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I FRATELLI DI GESU'

Ultimo Aggiornamento: 06/09/2009 22:12
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06/09/2009 11:39

Se io infatti scrivo “a causa di un paradossale equivoco, avevamo capito, che l’aereo di mia nonna stesse precipitando…” nessun italiano oggi mi fraintende, ma con molta probabilità uno straniero che leggesse questa frase dopo diversi secoli capirebbe che mia nonna possedeva un aereo
“… l’aereo di mia nonna…”. Questo modo di scrivere e di parlare che risulta familiare ed elementare oggi agli italiani, potrebbe generare equivoci nei secoli futuri a popoli stranieri che leggessero questa frase, eppure nessuno scrittore contemporaneo andrebbe a specificare che con la frase “l’areo di mia nonna” non si indica la proprietà legale dell’aereo, ma bensì “l’aereo su cui viaggiava mia nonna”, questo perché tra i potenziali lettori odierni nessuno fraintederebbe. Qualcuno potrebbe obiettare che un bravo scrittore deve prevedere il mutamenti dei modi espressivi e dei costumi, quindi potrebbe aggiungere qualche nota esplicativa, al fine di evitare fraintendimenti futuri. Sì, ma il bravo scrittore sa pure che ogni storico serio si deve preoccupare di confrontare l’opera che sta leggendo con altre della stessa epoca, per meglio capire i modi espressivi propri di quell’epoca e magari di un popolo in particolare. Quindi non è affatto scontato l’aggiungere note esplicative ad ogni frase che si scrive.

Ecco perché è fondamentale conoscere bene le lingue e i costumi degli antichi ebrei, perché sicuramente il loro modo di esprimersi non è uguale al nostro. I modi espressivi occidentali non rappresentano l’universalità dei linguaggi, tuttavia noi occidentali siamo abituati a pensare e spiegare tutto con i nostri canoni linguistici, sbagliando. Le mentalità dei popoli spesso differiscono enormemente, e l’occidentalizzare la lingua e i modi espressivi ebraici ci porta sicuramente a sbagliar strada.

Gli ebrei con la parola “ah” (=fratello) esprimevano la parentela in genere o addirittura semplicemente compaesano o compatriota; essi quando volevano indicare un fratello germano (=uterino, di sangue) ricorrevano ad espressioni più lunghe, come “figlio di suo fratello”, “figlio di sua madre” ecc.. Gesù è sempre indicato come figlio di Maria. GLI ALTRI MAI.

Le parole greche che significano “fratello e “sorella”, non sempre in senso stretto ed anche in senso traslato, traducono termini ebraico-aramaici che oltre a designare i figli di stessi genitori, designano anche parenti prossimi, specialmente per consanguineità, senza specificare il grado di parentela.

Per i vari gradi di parentela, poi, le due lingue non possiedono neppure tutti i vari termini che hanno le nostre lingue odierne.

Dimostreremo –come accennato in apertura-  che i fratelli di Gesù menzionati nella Bibbia in realtà sono suoi parenti.

Chi avrebbe il dovere di confrontare e verificare, per “mestiere” sono i teologi, ma “ciò che chiaramente determina l’atteggiamento degli studiosi protestanti (e di qualche cattolico deviato) è la convinzione che la tesi cattolica (“cugini” o, comunque , membri del clan familiare) non sia il frutto di una ricerca rigorosa sui documenti storici, bensì conseguenza obbligata della dottrina della perpetua verginità di Maria che ogni cattolico è tenuto a credere. Ha scritto il riformato razionalista Maurice Gougel: <<Non esiste un problema dei fratelli del Signore per la storia ma soltanto per la dogmatica cattolica>>. O il luterano Joseph Bornkamm: <<Soltanto convenienze dottrinali cattoliche (od ortodosse), non i documenti di cui disponiamo, hanno fatto di questi fratelli dei fratellastri o dei cugini, per difendere la perpetua verginità di Maria>>. Questa è pure la tesi di qualche teologo cattolico progressista. Il professor Joseph Blinzer grande esegeta tedesco ci dice che: <<Possiamo dimostrare che ci troviamo di fronte a un preconcetto e che l’interpretazione cattolica dell’espressione “fratelli del Signore” non è aprioristica, non è difesa astratta di un dogma, bensì prende seriamente in considerazione la testimonianza della storia, vale a dire del Nuovo Testamento e della Tradizione più antica>>.

Una sfida che, però è rimasta ancora una volta inascoltata: come notava, con amarezza, lo stesso Blinzer, <<se c’è una differenza nel modo con cui l’esegesi protestante e quella cattolica presentano le loro posizioni, essa consiste nel fatto che da parte cattolica si ha cura di tenere conto degli argomenti della controparte, per replicare; mentre gli autori protestanti di regola ritengono superfluo perdere ancora tempo e procedere al confronto>>.

Una sorta di complesso un po’ sprezzante di superiorità –complesso non limitato peraltro a questo tema- con cui specialisti che dicono di rifarsi alla Riforma (i cui fondatori, lo ripetiamo, in realtà danno loro torto: ma si ha cura di non farlo sapere) guardano a quegli attardati, miracolisti, magari superstiziosi cattolici, per i quali sarebbero importanti banali questioni trivialmente ginecologiche come la verginità perpetua della madre di Gesù.” (Cfr. V. Messori, Ipotesi su Maria.)

In effetti fino all’anno 380 non ci fu problema alcuno sull’interpretazione della parola “fratello” nel contesto biblico.

“L’equivoco fu volutamente provocato da Elvidio, un oscuro laico che si inseriva nel dibattito allora rovente sulla superiorità del celibato religioso rispetto al matrimonio. L’esplosione del fenomeno del monachesimo (quasi come un sostituto al martirio), dopo i provvedimenti liberali di Costantino, portava una tale sopravvalutazione della verginità e a una così forte diffidenza verso i rapporti coniugali da provocare una reazione vivace. Il pamphlet di Elvidio si inseriva in questa polemica ed era <<basato non sull’antica Tradizione ma su un’esegesi del Nuovo Testamento certamente errata, da dilettante>>. Così Blinzer. Ciò che l’oscuro polemista voleva era replicare ai fautori della superiorità del monachesimo, cercando di dimostrare che anche Giuseppe e Maria avevano fondato una famiglia che, oltre al Primogenito, aveva avuto molti altri figli. Partiva dunque non da un approfondimento dei testi della fede, bensì da una tesi prefissata per la quale trovare giustificazioni.

Il maggiore biblista del tempo era san Girolamo che, probabilmente non avrebbe replicato a un polemista così mediocre, rispetto a lui. Ma, sollecitato da persone autorevoli (era allora a Roma e non in Oriente dove, soprattutto il Palestina, visse a lungo), scrisse un trattato: De perpetua virginitate Mariae. Quell’incauto dilettante di Elvidio era fatto a pezzi dal focoso santo, che conosceva ogni riposta sfumatura della Scrittura e delle lingue, ebraico e greco, in cui è scritta, tanto da darci la traduzione in latino che è restata canonica. Per Girolamo, comunque, i “fratelli” e le “sorelle” di Gesù erano cugini e non figli di Giuseppe: e lo dimostrava con argomenti la cui sostanziale validità è riconosciuta anche oggi.

Tutti i grandi scrittori cristiani, sia allora che dopo, plaudirono all’opera, divenuta classica.

Da allora non ci furono praticamente altre discussioni su Gesù come unico figlio nato per opera dello Spirito Santo; come ricordavo, neppure da parte della Riforma. La tesi di Maria come madre di famiglia numerosa rinacque solo tra Sette e Ottocento, nell’ambito del protestantesimo liberale, dell’illuminismo, del razionalismo. Anche se da molto tempo è preponderante tra gli evangelici – e insidia ora i cattolici complessati-, non va dimenticato che, malgrado la sicurezza <<scientifica>> con cui è spacciata, è una teoria recente, limitata a dei professori e contrasta con la certezza di fede espressa unanimemente per tanti secoli. Ultimamente si è cominciato a fare i conti con il fatto che almeno tre dei Vangeli sarebbero la traduzione in greco di un testo aramaico; e che, dunque, dietro alle espressioni elleniche c’è un sostrato semita, non di rado tradotto in modo impreciso. Tra l’altro, queste indagini –che stanno dando risultati sorprendenti- contribuiscono a rendere sempre meno salda quella esegesi cosiddetta <<storico-critica>>.

All’orizzonte si affaccia quindi l’ipotesi, sempre più reale, che i Vangeli sono stati scritti prima dell’anno 70, in lingua aramaica.

Per quanto ci interessa qui, alla luce delle nuove ricerche prendiamo, per esempio, le nozze di Cana dove, dice Giovanni (2,1s.), <<c’era la madre di Gesù. Fu invitato anche Gesù con i suoi discepoli>>. Non c’è traccia dei <<fratelli>>, che compaiono però alla fine dell’episodio: <<Dopo questo fatto, discese a Cafarnao insieme con sua madre, i fratelli e (in greco: kai) i suoi discepoli e si fermarono là solo pochi giorni>>. (2,12).

Sentiamo Josè Miguel Garcia, uno dei biblisti che stanno aprendo nuove strade, indagando ciò che <<sta dietro>> alla lingua in cui leggiamo i Vangeli: <<La particella greca kai traduce testualmente un waw aramaico, che spesso corrisponde alla congiunzione copulativa italiana e. Ma, in questo caso, il waw è esplicativo e il suo equivalente italiano è “cioè, vale a dire, ossia”.

Nel greco dei Vangeli non sono rari i casi in cui questa congiunzione greca riveste tale significato>>. Per esempio, Marco 15,1: <<I sommi sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e (kai) tutto il Sinedrio…>>. Incomprensibile, visto che quelle tre categorie rappresentavano già <<tutto il Sinedrio>>. In realtà, nell’originale aramaico c’era anche qui un waw che non è stato tradotto correttamente come esplicativo ma come copulativo. La frase, dunque, va letta come <<I sommi sacerdoti, con gli anziani e gli scribi, cioè tutto il Sinedrio>>: l’evangelista, prima di alludere all’insieme del tribunale, specifica con precisione storica i suoi componenti.

Per tornare a Cana e al biblista spagnolo: <<Anche il contesto del racconto di quelle nozze richiede che al greco kai sia attribuito il valore di cioè>>. In effetti, <<all’inizio, Giovanni menziona come accompagnatori di Gesù sua madre e i suoi discepoli. Allora, perché, alla fine dice che discese a Cafarnao con la madre, i fratelli e i discepoli? La congruenza narrativa tra l’inizio e la fine del racconto richiederebbe che anche nella parte finale vengano menzionati solo due gruppi di accompagnatori: sua madre e i suoi discepoli. E ciò diventa perfettamente possibile leggendo la congiunzione greca come particella esplicativa>>. Dunque, il testo andrebbe letto correttamente così: <<Dopo questo fatto, discese a Cafarnao insieme con sua madre e i suoi fratelli, cioè i suoi discepoli, e si fermarono là solo pochi giorni>>.

Ma il professor Garcia aggiunge un altro rilievo che ci sembra portare una conferma: <<Se si trattasse di veri e propri fratelli, sarebbe ovvio supporre un ritorno a Nazareth, dove tutti avevano la casa. Se si recano a Cafarnao, la città scelta da Gesù come base per il suo operato in Galilea, è semplicemente perché i suoi accompagnatori non sono fratelli o altri familiari, bensì discepoli.

Di conseguenza, questo versetto di Giovanni specifica con chiarezza chi siano davvero questi “fratelli”>>.

I Vangeli sono davvero chiari, parlando de <<l’altra Maria>> ai piedi della croce (lo vedremo nel dettaglio più avanti, ndr) ed escludendo dunque che quella che è per noi la santa Maria per eccellenza fosse la madre almeno di due di quelli che vengono chiamati <<fratelli del Signore>>. Ma, come ribadivamo spesso proprio coloro che dicono di volersi basare sulla Scrittura, e su quella soltanto, evitano poi di confrontarsi con ciò che contrasta con quanto si vuol dimostrare: in questo caso, che colei che per i cattolici è la Donna per eccellenza (la <<Madonna>>), sbrigatasi della prima gravidanza – quasi una sorta di incarico a termine datole dal Cielo, che necessitava di una femmina ebrea –non fu che una madre nella norma e, come tale, il contrario stesso di una vergine. E’ chiaro che dietro a questo c’è la demitizzazione protestante di Maria, il voler toglierle quelli che sono considerati <<assurdi e antibiblici privilegi>>, forse anche l’eterna tentazione ariana: Gesù come <<uomo di Dio>> ma non <<Figlio di Dio>>, come <<grande Iniziato>>, non come <<Redentore e Signore>>.

Certo, riesce difficile capire come specialisti del Medio Oriente antico non vogliano accettare un fatto ovvio e che può constatare anche oggi chi viaggia da quelle parti: dietro il greco dei Vangeli Adelfòs, fratello, c’è l’aramaico aha, o l’ebraico ‘ah, che può  significare al contempo fratello di sangue, fratellastro, cugino, nipote ma anche discepolo, alleato, membro della stessa tribù, sino al <<prossimo>> in generale, purchè della medesima città o nazione. Ancora adesso, non esiste nell’ebraico moderno un termine per distinguere il fratello dal cugino e occorre ricorrere a espressioni come <<figlio della stessa madre (o dello stesso padre)>>. Nell’Antico Testamento ci sono centinaia di passi (e li vedremo più avanti, ndr) dove la parola <<fratello>> è usata per indicare le parentele o le prossimità più diverse.” (cfr. V.Messori, Ipotesi su Maria)

Gilles, nel suo libro, cita soltanto tre episodi del V.T. dove compare la parola “fratello” intesa ai parenti, e precisamente Gen 13,8; 14,16; 29,15; Lev. 10,4; 1Cr. 23,22, e ci dice a pag. 25, che la Bibbia stessa precisa che in realtà si tratta di parenti, cosa che non fa mai nel Nuovo Testamento riguardo ai fratelli di Gesù. Ma è corretto citare solo questi tre episodi per asserire una tesi simile?

Secondo la distorta prassi protestante, bastano due o tre versetti per confermare una verità, ma in questo caso i tre episodi citati dal Gilles –che si definisce cattolico, senza precisare se romano-, calpestano almeno una cinquantina di altri episodi che vedremo più avanti.

Per passare al Nuovo Testamento, abbiamo accennato che Paolo per quasi 120 volte (Anche qui il Gilles stranamente non menziona questi episodi, ma va a beccare solo quello in cui Paolo usa anepsios per indicare Barnaba,ndr), usa il termine <<fratello>> per indicare una comunanza spirituale o un legame che non è quello uterino e, spesso, neanche familiare. Proprio per questo gli evangelisti – o i traduttori dall’aramaico al greco- non esitarono a usare la parola <<fratello di Gesù>>, all’uso generale del tempo, sicuri di non essere fraintesi da alcuno. Così è ancora in Oriente (anche l’arabo moderno, come l’ebraico attuale, non ha un termine per distinguere i fratelli dai cugini), è in Africa e in tutte le culture tradizionali. Mi diceva un missionario che quel che sembra un problema per i biblisti europei o nordamericani- spesso incredibilmente persuasi che le loro categorie siano universali, dunque anche quelle dei tempi biblici- non lo è affatto per i suoi seminaristi neri, nelle cui lingue e dialetti esiste solo il termine <<fratello>> per indicare la parentela più vasta o l’appartenenza alla tribù. Per indicare senza equivoci la provenienza dallo stesso seme e utero, l’Africa dice: <<stesso padre, stessa madre>>. La Scrittura ci viene da un universo che non è quello dell’Occidente moderno, da un universo semitico, orientale, mediterraneo dove la fratellanza non è quella ristretta delle nostre famigliole mononucleari, rinchiuse ciascuna nell’alloggetto dei condomini metropolitani. Non a caso, come ricordavo, nei primi secoli non ci fu alcun equivoco sul termine “fratello del Signore”.

Del resto, anche l’italiano ha un caso simile di carenza linguistica: distingue i fratelli di sangue dai cugini, ma usa lo stesso termine, <<nipote>>, per indicare sia i figli dei figli che i figli dei fratelli.

Aggiunge ancora Blinzer: <<Come si può dedurre dal silenzio dei Vangeli su Giuseppe, questi deve essere morto presto. Dopo la sua morte, Maria con suo figlio, deve essersi unita alla famiglia del suo (o dei suoi?) parenti più prossimi. I figli di questa famiglia (o famiglie?), cresciuti insieme a Gesù, furono chiamati dalla popolazione suoi fratelli e sorelle, perché non esisteva nelle lingue semitiche altro termine conciso per indicarli>>.

Esiste, in greco, una parola per indicare cugino, (l’abbiamo vista, ndr). Ma anche la versione greca della Scrittura ebraica, quella detta dei Settanta, compiuta poco più di un secolo prima di Cristo, non la impiega quasi mai, preferendo anch’essa tradurre adelphòs. Nei Vangeli, poi, deve esserci stato un motivo in più: meglio il termine generico <<fratelli>>, visto che probabilmente non di soli cugini si trattava ma di un clan eterogeneo, di un <<gruppo di pressione>>, per dirla con Ravasi, e occorreva dunque un termine che li indicasse tutti. Ricordiamo l’episodio famoso e talmente significativo che finì col far breccia addirittura nel criticismo impenetrabile di Ernest Renan. Questi, nelle prime edizioni della sua celeberrima e razionalista Vita di Gesù, accettò l’ipotesi dei fratelli e delle sorelle carnali che cominciava a diffondersi nel protestantesimo liberale. Ma a partire dalla decima edizione di quel Vita e, poi, in studi successivi, Renan si ricredette: fu forse la prima ed unica volta in cui ritrattò una sua convinzione in contrasto con la prospettiva cattolica. Ci ripensò a causa, soprattutto, della riflessione sul drammatico e patetico episodio di Giovanni 19,25ss., dove Gesù morente affida la Madre <<al discepolo che egli amava>>: <<”Donna ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco la tua madre!”. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa>>. Aggiunge ancora Blinzer: <<Se Maria avesse avuto altri figli (e figlie), sarebbe eccezionalmente singolare che Gesù morente avesse affidato la madre al discepolo. Gesù conscio che avrebbe lasciato la madre veramente sola, cioè senza figli reali che si prendano cura di lei, impegna il più fidato dei discepoli ad averne cura come della propria madre. […] perché considerò necessario prendere in extremis una simile decisione?

Essa è comprensibile solo se Gesù era l’unico figlio di Maria, ma sarebbe sembrata molto strana se ci fossero stati altri quattro figli maschi, con i quali ella, come aveva rapporti prima –come risulta dai evangeli – continuò ad averne anche dopo (Atti 1,14). La tesi protestante che vede l’affidamento di Maria a Giovanni una conseguenza della scarsa fede dei fratelli, che non potevano dunque offrire un supporto spirituale a Maria, cozza contro la scena di Atti che vede questi “fratelli” assidui nella preghiera riuniti assieme a Maria e agli apostoli. In tre anni di predicazione fatta da Gesù non avrebbero creduto, e poi in appena una cinquantina di giorni diventarono addirittura assidui nella preghiera. Un fatto simile sicuramente era possibile, tutto è possibile a Dio, ma appunto per questo, e per la preveggenza di Gesù, non c’era bisogno di affidare  Maria a Giovanni. Con tale atto di affidamento, Gesù avrebbe tolto a degli uomini adulti – che, come lui, erano veri figli di Maria e che finora le erano stati legati strettamente- il diritto di continuare a vedere in lei la propria madre>>.  Comprensibile la conclusione, un po’ sdegnata, del biblista tedesco: <<Che razza di atteggiamento vorrebbero attribuire a Gesù morente!>>.

Forse, se Gesù si intenerisce sino alle lacrime vedendo un funerale e interviene addirittura per resuscitare il defunto, a Naim, è perché, come precisa il Vangelo, il giovane era <<figlio unico di una madre vedova>>: la stessa situazione in cui presto si sarebbe trovata anche sua madre e cui volle porre rimedio negli ultimi istanti di vita, poiché era impensabile che una donna vivesse sola.

Ma l’esemplare ripensamento di Renan, maestro suadente (<<un marron glacè con dentro degli aghi>>, come lo definiva Mauriac) di ogni razionalista ottocentesco, fu determinato anche dall’osservazione che, mentre dei <<fratelli>> e <<sorelle>> non si dice mai <<figli di Maria>>, Gesù è invariabilmente chiamato <<il figlio di Maria>>. Il, dunque, non un, come a specificare che era il solo. Non basta: nel mondo ebraico, e semitico in generale, il figlio non è mai indicato con il nome della madre, a meno che il padre non sia morto e la vedova non abbia altra prole.

Dunque, dire <<il figlio di Maria>> e non <<di Giuseppe>> era un’altra indicazione della situazione <<anagrafica>> del Cristo. E’ Renan stesso che osserva come l’usanza sia continuata anche nel mondo occidentale, citando l’esempio del pittore Piero della Francesca: figlio unico, anch’egli, di madre vedova. Per continuare con gli indizi (il Vangelo invita spesso a una sorta di <<caccia al tesoro>>; o, se si vuole, è una sorta di giallo, dove bisogna interpretare le tracce: è la logica del Deus absconditus, il Dio che vuole essere cercato), per continuare, dunque: tutti coloro che credono a una figliolanza numerosa di Maria riconoscono che, come il Vangelo precisa, Gesù è stato il primo nato. Ma, mentre accettano questa preminenza cronologica, mostrano ancora una volta di conoscere poco o nulla le civiltà antiche, soprattutto orientali. In effetti, questi <<fratelli>> criticano, consigliano, cercano addirittura di mettergli le mani addosso per ridurlo all’impotenza, considerandolo alienato (<<E’ fuori di sé>>). Atteggiamenti impensabili, scandalosi e, dunque, non tollerati dalla società di quel tempo e di quei luoghi per dei fratelli minori. Le rigide gerarchie familiari stabilivano ben altri modi di comportarsi, ben altrimenti rispettosi, davanti al primogenito maschio che solo il padre aveva il diritto di redarguire e, soprattutto, di percuotere! Così il libro del Genesi istruisce il maggiore tra la prole: <<Sii il padrone dei tui fratelli, si inchinino davanti a te i figli di tua madre>>. (Gen 27,29) Blinzer: <<L’idea che al più anziano spetti una posizione di privilegio nei confronti di chi è venuto dopo di lui è estranea al nostro modo di pensare da occidentali moderni, ma è fortemente ancorata nel pensiero orientale. Per conseguenza, i fratelli di Gesù di Mc 3 o Gv 7 devono essere stati, necessariamente, più anziani di lui. E anche da questo viene escluso che fossero figli di Maria>>.

Ma, a proposito di più anziano tra i figli, ecco Luca 2,7 <<[Maria] diede alla luce il suo figlio primogenito>>. Obiezione di <<esperti>> che non sai se più disinformati o tendenziosi: se si dice primogenito è perché altri ne sono seguiti. Possibile che non si sappia, o non si voglia sapere, che tra gli ebrei ogni primo figlio, anche se unico, era indicato come <<primogenito>> perché a quella primogenitura – si veda l’Antico Testamento- erano legati privilegi e precisi adempimenti religiosi? Quel <<primogenito>> ha un significato (come vedremo più avanti, ndr) giuridico-religioso, come testimonia lo stesso Luca  poco più avanti (2,23) narrando della presentazione del bambino al tempio e citando l’antica Scrittura: <<Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore>>. Abbiamo lapidi e papiri aramaici del primo secolo che ricordano madri morte di parto mentre davano alla luce il loro <<primogenito>>: al quale, evidentemente, altri non erano seguiti… (anche questo lo approfondiremo più avanti, ndr) (cfr V. Messori, Ipotesi su Maria).

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