva chiaro e necessario dal turbinio delle sfrenate cose umane. Quello che oggi accade è la dimostrazione ab absurdo della verità e necessità del magistero ecclesiastico! Il magistero ecclesiastico canonizza altri strumenti che diventano così «mezzi» per raggiungere nella certezza la verità teologica. Essi sono: i Padri, i Dottori, i Teologi, la Liturgia... purché siano consenzienti ed abbiano avuto la approvazione esplicita o implicita della Chiesa.

Tale approvazione rende acquisita al Magistero stesso la verità espressa da altre fonti. Nessun Teologo, nessuna schiera di Teologi o Dottori, senza questa approvazione sicura del Magistero, conta qualcosa nella affermazione teologica. Tutt’al più, se risponderà alle ordinarie regole di un metodo scientifico, potrà condurre a formulare una ipotesi di lavoro. Col che il campo resta spazzato. Quelli che abbiamo chiamati «mezzi» di riflesso del magistero ecclesiastico costituiscono con lo stesso la «logica» della Teologia. Questa logica è abbandonata da troppi. Ed è per questo che si leggono riviste e libri i quali contraddicono tranquillamente a quanto il Concilio di Trento ha definito, accettano modi di pensare che sono espressamente condannati nella enciclica Pascendi di s. Pio X. nonché nel suo Decreto Lamentabili; fanno le riabilitazioni di Loisy; mettono in dubbio il valore storico dei Libri storici della Sacra Scrittura, elevano a criterio le teorie distruttrici del protestante Bultman, sentono con indifferenza le proposizioni di qualche scrittore d’oltralpe, anche se toccano il centro della rivelazione divina, ossia la divinità di Cristo. Naturalmente trattati senza freno i princìpi, si ha quel che si vuole della morale e della disciplina ecclesiastica. Sotto questo fondamentale angolo di visuale il progressismo consiste nel trattare come relativa la verità rivelata, nel cambiarla il più presto possibile, nel dare agli uomini una libertà della quale in breve non sapranno che farsi, di fronte all’Assoluto. Ridotto a questa frontiera il «progressismo» coincide col «relativismo» e all’uomo, «adorato», non si lascia più nulla, neppure delle sue speranze! Naturalmente non tutte le persone etichettate come progressisti sanno queste cose. Ma esse accettano le conseguenze e le logiche deduzioni di quello che ignorano. Se hanno una colpa — questo lo giudichi Dio! — questa consiste nel non domandare il perché di quello in cui si fanatizzano.

In ogni modo l’oblio della logica teologica funge, anche se non conosciuta, da lasciapassare per le altre manifestazioni delle quali dobbiamo discorrere. Tutto quello che abbiamo sfornato attraverso catechismi di vane lingue, dei quali fu pieno l’aere e che potrebbe venire sfornato in catechismi futuri, significherebbe la lenta distruzione della Fede e l’inganno più colpevole perpetrato ai danni dei piccoli che crescono. Ne si può tacere la conseguenza ultima di un abbandono della logica teologica: l’assenza della certezza nei fedeli. Alla parola di Dio si può e si deve credere; nessuno può essere condizionato, se non ha giuste e appropriate conferme, dalle opinioni dei teologi. Ricordo il mio grande maestro di Teologia, il tedesco padre Lennerz S.J., che ripeteva sempre c con ragione: «Credo Deo Revelanti et non theologo opinanti!».

2. Il «sociologismo»

Tutti quelli che amano essere chiamati progressisti fanno l’occhiolino al sociologismo anche se non sanno che cosa sia. Esso consiste nel trasferire il fine della vita, il Paradiso, al quale tendere, la molla direttiva delle azioni, dal Cielo alla Terra. Pertanto non è il caso di occuparsi della salute eterna, bensì del benessere terreno, concentrare tutto nel dare tale benessere e godimento egualmente a tutti in questo mondo. La manifestazione esterna di questo sociologismo è fare l’agitatore, il demagogo, il rivendicatore di beni fuggevoli, il consenziente a tutte le manifestazioni che esprimano la foga di questa tendenza. Questo costituisce la più comune ed espressiva nota del progressismo. Sia ben chiaro che noi dobbiamo essere con la giustizia e che l’ordine della carità ci impone di avere come primi nell’oggetto dell’amore i bisognosi. Ma si tratta di altra cosa, perche il sociologismo non si cura della salvezza eterna dei poveri ed usa tutti i metodi, anche immorali, che giudica bene o male favorevoli al benessere terreno, cercando di fatto di mandarli all’inferno. Siamo anche qui ben lontani dal credere che tutto quello che si tinge di sociale o di rosso sia sociologismo e che i moltissimi attori di questa scena siano sociologisti coscienti della apostasia insita nel sociologismo. Diciamo solo che in realtà accettano le conseguenze di una concezione materialistica del mondo. Forse non lo sanno, forse sono semplicemente degli imitatori, forse seguono il vento credendo che esso spiri da quella parte; forse credono di far la parte degli stupidi, forse temono soltanto di essere etichettati per conservatori. Viviamo in un’epoca in cui si ha paura persino delle parole! Forse si tratta di un modo per ingraziarsi qualche potente, per fare strada e, quel che è più ovvio, per fare soldi: se ne predica il dovere verso gli altri e intanto si intascano. Gli esempi abbondano! La sociologia pratica è diventata certamente una industria ed anche qui gli esempi non mancano. Le massime del sociologismo avendo qualche — solo qualche — contatto con la dottrina cristiana della giustizia e della carità, pur involvendo altri ideali che tutte le verità cristiane acerbamente smentiscono, sono piuttosto semplici, sbrigative, atte al comizio, al facile consenso, al certo applauso, quasi visive, traducibili in termini di spesa quotidiana e pertanto rappresentano una via brevissima per stare al passo coi tempi! Ma si sa dove vanno i tempi? Questa terribile domanda, con quello che coinvolge, non se la rivolgono. Le esperienze dove sono arrivate, dove si sono fermate? E proprio necessario rinnegare il Cielo, la carità verso tutti, per portare benessere ai nostri simili? E proprio necessario essere rivoltosi, travolgere dighe, distruggere sacre tradizioni per rendersi utili ai nostri simili? Ma, infine, nel Santuario, al quale siamo legati da sacre promesse, tutto questo è progresso, o non piuttosto congiura per strappare agli uomini l’ultimo lembo dell’umana dignità e della speranza eterna?

3. La nuova storiografia

Per i colti il progressismo ha un modo suo di rivelarsi a proposito di storia; sono progressista se giustifico Giordano Bruno, sono conservatore se lodo l’austero san Pier Damiani. Tutto qui! Ripetiamo che si parla di storiografia nell’area della produzione, che vorrebbe chiamarsi «cattolica». Dell’altro qui non ci interessiamo. La parte maggiore della produzione — ci sono, è vero, nobili e importanti eccezioni — pare obbedisca, per essere in sintonia col progresso, ai seguenti canoni: — la società ecclesiastica è la prima causa dei guai, che hanno colpito i popoli; — la Chiesa — detta per l’occasione postcostantiniana — avrebbe fatto con continui voltafaccia alleanza coi potentati di questo mondo per mantenersi una posizione di privilegio e di comodità; — le intenzioni impure, le più recondite e malevole, vengono attribuite a personaggi fino a ieri ritenuti degni di ammirazione. Per questo sistema di giudizio alcuni Papi sono stati quasi radiati dalla Storia, non si sa con quale motivazione; — tutta la storia ecclesiastica fino al 1972 è stata panegirica, unilaterale, concepita con costante pregiudizio laudatorio, mentre non è che un accumulo di pleonasmi i quali hanno alterato il volto di Cristo. Questa conclusione — tutti lo vedono — costituisce il fondamento per distruggere il più possibile nella Chiesa e ridurla ad un meschino ricalco del Protestantesimo. San Tommaso Moro, martire, è stato messo addirittura sul piano di Lutero; — le vite dei Santi vanno riportate a dimensioni «umane» con difetti, peccati, persino delitti, mentre gli aspetti soprannaturali tendono ad essere relegati nel solaio dei miti; — il valore della Tradizione e delle tradizioni è del tutto irriso, con evidente oltraggio alla obiettività storica, perché, se non sempre, le tradizioni che attraversano senza inquinamenti i secoli hanno sempre una causa che le ha generate. Si potrebbe continuare.

Ma non si può tacere il rovescio della medaglia: i personaggi vengono magnificati perché si sono rivoltati, perché hanno messo a posto la legittima Autorità, perché hanno avuto il coraggio di distruggere quello che altri hanno edificato, hanno rivendicato la «libertà» dell’uomo con la indipendenza del loro pensiero, incurante della verità. Gli eretici diventano vittime, mezzi galantuomini... qualcuno ha osato parlare di una canonizzazione di Lutero. È condannevole chi ha difeso la libertà della Chiesa, la libertà della scuola cattolica, che ha imposto ai renitenti la disciplina ecclesiastica. Tutti sanno la sorte riservata a coloro che ancora osano salvaguardarla! Si capisce benissimo la logica interna di questo andazzo della storiografia: la santità, la penitenza, la vera povertà, il distacco dal mondo hanno sempre dato fastidio e continuano a darlo dalle tombe, come se queste non potessero mai essere chiuse. È difficile sia accolto nel club progressista chi dice bene del passato!

4. La Bibbia va interpretata solo e liberamente dai biblisti.

È questo un caposaldo d’obbligo del progressismo. Siamo arrivati ad una questione, o meglio ad una affermazione veramente nodale in tutta la storia del progressismo ecclesiastico moderno. Bisogna rifarsi ai fatti, i quali non cominciarono precisamente in quella seconda seduta del Vaticano secondo, nella prima sessione, nella quale taluni gioirono, credendo che due interventi niente affatto felici avessero posto una buona volta la scure alla radice della divina tradizione ed avessero spianato la via alla conversione verso il Protestantesimo. Quei due interventi, consci o no di portare l’afflato di male intenzionate persone, avevano dei precedenti. Eravamo presenti in mezzo a tutti gli avvenimenti e siamo ben sicuri di quello che diciamo. Da tempo, e molti atti di Pio XII ne fanno fede, il bacillo di volere interpretare la Sacra Scrittura in modo «privato» detto scientifico era entrato, pur non osando entrare nella editoria di divulgazione per la stretta vigilanza degli Imprimatur. La storia è dunque assai vecchia, ma solo negli ultimi tempi è diventata di portata comune. Eccone i punti. — La filologia, la archeologia, le ricerche linguistiche, i procedimenti comparati (ad usum delphini), ma soprattutto le svariate opinioni di tutti gli scrittori specialmente d’oltralpe, ai quali generalmente si fa credenza solo citandone il nome e il titolo (mai o quasi mai chiedendo le ragioni e vagliandole), costituiscono il vero, unico modo de facto di interpretare la Bibbia. Non importa si pronunci una parola; la pronunciamo Noi: questo è libero esame, perché sostituisce il «placitum» privato al primo vero mezzo stabilito da Dio per la interpretazione della sua natura: il Magistero. La parola «libero esame» viene accuratamente taciuta e continuamente applicata. — Il complesso sopra citato, a parte che è la ripetizione di teorie propinate nel secolo scorso e sulle quali le scuole cattoliche hanno riso per più di mezzo secolo, è soggetto ad un flusso e riflusso, ad un susseguirsi di affermazioni e di smentite, ad una produzione di fantasia, che da solo non può essere, in cosa tanto grave, vera garanzia. — La ermeneutica cattolica ha sempre insegnato che la prima interpretazione delle Scritture, comparata con le Scritture e con la divina tradizione, riceve la autentica garanzia di certezza dal Magistero. Se la scioltezza di interpretazione della Bibbia da ogni vincolo precostituito da Dio stesso si chiama «progresso», ciò significa che tale progresso porta con sé alla eresia ed alla apostasia. Come è ben sovente accaduto sotto gli occhi di tutti. Ogni elemento è utile alla più adeguata interpretazione della Bibbia, certo! Ma il primo, condizionante tutti gli altri, è quello che ha determinato Iddio. Niente di più logico e di più ovvio. Non è compito di questa lettera vedere le conseguenze pratiche di tutto ciò.

La materia biblica non è in fin dei conti una materia esoterica, nella quale solo gli iniziati possono entrare con perfetta riverenza e grande circospezione. Qualunque uomo, pratico di pensiero e di logica, messo dinanzi ad una protasi (putacaso una locuzione siriaca) ed una apodosi (p.e. la interpretazione di un passo di Matteo) quando la prima gli è spiegata (e non occorre molto; spesso basta un dizionario), è in grado di vedere se è valevole il rapporto di causa, di effetto affermato tra i due termini. Non è il caso di assumere la sufficienza che il buon don Ferrante assumeva quando dissertava sulle strane parole «sostanza» ed «accidente» cavandone la inesistenza della peste. Il che non era vero! Insistiamo sull’argomento perché proprio qui sta un centro di tutto il fenomeno che va sotto il nome di «progressismo».

5. Le allegre «teologie»

Pare che un buon progressista si debba mettere qui in fila. Ecco il fatto: si sta costruendo una teologia per ogni cosa, a proposito e a sproposito: del lavoro, dell’uomo (antropologia), della tecnica, delle comunicazioni sociali, della comunità, della morte di Dio (?), della speranza, della liberazione e della rivoluzione... Quasi tutte queste voci sono decorate di notevoli volumi. Non c’è alcun dubbio che tale proliferazione è una delle più grandi caratteristiche del progressismo. Vediamo di capirci. Queste sono vere «teologie», anzitutto? È «teologia» quella in cui le affermazioni sono dimostrate dalle fonti teologiche. Quando le affermazioni vengono basandosi sui criteri di qualunque manifestazione saggistica, non abbiamo Teologia. Avremo tutto quello che si vuole, vero o falso, ma certo non avremo Teologia. Queste teologie, salvo in qualche parte e taluna soltanto, non sono affatto «Teologia». Noi dobbiamo protestare contro l’abuso di un termine che la fatica dei secoli ha reso venerandi e assolutamente proprio. In secondo luogo dovremmo porci la domanda se queste teologie contengono verità. Non è nell’intento e nell’assunto di questa nota occuparci del merito, ossia dei «contenuti» di queste teologie o sedicenti teologie. Ci limitiamo solo a fissarne alcuni caratteri comuni. — Lo schema di queste teologie segue gli stati d’animo che si vivono nel nostro tormentato secolo e pertanto hanno più un carattere di rivelazione della nostra situazione concreta che un vero contenuto oggettivo e permanente. — Difatti puntano su assiomi cari a qualche pensatore dell’Ottocento o del Novecento. Vanno secondo il vento che tira. Il «sociologismo», del quale abbiamo già parlato e che tiene il campo, deriivando da un principio messo dal cristianissimo e devoto Mounier, di fatto si ispira al marxismo, del quale la povera gente ha già esaurito la esperienza che non ha invece ancora illuminato i suoi più o meno stanchi assertori. Sarebbe forse questa la «Nova Theologia»? Risentiamo ancora oggi con perfetta vivezza una voce potente, modulata magnificamente in modo oratorio, che nel Vaticano secondo si levò per chiedere — con altre cose — una «Nova Theologia». Non potevamo vedere dal nostro posto il Padre al quale apparteneva quella magnifica voce.

Sono passati più di dieci anni e non sono riuscito a capire che cosa l’Oratore intendesse propriamente per «Nova Theologia». Se le varie teologie delle quali abbiamo parlato, denominandole «allegre», sono una risposta alla domanda, bisogna dichiararsi al tutto insoddisfatti. Ma sotto il fatto, presentato come un fenomeno «caratterizzante il progressismo», c’è ben altro e ben più importante. C’è la valutazione negativa di tutta la Teologia fino al 1962. E questo è grave. Infatti. La Teologia ha condotto per tanti secoli questo grande lavoro. Ha preso da tutte le Fonti autentiche il pensiero della rivelazione divina e, senza forzature o deformazioni (parliamo del filone, non dei cantanti extra chorum), le ha messe insieme pazientemente, riducendole in formule accessibili all’indagine del nostro pensiero. Lavoro paziente di ricerca, di accostamento, di sintesi. A tutto ha dato un ordine che fosse più scorrevole per la logica dell’apprendimento umano. Niente ha accolto che non fosse secondo la mente delle Fonti. Questo lavoro immenso e prezioso si chiama «istituzionalizzazione». Tutto quello che documentatamente raccolto ha cercato di penetrare, aiutandosi coi princìpi del buon senso umano, nella misura in cui era consono alle Fonti o addirittura derivato da esse, tutto questo costituisce la parte «speculativa» della Teologia, senza della quale la parte sopra descritta (positiva) non aprirebbe sufficientemente il suo significato alla intelligenza umana. Intendiamoci bene: non ha accolto le filosofie transeunti, ma il buon senso umano, quello assunto da Dio stesso nell’atto di calare la Sua Rivelazione nelle forme concettuali a noi solite. Ed ecco la finale interessante: tutto questo, per la serietà del procedimento, ossia del metodo, non permette di fare quello che si vuole, quello che comoda, quello che mette a vento secondo le mode transeunti. Per questo la Teologia speculativa è venuta a noia; meglio è dilettarsi sulle «variazioni» estranee al metodo. Tutto ciò è in odio alla Teologia. Non dunque «Nova Theologia», ma «anatematizzata Teologia». La Teologia, occupandosi del pensiero da Dio comunicato agli uomini, ha da camminare fino alla fine dei tempi e solo così compirà la sua missione. Vi sono in essa filoni ancora inesplorati, che possono dare ansa al genio di molti santi Tommasi d’Aquino. Ben vengano, ma sarà una cosa seria! La questione sarà chiarita da quanto stiamo per dire a! numero seguente.

6. Accogliere ed imparentarsi quanto è possibile con tutte le varie filosofie Altro appannaggio che assicura la qualifica ambita di «progressista».

Un principio decantato in tutti i modi dal progressismo è quello di accogliere tutto il pensiero via via fluente, cercare di adeguare a quello il messaggio cristiano e, se occorre, fare secondo quello, via via, una reinterpretazione della rivelazione divina. Chi non accede a questo punto di vista è un trito conservatore, un vecchio inutile rudere, al quale nessuna persona colta crederà più. Abbiamo detto il fatto in forma assolutamente cruda; molti, che amano essere progressisti, un punto di vista del genere amano presentarlo in dosi variabili, anche omeopatiche, si da permettere sempre una tempestiva ritirata strategica. Guardiamo bene in faccia questa faccenda. — Il pensiero umano cambia, si dice. Meglio: cambia il pensiero accademico a seconda degli idoli del momento. Fuori della professione filosofica ed intellettuale etichettata, continua a vivere bene o male il buon senso umano. È vero però che gli strumenti della cultura si orientano secondo i placita di moda e così influenzano molti spiriti e molti avvenimenti, come accade net nostro tempo per i metodi hegeliano e freudiano dopo che i loro autori sono sconosciuti ai più e sono, comunque, morti. — Accettare qualunque pensiero umano, spesso contraddittorio, significa qualcosa di più che cambiare testa, ma significa soprattutto non credere alla esistenza della verità. Se questa oggi è bianca, domani è nera, vuol dire che non esiste. La conseguenza logica è patente: se si deve aggiustare sempre la Parola di Dio a seconda di questo cangiante scenario, si accetta che non esiste la verità, la Rivelazione, Dio. La consequenzialita è tremenda, ma non la si sfugge. Lo stesso vale per la reinterpretazione del dogma.

Il progressismo qui accetta il relativismo. Che cosa può più difendere nella Fede? È distrutto tutto. Non eresia, ma anche apostasia! Con tutto questo non si esclude affatto che le diverse e contraddittorie manifestazioni del pensiero possano avere qualche parte od aspetto immune dalla sua interna logica distruttiva e pertanto accettabile, che taluni aspetti vengano illuminati, che talune stimolazioni siano afferenti. Tanto meno si esclude che il messaggio evangelico vada presentato in modo comprensibile agli uomini del proprio tempo, usando con la dovuta cautela il suo linguaggio ed i suoi mezzi espressivi. La parentela tra il progressismo ed il relativismo, ossia il modernismo condannato, è una parentela troppo vergognosa per gloriarsene.

7. Il rifiuto della apologetica Siamo sempre nel bagaglio che autorizza ad essere progressisti.

Le premesse della Fede (apologetica) non si dimostrano più. La ragione? È stata già detta e scende logica dalle sue premesse: abbiamo visto che il progressismo accetta il relativismo (anche quando smentisce, nei suoi più pavidi e i meno aperti cultori). Abbiamo visto che per questo non esiste verità obiettiva. Dobbiamo dedurne che la questione della Fede è una mera questione di fede devozionale, insufflata dal sentimento (modernismo); che c’è dunque da dimostrare? Niente. Difatti in campo biblico si mette in dubbio o il testo qualunque o il significato che la Chiesa (Magistero) gli ha sempre attribuito, si mette in dubbio la storicità dei Vangeli, della Resurrezione di Cristo... Non occorre dimostrare queste cose. La Fede viene bene e la si tiene; è inutile cercare degli elementi di prova. Non vale che nessun libro storico della antichità abbia dimostrazioni di critica esterna e interna, quale hanno i libri della Bibbia. Queste cose non servono più. Abbiamo visto e vediamo tuttora tanta gente tornare a Dio, solo perché è possibile dare una dimostrazione scientifica, poniamo dello Evangelo di Matteo. Ma bisogna rinnegare anche questa onesta capacità che il Vangelo di Matteo — come gli altri — ha di farsi precedere dalla più rigorosa documentazione della sua autenticità. Questo è il progressismo. Molti anni innanzi non riuscivamo a capire perché uno scrittore di non troppa vaglia non volesse sentir parlare di «apologetica» ora abbiamo capito. Ma non che lui lo sapesse, non era da tanto; era manovrato da chi tacendo lo sapeva. Molti che nella più perfetta buona fede hanno dato un certo ordine nuovo alle materie teologiche da studiare, ordine al quale mai abbiamo consentito, non sapevano di eseguire un comando del modernismo latente sotto la cenere. Il silenzio in fatto di apologetica, che si sente tutto intorno, le meraviglie sincere espresse a chi ritiene sempre necessaria la apologetica, il fingere di ignorare la sequela logica dei «perché» della mente degli uomini, indica fin dove è entrato il modernismo anche in uomini integerrimi ed onesti. Si guardi bene e, soprattutto, si lasci da parte l’inutile erudizione, usando la propria testa, e si vedrà che tutto il progressismo è venato di modernismo. Forse il rifiuto della apologetica ne è la manifestazione più rivelatrice. Citare, sì; ragionare, no! Perché la ragione e il suo valore non può venire accolta dal modernista. Ci voleva poi tanto a capirlo?

8. La riabilitazione degli eretici

Qui c’è la larghezza di cuore del progressismo. Abbiamo già ricordato al n. 3 la trovata di chi ha proposto la canonizzazione di Lutero. Ma c’è altro: i colpiti dagli anatemi del passato riscuotono una notevole simpatia ed hanno molti avvocati difensori, per lo meno in cerca di attenuanti. Giordano Bruno, ad esempio, in talune riviste riemerge dalle ceneri con l’aria di dire «mi avete fatto aspettare quattro secoli, ma ce l’ho fatta». Gli scritti di autori protestanti, che dovrebbero essere all’Indice in forza del canone 1399, sono citati abitualmente al posto di sant’Agostino e di san Tommaso. L’euforia più entusiasta accoglie tutti quelli che sono stati colpiti da censure canoniche, mai come oggi, meritate. Ma, è normale tutto questo? I figli che elogiano in casa quelli che hanno fatto andare in rovina i vecchi, che tengono bordone coi persecutori dei propri parenti, si chiamano «degeneri». Evidentemente la capacità logica di distinguere tra la divina istituzione della Chiesa e gli uomini che la conducono fa al tutto difetto. Ma l’intendimento sotterraneo non è poi tanto invisibile. Si innalzano le presunte vittime del magistero ecclesiastico, per colpire il magistero ecclesiastico; si magnificano i distruttori della disciplina ecclesiastica per umiliare quella Gerarchia, che tutela la stessa disciplina.

Agli eretici ed ai ribelli consiglieremmo di non fidarsi troppo di tali contorti amici. Molti errori si affermano, si difendono, si divulgano, non tanto per se stessi, ma solo per far dispetto a qualcuno. Essi sono semplicemente lo sfogo delle più bambinesche passioni umane. Tutto fa brodo e, elogiando un po’ i ribelli, sostenendo un po’ gli sbandati, rivoltando le cose a modo proprio, si fanno le vendette, si manifestano le invidie, si rendono noti i disappunti di quelli che credono di non esser potuti «arrivare»; soprattutto, nella gran fiera, si fanno meglio i propri comodi. I peggiori! Le condanne ci sono, eccome, ma sono, in via storica, per coloro che nel passato hanno tenuto duro e fatto il loro dovere e per quelli che oggi, rendendosi conto della confusione e del regresso spirituale, vorrebbero fermarne le cause. Si direbbe che i Santi appartengano al passato e gli eretici al futuro: è un pericoloso paradosso.

9. L’antigiuridicismo

Chi lo afferma è sempre stimato vero progressista. Non tutti hanno il coraggio di dire che ogni legge dovrebbe essere abolita, ma moltissimi lo pensano e non vogliono rendersi conto che la legge e l’unico strumento per tenere in ordine e col minimo loro danno degli uomini liberi. L’affermazione sta proprio all’estremo confine della ragionevolezza. La mania è come un vento del deserto, che brucia tutto e lo si trova dappertutto, anche sotto mentite spoglie. Enumeriamo le più ovvie applicazioni, alle quali un numero enorme di persone per bene abbocca, mentre potrebbe in tempo utile evitare delle dannose conseguenze. Ovunque si vogliono le Assemblee: esse indichino, esse decidano. La ragione? Il numero diluisce e fa scomparire — così credono — uno che comandi, il regolamento che limiti. Autorità e regolamenti sono strumenti — oltre tutto — anche giuridici. Poiché non pochi capiscono come vanno a finire le Assemblee cercano di restringere ed usare qualcosa che rassomigli ad una «assemblea ridotta» con qualche regolamento e con un responsabile. Si, parliamo di «responsabili», perché il terrore di macchiarsi di giudiricismo è tale che non si vuole più sentir chiamarsi «presidente», termine troppo giuridico, e ci si salva con una semplice variazione lessicale. Altra forma è l’uso maldestro della «base». Diciamo maldestro perché il termine può essere usato anche in senso buono. Ma l’uso più ricorrente è quello in cui il timore del temutissimo giuridicismo è tale da far paventare le «responsabilità» (termine giuridico, oltreché morale) e pertanto tutto si scarica sulla «base». Non diciamo affatto che i termini, qui proposti come esempio della posizione avversa al giuridicismo, siano cattivi. Tutt’altro! Diciamo solo che mascherano sulla bocca di taluni una debolezza. Per parlare chiaro diciamo che mascherano facilmente una «ipocrisia». Molti — e lo si osserva nei gruppuscoli, anche minori — temono di dirsi «capo» o «presidente», ma aspirano in ogni modo, anche violento, a fare i «tiranni». La verità è tutta qui: gli uomini liberi si tengono a freno, in modo da realizzare una compatibile vita sociale solo in due modi: «la violenza o la legge». Ricordiamo che la paura è un riflesso della violenza. Non si vuole la legge? Si sceglie la violenza? E questo sarebbe progresso? Ma si sa quello che si dice e si scrive? Quando fu pubblicato — alla macchia — un abbozzo di «Legge Fondamentale» per il futuro Codice di Diritto Canonico, fu il finimondo, anche e soprattutto in taluni ambienti cattolici. La ragione non era tanto il fatto che quell’abbozzo metteva insieme poco opportunamente elementi di diritto divino ed elementi di diritto umano (il che sarebbe stato buon motivo per criticare), ma solo perché era una «Legge». Si preferivano dei predicozzi. La contestazione entro la Chiesa fu tutta qui od almeno originariamente qui. E nasceva da una mancanza di logica, come appare dal sopra detto e dal fatto che alla legge si sostituisce la forza. E pensare che a gridare più forte era gente adusa a cantare a Lodi e a Vespro l’inno alla «divina» libertà dell’uomo, o meglio della «persona umana»! Ecco dove si arriva a forza di svuotare la Teologia e dileggiare il vecchio catechismo dalle idee chiare e precise!

10. La crociata antitrionfalistica

Chi è antitrionfalista, nessuno lo dubita, è progressista. È la principale caratteristica esterna — ma non solo esterna — del progressismo tra i cristiani. La parola trionfalismo, davanti alla quale tante persone sentono tremare le vene e i polsi o dalla quale si sentono spinti a far imprese giganti di ripulitura, fa d’ogni erba fascio. Vediamo questo fascio. L’autorità dà noia. Ne devono scomparire i segni esterni, perché muoia essa stessa di esaurimento. Essa ha bisogno di segni visibili, dato che il valore morale per il quale ordina e comanda non lo si vede e non lo si tocca. Quando cerca semplicemente di far sì che gli altrui s’accorgano di essa e del suo dovere, fa del trionfalismo. La Fede, i Sacramenti, il divin sacrificio si manifestano attraverso atti semplici ed anche dimessi. Hanno bisogno, i fedeli, di essere aiutati a vedere quello che è reale, ma che non si vede con gli occhi della carne. Ebbene, se si fa qualcosa di esteriore che indichi la grandezza delle cose divine, la maestà di Dio, la infinita importanza del santo sacrificio ed in genere del culto divino, si fa del trionfalismo: bisogna stroncare. Ma, se si rivela la voglia di ballare a suon di ritmo durante le azioni liturgiche, non si ha trionfalismo e tutto si può fare. Se al Tempio si dà un decoro per aiutare gli uomini a rendersi conto della grandezza di Dio, della vita, del suo fine; se si domanda per esso di tenere lontane le stranezze che disturbano, che disambientano il raccoglimento e che aiutano la devozione, si fa del trionfalismo. Spoliazione sempre! Se si porta rispetto a! Papa, a quanto denota esternamente la Sua suprema potestà, necessaria alla Chiesa, e pertanto alla salute, si fa del trionfalismo. Bisogna umiliare, avvilire, possibilmente deturpare e lordare: quella sarebbe la vera Fede vissuta. Chi ha pronunciato per primo la disgraziata parola «trionfalismo» non ha riflettuto che dava modo di fare una sintesi di tutti gli appetiti psicologici, patologici, distruttori che potessero trovarsi tra i fedeli e tra gli uomini di Chiesa. Il terrore del trionfalismo fa sì che tutto starebbe bene solo nella Gehenna. Non è solo questione di gusti. Il terrore del trionfalismo — questa parola ha quasi tanto potere di agire sugli spiritelli quanto un termine qualificativo vociferato nella politica italiana — ha delle sottospecie che si notano nel conformismo col quale si accettano e osservano — non le leggi liturgiche emesse dalla legittima Autorità — ma le mode introdotte col criterio del pugno in faccia. Il progressismo ha aspetti che interessano il piano culturale e questo pone limiti di numero e di qualità, ma, quando mette in moto la macchina antitrionfalistica, raccoglie gente come nei paesi le bande dei suonatori.

11. La indisciplina endemica

Cova dappertutto, la paura, la timidezza, le compromissioni trovano seguaci, difensori, tutori dappertutto. Per tale motivo abbiamo usato la parola «endemica». Chi dimostra questo in modo sbarazzino ha diritto al titolo. Guardiamo bene in faccia la triste realtà; essa sembra avere tali coordinate, tali ritmi da doversi ritenere che risponda ad un piano diabolicamente congegnato. C’è infatti una tale logica nella successione degli atti o manifestazioni di questa indisciplina che bisogna pensare ad un disegno preciso ed intelligente. In un primo momento si è gettata una confusione nel campo delle idee. Ricordo la reazione isterica di un personaggio del quale un dipendente era stato multato da altri di «neomodernismo»! A ragione! In un secondo momento, dopo aver gettato la confusione nella Fede, fondamento di tutto, si è aggredita la morale, per rendere nulla la norma e lasciare libertà di espressione ad ogni atto umano. A questo punto si sono attaccati gli elementi esterni che «tenevano insieme la compagine ecclesiastica del clero»: abito, seminari, studi, con una confusione estrosissima di iniziative culturali innumerevoli. Poi si è immessa la idea sociologistica del paradiso in terra al posto del Ciclo, della rivoluzione permanente invece della pace e si è dato un valore simbolico agli atti di culto verso un Signore ormai confinato nelle nebbie. Si è discusso del celibato sacerdotale, anche da maestri, ignorando che la Chiesa non era stata più in grado — almeno questo! — di migliorare e fare avanzare i popoli dove il celibato era abolito. Ultimo e permanente ritrovato: discutere su cose certe, come se non lo fossero, e non lo fossero da Gesù Cristo. Non tutti sono arrivati in fondo, molti sono arroccati senza aver una idea delle conseguenze sugli stati intermedi, altri hanno di pan passo saltato tutto e tutti. Al di sotto resta ancora il popolo, che è buono e al quale pensa Dio evidentemente. Si moltiplicano gli slogans, non si insegna il catechismo; si parla di pastorale e si disertano gradatamente tutti i ministeri; si parla della Parola di Dio e si insegna tranquillamente che è quasi tutta una fiaba, si disserta della vicinanza con Dio e si irride o la si tratta come se fosse risibile la santissima Eucarestia. Almeno in pratica. Tutto questo è progresso!

12. La bassa quota

Fin qui, non lo nego, ho raccolto le posizioni mentali e pratiche alle quali si fa l’onore di attribuire il termine «progressismo». Si tratta di quelle piuttosto intellettuali. E l’ho fatto coscientemente, perché il rimanente, specie per mezzo della comunicazione sociale, discende da quello che in un modo o nell’altro sta al piano superiore della esperienza intellettuale. Ma c’è un «modo di agire» più semplice, più «pop», che forma il loggione per il palcoscenico descritto sopra, che costituisce il codazzo confuso e sparpagliato del corteo. In tale codazzo stanno tutti coloro che leggono a vanvera o credono di capire o non hanno senso critico per giudicare. Va da sé che la maggior parte delle cose pubblicate in campo cattolico cercano di tingersi secondo quello che piace al «progressismo». Ed ecco. Nel clero la tessera del progressismo è l’abito, borghese naturalmente, o camuffato in modo tale da crearne la impressione. La norma italiana permette il clergyman, ma ha chiaramente detto che l’abito «normale» è la talare. Forma e colore: due cose che per l’Italia sono ben poco rispettate. Chi porta la talare sta fuori del progresso. Invece la talare, «difesa dalla norma di Legge come abito normale», permette di non perdersi mai nella massa, di restare in evidenza, di costituire una testimonianza di sacralità e di coraggio. Su questo punto credo dovrò ritornare. Infatti in questo momento il pericolo più grave per il clero è quello di scomparire. Sta scomparendo, perché tutto ormai non s’accorge nel mondo ufficiale, della cultura, della politica, dell’arte che ci siamo anche noi. Tra noi si arriva anche al punto di proclamare che non c’è più il «cristianesimo». Forse che non è indicativo il Referendum sul divorzio? Ho la impressione che quasi nessuno si sia provato a studiare il nesso tra l’esito del Referendum e l’abito del prete, tra il Referendum e la pratica distruzione in gran parte d’Italia della Azione Cattolica. So benissimo che il popolo ha ancora la Fede nel fondo del suo cuore e la rinverdisce ad ogni spinta, ma tutto il livore anticlericale e massonico che si è impadronito di quasi tutti i mezzi di espressione fa credere il contrario, agisce come se la Chiesa fosse morta (il che è tutt’altro che vero!); ma sono molti di casa nostra che danno mano a tutto questo. Amare la promiscuità, tinteggiarsi di mondanità, discutere la legittima Autorità e Cristo che l’ha costituita, costituisce benemerenza progressista.

Andare a Taizé invece che a Lourdes o a Roma costituisce progressismo, mentre si va ad uno dei più grandi equivoci religiosi del secolo. Animare gruppi «detti magari di spiritualità» (parola della quale si potrebbe dire come «montes a movendo, tanquam lucus a lucendo e canonicus a canendo»), nei quali ci si infischia soprattutto del parroco e del Vescovo e del Papa, costituisce una delle più soddisfacenti esercitazioni del progressismo. Invitare persone discusse, dubbie nella Fede, dubbie nella disciplina, permette l’acquisire il sorriso compiacente di quanti amano classificarsi progressisti. Soprattutto: chi parla più tra costoro di santità, di ascetica, di mortificazione, di dedizioni senza plausi sospetti? Chi accetta la povertà, quella alla quale ci lega il nostro dovere, non ostentata, ma praticata? Nella Diocesi di Genova si sono salvati Altari e Tabernacoli, ma si deve lavorare molto per riportare tutto e tutti al vero culto della SS. Eucarestia. Quanto si parla della santissima Vergine? Recentemente si sono dette pubblicamente delle bestemmie autentiche contro la santissima Madre del Signore e nostra e — che si sappia — nessuno di quelli che le hanno ascoltate ha reagito. Al posto delle Associazioni possono sorgere gruppi, che non impegnano nessuno, per parlare ai quali non occorre prepararsi, ma dei quali è sufficiente accarezzare le debolezze, magari ammannendo discussioni sul sesso. Dove è andato a finire per taluni il discorso sulla purezza e sulla modestia? Non se ne parla perché, orribile a dirsi, si ha vergogna di Dio’ Ecco il progressismo «pop», da pochi soldi, ma dalle molte colpe. Questo discorso non è affatto finito, perché si rivolge ad un fatto che tenta di mettere al posto del sacrificio, richiestoci da Dio, il nostro comodo, il nostro piacere, la nostra anarchica indipendenza. La via dell’inferno.

Conclusione

Abbiamo parlato del «progressismo», non del «progresso». Il primo cammina a grandi passi, quando non c’è già arrivato, verso la eresia, lo scisma, l’apostasia, la scollatura di tutto. Il secondo va rispettato come è sempre stato rispettato, nelle sue leggi fisiologiche, che rinnovano l’organismo, ma non lo alterano, né lo distruggono. La parola «progresso» va difesa dalla contaminazione con la parola «progressismo». Questo è una accolta di perversioni, di errori e di viltà; quello è un segno di vita degli spiriti migliori. Ho scritto perché il clero sia illuminato. Le note sull’argomento continueranno.



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