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RAPPORTO SULLA FEDE (il capolavoro di Messori nell'intervista a Ratzinger

Ultimo Aggiornamento: 04/09/2009 15:19
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04/09/2009 15:19



CAPITOLO TREDICESIMO

PER RIANNUNCIARE IL CRISTO

A difesa della missione


La teologia della liberazione "alla sudamericana" si estende dunque anche a parte dell'Asia e dell'Africa. Ma qui, Ratzinger lo ha già osservato, " liberazione " è intesa soprattutto come uscita dal retaggio coloniale europeo. "Si è alla ricerca appassionata - dice - di una corretta inculturazione del cristianesimo. Siamo dunque di fronte a un aspetto nuovo dell'antico problema del rapporto tra fede e storia, tra fede e cultura".

Per inquadrare i termini della questione, osserva: "è ben noto che la fede cattolica così come la conosciamo oggi si è sviluppata innanzitutto su una radice ebraica e poi nell'ambito culturale grecolatino al quale, a partire dall'ottavo secolo, si affiancarono in modo non secondario anche l'elemento irlandese e germanico. L'Africa (la cui evangelizzazione in profondità è cominciata solo negli ultimi due secoli) ha così ricevuto un cristianesimo che in 1800 anni si era sviluppato in ambiti culturali diversi dai suoi. Questo cristianesimo vi è stato portato sin nelle sue piccole forme di espressione. Inoltre, la fede le è giunta nel contesto di una storia coloniale, che oggi è letta soprattutto come una storia di alienazione, di oppressione".

Non è forse vero? dico.

"Non esattamente per quanto riguarda l'attività missionaria della Chiesa. Molti (soprattutto in Europa o in America più che in Africa) hanno dato e danno giudizi ingiusti, storicamente scorretti, sui rapporti tra attività missionaria e colonialismo. Gli eccessi di questo sono stati mitigati proprio dall'azione intrepida di tanti apostoli della fede, i quali hanno spesso saputo creare oasi di umanità in zone devastate da antiche miserie e da nuove oppressioni. Non ci è lecito dimenticare o addirittura condannare il sacrificio illuminato di una folla di missionari che sono divenuti veri padri per i poveri loro affidati. lo stesso incontro tanti africani, giovani e vecchi, che mi parlano con commozione di quei Padri della loro gente che furono certe umanissime e insieme eroiche figure di missionari. Il loro ricordo non si è ancora spento tra coloro che evangelizzarono e cercarono di aiutare in ogni modo, spesso a costo della vita. Si deve anche a quei sacrifici - gran parte dei quali solo Dio conosce se è ancora possibile una certa amicizia tra l'Africa e l'Europa".

Resta però il fatto che fu il cattolicesimo occidentale ad essere esportato in quelle plaghe.

"Oggi siamo ben consapevoli del problema. Ma allora, che cosa potevano fare i missionari, se non cominciare con un catechismo, il solo che conoscessero? Non si dimentichi, poi, che tutti abbiamo ricevuto la fede " dall'esterno -: essa ci viene dalla sua patria semita, da Israele, attraverso la mediazione dell'ellenismo. E ciò che ben seppero i nazisti che cercarono di estirpare il cristianesimo nell'Europa proprio per il suo carattere "straniero" ".

Un vangelo per l'Africa

Anche per lui, comunque, "restano oggi ben validi gli interrogativi di tanti nel Terzo Mondo, in Africa soprattutto: "come può il cristianesimo diventare una nostra propria espressione? come può entrare interamente nella nostra identità? in che misura la sua espressione culturale precedente è obbligante? Il nostro Antico Testamento, più che la storia del popolo ebraico, non è forse la storia dolorosa della nostra gente e delle sue forme religiose tradizionali? "".

Come giudica dunque il Cardinale le risposte che gli africani cominciano a dare a queste domande?

Dice: "I problemi sono posti chiaramente, ma occorre dire che l'auspicata théologie africaine o african theology è per il momento più un auspicio che una realtà. A uno sguardo attento si deve anche dire che moltissimo di ciò che viene presentato come "africano ", in realtà è una importazione europea e con le autentiche tradizioni africane ha molto minori relazioni che non la tradizione cristiana classica. La quale, di fatto, si trova molto più vicina alle nozioni fondamentali dell'umanità e al patrimonio di base della cultura religiosa umana in generale che non le costruzioni tardive del pensiero europeo, spesso distaccate dalle radici spirituali dell'umanità".

È una difesa, se ho capito, del valore " universale " della riflessione cristiana come è stata compiuta in Occidente.

"Occorre riconoscere - precisa - che nessun itinerario può più portare a una situazione culturale antecedente i risultati del pensiero europeo, diffuso da tempo nel mondo intero. D'altro lato, bisogna anche riconoscere che non esiste la tradizione africana "pura" in quanto tale: essa è molto stratificata e pertanto - a seconda dei vari strati e anche delle diverse provenienze - è talvolta contraddittoria".

Ora, continua, "il problema di che cosa è autenticamente africano (ed è dunque da difendere contro la falsa pretesa di universalità di ciò che è soltanto europeo) e il problema, viceversa, di ciò che pur venendo dall'Europa è davvero universale; ebbene, questi problemi non sono affidati soltanto al ragionamento degli uomini ma - come sempre anche al criterio della fede della Chiesa che giudica tutte le tradizioni, tutti i patrimoni socio-culturali, i nostri come gli altrui. Inoltre, bisogna guardarsi da scelte e decisioni affrettate: il problema non è soltanto teorico, per risolversi ha bisogno anche della vita, della sofferenza, dell'amore di tutta la comunità credente. Tenendo sempre presente il grande principio cattolico oggi dimenticato: non i singoli teologi ma la Chiesa tutta intera è il soggetto della teologia".

Si sa di qualche inquietudine della Congregazione di Ratzinger per la creazione di una "Unione Ecumenica" dei teologi africani, che raccoglie studiosi autoctoni di tutte le confessioni.

"L'Unione dei teologi cui si riferisce - dice pone in effetti qualche interrogativo: c'è qui il rischio (oggi del resto riconoscibile anche in altre iniziative in diverse parti del mondo) che, nella ricerca di una dimensione " ecumenica " venga dimenticato il valore della grande unità cattolica a favore di circoscritte comunità culturali nazionali. Presso una simile Unione non è da escludere che. la comunanza di ciò che sembra "africano" metta in ombra la comunanza di ciò che è cattolico. Tutto questo malgrado l'Africa - lo ripeto - sia continente di tale complessità da non poter essere rinchiuso in uno schema generale".

Da varie parti e da tempo - anche presso alcuni vescovi cattolici - si caldeggia l'ipotesi di convocare un grande Concilio africano.

"Sì, ma questa idea non ha ancora una fisionomia precisa. Essa è stata diffusa inizialmente dalla Unione dei teologi di cui parlavamo e ha nel frattempo trovato adesioni (sia pure con gli opportuni ritocchi e precisazioni) anche presso alcuni vescovi. L'America Latina, con le riunioni di Medellin e di Puebla, ha mostrato in concreto che il lavoro dei vescovi di un continente può dare un contributo sostanziale alla chiarificazione di problemi fondamentali e a un corretto adempimento dell'attività pastorale. Pertanto, sembra certamente possibile - a partire dalle esperienze già compiute in altre zone - elaborare per l'idea del Concilio (o, più esattamente del Sinodo) africano una figura giuridica e teologica che possa dargli senso pieno".

Quali i problemi che, per quanto attiene alla vasta e così viva zona africana, si trovano soprattutto al centro dell'attenzione?

"Ci si muove per lo più nel campo della teologia morale, della liturgia, della teologia dei sacramenti. Così, vengono discussi i modi del passaggio dalla poligamia tradizionale alla monogamia cristiana. Inoltre, i problemi della forma di celebrazione del matrimonio e l'introduzione delle tradizioni africane nella liturgia e nella pietà popolare".

Cominciamo con la poligamia. Qual è il problema al riguardo?

"È evidente che la conversione di poligami al cristianesimo comporta problemi difficili sia dal punto di vista giuridico che umano. Al proposito, è importante non confondere la poligamia con la libertà sessuale, così come viene intesa oggi nel mondo occidentale. La poligamia è un'istituzione regolata a livello giuridico e sociale, in cui vengono stabilite delle modalità precise di rapporto tra uomo, donna e bambini. Tuttavia per la fede cristiana si tratta di un modello eticamente insufficiente, nel quale non si rende pienamente giustizia alla verità del rapporto uomo-donna. Recentemente, però, è stata sviluppata (soprattutto da parte di teologi europei!) la tesi secondo cui anche la poligamia potrebbe costituire un modello cristiano di matrimonio e di famiglia. Di contro, i vescovi africani e la maggioranza dei teologi vedono molto bene che questa non sarebbe una positiva "africanizzazione" del cristianesimo, ma piuttosto l'arrestarsi in una fase dello sviluppo sociale superata dal vangelo".

E quanto agli altri problemi?

"Se, nel caso della poligamia, si tratta di una discussione con gruppi marginali, benché aggressivi, è invece molto più serio il problema del legame tra la forma sacramentale del matrimonio cristiano e la stipulazione del matrimonio secondo gli usi tribali. Se ne è discusso ampiamente anche al Sinodo dei vescovi del 1980 e la ricerca di un'adeguata soluzione al problema deve continuare. Sta prendendo poi sempre maggior rilievo il dibattito se il culto degli antenati debba essere introdotto, in qualche sua forma, nella struttura cristiana della fede. La venerazione dei santi e la preghiera per le anime del purgatorio creano in proposito dei punti di contatto, che permettono un dialogo fruttuoso. Si discute anche in quale misura e in qual modo elementi della tradizione locale possano entrare negli altri sacramenti, oltre che nel matrimonio".

" Uno solo è il Salvatore "

Abbiamo parlato dei missionari di ieri e di cattolicesimo già impiantato, pur con tutti i suoi problemi. In questi anni di postconcilio, però, sembra che il dibattito abbia investito le ragioni stesse dello sforzo attuale della Chiesa verso i non cristiani. Non è certo un mistero che una crisi di identità, magari una caduta delle motivazioni, ha infierito con particolare crudezza tra i missionari.

La sua risposta non è priva di preoccupazione: "è dottrina antica, tradizionale della Chiesa che ogni uomo è chiamato alla salvezza e può di fatto salvarsi obbedendo con sincerità ai dettami della propria coscienza, anche se non è membro visibile della Chiesa cattolica. Questa dottrina che (ripeto) era già pacificamente accettata, è stata però eccessivamente enfatizzata a partire dagli anni del Concilio, appoggiandosi a teorie come quella del "cristianesimo anonimo". Si è così arrivati a sostenere che c'è sempre la grazia se uno - non credente in alcuna religione o seguace di qualunque religione - si limita ad accettare se stesso come uomo. Secondo queste teorie, il cristiano avrebbe in più soltanto la consapevolezza di quella grazia che, comunque, sarebbe in tutti, battesimo o no. Sminuita l'essenzialità del battesimo, si è poi portata un'enfasi eccessiva sui valori delle religioni non cristiane, che qualche teologo presenta non come vie straordinarie di salvezza ma addirittura come vie ordinarie".

Questo, a che conseguenza ha portato?

"Simili ipotesi hanno ovviamente allentato in molti la tensione missionaria. Qualcuno ha cominciato a chiedersi: " Perché disturbare i non cristiani inducendoli al battesimo e alla fede in Cristo, visto che la loro religione è la loro via di salvezza nella loro cultura, nella loro parte del mondo? ". In questo modo si è dimenticato tra l'altro il legame che il Nuovo Testamento instaura tra salvezza e verità, la cui conoscenza (lo afferma Gesù in modo esplicito) libera e quindi salva. o, come dice san Paolo: " Dio nostro salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità ". La quale verità, prosegue subito l'Apostolo, consiste nel sapere che " uno solo è Dio e uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù che ha dato se stesso in riscatto per tutti " (1 Tim 2, 4-7). È quanto dobbiamo continuare ad annunciare - con umiltà ma con forza - al mondo d'oggi, sull'esempio impegnativo delle generazioni che ci hanno preceduti nella fede".



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