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L'Anima di ogni apostolato (dom J.B.Gustave Chautard) imperdibile

Ultimo Aggiornamento: 05/09/2009 22:19
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05/09/2009 21:59

Parte terza

La vita attiva, pericolosa senza la
vita interiore,
se unita ad essa assicura il progresso nella virtu’




Capitolo I

Le opere di apostolato, mezzo di santità per le anime di vita interiore, divengono per le altre un pericolo per la loro salvezza




1. Mezzo di santità

Alle anime che Egli associa al suo apostolato, il Signore domanda formalmente che non solo si conservino nella virtù ma vi progrediscano. Lo provano le lettere di San Paolo a Tito e a Timoteo e le esortazioni dell’Apocalisse ai Vescovi dell’Asia.

D’altra parte, fin da principio abbiamo accertato che le opere sono volute da Dio.

Vedere perciò nelle opere, in quanto tali, un ostacolo alla santificazione, ed affermare che, pur emanando dalla divina volontà, esse rallenteranno inevitabilmente il cammino verso la perfezione, sarebbe un’ingiuria ed una bestemmia contro la Sapienza, la Bontà e la Provvidenza divine.

Non si può sfuggire a questo dilemma. O l’apostolato, sotto qualunque forma si presenti, se è voluto da Dio, non solo non produce di suo l’effetto di alterare l’atmosfera di solida virtù in cui deve trovarsi un’anima sollecita della sua salvezza e del suo progresso spirituale, ma anzi costituisce sempre per l’apostolo un mezzo di santificazione, qualora lo eserciti nelle debite condizioni. Oppure la persona scelta da Dio come cooperatrice, e perciò tenuta a rispondere alla divina chiamata, avrebbe il diritto di addurre l’attività, le fatiche e le preoccupazioni spese a favore dell’azione imposta, come legittime scusanti della sua negligenza nel santificarsi.

Ora, in conseguenza dell’economia e del disegno divini, Dio, per riguardo a se stesso, deve concedere all’apostolo che ha eletto le grazie necessarie per realizzare l’unione delle occupazioni assorbenti non solo con la sicurezza della sua salute, ma anche con l’acquisto delle virtù fino alla santità.

Gli aiuti che Egli concesse a un Bernardo, a un Francesco Saverio, è tenuto a concederli nella misura necessaria al più modesto operaio evangelico, al più umile religioso insegnante, alla più ignota suora ospedaliera. Questo è un vero e proprio debito del cuore di Dio verso lo strumento che si è scelto: non abbiamo timore a dirlo. Ed ogni apostolo che soddisfi alle condizioni richieste, deve avere un’assoluta fiducia nel suo rigoroso diritto a ricevere grazie necessarie a un genere di occupazioni che gli concedono come un’ipoteca sull’immenso tesoro di quegli aiuti divini.

«Chi si occupa delle opere di carità – dice Alvarez De Paz – non deve pensare ch’esse gli precludano la via alla contemplazione e lo rendano meno capace di potervisi dedicare. Deve invece star ben sicuro che ve lo dispongono in modo mirabile. Questa verità non ce la insegnano solo la ragione e l’autorità dei Padri, ma anche la nostra esperienza quotidiana. Vediamo infatti anime dedite alle opere di carità verso il prossimo – confessando, predicando, insegnando il catechismo, visitando gli ammalati, eccetera – le quali sono elevate da Dio a un così alto grado di contemplazione, da poter a buon diritto essere paragonate agli antichi anacoreti»1.

Con le parole «grado di contemplazione», l’eminente gesuita, come del resto tutti i maestri di vita spirituale, designa il dono dello spirito di orazione che caratterizza la sovrabbondanza della carità in un’anima.

I sacrifici richiesti dall’azione attingono dalla gloria di Dio e dalla santificazione delle anime un tale valore soprannaturale, una tale fecondità di meriti, che l’uomo votato alla vita attiva, se lo vuole, può ogni giorno elevarsi di un grado nella carità e nell’unione con Dio, in una parola, nella santità.

Indubbiamente in alcuni casi, in cui c’è pericolo grave e prossimo di peccato formale, particolarmente contro la fede e la purezza, Dio vuole che ci si allontani dalle opere. A parte questi casi, però, Egli dà ai suoi operai, mediante la vita interiore, il mezzo d’immunizzarsi e di progredire nella virtù.

Individuiamo dunque in cosa consiste tale progresso. Ci aiuterà a precisare il nostro pensiero una frase paradossale di S. Teresa, così saggia e spirituale: «Dacché sono Priora, carica di numerose occupazioni e obbligata a frequenti viaggi, commetto molte più mancanze. Ciononostante, siccome combatto generosamente e non mi prodigo che per amor di Dio, sento che mi avvicino a Lui sempre di più». La sua debolezza si manifesta con maggior frequenza che nel riposo e nel silenzio del chiostro: la Santa lo constata ma non se ne turba. La generosità del tutto soprannaturale della sua dedizione e gli sforzi più accentuati di prima per la lotta spirituale, le forniscono in compenso occasioni di vittorie che controbilanciano largamente le sorprese d’una fragilità ch’esisteva anche prima, sebbene allo stato latente.

Afferma S. Giovanni della Croce che la nostra unione con Dio sta tutta nell’unione della nostra volontà con la sua e solo da questa è misurata. Invece di vedere, per un falso concetto della spiritualità, la possibilità di progredire nell’unione con Dio solo nella tranquillità e nella solitudine, Santa Teresa giudica per contro che proprio l’attività imposta veramente da Dio ed esercitata nelle condizioni da Lui volute, alimentando il suo spirito di sacrificio, la sua umiltà, la sua abnegazione, il suo ardore e la sua dedizione per il regno di Dio, veniva ad accrescere l’unione intima dell’anima col Signore, che viveva in lei e animava le sue azioni, per incamminarla così verso la santità.

Infatti, la santità consiste principalmente nella carità, e un’opera di apostolato, degna di tal nome, è carità in atto. «Probatio amoris exhibitio est operis», scrisse san Gregorio Magno: l’amore lo si prova con le opere di abnegazione e Dio esige dai suoi operai questa prova di generosità.

La forma di carità che il Signore richiede all’apostolo come prova della sincerità delle reiterate testimonianze del suo amore è questa: «Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle».

San Francesco d’Assisi credeva di non poter essere amico di Gesù Cristo, se la sua carità non si dedicava salute delle anime: «Non se amicum Chisti reputabat, nisi animas foveret quas ille redemit»2.

E se Nostro Signore considera come fatte a lui stesso le opere di misericordia, anche corporali, ciò vuol dire ch’Egli vede in ognuna di queste un’irradiazione di quella medesima carità (Mt. 25, 40) che anima il missionario o sostiene l’anacoreta nelle sue privazioni, nelle lotte e nelle preghiere del deserto.

La vita attiva si dedica alle opere di abnegazione. Essa marcia per i sentieri del sacrificio alla sequela di Gesù operaio, pastore, missionario, taumaturgo, medico universale, provveditore tenero ed infaticabile per tutti i bisogni di quaggiù.

La vita attiva ricorda e vive di quelle parole del Maestro Divino: «Io sono in mezzo a voi come un servo» (Lc. 23, 27). «Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito ma per servire» (Mt. 20, 28).

Essa va per i sentieri dell’umana miseria annunciando la parola che illumina, spandendo attorno una messe di grazie che fioriscono in benefici d’ogni genere.

In virtù dei lumi della sua fede illuminata e delle intuizioni del suo amore, nel peggiore dei miserabili, nel più meschino dei sofferenti, essa scopre il Dio nudo, gemente, disprezzato da tutti, il grande lebbroso, il misterioso condannato che la giustizia eterna perseguita ed atterra sotto i suoi colpi, l’uomo dei dolori che Isaia vide innalzarsi nello spaventoso sfarzo delle sue piaghe, nella tragica porpora del suo sangue, talmente disfatto e devastato dai chiodi e dai flagelli, che si contorceva come un verme calpestato.

L’abbiamo dunque visto, esclama il profeta, ma non l’abbiamo riconosciuto! (Is. 53, 2-5)

«Ma tu, o vita attiva, tu lo riconosci bene e, con le ginocchia piegate a terra, con gli occhi pieni di pianto, lo servi nella persona dei poveri.

«La vita attiva migliora l’umanità; fecondando il mondo con le sue generosità, le sue azioni ed i suoi sudori, essa getta nel cielo il seme dei suoi meriti.

«Vita santa che Dio ricompensa, perché Egli dà il Paradiso tanto per il bicchiere d’acqua dato al povero, quanto per gli scritti del dottore e per i sudori dell’apostolo. E nell’ultimo giorno, davanti alla terra ed al cielo, canonizzerà tutte le opere di carità»3.

2. Pericolo per la salvezza

Quante volte, purtroppo, nei ritiri da me diretti, ho potuto constatare che proprio quelle opere che avrebbero dovuto essere per i loro autori mezzi di progresso, divenivano strumenti di rovina dell’edificio spirituale!

Un uomo d’azione che avevo invitato, nell’aprire un ritiro, ad esaminare la propria coscienza per ricercare la causa principale del suo infelice stato, si giudicò con esattezza dandomi questa risposta a prima vista incomprensibile: «E’ la mia dedizione che mi ha perduto! Le mie disposizioni naturali mi facevano provare gioie nel prodigarmi, felicità nel servire. Aiutato dal successo apparente delle mie imprese, Satana ha ben saputo mettere tutto in opera, durante molti anni, per illudermi, eccitare in me il delirio dell’azione, farmi provare disgusto per la vita interiore e alla fine attirarmi nell’abisso».

Lo stato anormale, per non dire mostruoso, di quell’anima, si può spiegare con una sola parola. Quell’operaio di Dio, totalmente assorbito dalla soddisfazione di sfogare la propria attività naturale, aveva lasciato svanire la vita divina, questo divino calore che, se fosse stato conservato in lui, avrebbe fecondato il suo apostolato e preservata l’anima sua dal freddo glaciale dello spirito naturalistico. Egli aveva lavorato, ma tenendosi lontano dal sole vivificatore: «Magnae vires et cursus celerrimus, sed praeter viam»4.

Così le opere, teoricamente sante, si erano ritorte a danno dell’apostolo come una pericolosa arma a doppio taglio che ferisce colui che non sa usarla.

E’ proprio da questo pericolo che S. Bernardo mette in guardia il Papa Eugenio III scrivendogli: «Temo che in mezzo alle vostre innumerevoli occupazioni, di cui disperate di vedere la fine, voi lasciate indurire la vostra anima. Agirete con ben maggior prudenza se vi sottrarrete a queste occupazioni, anche solo per qualche tempo, piuttosto che permettendo ad esse di dominarvi e condurvi inevitabilmente, a poco a poco, dove non vorreste arrivare. Condurre dove?, mi chiederete. All’indurimento del cuore, vi rispondo. Ecco dove potranno trascinarvi queste maledette occupazioni, se ad esse continuerete, come all’inizio, ad abbandonarvici del tutto senza riservare nulla per voi stesso»5.

Cosa mai può esserci di più augusto, di più santo del governo della Chiesa? C’è forse qualcosa di più utile per la gloria di Dio ed il bene delle anime? Eppure: «occupazioni maledette», grida san Bernardo, se finiscono con l’impedire la vita interiore di colui che vi si dedica.

Che tremenda espressione questa: «occupazioni maledette»! Essa vale quanto un libro, tanto spaventa e costringe a riflettere. E quasi attirerebbe una protesta, se non fosse uscita dalla penna così precisa di un dottore della Chiesa, di un S. Bernardo.

Capitolo II

L’uomo d’azione senza la vita interiore


Lo si può caratterizzare con questa frase: se non è ancora tiepido, sta fatalmente diventandolo. Orbene, esser tiepido – parliamo di una tiepidezza non di sentimento o di fragilità, ma di volontà – significa venire a patti con la dissipazione e la negligenza abitualmente acconsetite o non combattute, significa patteggiare col peccato veniale deliberato e, allo stesso tempo, togliere all’anima la sicurezza dell’eterna salvezza, disponendola al peccato mortale ed anzi conducendovela6. Questa è la dottrina di sant’Alfonso sulla tiepidezza, così bene illustrata dal suo discepolo il Padre Desurmont.

Ebbene, in qual modo l’uomo di azione, privo di vita interiore, scivola necessariamente nella tiepidezza? Sì, necessariamente: per provarlo bastano le parole di un vescovo missionario ai suoi sacerdoti, parole tanto più tremendamente vere, in quanto uscite da un cuore divorato dallo zelo per le opere e da uno spirito le cui tendenze erano diametralmente opposte a tutto ciò che rassomiglia al quietismo.

«Bisogna esserne ben persuasi – diceva il cardinale Lavigerie – Per un apostolo non vi è via di mezzo tra la sua santità compiuta, o almeno desiderata e perseguita con fedeltà e coraggio, e la perversione assoluta».

Ricordiamoci innanzitutto del germe di corruzione che la concupiscenza mantiene nella nostra natura, della guerra senza quartiere che ci fanno i nostri nemici interni ed esterni, dei pericoli che ci minacciano da ogni parte. Cerchiamo poi d’immaginare quel che avviene in un’anima che si dà all’apostolato senza premunirsi abbastanza contro i suoi pericoli.

Un tale sente nascere in sé il desiderio di dedicarsi alle opere, ma non ha alcuna esperienza. La sua brama di apostolo ci permette di credere che abbia ardore e una certa foga nel carattere, d’immaginarcelo entusiasta per l’azione e forse anche per la lotta. Lo supponiamo retto nella sua condotta, pio ed anche devoto, ma di una pietà più di sentimento che di volontà, di una devozione che non è riflesso di un’anima risoluta a non cercare altro che il beneplacito di Dio, ma è una pia pratica, dovuta a lodevoli abitudini. La meditazione, se ancora la pratica, non è che una sorta di fantasticheria, le letture spirituali non sono che un esercizio di curiosità privo di reale influenza sulla sua condotta. Può anche darsi che Satana lo induca a gustare – con l’illusione d’un senso artistico che la povera anima scambia per vita interiore – le letture che trattano le vie elevate e straordinarie dell’unione con Dio, ammirandole con entusiasmo. Ma in realtà ben poco, per non dir nulla, c’è di vita spirituale in quest’anima alla quale, concediamolo pure, rimangono numerose buone abitudini, molte qualità naturali e un certo desiderio sincero, ma troppo vago, di rimanere fedele a Dio.

Ed ecco il nostro apostolo che si dedica a questo ministero nuovo per lui, pieno del desiderio di lavorare alle opere. Ma ben presto, in forza delle stesse circostanze nate da queste nuove occupazioni (e lo sanno bene le persone abituate alle opere) sorgono mille occasioni per farlo vivere sempre più fuori di se stesso, mille allettamenti per la sua ingenua curiosità, mille occasioni di cadute, dalle quali possiamo credere che fino ad allora era stato protetto dall’atmosfera tranquilla del focolare domestico, del seminario, della comunità, del noviziato, o almeno la vigilanza di una saggia guida.

Non soltanto la crescente dissipazione o la pericolosa curiosità di tutto conoscere, le impazienze o le suscettibilità, la vanità o la gelosia, la presunzione o l’abbattimento, la parzialità o la denigrazione, ma anche il progressivo avanzamento delle debolezze del cuore e di tutte le forme più o meno sottili della sensualità, costringeranno ad una lotta senza tregua quest’anima mal preparata a così duri e continui assalti. Perciò frequenti saranno le ferite.

Ma penserà almeno a resistere, quest’anima dalla pietà superficiale, mentre è tutta assorbita dalla soddisfazione già troppo naturale di spendere la sua attività e i suoi talenti per una eccellente causa? Satana poi è sempre in agguato, fiuta già la preda e, lungi dal contrariare tale soddisfazione, l’eccita con tutta sua forza.

Arriva pertanto un giorno in cui si intravede il pericolo: l’angelo custode ha parlato e la coscienza reclama. Bisognerebbe tornare padroni di sé, esaminarsi nella calma di un ritiro spirituale, prendere la risoluzione di attenersi rigorosamente ad un regolamento, che non va tralasciato mai, anche a costo di trascurare per questo certe occupazioni che s’erano prese a cuore. Ma ahimé, ormai è troppo tardi! L’anima, che ha già assaporato il piacere di vedere coronati i suoi sforzi dai più incoraggianti successi, esclama sempre: «domani, domani! Oggi è impossibile: manca il tempo, perché debbo continuare quella serie di discorsi, scrivere questo articolo, organizzare quel sindacato o quell’associazione di carità, preparare quella rappresentazione teatrale, fare quel viaggio, sbrigare la mia corrispondenza, eccetera».

Com’è lieta quest’anima di potersi giustificare con tali pretesti! Il fatto è che il solo pensiero di confrontarsi con la propria coscienza le è divenuto insopportabile. E’ giunto il momento in cui il diavolo può lavorare con piena facilità alla rovina di un cuore che si fa così volentieri suo complice. Il terreno è pronto per questo: l’azione era divenuta per la sua vittima una passione e il diavolo la rende febbricitante. Dimenticare il tumulto degli affari per raccogliersi, le pareva già una cosa insopportabile; il demonio gliene ispira l’orrore, e per giunta non manca d’inebriare quell’anima con nuovi progetti ch’egli abilmente maschera col pretesto della gloria di Dio e del maggior bene delle anime.

Ed ecco che quest’uomo, fino a poco tempo fa pieno di abitudini virtuose, passando da debolezza a debolezza sempre più grave, arriva a porre il piede su un pendio ch’è troppo sdrucciolevole per potersi fermare nella caduta. Ma l’infelice, pur avendo una vaga coscienza che tutta la sua agitazione non è secondo il cuore di Dio, per soffocare i rimorsi, si slancia nel turbine con la massima passione. Le mancanze si accumulano fatalmente e ciò che altre volte turbava la retta coscienza di quest’anima, ora non è più che un vano e spregevole scrupolo. Volentieri essa proclama che bisogna saper esser del proprio tempo e lottare coi nemici ad armi pari; per questo esalta le «virtù attive», dimostrando solo disprezzo per quella che essa chiama sdegnosamente «pietà d’altri tempi». D’altra parte, le sue opere prosperano più che mai, il pubblico le ammira, ogni giorno vede spuntare nuovi successi. «Dio benedice la mia opera», esclama l’anima illusa, sulla quale forse piangeranno domani gli angeli del cielo per le sue gravi colpe.

Come mai quest’anima è caduta in uno stato così deplorevole? Con l’inesperienza, la presunzione, la vanità, l’imprevidenza e la viltà. Essa si è lanciata avventurosamente tra i pericoli, senza valutare le sue scarse risorse spirituali. Una volta esaurite le riserve della vita interiore, si è trovata nella situazione del navigante temerario che non ha più forza di lottare contro corrente e si lascia trascinare verso l’abisso.

Fermiamoci dunque un momento per misurare da vicino la china percorsa e la profondità dell’abisso. Procediamo con ordine e numeriamo le tappe.


Prima tappa. L’anima da principio ha perduto a poco a poco, seppur l’ebbe mai, la chiarezza e il vigore delle convinzioni riguardanti la vita soprannaturale, il mondo soprannaturale e l’economia del piano e dell’azione del Signore concernenti il rapporto della vita intima dell’operaio evangelico con le sue opere. Essa non vede più le sue opere che attraverso un miraggio ingannatore. La stessa vanità fa sottilmente da piedistallo alla pretesa buona intenzione. Un predicatore, uomo tutto esteriore e gonfio di vana compiacenza, rispondeva ai suoi adulatori: «Che volete, Dio mi ha dato il dono della parola ed io lo ringrazio». L’anima allora cerca ben più se stessa che Dio: reputazione, gloria e interessi personali sono al primo posto. Il motto «Se fossi gradito agli uomini, allora non sarei servo di Cristo» (Gal. 1, 10), diventa per essa privo di senso.

La mancanza di base soprannaturale che caratterizza questa tappa ha, talvolta come causa ed talaltra come immediata conseguenza, oltre all’ignoranza dei princìpi, anche la dissipazione, la dimenticanza della presenza di Dio, l’abbandono delle giaculatorie e della custodia del cuore, la mancanza di delicatezza di coscienza e di regolarità di vita. E’ vicina la tiepidezza, seppur non è già cominciata.


Seconda tappa. L’uomo soprannaturale è schiavo del dovere, e perciò, parsimonioso col suo tempo, l’impiega con ordine e vive secondo una regola. Egli comprende che altrimenti dominerebbero il naturalismo, la vita comoda e capricciosa, dal mattino fino alla sera.

L’uomo di azione privo di base soprannaturale non tarda a farne l’esperienza. La mancanza dello spirito di fede nell’uso del tempo lo conduce a tralasciare la lettura spirituale; oppure legge ancora, ma non studia più. Per i Padri della Chiesa, era d’obbligo preparare l’omelia per la domenica lungo l’intera settimana. Lui invece, a meno che non sia in gioco la vanità, preferisce improvvisare, e lo fa sempre con inusuale fortuna, a sentir lui. Preferisce le riviste ai libri, rinuncia alla sistematicità, svolazza qua e là. Alla legge del lavoro, che è legge di preservazione, di moralizzazione e di penitenza, egli si sottrae dissipando le ore di libertà e desiderando disordinatamente di procurarsi delle distrazioni.

Egli trova faticoso e puramente teorico quel che potrebbe imprigionare la sua libertà di movimento. Il tempo non gli basta per tante opere e doveri sociali, e nemmeno per ciò che considera necessario alla sua salute e ai suoi svaghi. Satana gli dice: «Dedichi ancora troppo tempo agli esercizi di pietà: meditazione, Ufficio, Messa, atti di ministero...; bisogna sfoltire!». E immancabilmente comincia ad abbreviare la meditazione, a farla con irregolarità e, ahimé, a poco a poco arriva forse a sopprimerla del tutto. La sveglia ad ora fissa, condizione indispensabile per rimanere fedeli all’orazione, l’ha anch’essa ovviamente abbandonata, dato che egli si corica sempre tardi e per giusti motivi.

Orbene, nella vita attiva, abbandonare la meditazione equivale a gettare a terra le armi davanti al nemico. «A meno di un miracolo – dice sant’Alfonso – senza la preghiera si finisce col cadere nel peccato mortale». E san Vincenzo de’ Paoli: «Un uomo senza preghiera non è capace di nulla, nemmeno di rinunciare a se stesso in qualsiasi cosa: è la vita animale pura e semplice». Alcuni autori attribuiscono a santa Teresa queste parole: «Senza la preghiera, uno diventa ben presto o un bruto o un demonio. Se voi non pregate, non avete più bisogno che il diavolo vi getti all’inferno: vi ci gettate da soli! Il più grande peccatore, invece, se prega anche solo per un quarto d’ora al giorno, si convertirà e, se persevererà, sarà sicuro della salvezza eterna».

L’esperienza di anime sacerdotali o religiose votate all’azione basta per stabilire questo: se un operaio apostolico, col pretesto di occupazioni o di stanchezza, oppure per disgusto, pigrizia o illusione, riduce facilmente la sua orazione a dieci o quindici minuti, invece d’attenersi a mezz’ora di seria preghiera per riceverne lo slancio e la forza necessarie per la giornata, egli cadrà fatalmente nella tiepidezza della volontà.

Qui evidentemente non si tratta più d’imperfezioni da evitare, ma di peccati veniali che brulicano. L’impossibilità, in cui si è caduti, di vigilare alla custodia del cuore, nasconde alla coscienza la maggior parte di tali mancanze: l’anima si è messa nello stato di non vedere più. Come potrà allora combattere ciò che non discerne più come difettoso? La malattia di languore è già molto avanzata ed è la conseguenza di questa seconda tappa, che è caratterizzata dall’abbandono dell’orazione e di ogni regolamento.


Terza tappa. Tutto è maturo per la terza tappa di cui è sintomo la negligenza nella recita del Breviario. La preghiera della Chiesa, che doveva dare al soldato di Cristo gioia e forza per elevarsi ogni tanto a Dio, ricevendone il mezzo per considerare dall’alto il mondo visibile, diviene un peso insopportabile. La vita liturgica, sorgente di luce, di gioia, di forza, di meriti e di grazie per lui e per i fedeli, ora non è altro che l’occasione di un dovere spiacevole al quale si adatta a malincuore. La virtù di religione è seriamente intaccata perché la febbre delle opere ha contribuito a inaridirla. L’anima non considera il culto di Dio se non in quanto è legato a rumorose manifestazioni esteriori. Il sacrificio personale e oscuro ma cordiale della lode, della supplica, dell’azione di grazia, della riparazione, non le dicono più nulla.

Fino a poco tempo fa, recitando le proprie preghiere vocali, diceva con legittima fierezza, come volendo gareggiare con un coro di monaci: «In presenza degli Angeli ti canterò inni» (Ps. 132). Il santuario di quest’anima, in altri tempi imbalsamato di vita liturgica, è divenuto una pubblica piazza in cui regnano il chiasso e il disordine. L’esagerata sollecitudine per le opere e l’abituale dissipazione s’incaricano di moltiplicare le distrazioni, che del resto vengono sempre meno combattute. «Non è nell’agitazione che abita il Signore» (3 Reg., 19, 11). La vera preghiera è sparita; precipitazione, interruzioni ingiustificate, negligenze, sonnolenze, ritardi, rinvio all’ultim’ora col pericolo di essere vinti dal sonno... e forse anche omissioni di quando in quando, trasformano la medicina in veleno e il sacrificio di lode in una litania di peccati che forse finiranno col non essere più semplicemente veniali.


Quarta tappa. – Tutto si concatena: l’abisso chiama l’abisso. I Sacramenti! Essi vengono ancora ricevuti e amministrati con rispetto, senza dubbio, ma non si sente più palpitare la vita che contengono. La presenza di Gesù Cristo nel tabernacolo o nel sacro tribunale della Confessione non è più capace di far vibrare le corde della fede fino al midollo dell’anima. La Messa stessa, che è il sacrificio del Calvario, è come un giardino isolato. L’anima certamente è ancor lontana dal sacrilegio, vogliamo crederlo, ma non sente più il calore del sangue divino. Le sue consacrazioni sono fredde e le sue comunioni tiepide, distratte, superficiali: già l’insidiano la familiarità irrispettosa, l’abitudine e forse il disgusto.

L’apostolo così deformato vive fuori di Gesù e non è più favorito da quelle parole intime che Egli vuol dire solo ai suoi veri amici. Di tanto in tanto, tuttavia, l’Amico celeste gl’invia un rimorso, una luce, un richiamo: «vieni a me, povera anima ferita, vieni, ché io ti guarirò» – «Venite ad me omnes et ego reficiam vos» (Mt. 11, 28) – perché io sono la tua salute – «Salus tua ego sum» (Ps. 34) – «sono venuto a salvare ciò che era perduto»: «Venit Filius hominis quaerere et salvum facere quod perierat» (Lc. 19, 10). Questa voce tanto dolce, tenera, discreta e premurosa, procura momenti di emozione, velleità di migliorare; ma siccome la porta del cuore viene appena socchiusa, Gesù non può entrare, e questi buoni movimenti dell’anima rimangono senza effetto. La grazia passa invano e finisce col ritorcersi contro l’anima stessa. Può darsi pure che Gesù, nella sua misericordia, per non ammassare cumuli di collera, cessi dal parlare: «Temi Gesù che passa ma più non torna» (S. Agostino).

Ma andiamo avanti e penetriamo nell’intimo di quest’anima di cui stiamo facendo il ritratto.

Il ruolo dei pensieri è preponderante nella vita soprannaturale, come lo è per quella intellettuale e morale. Ma quali sono i pensieri che occupano quest’anima, e a quale corrente obbediscono? Umani, terreni, vani, superficiali ed egoistici, questi pensieri convergono sempre più verso l’io o verso le creature, spesso presentandosi con apparenze di abnegazione e di sacrificio.

A questo disordine nell’intelligenza corrisponde il disordine nell’immaginazione. Nessuna potenza dell’anima va repressa quanto questa; eppure qui non si pensa nemmeno di frenarla. Sicché, a briglia sciolta, essa corre come una pazza verso tutti i traviamenti, tutte le follie. La progressiva soppressione della mortificazione degli occhi permette alla «pazza di casa» di trovare un po’ dovunque abbondante pascolo.

Il disordine segue il suo corso: dall’intelligenza e dall’immaginazione discende negli affetti. Il cuore si pasce ormai solo d’illusioni. Cosa diventerà questo cuore dissipato che non si preoccupa quasi più del Regno di Dio in lui e che è divenuto insensibile agl’intimi colloqui con Gesù, alla sublime poesia dei misteri, alle austere bellezze della liturgia, agli appelli ed alle attrattive del Dio Eucaristico, che è insomma diventato insensibile agli influssi del mondo soprannaturale? Si chiuderà in se stesso? Ma questo sarebbe un suicidio. No: egli ha bisogno di affetto. Perciò, non trovando più felicità in Dio, amerà le creature. Rimane in balìa della prima occasione e vi si getta imprudentemente, perdutamente, forse senza preoccuparsi più dei voti più sacri, né del maggior bene della Chiesa e nemmeno della propria reputazione. Forse la prospettiva dell’apostasia lo sgomenta ancora, e profondamente, ma lo scandalo delle anime lo spaventa sempre meno.

Grazie a Dio, l’andare così fino in fondo è per certo una rara eccezione. Ma come non capire che il disgusto di Dio e il cedimento ai piaceri proibiti può portare il cuore alle peggiori sciagure? Dall’ «uomo animale» che «non comprende le cose dello Spirito divino» (1 Cor. 2, 14), si scende necessariamente al livello di «coloro che erano stati allevati nella porpora ma ora sguazzano nello sterco» (Ger., Lam., 4, 5). L’ostinata illusione, l’accecamento della mente, l’indurimento del cuore vanno progredendo, e ci si può attendere di tutto.

Per colmo di sventura, benché non sia ancora distrutta, la volontà è ridotta ad uno stato d’indebolimento e di mollezza che equivale quasi all’impotenza. Se gli domandate, non dico di reagire energicamente, il che sarebbe inutile, ma solo di tentare un misero sforzo, non otterrete che questa scoraggiante risposta: «Non posso». Ora, non essere più capace di uno sforzo, significa incaminarsi verso le peggiori catastrofi.

Un noto empio osò dire che non poteva credere alla fedeltà ai voti e agli obblighi monastici in certe anime immischiate, per la loro azione, nella vita del secolo. «Esse camminano su una corda tesa – diceva – e le loro cadute sono inevitabili.» A questa ingiuria a Dio ed alla Chiesa, bisogna rispondere senza esitare che tali cadute si evitano sicuramente se si sa ben adoperare il prezioso bilanciere della vita interiore, e che solo all’abbandono di questo mezzo infallibile vanno attribuite le vertigini e i passi falsi e scandalosi verso il precipizio.

L’ammirevole gesuita padre Lallemant risale alla causa originale di questa catastrofe quando dice: «Molti uomini apostolici non fanno nulla unicamente per Dio. In tutto essi cercano se stessi e, anche nelle migliori imprese, mescolano sempre segretamente il loro interesse con la gloria di Dio. Passano così la vita in una mescolanza di natura e di grazia. Alla fine viene la morte e solo allora aprono gli occhi, vedendo la loro illusione e tremando all’avvicinarsi del temibile giudizio di Dio»7.

Tra gli apostoli che predicano se stessi, sono certo ben lungi dall’annoverare quello zelante e potente missionario che fu il celebre padre Combalot. Non sarà tuttavia fuori luogo citare le parole ch’egli disse in punto di morte. Il sacerdote che gli aveva amministrato l’estrema unzione gli andava dicendo:

«Abbiate fiducia, caro amico! Avete mantenuta integra la vostra vita di sacerdote, e le vostre migliaia di prediche vi scuseranno davanti a Dio della insufficienza di vita interiore che lamentate». Il moribondo rispose: «Le mie prediche? Ahimé, sotto qual luce ora le valuto! Se non sarà il Signore a parlarmene, non sarò certo io a farlo!». Al lume dell’eternità, quel venerando sacerdote vedeva, nelle sue migliori opere di zelo, delle imperfezioni che allarmavano la sua coscienza perché le attribuiva a manchevolezza della sua vita interiore.

Il cardinale Du Perron, al momento della morte, esprimeva il pentimento per essersi dedicato nella sua vita più a perferzionare l’intelligenza con gli studi scientifici che non la volontà con gli esercizi della vita interiore.

O Gesù, Apostolo per eccellenza, chi mai si è prodigato come Voi quando abitavate fra gli uomini? Oggi Vi donate ancora più abbondantemente con la vostra vita eucaristica; tuttavia non abbandonate mai il seno del vostro Padre! Fate che noi non dimentichiamo mai che Voi non vorrete considerare le nostre opere, se non sono animate da un principio veramente soprannaturale e se non sono radicate nel vostro Cuore adorabile!



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