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L'Anima di ogni apostolato (dom J.B.Gustave Chautard) imperdibile

Ultimo Aggiornamento: 05/09/2009 22:19
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05/09/2009 21:51


Cap– V –
Risposta ad una prima obiezione:
la vita interiore è oziosa?


Questo libro è rivolto unicamente agli uomini d’azione animati dal desiderio ardente di dedicarsi all’apostolato, ma esposti al pericolo di trascurare i mezzi necessari affinché la loro dedizione sia feconda per le anime senza diventare un dissolvente della loro vita interiore.

Non è nostro scopo stimolare i pretesi apostoli che hanno il culto del riposo, né scuotere le anime illuse dall’egoismo, che fa loro vedere nell’ozio un mezzo che favorisce la pietà, e neppure intendiamo smuovere l’indifferenza di quegli indolenti ed addormentati che, nella speranza di ottenere vantaggi ed onori, accettano di dare il loro nome a determinate opere purché non sia turbata la loro pace ed il loro ideale di tranquillità: per costoro ci vorrebbe ben altro libro.

Lasciamo ad altri l’incarico di far comprendere a questa categoria di apatici la responsabilità d’una esistenza che Dio voleva attiva e che il demonio, d’accordo con la natura, rende sterile per mancanza di attività e di zelo, e torniamo a rivolgerci ai venerabili fratelli cui vogliamo riservare queste pagine.

Nessun termine di paragone può riflettere la infinita intensità dell’attività che si svolge in seno a Dio. La vita interiore del Padre è tale che genera una Persona divina; dalla vita interiore del Padre e del Figlio procede lo Spirito Santo.

La vita interiore comunicata agli Apostoli nel Cenacolo, accese subito in loro la fiamma dello zelo.

Per chiunque abbia istruzione e non si sforzi di snaturarla, questa vita interiore è un principio di abnegazione.

E se anche non si rivelasse con manifestazioni esteriori, la vita di preghiera è in sé ed intimamente una sorgente di attività che non può essere paragonata a nessun’altra. Non vi è nulla di più falso del considerarla come una specie di oasi in cui ci si possa rifugiare per trascorrervi pigramente l’esistenza. Basta che essa sia la via più breve che porta al Regno dei Cieli, perché le si possano applicare in modo speciale quelle parole: «Il Regno dei Cieli lo si ottiene con la forza e sono i violenti a conquistarselo» (Mt. 11, 12).

Don Sebastiano Wyart, il quale aveva conosciuto il lavoro dell’asceta e le lotte del militare, la fatica dello studio e le cure inerenti alla carica di superiore, soleva dire che vi sono tre specie di lavoro:

a) Il lavoro quasi esclusivamente fisico di coloro che esercitano un mestiere manuale – di contadino, di artigiano, di soldato -; comunque si pensi, diceva, questo lavoro è il meno duro di tutti.

b) Il lavoro intellettuale dello scienziato e del pensatore dediti alla ricerca, spesso ardua, della verità; il lavoro dello scrittore e del professore che fanno ogni sforzo per far penetrare questa verità in altre intelligenze; il lavoro del diplomatico, del negoziante, dell’ingegnere eccetera; gli sforzi mentali del generale in battaglia per prevedere, dirigere e decidere. Questo lavoro è in se stesso molto più penoso del primo, come espresso dal noto proverbio: «la lama consuma il fodero».

c) Infine c’è il lavoro della vita interiore. Il santo sacerdote non esitava a proclamarlo il più assorbente dei tre, se viene fatto sul serio11. Ma è allo stesso tempo quello che ci dà in questa vita maggiori consolazioni ed è anche il più importante, perché forma non soltanto la professione dell’uomo, ma l’uomo stesso. Quanti si gloriano d’essere coraggiosi nei due primi generi di lavoro che portano alla fortuna e al successo, ma non sono altro che inerti, pigri e vili quando si tratta di lavorare per la virtù!

Sforzarsi continuamente per dominare se stesso e il proprio ambiente, per agire mirando in ogni cosa alla sola gloria di Dio, è l’ideale dell’uomo risoluto ad acquistare la vita interiore. Per realizzarlo, egli si sforza in ogni circostanza di restare unito a Gesù Cristo, di tener sempre l’occhio fisso al fine da raggiungere e di ponderare ogni cosa alla luce del Vangelo. Ripete spesso con Sant’Ignazio: «Quod vadam et ad quid?» Intelligenza e volontà, memoria e sensibilità, immaginazione e sensi: tutto in lui è regolato da un principio. Ma a prezzo di quali sforzi arriva a tali risultati! Sia che si mortifichi o si conceda qualche onesto piacere, che pensi o realizzi, che lavori o si riposi, che ami il bene o che provi avversione per il male, che desìderi o tema, che accetti la gioia o la tristezza, che sia pieno di speranza o di timore, indignato o pacifico, sempre e in tutte le cose egli si sforza di tenere con tenacia il timone nella direzione del divino beneplacito. Nella preghiera e soprattutto vicino all’Eucaristia, egli s’isola ancor più completamente da tutto quanto lo circonda, onde poter trattare con l’invisibile Dio come se lo vedesse12. Anche in mezzo alle fatiche apostoliche egli mira a praticare quell’ideale che San Paolo ammirava in Mosé.

Avversità della vita o bufere delle passioni, nulla può sviarlo dalla linea di condotta che si è imposto; se per caso s’indebolisce un momento, subito si rialza per riprendere più vigorosamente la marcia in avanti.

Quale lavoro! E si comprende allora come già su questa terra Dio ricompensi con gioie particolari colui che non indietreggia davanti allo sforzo richiesto da questo lavoro.

«Oziosi, i veri religiosi? – concludeva don Wyart – Oziosi, i sacerdoti di vita interiore e zelanti? Ma via! Vengano i mondani, anche quelli più affaccendati, a constatare se la loro fatica è paragonabile alla nostra!»

Chi non ne ha fatta l’esperienza? Alle volte si è tentati di preferire magari lunghe ore di faticoso lavoro a una mezz’ora d’orazione ben fatta, ad un’assistenza devota alla Messa, alla recita attenta dell’Ufficio13. Il padre Faber esprimeva il suo rammarico nel dover costatare che per certuni «il quarto d’ora che segue la Comunione è il più noioso della giornata». Se si tratta di fare un breve ritiro di tre giorni, quale ripugnanza si dimostra! Sottrarsi per tre giorni alla vita facile (benché molto occupata) per vivere nel soprannaturale e farlo penetrare, durante quel tempo di ritiro, in tutti i particolari della propria vita; sforzare la mente perché esamini tutto, per quel tempo, alla luce della fede; sforzare il proprio animo a dimenticare tutto per respirare solo Gesù e la sua Vita, rimanere faccia a faccia con se stessi per mettere a nudo le infermità e le debolezze dell’anima, gettandola nel crogiolo, senza commiserare le sue proteste: ecco una prospettiva che fa indietreggiare moltissime persone che magari sono pronte a qualunque fatica, finché si tratta d’impegnarsi in un’attività puramente naturale.

Ma se tre giorni appena di tale occupazione sembrano già così penosi, cosa proverà mai la nostra natura all’idea di sottoporre gradatamente una vita intera al regime della vita interiore?

Senza dubbio, in questo lavoro di spogliamento, a svolgere il ruolo principale è quella grazia che rende soave il giogo e leggero il peso. Ma quanta materia di sforzo da compiere vi trova l’anima! Le costa sempre molto il rimettersi sulla retta via e ritornare al principio «la nostra patria sta nei Cieli» (Fil. 3, 20). Lo spiega molto bene san Tommaso. L’uomo, dice, è posto tra le cose terrene e i beni spirituali nei quali si trova l’eterna beatitudine. Quanto più aderisce alle prime, tanto più s’allontana dai secondi14. Accade come nella bilancia: se un piattello si abbassa, l’altro s’innalza in proporzione.

Orbene, la catastrofe del peccato originale che ha sconvolto l’economia del nostro essere, ha reso penoso questo duplice movimento di adesione e di allontanamento. Da allora, per poter ristabilire e mantenere, mediante la vita interiore, l’ordine e l’equilibrio in questo «piccolo mondo» che è l’uomo, ci vuole fatica, dolore e sacrificio. Si tratta di ricostruire un edificio rovinato e preservarlo poi da nuova rovina.

Distogliere costantemente dalle cure terrrene, per mezzo della vigilanza, della rinunzia e della mortificazione, questo cuore aggravato da tutto il peso della natura corrotta, «aggravati di cuore» (Ps. 4, 3); riformare il proprio carattere specialmente su quei punti in cui è più dissimile dalla fisionomia dell’anima di Nostro Signore – dissipazione, trasporti d’ira, compiacenza di sé e fuori di sé, manifestazioni di orgoglio o di naturalismo, come pure durezza, egoismo, mancanze di bontà, eccetera -; resistere alla brama del piacere presente e sensibile, con la speranza di una felicità spirituale che si potrà godere solo dopo una lunga attesa; distaccarsi da tutto ciò che può farci amare la vita presente; fare un olocausto senza riserve di tutto: creature, desideri, cupidigie, concupiscenze, beni esterni, volontà e proprie vedute... quale còmpito!

Eppure questa non è che la parte purgativa della vita interiore. Dopo questa lotta a corpo a corpo – lotta che faceva gemere san Paolo15 e che il padre de Ravignan descriveva con queste parole: «Voi mi domandate cosa ho fatto durante il noviziato? Eravamo in due; ne ho gettato uno dalla finestra e sono rimasto solo» – dopo questa lotta senza tregua contro un nemico sempre pronto a rinascere, è necessario proteggere dai minimi ritorni dello spirito naturalistico un cuore che, purificato dalla penitenza, è ora consumato dal desiderio di riparare gli oltraggi fatti a Dio; bisogna dispiegare tutta l’energia per tenerlo unicamente attaccato alle bellezze invisibili delle virtù da acquistarsi onde imitare quelle di Cristo; bisogna sforzarsi di conservare anche nelle minime circostanze della vita un’assoluta fiducia nella Provvidenza: questa è la parte positiva della vita interiore. Chi non intravvede l’immensità di questo campo di lavoro che si presenta?

E’ un lavoro intimo, assiduo e costante; ma è proprio con questo lavoro che l’anima acquista una meravigliosa facilità ed una stupefacente rapidità di esecuzione nelle fatiche apostoliche. Solo la vita interiore possiede questo segreto.

Le opere immense compiute, nonostante una salute precaria, da un Agostino, da un Giovanni Crisostomo, da un Bernardo, da un Tommaso d’Aquino, da un Vincenzo de’ Paoli, ci gettano nello stupore. Ma ancor più ci meraviglia vedere come questi uomini, pur essendo immersi in occupazioni quasi continue, sapevano mantenersi nella più costante unione con Dio. Nel dissetarsi più degli altri alla sorgente della Vita per mezzo della contemplazione, questi santi ne attingevano le più vaste capacità di lavoro.

E’ pure questa la verità che uno dei nostri grandi Vescovi, sovraccarico di lavoro, esprimeva ad un uomo di Stato, anch’egli oppresso dagli affari, il quale gli domandava il segreto della sua continua serenità e dei mirabili successi delle sue opere: «Mio caro amico, aggiungete a tutte le vostre occupazioni una mezz’ora di meditazione ogni mattina: non solo sbrigherete i vostri affari, ma troverete anche il tempo per realizzarne dei nuovi».

Infine noi sappiamo che il santo Re Luigi IX, nelle otto o nove ore che abitualmente dedicava agli esercizi della vita interiore, trovava il segreto e la forza di applicarsi agli affari dello Stato e al bene dei sudditi con tanta sollecitudine che, per ammissione di un oratore socialista, mai, neppure ai nostri tempi, fu fatto tanto in favore delle classi lavoratrici quanto lo è stato sotto il regno di questo principe.


Capitolo VI

Risposta ad una seconda obiezione:

La vita interiore è egoistica?


Non parliamo qui del pigro né del goloso spirituale, che fanno consistere la vita interiore nelle gioie di una piacevole oziosità e cercano più le consolazioni di Dio che il Dio delle consolazioni: costoro non hanno che una falsa pietà. Ma colui che, per leggerezza o per pregiudizio, definisce egoistica la vita interiore, non l’ha certo compresa meglio.

Abbiamo già detto che questa vita è la sorgente pura e ricca delle più generose opere di carità verso le anime e della carità che allieva le miserie terrene. Ora esaminiamo l’utilità di questa vita sotto un altro aspetto.

Egoistica e sterile sarebbe dunque la vita interiore di Maria e di Giuseppe? Che bestemmia e che assurdità! Eppure, a loro non viene attribuita nessuna opera esteriore. Ma l’irradiazione sul mondo di una intensa vita interiore e i meriti delle preghiere e dei sacrifici applicati all’estensione dei benefici della Redenzione, sono bastati da soli a costituire Maria Regina degli Apostoli e san Giuseppe Patrono della Chiesa Universale16.

Lo sciocco presuntuoso, che solo vede le sue opere esteriori ed i loro risultati, non fa che ripetere le parole di Marta: «Mia sorella mi ha lasciata sola a servire!» (Lc. 10, 40).

La sua fatuità e la sua scarsa comprensione delle vie divine non arrivano al punto di fargli supporre che Dio non sappia quasi fare a meno di lui. Ma intanto ripete volentieri con Marta, incapace di apprezzare la vita contemplativa della sorella: «Dille dunque che mi aiuti» (Lc. 10, 40), e magari giunge ad esclamare: «A che pro tutto questo spreco?» (Mt. 24, 8), rimproverando come uno perdita di tempo i momenti che i suoi fratelli di apostolato, i quali fan più vita interiore di lui, si riservano per assicurare la loro unione con Dio.

«Io santifico me stesso per loro, affinché essi pure siano santificati nella verità» (Gv. 17, 19): ecco come risponde l’anima che ha compreso tutta la portata della parola del Maestro. Conoscendo il valore della preghiera, alle lacrime ed al sangue del Redentore quest’anima unisce le lacrime dei suoi occhi e il sangue di un cuore che si purifica ogni giorno di più.

Con Gesù, l’anima di vita interiore sente la voce dei delitti del mondo salire verso il cielo e domandare sui loro autori un castigo di cui essa ritarda l’esecuzione con l’onnipotenza della supplica, capace di trattenere la mano di Dio pronta a scagliare i fulmini.

«Coloro che pregano – diceva dopo la sua conversione l’eminente statista Juan Donoso Cortés – fanno per il mondo più di quelli che combattono, e se il mondo va di male in peggio, ciò è dovuto al fatto che vi sono più battaglie che preghiere».

«Le mani alzate – diceva Bossuet – sbaragliano più battaglioni di quelle che colpiscono». E i solitari della Tebaide, anche in mezzo al deserto, avevano spesso nel cuore il fuoco che bruciava San Francesco Saverio. Sembrava – dice Sant’Agostino – che avessero abbandonato il mondo più di quanto era necessario: «Videntur nonnullis res humanas plus quam oportet, deseruisse»; ma non si riflette – aggiungeva – che le loro preghiere, rese più pure dal loro grande distacco dal mondo, diventavano più efficaci e più necessarie a questo mondo corrotto.

Una preghiera breve, ma fervente, di norma affretterà una conversione ben più che lunghe discussioni e discorsi. Colui che prega tratta con la Causa prima e agisce direttamente su di essa, ed ha in mano tutte le cause seconde, perché queste ricevono la loro efficacia unicamente da questo Principio superiore. Perciò l’effetto desiderato viene allora ottenuto più sicuramente e più presto.

Secondo un’attendibile rivelazione, diecimila eretici furono convertiti da una sola preghiera infuocata della serafica Santa Teresa, la cui anima incendiata per Cristo non poteva comprendere una vita contemplativa che si disinteressasse della sollecitudine del Salvatore per la conversione delle anime. «Accetterei il purgatorio fino al giorno del Giudizio universale – diceva – pur di liberare una sola di esse. Poco importa la durata delle mie sofferenze, se così potrò liberare una sola anima (e, meglio ancora, parecchie anime) per la maggior gloria di Dio». E alle sue religiose diceva: «Figlie mie, indirizzate a questo fine totalmente apostolico le vostre orazioni, le vostre discipline, i vostri digiuni e i vostri desideri».

Appunto questa è l’opera di Carmelitani, Trappisti, Clarisse. Essi seguono le orme degli Apostoli, sostenendoli con la sovrabbondanza delle loro preghiere e delle loro penitenze. Le loro preghiere piombano dall’alto e giungono, fin dove cammina la Croce e splende il Vangelo, sulle anime, su questi bottini di guerra del Signore. O per meglio dire, è il loro amore nascosto ma attivo che suscita ovunque, nel mondo dei peccatori, la voce della misericordia.

Nessuno quaggiù conosce il perché di quelle lontane conversioni di pagani, dell’eroica fermezza di quei cristiani perseguitati, della gioia celeste di quei missionari martirizzati. Tutto questo è invisibilmente legato alla preghiera di un’umile claustrale. Con le dita poste sulla tastiera delle divine misericordie e dei lumi soprannaturali, la sua anima silenziosa e solitaria presiede alla salute delle anime e alle conquiste della Chiesa17.

Diceva Mons. Favier, vescovo di Pechino: «Io voglio dei Trappisti in questo Vicariato Apostolico; anzi, desidero che si astengano da qualunque ministero, affinché nulla possa distrarli dalle opere di preghiera, di penitenza e degli studi sacri; so bene infatti quale aiuto porterà ai missionari l’esistenza di un monastero di ferventi contemplativi in mezzo ai nostri miseri Cinesi». E in seguito testimoniava: «Siamo finalmente riusciti a penetrare in una regione sinora inavvicinabile. Attribuisco questo successo ai nostri cari Trappisti».

«Dieci Carmelitani che pregano – diceva un Vescovo della Cocincina al Governatore di Saigon – mi daranno maggior aiuto di venti missionari che predicano».

I sacerdoti secolari, i religiosi e le religiose votati alla vita attiva, ma anche alla vita interiore, partecipano allo stesso potere che le anime del chiostro hanno sul cuore di Dio. Ne sono esempi magnifici un Padre Chevier, un Don Bosco e un S. Antonio Maria Zaccaria. La Beata Anna Maria Taigi, nelle sue funzioni di povera massaia, era un’apostola, come lo era S. Benedetto Giuseppe Labre che schivava le vie battute. Il signor Dupont, il santo di Tours, il colonnello Pacqueron ecc., divorati dalla medesimo ardore, erano potenti nelle loro opere in quanto uomini di vita interiore. Il generale De Sonis, tra una battaglia e l’altra, trovava il segreto del suo apostolato nell’unione con Dio.

Egoistica e sterile la vita del Santo Curato d’Ars? Il silenzio sarebbe l’unica risposta meritata da una tale affermazione. Ogni mente saggia attribuisce precisamente alla sua perfetta intimità con Dio lo zelo ed i magnifici successi di questo prete povero di talenti ma che, contemplativo quanto un certosino, era divorato da una grande sete di anime, resa inestinguibile dai suoi progressi nella vita interiore, e riceveva dal Signore, di cui viveva, una certa partecipazione della potenza divina nell’operare le conversioni.

Infeconda la sua vita intima? Ma supponiamo un Curato d’Ars in ogni diocesi. In meno di dieci anni, la nazione sarebbe completamente rigenerata, e lo sarebbe più profondamente che non da una moltitudine di opere insufficientemente basate sulla vita interiore e per quanto organizzate con l’aiuto di grandi mezzi finanziari, dell’ingegno e dell’attività di migliaia di apostoli.

Non dubitiamone: la principale ragione di sperare nella risurrezione della nostra Patria, sta nel fatto che, come si può constatare da alcuni anni, in nessun altro tempo forse vi furono, anche tra i semplici fedeli, tante anime così ardentemente desiderose di vivere unite al Cuore di Gesù e di estendere il suo Regno facendo germogliare attorno a loro la vita interiore. Queste anime elette sono un’infima minoranza, certo; ma che importa il numero quando vi è l’intensità? Se la nostra Patria è risorta dopo la Rivoluzione, lo si deve attribuire a quel gruppo di sacerdoti maturati nella vita interiore mediante la persecuzione. Per mezzo di loro, una corrente di Vita divina venne a riscaldare una generazione, che l’apostasia e l’indifferenza sembravano aver condannato ad una morte che nessuno sforzo umano poteva evitare.

Dopo cinquant’anni di libertà d’insegnamento, dopo quel mezzo secolo che ha visto il rifiorire d’innumerevoli opere, e durante il quale noi abbiamo avuto nelle nostre mani tutta la gioventù nazionale e l’appoggio quasi completo dei governanti, come mai, nonostante risultati apparentemente gloriosi, non abbiamo potuto formare in seno alla nazione una maggioranza così profondamente cristiana da poter lottare contro la lega dei ministri di Satana?18.

Senza dubbio hanno contribuito a questa impotenza l’abbandono della vita liturgica e la cessazione del suo irraggiamento sui fedeli. La nostra spiritualità è divenuta gretta, arida, superficiale, esteriore o del tutto sentimentale; quindi non ha più quella penetrazione e quel fascino sulle anime che suol dare la liturgia, questa grande forza di vitalità cristiana.

Ma non vi è forse un’altra causa in questo fatto?

Non sarà che noi sacerdoti ed educatori, mancando di un’intensa vita interiore, non abbiamo potuto creare nelle anime che una pietà superficiale, senza potenza ideale e senza forti convinzioni? Come docenti non ci dimostrammo forse preoccupati più del successo dei diplomi e del prestigio delle scuole, che non di dare alle anime una solidissima istruzione religiosa? Non abbiamo forse speso le nostre energie senza mirare innanzi tutto alla formazione della volontà, per stampare l’impronta di Gesù Cristo su caratteri ben temprati? E questa mediocrità non è stata forse spesso causata dalla banalità della nostra vita interiore?

Come si suol dire, a sacerdote santo corrisponde un popolo fervente; a sacerdote fervente un popolo pio; a sacerdote pio un popolo onesto; a sacerdote onesto un popolo empio. In coloro che vengono generati nello spirito, c’è sempre un grado di vita in meno.

Non arriviamo ad accettare tale affermazione, ma notiamo che le seguenti parole di Sant’Alfonso esprimono sufficientemente a quale causa dobbiamo attribuire la responsabilità della nostra attuale situazione: «I buoni costumi e la salvezza dei popoli dipendono dai buoni pastori. Se alla testa di una parrocchia c’è un buon pastore, ben presto la devozione fiorirà, i sacramenti saranno frequentati e l’orazione mentale messa in onore. Di qui il proverbio: ‘Quale il pastore, tale la parrocchia’, che riprende il detto dell’Ecclesiastico: ‘Quale il governante della città, tali i suoi abitanti’»19.

Capitolo VII

Obiezione tratta dall’importanza della salvezza delle anime



«Ma – dirà l’anima esteriore in cerca di pretesti contro la vita interiore – come si può pretendere di limitare le mie opere di zelo? Posso io impegnarmi troppo, soprattutto quando si tratta di salvare le anime? La mia attività non supplisce forse a tutto il resto, e vantaggiosamente, con il sublime esercizio dell’abnegazione? Chi lavora prega e il sacrificio supera l’orazione. E San Gregorio non definisce forse lo zelo per le anime come il sacrificio più gradito che si possa offrire a Dio? «Nessun sacrificio è più gradito a Dio che lo zelo per le anime»20.

Prima di tutto, precisiamo il vero senso di queste parole di San Gregorio, seguendo la voce del Dottore Angelico.

Offrire spiritualmente a Dio un sacrificio, dice San Tommaso, è offrirgli qualcosa che gli dà gloria; fra tutti i beni che l’uomo può offrire a Dio, quello più gradito è senza dubbio la salvezza di un’anima. Ma ciascuno deve innanzitutto offrirgli la propria stessa anima, secondo le parole della Scrittura: «Se vuoi piacere a Dio, abbi pietà della tua anima». Una volta compiuto questo primario sacrificio, potremo poi permetterci di procurare ad altri una simile felicità. Quanto più l’uomo unisce strettamente a Dio dapprima l’anima sua e poi quella degli altri, tanto più gradito è il suo sacrificio. Ma questa unione intima, generosa e umile non la si può ottenere che per mezzo dell’orazione. Applicare se stesso e far applicare altri alla vita d’orazione e alla contemplazione, è dunque più gradito al Singore che il dedicarsi o impegnare altri all’azione, alle opere.

Perciò, conclude l’Angelico, quando San Gregorio afferma che il sacrificio più gradito a Dio è la salvezza delle anime, non intende con ciò preferire la vita attiva a quella contemplativa, ma vuol dire soltanto che offrire a Dio anche un’anima sola, Gli dà infinitamente più gloria, ed è per noi molto più meritorio, che offrirgli quanto c’è di più prezioso sulla terra21.

La necessità della vita interiore deve così poco distogliere le anime generose dalle opere di zelo, se l’evidente volontà di Dio esige da loro di accettarne l’incarico, che volersi sottrarre a tale lavoro o dedicarvisi con negligenza, disertare il campo di battaglia col pretesto di meglio coltivare la propria anima e arrivare ad un’unione più perfetta con Dio, sarebbe una pericolosa illusione e, in certi casi, causa di gravi pericoli. «Guai a me, se non avrò evangelizzato», disse S. Paolo (1 Cor. 9, 16).

Ma, fatta questa riserva, diciamo subito che dedicarsi alla conversione delle anime dimenticando la propria, genera un’illusione ancor più grave. Dio vuole che amiamo il prossimo come noi stessi, ma giammai più di noi stessi, cioè mai fino al punto di nuocere a noi stessi personalmente; in pratica si richiede di aver maggior cura della nostra anima che di quella degli altri, perché il nostro zelo deve essere regolato dalla carità e l’assioma teologico insegna che «la prima carità è quella verso se stessi».

«Io amo Gesù Cristo – diceva Sant’Alfonso de’Liguori – e perciò ardo dal desiderio di dargli delle anime: ma prima la mia e poi un incalcolabile numero di altre». Ciò significa tradurre in pratica il «tuus esto ubique» di S. Bernardo: «Non è saggio colui che non è padrone di sé»22.

Il santo abate di Chiaravalle, che fu un prodigio di zelo apostolico, seguiva questa regola. Goffredo, suo segretario, così ce lo dipinge: «Innanzitutto egli è tutto di se stesso, quindi è tutto per gli altri»23.

Così scriveva il medesimo santo al Papa Eugenio III: io non voglio che vi sottraiate completamente dalle occupazioni secolari, ma vi esorto soltanto a non dedicarvici interamente. Se siete l’uomo di tutto il mondo, siatelo anche di voi stesso. Se no, che vi gioverebbe guadagnare tutti gli altri se poi perdeste voi stesso? Riservate dunque qualcosa per voi; se tutto il mondo viene a bere alla vostra fonte, beveteci anche voi. Voi solo dunque rimarreste assetato? Cominciate sempre col pensare a voi stesso. Invano vi dareste ad altre sollecitudini, se finiste col trascurare voi stesso. Tutte le vostre riflessioni comincino e finiscano con voi, dunque. Siate per voi il primo e l’ultimo, ricordando che, nell’affare della vostra salute, nessuno v’è più prossimo del figlio unico di vostra madre24.

E’ molto suggestivo questo appunto di ritiro spirituale lasciato da monsignor Dupanloup:

«Io ho un’attività terribile che rovina la mia salute, turba la mia pietà e non serve affatto al mio sapere: bisogna che la regoli. Dio mi ha fatta la grazia di conoscere che ciò che si oppone soprattutto in me allo stabilimento di una vita interiore tranquilla e fruttuosa, sono l’attività naturale e il potere trascinatore delle occupazioni. Inoltre, ho scoperto che proprio questa mancanza di vita interiore è la sorgente delle mie colpe, dei miei turbamenti, delle mie aridità, dei miei disgusti e della mia cattiva salute. Ho dunque deciso di rivolgere tutti i miei sforzi all’acquisto di questa vita interiore che mi manca e per questo, con la grazia di Dio, ho fissato i seguenti punti fermi:

1) Qualunque cosa debba fare, per compierla mi prenderò più tempo di quel che sia necessario; questo è l’unico mezzo per non essere mai premuto dalla fretta né trascinato.

2) Siccome ho sempre più cose da fare che tempo per farle, e siccome questa prospettiva mi preoccupa e mi travolge, d’ora innanzi non considererò più le cose che debbo fare bensì il tempo che ho da impiegarvici. Lo impiegherò senza perderne nulla, cominciando dalle cose più importanti e non mi inquieterò per tutto ciò che rimarrà da fare, ecc.».

Un abile gioielliere preferisce il minimo frammento di diamante a parecchi zaffiri. Così, secondo l’ordine stabilito da Dio, la nostra intimità con Lui lo glorifica più di tutto quanto potremmo procurare a beneficio di molte anime, ma a danno del nostro progresso spirituale. Quest’armonia nel nostro zelo la vuole il Padre celeste, il quale si applica più nel governare un cuore in cui regna, che non nel governo naturale di tutto l’universo e nel governo civile di tutti gl’imperi25.

Se vede che un’opera diventa un ostacolo allo sviluppo della carità nell’anima che se ne occupa, talvolta Egli preferisce lasciarla scomparire.

Satana, al contrario, non esita a favorire successi del tutto superficiali se, in cambio di essi, può impedire che l’apostolo progredisca nella vita interiore, tanto la sua rabbia sa indovinare quali sono i veri tesori agli occhi di Gesù Cristo. Purché si distrugga un diamante, concede volentieri qualche zaffiro.



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