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L'Anima di ogni apostolato (dom J.B.Gustave Chautard) imperdibile

Ultimo Aggiornamento: 05/09/2009 22:19
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05/09/2009 22:02

Parte quarta

Fecondita’ delle opere animate dalla
vita interiore


La vita interiore è condizione della fecondità delle opere


Facendo astrazione da quella ragione di fecondità che i teologi chiamano ex opere operato, consideriamo qui soltanto quella che risulta ex opere operantis. Ricordiamo che, se l’apostolo realizza il detto evangelico: «Se uno rimane in me e io in lui...», la fecondità della sua azione voluta da Dio è assicurata: «...costui porta molti frutti» (Gv. 15, 5). Questo testo è di una tale evidenza logica che è superfluo, dopo questa Autorità, provare la tesi; ci limitiamo pertanto a confermarla con alcuni fatti.

Per più di trent’anni ho potuto seguire da lontano le vicende di due orfanotrofi femminili tenuti da Congregazioni diverse. Entrambi subirono un periodo di manifesto decadimento. Perché nasconderlo? Su sedici orfanelle ricoverate nelle medesime condizioni e che avevano lasciato l’istituto appena giunte alla maggiore età, tre che erano uscite dalla prima casa e due dall’altra, in un tempo da otto a quindici mesi erano passate dalla Comunione frequente allo stato più degradante della scala sociale; delle altre undici solo una rimase profondamente cristiana. Eppure, alla loro uscita, avevano tutte trovato una conveniente collocazione.

In uno di questi orfanotrofi, undici anni fa, la superiora venne cambiata. Dopo appena sei mesi, si poteva già constatare una profonda trasformazione nello spirito dell’istituto.

La stessa trasformazione fu osservata tre anni dopo nell’altro orfanotrofio quando, sebbene superiora e religiose rimanessero le stesse, venne cambiato il cappellano. Da allora in poi, delle povere giovani uscite maggiorenni, neppure una fu gettata nel fango da Satana, ma tutte senza eccezione son rimaste brave cristiane.

La ragione di questi risultati è semplice. Alla guida dell’istituto o nel confessionale non c’era una direzione fortemente soprannaturale; ciò bastava per paralizzare o per lo meno attenuare l’azione della grazia. La precedente superiora nel primo caso e il precedente cappellano nel secondo, persone sinceramente pie ma prive di seria vita interiore, non avevano una influenza profonda e duratura. La loro era una pietà dovuta al sentimento, all’ambiente, all’inerzia, fatta soltanto di pratiche e di abitudini, che non poteva generare convinzioni profonde ma solo un amore senza calore e una virtù senza radici. Una pietà fiacca, tutta apparenze, sdolcinature o atteggiamenti; una bigotteria che forma brave ragazze incapaci di darvi fastidio, smorfiose che sanno fare la riverenza, ma che non hanno forza di carattere e che si lasciano trascinare dalla loro sensibilità e immaginazione. Una pietà incapace di delineare un vasto orizzonte di vita cristiana e di formare donne forti, preparate alla lotta, ma capace al massimo di trattenere in gabbia povere fanciulle languenti, che sospirano il giorno in cui potranno uscirne. Ecco tutta la vita cristiana che erano riusciti a far germogliare operai evangelici ai quali la vita interiore era quasi sconosciuta!

Ma poi, in quelle due comunità, una superiora o un cappellano vengono sostituiti: tutto cambia aspetto. Com’è più compresa la preghiera e come i Sacramenti sono più fecondi! Quale diverso comportamento in cappella e persino al lavoro e a ricreazione! Cambiamenti radicali che sono dimostrati dall’osservazione e testimoniati dalla gioia serena, dallo slancio nell’acquisto delle virtù e, in alcune anime, dal desiderio ardente di vocazione religiosa. A cosa attribuire una simile trasformazione? La nuova superiora ed il nuovo cappellano erano anime di vita interiore.

Non c’è dubbio che in molti collegi, convitti, ospedali, patronati e persino in parrocchie, comunità e seminari, l’attento osservatore avrà dovuto attribuire simili effetti ad identiche cause.

Ascoltiamo San Giovanni della Croce: «Gli uomini divorati dall’attività, che si illudono di poter cambiare il mondo con le loro predicazioni e le altre opere esteriori, riflettano un momento. Comprenderanno facilmente che sarebbero ben più utili alla Chiesa e più graditi al Signore – senza parlare del buon esempio che darebbero – se consacrassero più tempo all’orazione e agli esercizi della vita interiore.

«In tali condizioni, con un’opera sola, essi compirebbero un bene maggiore e con minor fatica di quanto ne farebbero in mille altre alle quali dedicano la vita. L’orazione farebbe meritare questa grazia e darebbe a loro loro le forze spirituali necessarie per produrre simili frutti. Senza di essa, tutto si riduce ad un gran chiasso, come il martello che battendo sull’incudine fa risuonare l’eco tutt’intorno. Si fa poco più che nulla, spesso assolutamente nulla o addirittura del male. Dio ci liberi da una tale anima, se càpita che si gonfi di superbia! Invano le apparenze testimonierebbero in suo favore; la verità è che essa non riuscirà a far nulla, poiché è assolutamente certo che nessuna opera buona può essere compiuta senza la virtù divina. Ah, quanto si potrebbe scrivere al riguardo, rivolgendosi a coloro che abbandonano l’esercizio della vita interiore e aspirano alle opere clamorose, capaci di metterli in vista e di farli ammirare da tutti! Costoro non conoscono affatto la sorgente d’acqua viva e la fontana misteriosa che fa tutto fruttificare»1.

Alcune espressioni di questo santo sono forti quanto quell’altra di san Bernardo, già ricordata: «occupazioni maledette». Non è possibile accusarle di esagerazione, se ci si ricorda che le qualità più ammirate da Bossuet in San Giovanni della Croce sono appunto il perfetto buon senso, lo zelo nel mettere in guardia dal desiderio di percorrere vie straordinarie per giungere alla santità, l’esatta precisione nell’esprimere pensieri di notevole profondità.

Vediamo ora di studiare alcune cause della fecondità della vita interiore.


1. La vita interiore attira le benedizioni di Dio

«Sazierò di grassi l’anima dei miei sacerdoti e il mio popolo si pascerà dei miei doni» (Ger. 31, 14). Notiamo il legame tra le due parti di questo testo. Dio non dice: «Io darò ai miei sacerdoti più zelo, più talento», ma dice: «Sazierò la loro anima». E non significa altro che questo: io li colmerò del mio spirito, comunicherò a loro grazie elette e così il mio popolo riceverà la pienezza dei miei beni.

Dio avrebbe potuto distribuire la sua grazia secondo il suo beneplacito, senza tener conto né della pietà del ministro né delle disposizioni dei fedeli, come fa nel Battesimo dei bambini. Invece, in base alla legge ordinaria della sua Provvidenza, questi due elementi diventano la misura dei doni celesti.

«Senza di me non potere far nulla» (Gv. 15, 5): questo è il principio. Sul Calvario venne sparso il Sangue redentore; ma in che modo Dio ne ha assicurato l’originaria efficacia? Con una miracolosa diffusione della vita interiore. Non v’era nulla di più angusto che l’ideale e lo zelo degli Apostoli prima della Pentecoste; lo Spirito Santo li trasforma in uomini interiori e sùbito la loro predicazione opera meraviglie. Ordinariamente, Dio non rinnoverà più il prodigio del Cenacolo, ma lascerà le grazie di santificazione alle prese con la libera e laboriosa corrispondenza della sua creatura. Facendo però della Pentecoste la data ufficiale della nascita della Chiesa, non vuole forse farci capire che i suoi apostoli devono far precedere la loro santificazione personale all’opera di corredentori?

Per questo tutti i veri operai apostolici si attendono molto più dai loro sacrifici e dalle loro preghiere che non dall’organizzazione della loro attività. Il padre Lacordaire, prima di salire sul pulpito, rimaneva lungamente in preghiera, e quando rientrava in cella si faceva flagellare. Il padre Monsabré, prima di prendere la parola a Notre Dame, recitava in ginocchio il Rosario intero. Ad un amico che gli domandava perché lo facesse, rispose scherzosamente: «Prendo la mia ultima infusione».

Questi due religiosi vivevano entrambi di quel principio dettato da san Bonaventura: «I segreti di un fecondo apostolato si attingono ben più ai piedi del Crocifisso che nel dispiegamento di brillanti qualità». San Bernardo esclama: «Tre sono le cose che restano: la parola, l’esempio e la preghiera; ma la più importante delle tre è la preghiera»; espressione molto forte, ma che è solo il commento della risoluzione presa dagli Apostoli di abbandonare certe occupazioni allo scopo di potersi applicare prima di tutto alla preghiera e soltanto dopo al ministro della parola (At. VI, 4).

Abbiamo abbastanza notato, a questo riguardo, l’importanza fondamentale che il Salvatore dà a questo spirito di preghiera? Gettando uno sguardo sul mondo e sui secoli futuri, e prevedendo la grande moltitudine delle anime chiamate a beneficiare del Vangelo, Egli esclama con tristezza: «La messe è abbondante ma gli operai son pochi» (Mt. 9, 3). Ma che cosa propone Gesù come il mezzo più rapido per diffondere la sua dottrina? Domanderà forse ai suoi discepoli di frequentare le scuole di Atene o di andare dai Cesari di Roma a studiare come si conquistano e si governano gli imperi? Uomini di zelo, ascoltate il Maestro. Quel che ci rivela è un programma ed una fonte di luce: «Pregate dunque il padrone dei campi, perché mandi operai a mietere» (Mt. 9, 3).

Sapienti organizzazioni, risorse da procurarsi, chiese da edificare, scuole da fondare: nessuna menzione di tutto ciò. «Rogate ergo»: preghiera e spirito di orazione; il Maestro non si stanca di repeterci questa verità fondamentale. Il resto, tutto il resto, ne deriverà.

Rogate ergo! Se il timido mormorio della supplica rivolta da un’anima santa è capace di reclutare legioni di apostoli più che la parola eloquente d’un cercatore di vocazioni meno pieno dello spirito di Dio, che se ne deve concludere? Questo: che lo spirito di preghiera, il quale nel vero apostolo vai di pari passo con lo zelo, sarà la causa principale della fecondità del suo lavoro.

Rogate ergo! In primo luogo pregate; soltanto dopo il Signore aggiunge: «Andate dunque ad insegnare, a predicare» (Mt. 10, 7). Certo, Dio si servirà anche di questo mezzo; ma le benedizioni che dànno la fecondità al ministero sono riservate alla preghiera dell’uomo di orazione; preghiera così potente, da far uscire dal seno di Dio gl’inebrianti profumi di un’azione irresistibile sulle anime.

Anche San Pio X, con la sua autorevole parola mette in rilievo la tesi del nostro modesto lavoro:

«All’Azione Cattolica, poiché si propone di restaurare tutte le cose in Cristo mediante l’apostolato dell’azione, le è necessaria la grazia divina, e questa non si dà che all’apostolo che è unito a Cristo. Soltanto quando avremo formato Gesù Cristo in noi, potremo più facilmente darlo alle famiglie e alla società. Epperò quanti sono chiamati a dirigere o si dedicano a promuovere il movimento cattolico, devono essere cattolici a tutta prova, (...) di pietà vera, di maschie virtù, di puri costumi»2.

Quanto diciamo della preghiera va applicato all’altro elemento della vita interiore: alla sofferenza, cioè a tutto quello che viene ad urtare la nostra natura, sia dal di fuori come dal di dentro. Si può soffrire come un pagano, come un dannato o come un santo. Per soffrire veramente con Cristo bisogna cercare di soffrire da santo. Allora la sofferenza serve al nostro personale profitto e per applicare all’anima il mistero della Passione: «Completo nella mia carne quel che manca alle sofferenze di Cristo a beneficio del suo Corpo che è la Chiesa» (Col. 1, 21). Nel commentare questo passo, dice sant’Agostino: «I patimenti di Gesù Cristo erano completi, ma soltanto nel capo: mancavano ancora i suoi patimenti nelle sue mistiche membra». Praecessit Christus in capite: Gesù Cristo ha sofferto, ma come capo; sequitur in corpore: ora tocca al suo corpo mistico soffrire. Ogni sacerdote può dire: «Questo corpo sono io, perché sono un membro di Cristo; ciò che manca alle sofferenze di Cristo, bisogna che lo completi io a beneficio del suo Corpo ch’è la Chiesa».

La sofferenza è il più gran sacramento, diceva il padre Faber. Questo profondo teologo ne mostra la necessità e ne deduce le glorie; tutti gli argomenti del celebre oratoriano si possono applicare alla fecondità dell’azione per mezzo dell’unione dei sacrifici dell’operaio evangelico con il Sacrificio del Calvario, e perciò con la partecipazione all’efficacia infinita del Sangue divino.



2. La vita interiore rende l’apostolo un santificatore mediante il buon esempio

Nel discorso sulla montagna, il Maestro chiama i suoi Apostoli «sale della terra» e «luce del mondo» (Mt. 5, 3).

Sale della terra, possiamo esserlo nella misura in cui siamo santi. A che mai potrebbe ancora servire il sale insipido? «Cosa mai potrà essere purificato da ciò ch’è impuro?» (Eccl. 35, 4). Esso vale solo per essere buttato sulla strada e calpestato.

L’apostolo pio invece, vero sale della terra, sarà un autentico agente di conservazione in mezzo a questo mare di corruzione ch’è la società umana. Qual faro splendente nella notte, lux mundi, lo splendore del suo esempio, più che quello della sua parola, dissiperà le tenebre addensate dallo spirito del mondo e farà risplendere l’ideale della vera felicità, tracciato da Gesù nelle otto Beatitudini.

Il fattore maggiormente capace di condurre i fedeli ad una vita cristiana, è precisamente la virtù di colui che ha la missione d’insegnarla. Per contro, le sue debolezze allontanano da Dio in un modo quasi irresitibile: «Per colpa vostra, il nome di Dio viene bestemmiato fra i popoli» (Rom. 2, 24). Per questo l’apostolo, più che le belle parole sulle labbra, deve aver la fiaccola del buon esempio in mano e praticare lui per primo, in modo eccellente, le virtù che predica. Colui che ha la missione di dire grandi cose è tenuto a farne di simili, dice san Gregorio Magno3.

Fu giustamente notato che il medico del corpo può guarire i suoi malati senza godere di buona salute. Ma per guarire le anime bisogna avere la propria anima ben sana, perché in questo caso si dà qualcosa di sé stessi.

Gli uomini hanno il diritto di essere esigenti verso chiunque pretenda d’insegnare a loro a riformarsi. Essi sanno rapidamente discernere se la condotta è coerente con la predica, o se la morale di cui ci si ammanta non è che una maschera ingannevole. In base al risultato di questo confronto, essi accordano o rifiutano la fiducia.

Che potenza avrà il sacerdote nel parlare della preghiera, se il popolo lo vedrà spesso a colloquio con l’Ospite troppo spesso abbandonato nel Tabernacolo! Come sarà ascoltata la sua parola se, predicando il lavoro e la penitenza, si dimostra laborioso e mortificato! Apologeta della carità fraterna, troverà dei cuori attenti se, cercando di diffondere nel gregge il buon odore di Cristo, rispecchierà nella sua condotta la dolcezza e l’umiltà del divino Modello: «Vero modello del gregge» (1 Pt. 5, 3).

Il professore che non ha vita interiore, crede aver fatto il suo dovere mantenendosi esclusivamente sul terreno di un programma d’esame. Ma se avesse vita interiore, una frase sfuggita dal suo labbro o dal suo cuore, una emozione manifestata sul volto, un gesto espressivo, anzi il suo stesso modo di fare il segno di croce, di dire una preghiera prima o dopo la lezione, fosse anche una lezione di matematica, potrebbe avere sugli scolari maggior influenza di una predica.

La suora dell’ospedale e dell’orfanotrofio ha nelle mani un potere e dei mezzi efficaci per far nascere nelle anime, pur mantenendosi prudentemente nel proprio campo, un amore profondo per Gesù Cristo e per i suoi insegnamenti. Se invece manca di vita interiore, non sospetterà neppure l’esistenza di quel potere o non riuscirà a promuovere altro che atti di pietà puramente esteriori e nulla di più.

Il Cristianesimo non si è diffuso tanto in virtù di frequenti e lunghe discussioni, quanto con lo spettacolo dei costumi cristiani così opposti all’egoismo, all’ingiustizia e alla corruzione dei pagani. Nel suo famoso libro Fabiola4, il cardinale Wiseman mette bene in rilievo quale potente efficacia aveva l’esempio dei primi cristiani sull’animo dei pagani, anche di quelli più prevenuti contro la nuova religione. In questo libro noi assistiamo al cammino progressivo e quasi irresistibile di un’anima verso la luce. I nobili sentimenti, le virtù modeste o eroiche che la figlia di Fabio nota in certe persone di tutte le condizioni e di tutte le classi sociali, attirano la sua ammirazione. Ma quale cambiamento si operò in lei, quale rivelazione fu per la sua anima, quando scoprì che tutti coloro di cui ammirava la carità, l’abnegazione, la modestia, la dolcezza, la moderazione, il culto della giustizia e della castità, appartenevano a quella setta che sempre le era stata descritta come esecrabile! Da quel momento ella divenne cristiana.

Dopo la lettura di questo libro si è costretti ad esclamare: Ah!, se i cattolici, se i loro uomini di azione avessero almeno un poco di quello splendore di vita cristiana descritta dall’illustre cardinale, e che altro non è se non la pratica del Vangelo! Come sarebbe allora irresistibile il loro apostolato verso questi pagani moderni, troppo spesso prevenuti contro il cattolicesimo dalle calunnie dei settari, dal carattere acerbo delle nostre polemiche o da un modo di rivendicare i propri diritti che sembra provenire più dall’orgoglio ferito che non dal desiderio di difendere gli interessi di Dio!

Com’è potente l’irradiazione esterna di un’anima unita a Dio! Nel vedere il padre Passerat che celebrava la Santa Messa, il giovane Desurmont si decise ad entrare nella Congregazione Redentorista, della quale doveva poi diventare nobile decoro.

Il popolo ha di queste intuizioni che non possono ingannarsi: se predica un uomo di Dio, corre in massa; ma se la condotta di un uomo di azione non corrisponde più a quanto ci si aspetta da lui, l’opera sua, per quanto abilmente condotta, è compromessa e va forse verso una irreparabile rovina.

«Vedano le vostre buone opere e ne glorifichino il Padre» (Mt. 5, 16), diceva Nostro Signore. San Paolo raccomanda spesso il buon esempio ai suoi due discepoli Tito e Timoteo: «In ogni cosa mostrati modello di buone opere» (Tit. 2, 7). «Sii modello dei fedeli nella parola, nella condotta, nella fede e nella castità» (1 Tim. 4, 12). Egli stesso esclama: «Quello che avete veduto in me, mettetelo in pratica» (Fil. 4, 9). «Siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1 Cor. 11, 1). Il suo linguaggio di verità si basa su quella sicurezza e quello zelo che sono ben lungi dall’escludere l’umiltà e che facevano già esclamare Gesù Cristo: «Chi mai potrà rinfacciarmi un qualche peccato?» (Gv. 8, 46).

Solo a questa condizione, cioè alla sequela di Colui del quale è scritto «Incominciò ad operare e ad insegnare» (At. 1, 1), l’apostolo diventerà «un operaio che non ha di che vergognarsi» (2 Tim. 2, 15).

«Soprattutto, figli carissimi – diceva Leone XIII – ricordate che la purezza e santità di vita è la condizione indispensabile del vero zelo e la miglior garanzia del successo»5.

Un uomo santo, perfetto e virtuoso, diceva santa Teresa, fa realmente maggior bene alle anime che numerosi altri i quali sono soltanto istruiti e più dotati.

«Se l’animo non è temperato, sarà difficile promuovere negli altri il bene», dichiara san Pio X, ed aggiunge: «Quanti si dedicano a promuovere il movimento cattolico, devono (...) essere di vita così intemerata, da essere per tutti di esempio efficace»6.





3. La vita interiore produce nell’apostolo l’irraggiamento soprannaturale.
Quanto questo sia efficace

Uno degli ostacoli più gravi alla conversione di un’anima sta nel fatto che il Signore è un Dio nascosto: «Deus absconditus» (Is. 45, 15).

Ma, come effetto della sua bontà, Dio si manifesta in qualche modo per mezzo dei suoi santi e delle anime fervorose. Il soprannaturale traspare così agli occhi dei fedeli, i quali percepiscono qualcosa del mistero di Dio.

Cos’è dunque questa effusione del soprannaturale?

Non sarà forse lo sfolgorìo della santità, lo splendore dell’influsso divino che la teologia chiama spesso grazia santificante, o, meglio ancora, il risultato dell’ineffabile presenza delle Persone divine nelle anime da loro santificate?

San Basilio non la spiegava diversamente: quando lo Spirito Santo si unisce alle anime purificate dalla sua grazia, le rende più spirituali. Come il sole rende più scintillante il cristallo che tocca o penetra col suo raggio, così lo Spirito santificatore rende più luminose le anime in cui abita, e per la sua presenza esse divengono come tanti focolari che diffondono intorno a sé la grazia e la carità7.

Questa manifestazione del divino che trapelava in tutti i gesti e perfino nel riposo dell’Uomo-Dio, noi la percepiamo in certe anime dotate di una più intensa vita interiore. Le meravigliose conversioni operate da certi Santi con la fama delle loro virtù, le schiere di aspiranti alla vita perfetta che venivano a porsi alla loro sequela, manifestano chiaramente il segreto del loro silenzioso apostolato. Al sèguito di sant’Antonio si popolano i deserti dell’Oriente, per l’opera di San Benedetto sorge quell’innumerevole falange di santi monaci che civilizzano l’Europa; una influenza senza pari viene esercitata da san Bernardo nella Chiesa, sui re e sui popoli; al suo passaggio, san Vincenzo Ferreri suscita l’indescrivibile entusiasmo d’innumerevoli moltitudini, determinandone soprattutto la conversione; alla sequela di sant’Ignazio sorge quella schiera di valorosi uno solo dei quali, san Francesco Saverio, basta per rigenerare alla fede un incalcolabile numero di pagani. Soltanto l’irraggiamento della potenza di Dio stesso attraverso umani strumenti può spiegare tali prodigi.

Ma quando tra le persone poste alla testa d’importanti opere non ce n’è nessuna che abbia una vera vita interiore, che sventura! Il soprannaturale sembra eclissato e la potenza di Dio appare incatenata. E’ allora, ci dicono i santi, che una nazione decade e che la Provvidenza sembra concedere ai malvagi ogni potere di nuocere.

Le anime, sappiatelo bene!, percepiscono come per istinto l’irradiazione del soprannaturale, senza neanche poter definire chiaramente ciò che provano. Guardate come va volentieri il peccatore ai piedi del sacerdote ad implorare il perdono, riconoscendo Dio stesso nel suo rappresentante! Al contrario, dal momento in cui l’integrale concezione della santità cessa di essere l’ideale obbligatorio dei ministri di una qualche setta cristiana, non è forse vero che questa si trova immancabilmente costretta a sopprimere la Confessione?

«Giovanni non faceva alcun prodigio» (Gv. 10, 41): san Giovanni Battista attirava le folle senza fare miracoli. Il santo Curato di Ars aveva una voce troppo debole per essere udito dalla folla che gli si assiepava d’intorno. Ma se non lo udivano, lo vedevano: vedevano in quel sacerdote un tabernacolo vivente e bastava questa vista per soggiogare e convertire i presenti. Ad un avvocato che tornava da Ars, domandarono cosa l’aveva colpito di più. Rispose: «Ho visto Dio in un uomo».

Concedetemi di riassumere tutto questo con una similitudine un po’ grossolana. E’ noto il seguente esperimento di fisica: una persona posta sopra un isolatore viene messa in contatto con una macchina elettrica; il suo corpo si carica di elettricità e, se gli si avvicina, scocca una scintilla che dà la scossa a chi lo tocca. Così è dell’uomo interiore. Una volta staccato dalle creature, si stabilisce tra Gesù e lui un’energia incessante, come una corrente continua. L’apostolo, divenuto un accumulatore di vita soprannaturale, condensa in sé un fluido divino che varia adattandosi alle circostanze e a tutti i bisogni dell’ambiente in cui agisce. «Egli emanava una potenza che guariva tutti» (Lc. 6, 19); parole ed azioni altro non sono in lui che emanazioni di questa forza latente, ma capace di rovesciare tutti gli ostacoli, di ottenere conversioni ed accrescere il fervore.

Quanto più in un cuore albergano le virtù teologali, tanto più tali emanazioni aiutano a far nascere le stesse virtù nelle anime.


Mediante la vita interiore l’apostolo irradia la fede. – La presenza di Dio in lui si manifesta alle persone che l’ascoltano.

Sull’esempio di S. Bernardo – del quale si diceva: «Dovunque andasse, manteneva la solitudine della propria anima» – egli si isola dagli altri e in tal modo si crea una solitudine interiore. Ma s’intuisce che non è solo, che ha nel cuore un Ospite misterioso ed intimo col quale torna continuamente ad intrattenersi e dal quale riceve direzione, consigli e ordini. Si sente che è sostenuto e guidato da Lui e che le parole proferite dalla sua bocca non sono che l’eco fedele di quelle emanate da questo Verbo interiore: «quasi discorsi di Dio» (1 Pt. 4, 11). Più che la logica e la forza degli argomenti, dunque, a manifestarsi è il Verbo interiore, il Verbum docens, che parla attraverso la sua creatura: «Le parole che vi dico non sono mie, ma del Padre che è in me: è Lui che opera» (Gv. 14, 10). Si tratta di un influsso profondo e duraturo, ben più profondo che l’ammirazione superficiale o la devozione passaggera suscitate da un uomo senza vita interiore. Questi potrà anche spingere l’uditorio ad esclamare: «com’è vero, com’è interessante!»; ma questo è un sentimento assolutamente incapace di condurre di per sé alla fede soprannaturale e di far vivere di questa fede.

Fra Gabriele, converso trappista, nelle sue umili funzioni di vice-locandiere, ravvivava la fede di numerosi visitatori molto meglio di quanto avrebbe potuto fare un dotto sacerdote il cui linguaggio parlasse più alla mente che al cuore. Il generale De Miribel andava spesso a conversare con l’umile frate e si compiaceva di dire: «Vado a ritemprarmi nella fede».

Mai come ai giorni nostri si è tanto predicato, discusso e scritto sapienti trattati di apologetica; eppure forse mai come oggi, almeno considerando la massa dei fedeli, la fede è stata così poco viva. Troppo spesso coloro che hanno la missione d’insegnare sembra che considerino l’atto di fede solo come un atto dell’intelligenza, mentre esso costituisce anche un atto della volontà. Essi dimenticano che credere è un dono soprannaturale e che, tra accettare i motivi di credibilità e compiere l’atto di fede, c’è di mezzo un abisso. Dio solo e la buona volontà di chi viene istruito possono colmare questo abisso, ma quanto aiuta in questo il riflesso della luce divina prodotta dalla santità di colui che insegna!


Con la vita interiore, l’apostolo irradia la speranza. – L’uomo di orazione non può fare a meno di irradiare la speranza: la sua fede l’ha definitivamente confermato nella convinzione che la felicità non si trova che in Dio e solo in Dio. Com’è convincente dunque la sua parola quando parla del Cielo! Di quali risorse dispone per consolare! Il modo migliore di farsi ascoltare dagli uomini sta nell’offrire a loro il segreto di portare allegramente la Croce, destino comune ad ogni mortale. Questo segreto sta nella speranza del Paradiso e nell’Eucaristia.

Com’è viva la parola consolatrice dell’uomo che può senza mentire applicare a se stesso il detto «La nostra patria sta nei Cieli»! (Fil. 3, 20). Un altro potrà parlare delle gioie della patria celeste con frasi più fiorite e con maggior abilità, ma i suoi discorsi resteranno senza frutto. Invece il primo, con una parola sola, ma convincente e rivelatrice dell’animo di chi la pronuncia, riuscirà a calmare quel turbamento, consolare quell’angoscia, fare accettare con rassegnazione un dolore straziante. La virtù della speranza si è comunicata irresistibilmente da un uomo interiore ad un’anima che non era mai stata riscaldata e che stava sprofondando nella disperazione.


Con la vita interiore, l’apostolo irradia la carità. – Ogni anima sollecita della propria santificazione mira soprattutto al possesso della carità. Lo scopo dell’uomo interiore è la compenetrazione tra Gesù e l’anima, è il «rimane in me e io in lui».

Tutti i predicatori più esperti sono d’accordo nell’ammetterlo: in un ritiro o in una missione, sebbene le prediche iniziali sulla morte, sul giudizio e sull’inferno siano sempre indispensabili e salutari, la predica sull’amore di Gesù Cristo produce ordinariamente una più salutare impressione; se poi essa viene pronunciata da un vero apostolo che sappia comunicare all’uditorio i sentimenti che l’animano, assicura il successo e produce le conversioni.

Che si tratti di sottrarre un’anima al peccato mortale o di portarla dal fervore alla perfezione, l’amore di Gesù è sempre la leva impareggiabile. Il cristiano immerso nel fango, ma capace d’intuire nel suo simile un amore ardente, acceso per le realtà invisibili, e d’altra parte capace di ammettere la delusione e la vuotezza degli amori terreni, incomincia a provare il disgusto del peccato. Egli ha compreso qualcosa di Dio, qualcosa dell’immenso amore di Gesù per la sua creatura, ha sentito come un sussulto della grazia latente del suo battesimo e della sua prima Comunione. Gesù vivo si è mostrato a lui, perché le tenerezze del suo cuore sono traspirate nel volto e nella voce del suo ministro. Egli ha intravisto un ben altro amore, un amore nobile, puro, ardente, e ha detto a se stesso: «In questo mondo è dunque possibile amare con un amore superiore a quello delle creature».

Basterà solo qualche altra più intima manifestazione del Dio-Amore per mezzo del suo araldo, e l’anima uscirà dall’abbiezione in cui era impantanata e non si spaventerà più dei sacrifici necessari per conquistare il tesoro dell’amore divino, fino allora rimastole quasi sconosciuto.

Anche senza bisogno di sviluppare ulteriormente questa prospettiva, s’intuisce quali aumenti d’amore e perciò quali progressi il vero pastore può assicurare alle anime già uscite dal peccato oppure già fervorose. Anche se non sono rivestiti del carattere sacerdotale, questi uomini di azione faranno nascere intorno a loro, con quest’ardente carità, la più eccellente delle virtù teologali.


Con la vita interiore, l’apostolo irradia la bontà. – Secondo san Francesco di Sales, lo zelo che non è caritatevole procede da una carità che non è veritiera. Gustando per mezzo dell’orazione la soavità di Colui che la Chiesa chiama «oceano di bontà», l’anima arriva a trasformarsi. Anche se fosse naturalmente portata all’egoismo e alla durezza di cuore, a poco a poco questi difetti scompariranno. Nutrendosi di Colui in cui apparve la benignità di Dio verso il mondo – «Apparve la benignità e l’amore del Salvatore Dio nostro per l’uomo» (Tit. 2, 11) – di Colui ch’è l’immagine e l’espressione adeguata della Bontà divina – «Immagine della sua bontà» (Sap. 7, 26) – l’apostolo partecipa alla beneficenza di Dio e prova il bisogno di essere diffusivo come Lui.

Più un cuore è unito a Gesù Cristo, più esso partecipa alla qualità principale del Cuore divino ed umano del Redentore: la bontà. Indulgenza, benevolenza, compassione, tutto in lui si moltiplica, e la sua generosità e la sua dedizione giungeranno sino all’immolazione gioiosa e magnanima.

Trasfigurato dall’amore divino, l’apostolo si attirerà facilmente la simpatia delle anime: «Piacque per la bontà e l’alacrità dell’anima sua» (Eccl. 40, 4). Le sue parole ed i suoi atti saranno improntati alla bontà, ma ad una bontà disinteressata e priva di somiglianza con quella ispirata dal desiderio della popolarità o da un sottile egoismo.

«Dio ha voluto – scrisse Lacordaire – che nessun bene si potesse fare all’uomo se non amandolo, e che l’insensibilità fosse eternamente incapace sia di dargli la luce che d’ispirargli la virtù». Difatti ci si fa un vanto di resistere alla forza che vuole imporsi; diventa un’impuntatura sollevare obiezioni alla scienza che pretende di convincere sempre; ma poiché non sentiamo alcuna umiliazione a essere disarmati dalla bontà, cediamo facilmente al fascino dei suoi modi.

Una piccola Suora dei Poveri, una Suora dell’Assunzione o una Figlia della Carità potrebbero citare una quantità di conversioni fatte senza discussioni, usando la sola forza di una bontà infaticabile e spesso eroica.

Davanti a questi miracoli di abnegazione, l’empio o il peccatore esclamano: «Qui c’è Dio! Lo vedo proprio quale Egli si definisce: il buon Dio». E buono dev’essere davvero, se il trattare con Lui trasforma un essere tanto delicato in uno capace di annientare il proprio orgoglio e di far tacere le più legittime ripugnanze.

Questi angeli terreni mettono in pratica la definizione data dal padre Faber: «La bontà è l’effusione di se stesso negli altri; essere buono vuol dire mettere gli altri al posto di sé stesso. La bontà ha convertito un maggior numero di peccatori che non lo zelo, l’eloquenza o l’istruzione, e queste tre cose non hanno mai convertito nessuno senza che la bontà vi abbia svolto un qualche ruolo. Insomma, la bontà ci rende come tanti dèi gli uni per gli altri. E’ appunto la manifestazione di questo sentimento negli uomini apostolici che attira a loro i peccatori portandoli quindi alla conversione».

Ed aggiunge: «La bontà si dimostra ovunque il miglior pioniere del Preziosissimo Sangue. (...) Indubbiamente, i castighi del Signore sono spesso il principio di quella sapienza che si chiama conversione; ma bisogna colpire gli uomini con la bontà, altrimenti il timore non produrrà che infedeli»8. Abbiate il cuore di una madre, diceva San Vincenzo Ferreri. Sia che dobbiate incoraggiare o intimorire, mostrate a tutti una profonda e tenera carità e fate che il peccatore senta ch’essa ispira le vostre parole. Se volete essere utili alle anime, cominciate col ricorrere a Dio di cuore, affinché Egli diffonda in voi questa carità che è il compendio di tutte le virtù, e possiate così raggiungere efficacemente, per mezzo di essa, lo scopo che vi siete proposto9.

Tra la bontà naturale, semplice frutto del temperamento, e la bontà soprannaturale di un’anima apostolica, c’è tutta la distanza che separa l’umano dal divino. La prima potrà far nascere il rispetto e forse la simpatia per l’operaio evangelico, e talvolta farà deviare verso la creatura un’affezione che doveva rivolgersi a Dio; ma non riuscirà mai a determinare le anime a fare, e solamente per amore di Dio, il sacrificio necessario per tornare al loro Creatore. Solo la bontà che deriva dall’intimità con Gesù può operare questo.

L’ardente amore per Gesù e la vera dedizione per le anime permettono all’apostolo tutte le audacie compatibili con il tatto e la prudenza. Un illustre laico mi ha raccontato che un giorno, conversando con San Pio X, egli si era lasciato sfuggire qualche parola mordace contro un nemico della Chiesa. Il Papa allora gli aveva detto: «Figlio mio, io non approvo il vostro linguaggio. Per punizione ascolterete la storia seguente. Un sacerdote che io conosco molto bene, appena giunto nella sua prima parrocchia, credette suo dovere visitare tutte le famiglie, non esclusi gli ebrei, i protestanti e gli stessi massoni, e poi annunziò dal pulpito che ogni anno avrebbe rinnovata la visita. Grande agitazione tra i suoi confratelli, che andarono a lamentarsi dal Vescovo. Questi chiamò l’accusato e gli fece un’aspra ammonizione. Il curato rispose modestamente: “Eccellenza, Gesù nel Vangelo ordina al pastore di condurre all’ovile tutte le sue pecorelle: oportet illas adducere. Ma come riuscirvi, senza andare alla loro ricerca? D’altronde io non transigo sui princìpi e mi limito a dimostrare il mio interessamento e la mia carità a tutte le anime che Dio mi ha affidato, anche a quelle fuorviate. Ho annunziato queste visite dal pulpito, ma se è vostro desiderio che me ne astenga, degnatevi di darmene il divieto per iscritto, per far sapere che io non faccio altro che obbedire ai vostri ordini”. Il Vescovo, colpito dall’assennatezza di un tal linguaggio, non insistette. D’altra parte, l’avvenire diede ragione al sacerdote, il quale ebbe la gioia di convertire alcuni dei fuorviati e di obbligare tutti gli altri al rispetto della nostra santa Religione. Più tardi, per volontà di Dio, quell’umile parroco è diventato il Papa che vi sta dando questa lezione di carità, figlio mio. Restate pertanto irremovibile sui principi, ma la vostra carità si estenda a tutti gli uomini, fossero anche i peggiori nemici della Chiesa».


Con la vita interiore l’apostolo irradia l’umiltà. – E’ facile comprendere che la bontà e la dolcezza di Gesù attiravano le moltitudini; ma si può attribuire lo stesso potere alla sua umiltà? Non dubitiamone.

«Senza di me non potete fare nulla» (Gv. 15, 5). Innalzato dal Creatore alla dignità di cooperatore, l’apostolo diventa uno strumento di operazioni soprannaturali, ma a condizione che vi si manifesti il solo Gesù. Più saprà cancellarsi e diventare impersonale, più Gesù avrà cura di manifestarsi. Se non c’è questa impersonalità, frutto della vita interiore, l’apostolo pianterà e irrigherà invano: non germoglierà nulla.

L’umiltà vera ha un fascino speciale la cui fonte è Gesù stesso. Essa respira il divino. Allo zelo che l’uomo impiega nel far scomparire se stesso per far sì che sembri agire solo Gesù – «Bisogna ch’Egli cresca e io diminuisca» (Gv. 3, 30) – il Signore corrisponde il dono, concesso al suo ministro, di guadagnare sempre più i cuori.

In tal modo, l’umiltà diventa uno dei più potenti mezzi d’azione sulle anime. Diceva san Vincenzo de’ Paoli ai suoi sacerdoti: «Credetemi, noi non saremo mai adatti a compiere l’opera di Dio, se non ci convinceremo che da noi stessi siamo capaci più di rovinare tutto che di costruire qualcosa».

Può darsi che qualcuno si stupisca del mio frequente ritornare su certi pensieri; lo faccio perché mi sembra che soltanto ripetendoli potrò inciderli nello spirito dei miei cari lettori mostrandone loro tutta l’importanza.

Modi di procedere arroganti e arie presuntuose, non hanno forse spesso gran colpa nella sterilità delle opere?

Il cristiano «moderno» pretende di salvaguardare la propria indipendenza; accetterà di obbedire a Dio, ma a Dio solo. Dal ministro di Dio non accetterà ordini né direttive e neppure consigli, se non vi leggerà l’autentica firma di Dio.

Per questo è necessario che l’apostolo sappia talmente occultarsi e scomparire mediante il sacrificio dell’umiltà, frutto della vita interiore, da arrivare al punto di essere, agli occhi di quelli che l’ascoltano e lo giudicano, nient’altro che la trasparenza di Dio, realizzando in sé la parola del Maestro: «Chi è maggiore fra voi, sarà vostro servitore. Voi non definitevi maestri e non fatevi chiamare dottori» (Mt. 29, 31).

Il semplice aspetto dell’uomo di vita interiore diventa un insegnamento della scienza della vita, che è la scienza della preghiera (Sant’Agostino). E perché questo? Perché con l’umiltà egli ispira la dipendenza da Dio. Questa dipendenza, in cui l’anima si mantiene di continuo, si manifesta con l’abitudine di ricorrere a Dio in ogni occasione, sia per prendere una decisione, sia per trovare consolazione nelle difficoltà, sia soprattutto per ottenere la forza sufficiente a trionfarne.

Nel Breviario, al Comune dei Confessori non Pontefici, si leggono le seguenti parole con le quali san Beda commenta tanto mirabilmente l’espressione «piccolo gregge»: «Il Salvatore chiama ‘piccolo’ il gregge degli eletti, sia perché lo paragona alla moltitudine dei reprobi, sia più ancora per il suo appassionato zelo per l’umiltà; per quanto numerosa ed estesa sia ormai la sua Chiesa, Egli vuole tuttavia ch’essa cresca sino alla fine del mondo sempre nell’umiltà, arrivando così al regno promesso all’umiltà»10.

Questo testo s’ispira alle forti lezioni che Gesù Cristo dà ai suoi Apostoli quando, per esempio, essi vogliono ritorcere a proprio vantaggio la loro vocazione all’apostolato, mostrandosi pieni di ambizione e di gelosia. «Voi sapete – dice a loro il Maestro – che i capi delle nazioni le dominano ed i grandi esercitano il potere sopra di esse. Ma tra voi non sarà così; anzi, chi vorrà tra voi diventare il maggiore vi faccia da ministro e chi vorrà tra voi essere il primo, diventi vostro servo» (Mt. 20; Lc. 22).

Ma in tal modo non sin finirà con l’indebolire l’autorità? Risponde Bourdaloue: ci sarà sempre abbastanza autorità tra voi se ci sarà abbastanza umiltà; ma se l’umiltà svanisce, l’autorità diventa pesante ed insopportabile.

Senza la vera umiltà, l’apostolo cade in uno di questi eccessi: o diventa troppo bonaccione, o più spesso tende a diventare un tiranno.

Lasciamo qui da parte la questione dottrinale. Supponiamo che l’apostolo sia sufficientemente illuminato da preservare la sua intelligenza tanto da una tolleranza senza limiti quanto da un’asprezza di zelo, entrambe sconvenienze criticate da Dio; supponiamo che suoi principi siano perfettamente sani e che la sua scienza sia esatta. Posto questo, affermo che un tale apostolo, senza l’umiltà, non riuscirà a tenere il giusto mezzo tra i due estremi e che la vigliaccheria, o più spesso l’orgoglio, si manifesteranno nella sua condotta.

O, cedendo ad una falsa umiltà, egli sarà pusillanime, lascerà che la carità degeneri in debolezza, sarà l’uomo delle concessioni esagerate, delle riconciliazioni ad ogni costo, e il suo zelo nel preservare i princìpi scomparirà con mille pretesti, motivazioni di prudenza e calcoli meschini.

Oppure il naturalismo e la cattiva tendenza della volontà metteranno in gioco l’orgoglio, la suscettibilità, l’Io. Ne deriveranno odi personali, «autoritarismo», rancori, dispetti, rivalità, antipatie, parzialità, ambizioni, vendette, gelosie, desideri troppo umani di privilegi, calunnie, maldicenze, parole aspre, mondano spirito di parte, asprezza nel difendere i princìpi, eccetera.

Invece di restare il vero fine alla cui ricerca si nobilitano le nostre passioni, la gloria di Dio verrà ridotta da questo apostolo alla condizione di mezzo e di pretesto per puntellare, sviluppare e giustificare quelle stesse passioni in ciò che hanno di troppo umano. I minimi attacchi alla gloria di Dio o alla Chiesa provocheranno scatti d’ira in cui lo psicologo scoprirà la difesa della personalità dell’operaio apostolico o dei privilegi della propria casta in quanto società puramente umana, ben più che la dedizione alla causa di Dio, unica ragione dell’esistenza della Chiesa come società perfetta stabilita da Nostro Signore.

La sicurezza di dottrina e il sano discernimento non bastano a preservare da queste deviazioni, perché l’apostolo privo di vita interiore, essendo perciò privo di vera umiltà, verrà influenzato dalle proprie passioni. Solo l’umiltà, conservandolo nella rettitudine di giudizio e distogliendolo dall’agire per impressioni, darà maggior equilibrio e stabilità nella sua vita. Unendolo a Dio, lo farà partecipare, per così dire, alla immutabilità divina; simile alla fragile edera che diviene forte e stabile, della fortezza incrollabile della quercia, quando con tutte le sue fibre s’attacca al robusto tronco di questa regina delle foreste.

Non si esiti a riconoscerlo: senza l’umiltà, seppure non cadremo nel primo eccesso, la nostra natura ci trascinerà al secondo, oppure oscilleremo ora verso l’uno ed ora verso l’altro, a seconda delle circostanze o delle passioni. In tal modo si realizzeranno quelle parole di san Tommaso: «L’uomo è un essere mutevole; è costante solo nella sua incostanza».

Il logico risultato di un apostolato così difettoso sarà o il disprezzo per una autorità pusillanime o la diffidenza, e spesso l’odio, verso un’autorità che non riflette quella di Dio.


Con la vita interiore l’apostolo irradia fermezza e dolcezza. – Molte volte i Santi hanno attaccato con la massima forza l’errore, lo scandalo e l’ipocrisia. San Bernardo, oracolo del suo secolo, può essere considerato come uno dei Santi il cui zelo ha si è irradiato con maggiore fermezza. Leggendo la sua vita, però, il lettore saprà distinguere fino a qual punto la vita interiore avesse reso impersonale questo uomo di Dio. Egli non ricorre mai alla fermezza, se non dopo aver constatato con evidenza l’inefficacia degli altri mezzi. Spesso anzi li alterna: dopo aver manifestato, per vendicare i princìpi, una santa indignazione e domandato rimedi, riparazioni, garanzie e promesse, nel suo grande amore per le anime lo si vede dedicarsi ben presto, con una dolcezza materna, alla conversione di quelli che in coscienza aveva dovuto combattere. Pur spietato con gli errori di Abelardo, sapeva farsi amico di colui che aveva vittoriosamente ridotto al silenzio.

Se vede che i princìpi sono fuori questione e si tratta solo dei mezzi da usare, egli si batte facendo il possibile per evitare che gli ecclesiastici ricorrano a metodi violenti. Venuto a sapere che si vuol mandare in rovina e massacrare gli ebrei in Germania, sùbito lascia il suo chiostro per correre in loro difesa e predicare una crociata di pace. In un memorabile documento riportato dal padre Ratisbonne nella sua vita di San Bernardo11, il gran rabbino di quella nazione manifesta la sua ammirazione per il monaco di Chiaravalle, «senza del quale – disse – nessuno di noi sarebbe rimasto vivo in Germania»; egli invita le future generazioni ebraiche a non dimenticare mai il debito di gratitudine che hanno verso il santo abate. Diceva san Bernardo in quell’occasione: «Noi siamo i soldati della pace, l’esercito dei pacifici: ‘Deo et paci militantibus’. La persuasione, l’esempio e l’abnegazione sono le sole armi degne dei figli del Vangelo».

Nulla potrà sostituire la vita interiore nell’ottenere questo spirito impersonale che caratterizza lo zelo di tutti i Santi.

Nel Chiablese, prima che vi giungesse San Francesco di Sales, tutti gli sforzi erano falliti. I caporioni del protestantesimo si preparavano ad una lotta accanita: la setta calvinista aveva persino deciso di uccidere il santo vescovo di Ginevra. Ma questi si presentò irradiando dolcezza e umiltà; in lui si vide un uomo in cui l’annientamento dell’Io faceva risplendere l’amore di Dio e del prossimo. La storia riferisce i rapidi e quasi inverosimili risultati di quell’apostolato.

Ma anche lui, il dolce San Francesco di Sales, quando era necessario, sapeva dimostrare una fermezza inesorabile. Per rafforzare i risultati ottenuti dalla soavità della sua parola e dall’esempio delle sue virtù, egli non esitava ad invocare la forza delle leggi civili. Così il santo vescovo consigliò al Duca di Savoia di prendere severe misure contro la perfidia degli eretici.

I Santi non facevano che imitare il Maestro. Nel Vangelo vediamo il Salvatore accogliere con misericordia i peccatori, mostrarsi amico di Zaccheo e dei pubblicani e pieno di bontà per gl’infermi, gli afflitti ed i piccoli. Tuttavia Egli stesso, la dolcezza e la mansuetudine incarnata, non esita ad impugnare la sferza per scacciare i mercanti dal Tempio. E quando parla di Erode o condanna i vizi degli Scribi e degli ipocriti Farisei, che severità, che vigore nelle sue frasi!

Soltanto in certi casi rarissimi, dopo aver adoperato inutilmente tutti i mezzi, oppure quando si vede chiaramente che questi sarebbero inutili, soltanto allora e a malincuore, per impedire lo scandalo, e perciò per carità, si può ricorrere a procedimenti che sembrano violenti.

Fatte queste eccezioni, e sempre che non siano in causa i princìpi, è la mansuetudine che deve dominare nella condotta dell’operaio evangelico. «Si acchiappano più mosche con poche gocce di miele che con un barile di aceto», diceva san Francesco di Sales.

Ricordiamo il rimprovero che il Signore fece ai suoi Apostoli quando, irritati e umiliati nella loro umana dignità e non certo spinti da zelo puro e disinteressato, volevano ricorrere alla violenza domandando che discendesse fuoco dal cielo sulla regione di Samaria, che si era rifiutata di accoglierli. «Voi non sapete di quale spirito siete!», rispose Gesù (Lc. 9, 55).

Un vescovo francese, la cui fermezza sui princìpi è citata come modello, visitava di recente, nella sua città episcopale, famiglie in lutto in cui la grande guerra aveva fatto alcune vittime. Facendosi tutto a tutti, andò a portare la sua consolazione ad un calvinista che piangeva il figlio caduto in battaglia con onore, e gli rivolse parole cordiali e commosse. Colpito da questo atto di umile carità, quel protestante esclamava poi: «E’ possibile che un Vescovo tanto nobile per la sua nascita e tanto distinto per la sua istruzione si sia degnato, nonostante la nostra diversità di religione, a varcare la soglia della mia modesta dimora? Il suo contegno e le sue parole mi hanno penetrato il cuore». L’industriale presso il quale lavorava, nel raccontare questo fatto, aggiungeva: «Per me, questo protestante è per metà convertito; o per lo meno il Vescovo, con la sua dolcezza, ne ha avvicinato la conversione ben più d’interminabili e vivaci discussioni».

Quel pastore d’anime aveva manifestato la mansuetudine del Signore; il protestante aveva come visto davanti a sé il Salvatore ed era costretto ad ammettere: «Una Chiesa nella quale vi sono Vescovi che rispecchiano così perfettamente Colui che io ammiro nel Vangelo, dev’essere la vera Chiesa».

La vita interiore mantiene nello stesso tempo l’intelletto e la volontà al servizio del Vangelo. Né l’indolenza, né la violenza ingiustificata faranno traviare l’anima che vede ed opera secondo il Cuore di Gesù; soltanto da questo adorabile Cuore essa attinge la sua prudenza ed il suo ardore; qui sta il segreto del suo successo. Al contrario, la mancanza di vita interiore, e perciò la manifestazione delle umane passioni, danno la spiegazione di tante sconfitte.


Con la vita interiore l’apostolo irradia la mortificazione. – Un altro principio che feconda le opere è lo spirito di mortificazione. Tutto si riassume nella Croce. Finché non avremo fatto penetrare nelle anime il mistero della Croce, le avremo soltanto sfiorate. Ma chi potrà far accettare un mistero che ripugna a quell’orrore della sofferenza tanto naturale all’umana creatura? Solo colui che potrà dire col grande Apostolo: «Sono crocifisso insieme a Cristo» (Gal. 2, 19), solo coloro che portano in loro stessi Gesù mortificato: «Portiamo sempre nel nostro corpo il martirio di Gesù, affinché anche la Sua vita si manifesti nel nostro corpo» (2 Cor. 4, 10). Mortificarsi è riprodurre il «Cristo non cercò la propria soddisfazione» (Rom. 15, 3), significa rinunziare a se stessi in ogni circostanza, significa giungere ad amare ciò che non piace, significa infine tendere all’ideale di essere una vittima continuamente immolata.

Ma senza la vita interiore non è possibile giungere a questo radicale rovesciamento dei nostri più tenaci istinti.

Mentre il Poverello di Assisi, attraversando in silenzio le vie della città, predica col suo solo aspetto il mistero della Croce, l’apostolo non mortificato ripeterebbe invano gli splendidi accenti di Bossuet nel suo discorso sul Calvario. Il mondo è talmente impantanato nelle concupiscenze che, per demolire la sua cittadella, non bastano davvero gli argomenti comuni e neppure gli spunti grandiosi. Ci vuole la Passione resa come percepibile per opera della mortificazione e del distacco del ministro di Dio.

«Inimicos Crucis Christi!», ripeterebbe San Paolo, «nemici della Croce di Cristo» quei numerosi cristiani che concepiscono la religione come una forma di snobismo, un’abitudine a pratiche esteriori trasmesse per tradizione, compiute regolarmente e con rispetto, certo, ma senza collegarle affatto all’emendazione della vita, alla lotta contro le passioni e all’introduzione dello spirito del Vangelo nei costumi. «Questo popolo fa finta di onorarmi – potrebbe ripetere il Signore – ma lo fa solo con le labbra, perché il suo cuore è lontano da me» (Mt. 15, 8, che cita Is. 29, 13).

«Inimicos Crucis Christi!», nemici della Croce, quei cristiani rammolliti che ritengono indispensabile circondarsi di tutte le comodità, piegarsi a tutte le esigenze del mondo, abbandonarsi ai suoi disordinati piaceri, seguire appassionatamente tutte le mode... e poi si sentono urtati da quella parola ch’essi non comprendono più, ma che pure Gesù disse a tutti: «Se non farete penitenza, perirete tutti allo stesso modo» (Lc. 13, 3). La croce è divenuta per loro uno scandalo, conformemente all’espressione di san Paolo (1 Cor. 1, 23). Eppure, senza la vita interiore, può l’apostolo produrre dei cristiani diversi da questi?

Una numerosa partecipazione popolare a certe funzioni religiose soddisferà senza dubbio il cuore del vero sacerdote. Ma lo lascerà senza entusiasmo, se non potrà attribuire tale partecipazione che all’abitudine, ad una fedeltà rispettabile verso certe usanze di famiglia, a certe usanze che non scomodano per nulla il corso della vita; oppure se ne troverà la causa nel piacere di gustare una buona musica, di ammirare un magnifico apparato liturgico, oppure di assistere ad un esercizio di eloquenza ammirato solo per il suo aspetto formale.

Almeno, sembrerebbe, non potrà rifiutare questo entusiasmo davanti alla Comunione frequente.

Mi torna alla mente un ricordo del mio viaggio negli Stati Uniti. Attraversando certe parrocchie, ero entusiasta nell’apprendere che numerosi uomini erano fedeli alla Comunione del primo venerdì del mese. Ma un santo prete di New York mi disse: «L’uomo guarda la faccia ma Dio scruta il cuore12. Non dimenticate che siete in un Paese in cui il rispetto umano è sconosciuto e dove dappertutto regna il gusto del sensazionale. Riservate la vostra ammirazione per quelle parrocchie in cui l’accorto osservatore può constatare che le Comunioni frequenti manifestano davvero, se non la completa emendazione della vita, almeno sforzi sinceri di vita cristiana e un desiderio leale di non venire a compromesso con l’intemperanza, la sfrenata ricerca del denaro, eccetera».

Lungi da me il pensiero di svalutare le più minime tracce di vita cristiana, di qualsiasi tipo. Con queste mie parole intendo piuttosto deplorare quella triste incapacità – in cui potremmo cadere, per la mancanza di vita interiore – di non produrre altro che risultati molto miseri, benché non disprezzabili.

Il Signore vuole da noi soltanto il cuore: per conquistarlo, per possedere la nostra volontà, per animarci a seguirlo nella via della rinunzia, Egli è venuto a rivelare all’uomo le sublimi verità della fede.

Di far nascere questa rinunzia, base di ogni perfezione morale, ne sarà capace solo l’apostolo abituato alla vita interiore, ch’è tutta fondata sul «rinneghi se stesso» (Mt. 16, 24); ne sarà invece incapace colui che segue troppo da lontano il Salvatore carico della croce: «Nessuno può dare ciò che non ha».

Se egli stesso è codardo nell’imitare Gesù Crocifisso, come potrà predicare al suo popolo quella guerra santa contro le passioni, alla quale Nostro Signore ci chiama?

Solo l’apostolo disinteressato, umile e casto può trascinare le anime a lottare contro le ondate sempre crescenti della cupidigia, dell’ambizione e dell’impudicizia. Soltanto colui che conosce la scienza del Crocifisso è abbastanza potente da opporre una diga a quella continua ricerca delle comodità, a quel culto del piacere che minacciano di sommergere tutto e di rovesciare le famiglie e le nazioni.

Predicare Gesù crocifisso: così san Paolo riassume il suo apostolato; siccome egli vive di Gesù, e di Gesù crocifisso, riesce a far gustare alle anime il mistero della Croce e ad insegnar loro a viverlo. Troppi apostoli moderni non hanno abbastanza vita interiore per approfondire questo mistero di vita, per esserne penetrati ed irradiarlo intorno a loro. Troppo esclusivamente essi considerano nella religione gli aspetti filosofici, sociali o addirittura estetici, capaci solo di interessare l’intelligenza o di eccitare la sensibilità e l’immaginazione; troppo lusingano la loro tendenza a vedere nella religione soprattutto una scuola di poesia sublime e di arte incomparabile. La religione ha certamente tutte queste qualità; ma vederla soltanto sotto questi aspetti secondari, significa assolutamente deformare il piano del Vangelo elevando a scopo ciò che è soltanto un mezzo. Il Cristo del Getsemani, del Pretorio e del Calvario, trasformarlo in un bellimbusto, è un sacrilegio. Dopo il peccato originale, la penitenza, la riparazione e la lotta spirituale sono divenute condizioni indispensabili di vita, e la Croce di Gesù Cristo ce lo ricorda in ogni circostanza. Allo zelo del Verbo Incarnato per la gloria del Padre Suo, non basta ottenere degli ammiratori: vuole avere imitatori.

Nella sua enciclica del 1° novembre 191413, Benedetto XV ha invitato i veri apostoli a tracciare un più profondo solco, allo scopo di strappare le anime dall’amore delle comodità, dall’egoismo, dalla leggerezza dei gusti, dall’oblio dei beni soprannaturali. Ciò significa fare appello alla vita interiore dei ministri del divino Crocifisso.

Quel Dio che tanto ci ha dato esige che il cristiano, fin dall’età della ragione, unisca alla sanguinosa Passione di Gesù qualcosa di se stesso, cioè quello che potremmo chiamare il sangue della sua anima, ossia i sacrifici necessari per osservare le leggi divine. Ma come potrà il fedele compiere generosamente questi sacrifici dei beni, dei piaceri e degli onori, se non è attirato dall’esempio di un pastore di anime che sia per primo abituato allo spirito di sacrificio?

Dinanzi allo spettacolo delle reiterate vittorie del nemico infernale, ci si domanda ansiosamente: donde verrà la salvezza della società? Quando toccherà alla Chiesa di trionfare? E’ facile rispondere con le parole del Maestro divino: «Questo genere di demoni lo si può scacciare solo con la preghiera e il digiuno» (Mt. 17, 20). Quando dalle schiere del sacerdozio e della religiosa milizia uscirà una pleiade di uomini penitenti che facciano risplendere in mezzo ai popoli il mistero della Croce, allora questi popoli, contemplando nel sacerdote o nel religioso mortificato le riparazioni per i peccati del mondo, comprenderanno la Redenzione operata dal Sangue di Gesù Cristo. Solo allora l’esercito di Satana indietreggerà; avendo Dio finalmente trovato anime riparatrici, solo allora non risuonerà più attraverso i secoli l’eco terribile del doloroso lamento del Signore oltraggiato: «Ho cercato fra loro un uomo che vi ponesse rimedio, che si levasse a difesa del popolo per evitare che lo sterminassi, ma non l’ho trovato!» (Ez. 22, 30).

Oualcuno ha voluto spiegare perché mai un semplice segno di croce fatto dal padre de Ravignan produceva un effetto così magico sugli indifferenti e persino sugli stessi empi venuti ad ascoltarlo per mera curiosità. La conclusione delle domande rivolte a molti uditori, fu che l’austerità della vita intima del predicatore si manifestava in maniera avvincente in quel segno di croce che lo univa al mistero del Calvario.



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