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Gli effetti del PECCATO IMPURO sull'Anima nella Legge di Dio

Ultimo Aggiornamento: 03/09/2009 18:12
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03/09/2009 18:12

GLI EFFETTI DEL PECCATO IMPURO SULL’ANIMA

Insegna Pio XII, «il più grande peccato di oggi è che gli uomini hanno perduto il senso del peccato». Perduto o laicizzato: essi possono avere ancora il senso della colpa, un complesso di colpevolezza, ma non più il vero senso del peccato. Perciò bisogna ritrovare il vero senso di Dio e dell'uomo, della creatura davanti al suo Creatore; il peccato non è una semplice mancanza, una contravvenzione, un mancamento: è una ribellione a Dio stesso, è porre i beni transitori prima o al posto del Bene ultimo, che è Dio; anche la contrizione è ben altra dal semplice dispetto di aver compiuto qualcosa di irregolare. Bisogna tornare a concepire il peccato nel suo senso teologico di offesa a Dio, il che suppone una retta conoscenza della psicologia del peccatore e della sua vera responsabilità.



Effetti del peccato impuro sull'anima, prima che sopraggiunga la morte

Colui che pecca con piena consapevolezza e deliberato consenso contro la purezza, assecondando lo spirito di lussuria compie un atto gravemente disordinato di disaffezione nei confronti di Dio. Trattandosi di peccato mortale, l’anima subisce una netta separazione da Dio. L’affezione al peccato anestetizza, ammutolisce la voce della coscienza, la “voce di Dio” che costantemente richiama l’uomo sulla retta via e pertanto conduce verso un progressivo abbrutimento dell’anima, che si manifesta con la comparsa di comportamenti istintuali e peccaminosi. “Il peccato genera peccato”(cf Mc 4,25).

A proposito di questa "anestesia della coscienza" si legga quanto afferma S. Alfonso Maria de Liguori:

CONSIDERAZIONE XXII - DEL MAL'ABITO

Uno de' maggiori danni, che a noi cagionò il peccato di Adamo, fu la mala inclinazione al peccare. Ciò facea piangere l'Apostolo, in vedersi spinto dalla concupiscenza verso quegli stessi mali, ch'egli abborriva: «Video aliam legem in membris meis... captivantem me in lege peccati» (Rom. 7. 23). E quindi riesce a noi, infettati da questa concupiscenza, e con tanti nemici che ci spingono al male, sì difficile il giungere senza colpa alla patria beata. Or posta una tal fragilità che abbiamo, io dimando: Che direste voi d'un viandante, che dovesse passare il mare in una gran tempesta, con una barca mezza rotta, ed egli poi volesse caricarla di tal peso, che senza tempesta, e quantunque la barca fosse forte, anche basterebbe ad affondare? Che prognostico fareste della vita di costui? Or dite lo stesso d'un mal abituato che dovendo passare il mare di questa vita (mare in tempesta, dove tanti si perdono) con una barca debole e ruinata, qual'è la nostra carne, a cui stiamo uniti, questi volesse poi aggravarla di peccati abituati. Costui è molto difficile che si salvi, perché il mal'abito accieca la mente, indurisce il cuore, e con ciò facilmente lo rende ostinato sino alla morte.

Per prima il mal'abito «accieca». E perché mai i santi sempre cercano lume a Dio, e tremano di diventare i peggiori peccatori del mondo? perché sanno che se in un punto perdon la luce, possono commettere qualunque scelleragine. Come mai tanti cristiani ostinatamente han voluto vivere in peccato, sino che finalmente si son dannati? «Excaecavit eos malitia eorum» (Sap. 2. 21). Il peccato ha tolto loro la vista, e così si son perduti. Ogni peccato porta seco la cecità; accrescendosi i peccati, si accresce l'accecazione. Dio è la nostra luce; quanto più dunque l'anima si allontana da Dio, tanto resta più cieca. «Ossa eius implebuntur vitiis» (Iob. 20. 11). Siccome in un vaso, ch'è pieno di terra, non può entrarvi la luce del sole, così in un cuore pieno di vizi non può entrarvi la luce divina.

E perciò si vede poi che certi peccatori rilasciati perdono il lume, e vanno di peccato in peccato, e neppure pensano più ad emendarsi. «In circuitu impii ambulant» (Psal. 11.9). Caduti i miseri in quella fossa oscura, non sanno far altro che peccati, non parlano che di peccati, non pensano se non a peccare, e quasi non conoscono più che sia male il peccato. «Ipsa consuetudo mali (dice S. Agostino) non sinit peccatores videre malum, quod faciunt». Sicché vivono come non credessero più esservi Dio, paradiso, inferno, eternità.

Ed ecco, che quel peccato che prima faceva orrore, col mal'abito non fa più orrore. «Pone illos, ut rotam et sicut stipulam ante faciem venti» (Psal. 82. 14). Vedete, dice S. Gregorio, con che facilità una pagliuccia è mossa da ogni vento anche leggiero; così vedrete ancora taluno che prima (avanti che cadesse) resisteva almeno per qualche tempo, e combatteva colla tentazione; fatto poi il mal'abito, subito cade ad ogni tentazione, ad ogni occasione che gli vien di peccare. E perché? perché il mal'abito gli ha tolta la luce. Dice S. Anselmo9 che 'l demonio fa con certi peccatori, come fa taluno che tiene qualche uccello ligato col filo, lo lascia volare, ma quando vuole torna a farlo cadere a terra; tali sono (come dice il santo) i mal abituati: «Pravo usu irretiti ab hoste tenentur, volantes in eadem vitia deiiciuntur» (Ap. Edinor. in Vita lib. 2). Taluni, aggiunge S. Bernardino da Siena (tom. 4. Serm. 15), seguiranno a peccare anche senz'occasione.

Dice il santo che i mal abituati si fan simili a' molini a vento, i quali «rotantur omni vento», girano ad ogni aura di vento; e di più voltano, ancorché non vi stesse grano da macinare, e benché il padrone non volesse che voltino. Vedrai un abituato che senz'occasione va facendo mali pensieri, senza gusto, e quasi non volendo, tirato a forza dal mal'abito. S. Gio. Grisostomo: «Dura res est consuetudo, quae nonnunquam nolentes committere cogit illicita». Sì, perché (come dice S. Agostino) il mal'abito diventa poi una certa necessità: «Dum consuetudini non resistitur, facta est necessitas». E come aggiunge S. Bernardino, «usus vertitur in naturam»; ond'è che siccome all'uomo è necessario il respirare, così a' mal abituati, fatti schiavi del peccato, par che si renda necessario il peccare. Ho detto «schiavi»; vi sono i servi, che servono a forza colla paga; gli schiavi poi servono a forza senza paga; a questo giungono alcuni miserabili, giungono a peccare senza gusto.

«Impius, cum in profundum venerit, contemnit» (Prov. 18. 3). Ciò lo spiega il Grisostomo appunto del mal abituato, il quale posto in quella fossa di tenebre, disprezza correzioni, prediche, censure, inferno, Dio, disprezza tutto, diventa il misero quale avoltoio, che per non lasciare il cadavere, su di quello più presto si contenta di farsi uccidere da' cacciatori. Narra il P. Recupito che un condannato a morte mentre andava alla forca, alzò gli occhi, vide una giovane, ed acconsentì ad un mal pensiero. Narra ancora il P. Gisolfo che un bestemmiatore, anche condannato a morte, mentre fu buttato dalla scala proruppe in una bestemmia. Giunge a dire S. Bernardo che per li mal'abituati non serve più a pregare, ma bisogna piangerli per dannati. Ma come vogliono uscire dal loro precipizio, se non ci vedono più? ci vuole un miracolo della grazia. Apriranno gli occhi i miserabili nell'inferno, quando non servirà più l'aprirli, se non per piangere più amaramente la loro pazzia.



In oltre il mal'abito indurisce. «Cor durum efficit consuetudo peccandi», Cornelio a Lapide. E Dio giustamente il permette in pena delle resistenze fatte alle sue chiamate. Dice l'Apostolo che 'l Signore «cuius vult miseretur, et quem vult indurat» (Rom. 9. 18). Spiega S. Agostino: «Obduratio Dei est nolle misereri». Non è già che Iddio indurisce il mal abituato, ma gli sottrae la grazia, in pena dell'ingratitudine usata alle sue grazie; e così il di lui cuore resta duro e fatto come di pietra. «Cor eius indurabitur tanquam lapis, et stringetur quasi malleatoris incus» (Iob. 41. 15). Quindi avverrà che dove gli altri s'inteneriscono e piangono in sentir predicar il rigore del divino giudizio, le pene de' dannati, la passione di Gesu-Cristo, il mal abituato niente ne resterà commosso; ne parlerà e sentirà parlare con indifferenza, come fossero cose che a lui non appartenessero; e a tali colpi egli diventerà più duro. «Et stringetur quasi malleatoris incus».

Anche le morti improvvise, i tremuoti, i tuoni, i fulmini più non lo spaventeranno: prima che svegliarlo e farlo ravvedere, più presto gli concilieranno quel sonno di morte, in cui dorme perduto. «Ab increpatione tua, Deus Iacob, dormitaverunt» (Ps. 75. 7). Il mal'abito a poco a poco fa perdere anche il rimorso della coscienza. Al mal abituato i peccati più enormi gli sembrano niente. S. Agostino: «Peccata quanvis horrenda, cum in consuetudinem veniunt, parva, aut nulla esse videntur». Il far male porta seco naturalmente un certo rossore, ma dice S. Girolamo che i mal abituati perdono anche il rossore peccando: «Qui ne pudorem quidem habent in delictis». S. Pietro paragona il mal abituato al porco, che si rivolta nel letame: «Sus lota in volutabro luti» (2. Petr. 2. 22). Siccome il porco, rivoltandosi nel loto, non ne sente egli il fetore; così accade al mal abituato: quel fetore che si fa sentire da tutti gli altri, egli solo non lo sente. E posto che il loto gli ha tolta anche la vista, che meraviglia, è, dice S. Bernardino, che non si ravveda, neppure mentre Dio lo flagella? «Populus immergit se in peccatis, sicut sus in volutabro luti; quid mirum si Dei flagellantis futura iudicia non cognoscit?» (S. Bern. Sen. p. 2. pag. 182). Onde avviene che in vece di rattristarsi de' suoi peccati, se ne rallegra, se ne ride e se ne vanta. «Laetantur, cum malefecerint» (Prov. 2. 14). «Quasi per risum stultus operatur scelus» (Prov. 10. 23). Che segni sono questi di tal diabolica durezza? Dice S. Tommaso di Villanova, sono segni tutti di dannazione: «Induratio, damnationis indicium». Fratello mio, trema che non ti avvenga lo stesso. Se mai hai qualche mal'abito, procura d'uscirne presto, ora che Dio ti chiama. E mentre ti morde la coscienza, sta allegramente perché è segno che Dio non t'ha abbandonato ancora. Ma emendati, ed esci presto; perché se no, la piaga si farà cancrena, e sarai perduto.



Perduta che sarà la luce, e indurito che sarà il cuore, moralmente ne nascerà che 'l peccatore faccia mal fine, e muoia ostinato nel suo peccato. «Cor durum habebit male in novissimo» (Eccli. 3. 27). I giusti sieguono a camminare per la via dritta. «Rectus callis iusti ad ambulandum» (Is. 26. 7). All'incontro i mal abituati van sempre in giro. «In circuitu impii ambulant» (Ps. 11. 9). Lasciano il peccato per un poco, e poi vi tornano. A costoro S. Bernardo annunzia la dannazione: «Vae homini qui sequitur hunc circuitum» (Serm. 12. Sup. Psal. 90). Ma dirà quel tale: Io voglio emendarmi prima della morte. Ma qui sta la diffìcoltà, che un mal abituato si emendi, ancorché giunga alla vecchiaia; dice lo Spirito Santo: «Adolescens iuxta viam suam, etiam cum senuerit, non recedet ab ea» (Prov. 22. 6). La ragione si è, come ci dice S. Tommaso da Villanova (Conc. 4. Dom. Quadr. 4), perché la nostra forza è molto debole. «Et erit fortitudo nostra ut favilla stupae» (Is. 1. 31). Dal che ne nasce, secondo dice il santo che l'anima priva della grazia non può stare senza nuovi peccati: «Quo fit, ut anima a gratia destituta diu evadere ulteriora peccata non possit». Ma oltre ciò, che pazzia sarebbe di taluno, se volesse giuocare e perdere volontariamente tutto il suo, sperando di rifarsi all'ultima partita? Questa è la pazzia di chi siegue a vivere tra' peccati, e spera poi nell'ultimo giorno della vita di rimediare al tutto. Può l'Etiope, o il pardo mutare il color della sua pelle? e come potrà far buona vita, chi ha fatto un lungo abito al male? «Si mutare potest Aethiops pellem suam, aut pardus varietates suas, et vos poteritis benefacere, cum didiceritis malum» (Ier. 13. 23). Quindi avviene che il male abituato in fine si abbandona alla disperazione, e così finisce la vita. «Qui vero mentis est durae, corruet in malum» (Prov. 28. 14).

S. Gregorio su quel passo di Giobbe: «Concidit me vulnere super vulnus, irruit in me quasi gigas» (Iob. 16. 15): dice il santo così: Se taluno è assalito dal nemico, alla prima ferita che riceve resta forse anche abile a difendersi; ma quante più ferite riceve, tanto più perde le forze, sino che finalmente resta ucciso. Così fa il peccato; alla prima, alla seconda volta resta qualche forza al peccatore (s'intende sempre per mezzo della grazia che gli assiste), ma se poi egli seguita a peccare, il peccato si fa gigante, «irruit quasi gigas». All'incontro il peccatore, trovandosi più debole e con tante ferite, come potrà evitare la morte? Il peccato, al dire di Geremia, è come una gran pietra, che opprime l'anima: «Et posuerunt lapidem super me» (Thren. 3. 53). Or dice S. Bernardo esser sì difficile il risorgere ad un mal abituato, quando è difficile ad uno che sia caduto sotto un gran sasso, e che non ha forza di rimuoverlo per liberarsene: «Difficile surgit, quem moles malae consuetudinis premit».

Dunque, dirà quel mal abituato, io son disperato? No, non sei disperato, se vuoi rimediare. Ma ben dice un autore che ne' mali gravissimi vi bisognano gravissimi rimedi: «Praestat in magnis morbis a magnis auxiliis initium medendi sumere» (Cardin. Meth. cap. 16). Se ad un infermo che sta in pericolo di morte e non vuol prender rimedi, perché non sa la gravezza del suo male, gli dicesse il medico: Amico, sei morto, se non prendi la tal medicina. Che risponderebbe l'infermo? Eccomi, direbbe, pronto a prender tutto; si tratta di vita. Cristiano mio, lo stesso dico a te, se sei abituato in qualche peccato: stai male, e sei di quell'infermi, che «raro sanantur» (come dice S. Tommaso da Villanova); stai vicino a dannarti. Se non però vuoi guarirti, vi è il rimedio; ma non hai d'aspettare un miracolo della grazia; hai da farti forza dal canto tuo a toglier le occasioni, a fuggire i mali compagni, a resistere con raccomandarti a Dio, quando sei tentato; hai da prendere i mezzi, con confessarti spesso, leggere ogni giorno un libretto spirituale, prendere la divozione a Maria SS., pregandola continuamente che t'impetri forza di non ricadere. Hai da farti forza, altrimenti ti coglierà la minaccia del Signore contro gli ostinati: «In peccato vestro moriemini» (Io. 8. 21). E se non rimedi, or che Dio ti dà questa luce, difficilmente potrai rimediare appresso. Senti Dio che ti chiama: «Lazare, exi foras». Povero peccatore già morto, esci da questa oscura fossa della tua mala vita. Presto rispondi; e datti a Dio; e trema che questa non sia l'ultima chiamata per te.



GLI EFFETTI DEL PECCATO IMPURO SULL’ANIMA

Come dice San Tommaso d’Aquino della Summa Theologica “ Niente impedisce che l'effetto di un peccato sia causa di un altro. Infatti dal momento che l'anima viene disordinata da un peccato, più facilmente è inclinata a peccare”.

Quando un’anima commette un peccato si dice che questa viene macchiata. Cos’è questa macchia?

Dice San Tommaso d’Aquino nella Summa Theologica, Questione 86:

[…]In senso proprio si parla di macchia per le cose materiali, quando un corpo nitido, p. es., l'oro, l'argento, o una veste, perde la sua lucentezza a contatto con altri corpi. Perciò nelle cose spirituali se ne deve parlare per analogia a codesta macchia. Ora, l'anima umana può avere due tipi di lucentezza: l'una dovuta allo splendore della luce naturale della ragione, che la dirige nei suoi atti; l'altra dovuta allo splendore della luce divina, cioè della sapienza e della grazia, che porta l'uomo a compiere il bene dovuto. Ma quando l'anima aderisce con l'amore a una cosa, si ha come un contatto di essa. E quando pecca aderisce a qualche cosa che è contraria alla luce della ragione e della legge divina, com'è evidente da quanto sopra abbiamo detto. Ebbene, codesta perdita di luminosità metaforicamente è chiamata macchia dell'anima.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ:

1. L'anima non viene macchiata dalle cose inferiori per la virtù di esse, come se queste agissero su di essa: al contrario è l'anima che col suo agire si sporca, aderendo ad esse disordinatamente, contro la luce della ragione e della legge divina.

2. L'atto intellettivo si compie con la presenza delle cose intelligibili nell'intelletto; perciò l'intelletto non può esserne macchiato, ma piuttosto ne riceve un perfezionamento. Invece l'atto della volontà consiste in un moto verso le cose, cosicché l'amore unisce l'anima alla cosa amata. Per questo l'anima si macchia quando vi aderisce disordinatamente, secondo il detto di Osea: "Diventarono abominevoli come le cose che amarono".

3. La macchia non è qualche cosa di positivo nell'anima, e non indica una semplice privazione: indica invece una privazione della lucentezza dell'anima in rapporto alla sua causa, cioè al peccato. Perciò peccati diversi arrecano macchie diverse. Avviene qualche cosa di simile con l'ombra, privazione della luce dovuta all'interposizione di un corpo: secondo la diversità dei corpi le ombre cambiano. […]

la macchia rimane nell’anima anche dopo l’attaccamento

[…] RISPONDO: La macchia del peccato resta nell'anima anche dopo l'atto peccaminoso. E la ragione si è che la macchia importa, come si è visto, un difetto di luminosità dovuto a un rifiuto di fronte alla luce della ragione, o della legge divina. Perciò finché uno rimane estraneo a codesta luce, resta in lui la macchia del peccato: questa scompare soltanto col ritorno della luce di Dio e della ragione, mediante la grazia. Infatti, pur cessando l'atto del peccato, col quale si era allontanato dalla luce della ragione e della legge divina, l'uomo non torna immediatamente al punto in cui era; ma si richiede un moto della volontà contrario al precedente. Se uno, p. es., si allontana da una persona con una camminata, non si ritrova subito vicino a lei appena smette di camminare, ma deve riavvicinarsi tornando con un moto contrario.[...]

Il peccato è una terribile forza disgregatrice, che provoca lentamente ed inesorabilmente la rovina dell'anima. E' più che evidente la differenza tra una persona che ha costruito la propria anima, attraverso decisioni e azioni, nella propria libertà, seguendo un percorso tracciato nel bene, e un'altra persona che con decisioni e azioni malvage, si è costruita nel male, acconsentendo al male, piuttosto che combatterlo. In sintesi: tra bontà e perversione la differenza è abissale! Il potere del peccato abbrutisce l'umanità, degradandola attraverso una via discendente, che ci avvicina all'animalità, privando per gradi dell'autentica dignità originaria: lo spirito si asservisce alla carne, che prende il sopravvento senza alcun controllo. La via discendente, la via del piacere, la via della carne, è quella che conduce a Satana. Questo è il percorso nel quale la coscienza individuale perde la sua sensibilità, dove è sempre più difficile distinguere tra il bene e il male: progressivamente l'anima muore, nel senso che cade totalmente immersa nelle tenebre del nulla; si vive solo per soddisfare l'istinto e l'egoismo. In questo processo, ha la sua genesi il peccato mortale: totale separazione da Dio, anticipazione della sofferenza eterna.

Se non interviene la Grazia di Dio, se l’anima non ritorna a Dio(=confessione del peccato), convertendo il proprio cuore cambiando radicalmente strada, da un cammino discendente verso un cammino ascendente, l’anima in stato di peccato mortale continuerà a vivere nella separazione da Dio per tutta l’eternità!


Effetti del peccato impuro sull'anima, in seguito alla morte

Come abbiamo precedentemente accennato, l’anima che fino alla fine della propria vita terrena rimane tenacemente legata alla propria situazione di peccato mortale, morendo impenitente sarà necessariamente destinata all’inferno.

Qualcuno, evidentemente poco addentrato nella s. teologia potrà ritenere eccessive queste parole sui castighi che Dio infligge.
Per queste persone aggiungo il seguente testo di Paolo VI , Papa, tratto dalla “Indulgentiarum doctrina”al n. 2

“ È dottrina divinamente rivelata che i peccati comportino pene inflitte dalla santità e giustizia di Dio, da scontarsi sia in questa terra, con i dolori, le miserie e le calamità di questa vita e soprattutto con la morte, sia nell’aldilà anche con il fuoco e i tormenti o con le pene purificatrici. Perciò i fedeli furono sempre persuasi che la via del male offre a chi la intraprende molti ostacoli, amarezze e danni. Le quali pene sono imposte secondo giustizia e misericordia da Dio per la purificazione delle anime, per la difesa della santità dell’ordine morale e per ristabilire la gloria di Dio nella sua piena maestà. Ogni peccato, infatti, causa una perturbazione nell’ordine universale, che Dio ha disposto nella sua ineffabile sapienza ed infinita carità, e la distruzione di beni immensi sia nei confronti dello stesso peccatore che nei confronti della comunità umana. Il peccato, poi, è apparso sempre alla coscienza di ogni cristiano non soltanto come trasgressione della legge divina, ma anche, sebbene non sempre in maniera diretta ed aperta, come disprezzo e misconoscenza dell’amicizia personale tra Dio e l’uomo. Così come è pure apparso vera ed inestimabile offesa di Dio, anzi ingrata ripulsa dell’amore di Dio offerto agli uomini in Cristo, che ha chiamato amici e non servi i suoi discepoli.”

Come dice la Scrittura: non c'è pace per gli empi!! Chi pecca non avrà mai la vera pace, perché la pace viene dalla carità, è dono di Dio e non si potrà mai trovare in chi è contro Dio!

Dunque siamo nell’alveo della vera teologia cattolica si noti la distinzione che il Papa fa tra le pene del fuoco e i tormenti che dicono la pena, e dunque la punizione, che è propria dell’inferno, ed è eterna, e le pene purificatrici, che sono proprie del Purgatorio, e che sono limitate nel tempo.
Questa falsa cultura di cui dicevo tende precisamente a nascondere la reale gravità morale della lussuria e la pena terribile che ad essa segue, presentando il peccato che è un grave male come un grande bene. Di questi tali, paladini dell’inganno e del male, Dio, per bocca del profeta Isaia, afferma “Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l'amaro in dolce e il dolce in amaro.” (Isaia 5:20)


Circa il merito di una pena eterna per chi muore in condizione di peccato mortale, afferma San Tommaso d’Aquino nella Summa Theologica, Questione 87:

[…]un peccato merita una punizione in quanto sconvolge un dato ordine. E finché rimane la causa, rimane anche l'effetto. Quindi finché dura il sovvertimento dell'ordine, deve rimanere l'obbligazione alla pena. Ora, uno può sconvolgere l'ordine in modo riparabile, o in modo irreparabile. Ebbene, irreparabile è la mancanza che ne elimina il principio stesso: invece se ne salva il principio, in virtù di esso le deficenze si possono riparare. Se si corrompe, p. es., il principio visivo, la vista non è più ricuperabile, se non per virtù divina: se invece la vista soffre delle difficoltà, ma ne è salvo il principio, è ancora riparabile per la natura o per l'arte. Ma ogni ordine ha un principio in rapporto al quale le altre cose ne divengono partecipi. Se quindi il peccato distrugge il principio dell'ordine, col quale la volontà umana è sottomessa a Dio, si avrà un disordine di per sé irreparabile, sebbene possa essere riparato dalla virtù di Dio. Ora, il principio di quest'ordine è il fine ultimo, al quale l'uomo aderisce con la carità. Perciò tutti i peccati che ci distaccano da Dio, col distruggere la carità, di per sé importano un'obbligazione alla pena eterna.
[…]
come insegna S. Gregorio, è giusto che sia punito nell'eternità di Dio, chi osò peccare contro Dio nell'eternità del proprio essere. E si dice che uno ha peccato nell'eternità del proprio essere, non solo per la continuità dell'atto peccaminoso durante tutta la sua vita: ma perché costituendo il proprio fine nel peccato, mostra la volontà di voler peccare eternamente. Perciò S. Gregorio afferma, che "gli iniqui avrebbero voluto vivere senza fine, per poter rimanere senza fine nel peccato".


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