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LA CONFESSIONE

Ultimo Aggiornamento: 06/09/2009 12:03
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06/09/2009 12:03

Fratelli nemmeno il “Credo” si trova nella Bibbia, eppure tutti i cristiani di tutte le confessioni lo hanno accettato, ed è stato il concilio di Nicea a formularlo.

 

Transustanziazione significa trasformazione nella sostanza, la sostanza del pane dopo la preghiera di benedizione diventa corpo di Gesù, la sostanza del vino diventa sangue di Gesù, forse qualche fratello protestante vorrebbe spiegata la formula chimica seconda la quale avviene ciò, ma il fratello mi dovrebbe spiegare secondo quale formula fisica Gesù attraversò la porta e apparve ai suoi discepoli, e poi mangiò pure un pesce, e stranamente il pesce non cadde a terra, un corpo che attraversa un materiale solido come una porta dovrebbe essere un fantasma, quindi privo di materia, perciò secondo quale formula fisica il pesce una volta ingerito da Gesù non cadde a terra?

 

Noi cristiani crediamo per fede che Gesù attraversò la porta e poi mangiò il pesce, senza andare a cercare formule matematiche, chimiche o fisiche, allo stesso modo dobbiamo credere per fede che il pane diventa corpo e il vino sangue.

 

Signore Gesù voglio pregarti con il cuore, voglio chiederti di togliere dai nostri cuori l’orgoglio, la discordia, ti prego dona a noi la pace, togli dagli occhi dei fratelli non cattolici il velo che gli impedisce di vedere tutta la Verità.

 

“O Verità, che illumini il mio cuore, fa che non siano le tenebre a parlarmi!... La mia vista si è oscurata ma io mi sono ricordato di te. Ho sentito la tua voce… che mi gridava di tornare; a stento l’ho udita a causa del chiasso degli uomini; ma ecco che ora torno desideroso della tua fonte.

 

Ne berrò e vivrò!”

S.Agostino (Confessioni)

 

Dopo aver parlato della confessione sotto l’aspetto apologetico citando i diversi versetti biblici che parlano di essa, spiego in termini pratici cosa significa confessarsi e a che cosa serve. Il sacramento della Confessione può anche essere chiamato della Riconciliazione o della Penitenza.

 

Spieghiamo anzitutto il valore e il significato del termine "penitenza", per evitare che alcuno sia indotto in errore dall'ambiguità del vocabolo. Taluni intendono penitenza come soddisfazione; altri, ben lontani dalla dottrina cattolica, la definiscono una nuova vita, ritenendo che non abbia alcuna relazione con il passato.

 

Bisogna dunque chiarire i significati di questo vocabolo.

 

Anzitutto diciamo che prova pentimento (o penitenza) chi si rammarica di una cosa, che prima gli era piaciuta, a parte la considerazione se fosse buona o cattiva. Tale è il pentimento di coloro la cui tristezza è di carattere mondano e non secondo Dio, pentimento che arreca non la salute, ma la morte (2 Cor 7,10). Altra specie di pentimento è quello di coloro che si dolgono di un misfatto commesso, di cui si erano compiaciuti, non per riguardo di Dio, ma di se stessi (Mt 27,3). Una terza specie si ha quando non solo ci addoloriamo con intimo sentimento del peccato commesso, o ne mostriamo anche qualche segno esterno, ma ci rammarichiamo principalmente per l'offesa di Dio (Gl 2,12).

 

A tutte e tre queste specie di dolore conviene propriamente il nome di penitenza; quando invece leggiamo nella Scrittura che Dio "si pente", tale parola ha un valore metaforico, adattato alla maniera umana di parlare, che la Scrittura adopera come per dire che Dio ha mutato divisamente. Infatti in questo caso Dio sembra quasi agire alla maniera degli uomini che, quando si pentono di qualche cosa, cercano con ogni studio di mutarla. In questo senso leggiamo che Dio "si pentì" di avere creato l'uomo (Gl 6,6) e di aver eletto re Saul (1 Sam 15,11).

 

Ma v'è una grande diversità tra queste tre specie di penitenza. La prima è difettosa, la seconda è l'afflizione di un animo commosso e turbato, solo la terza è nello stesso tempo una virtù e un sacramento; di questa propriamente qui si tratta.

 

Tutti, ma proprio tutti, facciamo esperienza del peccato. Il peccato sono tutte quelle parole, quei gesti positivi che avremmo dovuto compiere e non abbiamo compiuto, quei gesti negativi e chiusure che abbiamo commesso e che avvertiamo non avremmo dovuto fare.

 

“A scuola ho trattato male quel mio compagno per far vedere agli altri che sono forte, ma adesso che sono da solo e ci ripenso mi sento un cretino e ci sto male”; “non volevo parlar male di quella mia amica, ma mi è capitato di parlarle alle spalle e adesso che la vedo ci sto’ male oppure, se ormai mi sono abituata a sparlare, quando la vedo piangere per causa mia, ci sto male.

 

Quante volte diciamo cose che non avremmo detto se fossimo stati più calmi, quanti gesti compiamo perché lo fanno tutti anche se dentro sentiamo che non ci piacciono, oppure se ormai siamo un po’ troppo abituati al male, quante volte, dopo molto tempo, ci pentiamo perché ci accorgiamo che le conseguenze non sono buone (non ho studiato, perché così potevo avere tanto tempo libero, ho preso 4 e adesso sono scontento perché devo andare a ripetizioni e recuperare un asterisco... e devo dire addio a tutto il tempo libero).

 

L’effetto del peccato è duplice e va verso “l’esterno” e verso “l’interno”.

 

Va verso “l’esterno” perché facciamo soffrire gli altri, li deludiamo, li sfruttiamo; deridiamo i deboli, dividiamo o rompiamo amicizie, sprechiamo il bene che abbiamo (tanto ce ne tanto).

 

Va verso “l’interno” perché ci lascia un senso di insoddisfazione, un non so che di fastidioso... da sempre noi cristiani chiamiamo questa sensazione come senso di colpa. Chi ha deciso di guardarsi in faccia sa che le prime cose che vengono a galla sono i sensi di colpa. Il mondo continuamente ti dice di non preoccuparti, che i tuoi sbagli sono sciocchezze, che tanto fare o non fare una cosa è lo stesso, ma tu nel profondo di te sai che non è così e tutto quello che hai messo da parte, nascosto, esplode. Infatti quante volte in un momento di dolore voi vi sfogate con qualcuno e l’altro ti dice: “non farti sensi di colpa” e mentre lo ascolti, tu sai che non dipende da te, vengono e basta”... quei sensi di colpa che non sai da dove vengono, hanno la loro origine nei peccati che hai commesso precedentemente.

 

La confessione cancella il senso di colpa perché cancella la colpa. Chi può risollevare una madre che in un momento di stupidità, di debolezza o di tragico vuoto ha deciso di sbarazzarsi del bambino che era nel suo grembo? Nessuno! Lei da sola non ce la fa, il conforto degli amici o interventi di psicologi attenuano il dolore, ma per breve tempo, poi il rimorso riemerge. Nessuno la giudica, è lei che si giudica da sola. È contemporaneamente l’accusata e l’accusatrice. Proprio per questo sa che nessuna pena può cancellare il suo misfatto.

 

Qualcuna potrebbe furbescamente obiettare che lui non avverte nessun senso di colpa e per questo non ha nemmeno la necessità di doversi confessare. Può anche essere che uno non avverta nessun senso di colpa perché non ha commesso nessun tipo di peccato, ma ne dubito fortemente. Anzi direi di più: più uno pecca e rimane nel peccato meno sentirà il peso della sua colpa e il bisogno di confessarsi. Quando mio nipotino ruba la cioccolata e vede comparire la mamma compie due gesti molto precisi: si nasconde e poi quando la mamma lo sgrida, nega spudoratamente tanto da suscitare l’ilarità di mia sorella.

 

Questo atteggiamento lo ripetiamo anche noi ogni volta che commettiamo un peccato, fuggiamo da Dio e neghiamo a noi stessi i peccati commessi, perché non vogliamo portare il peso delle nostre colpe. Aggiungo una seconda osservazione: tra due innamorati anche il più piccolo gesto fatto male risulta pesante e si vorrebbe non farlo... meno si ama Dio meno si sente il peso del peccato. Attenzione però che sentirlo di meno non vuol dire che il peso non ci sia e che non contribuisca a farci sentire la nostra vita come indegna di essere vissuta (Che schifo di vita la mia... diciamo spesso).

 

Ci deve essere pertanto una penitenza interiore, essa è quella per la quale noi con tutto l'animo ci convertiamo a Dio e detestiamo profondamente i peccati commessi, proponendo insieme fermamente di emendare le nostre cattive abitudini e i costumi corrotti, fiduciosi di conseguire il perdono dalla misericordia di Dio. Si associa a questa penitenza, come compagna della detestazione del peccato, una dolorosa tristezza che è una vera affezione emotiva dell'animo e da molti viene chiamata "passione". Perciò parecchi santi Padri definiscono la penitenza partendo da un così fatto tormento dell'anima. E tuttavia necessario che nel pentito la fede preceda la penitenza, perché nessuno può convertirsi a Dio senza la fede. Da ciò segue che a ragione non si può dire che la fede sia una parte della penitenza.

 

Che questa interiore penitenza sia una virtù, come abbiamo detto, è chiaramente dimostrato dai molti precetti che la riguardano (Mt 3,2; 4,17; Mc 1,4.15; Lc 3,3; At 2,38), poiché la Legge ordina solo quegli atti che si esercitano mediante la virtù. Del resto nessuno vorrà negare che sia atto di virtù il dolersi nel tempo, nel modo e nella misura opportuna. Tutto questo ce lo insegna a dovere la virtù della penitenza. Spesso avviene infatti che gli uomini non si pentano dei peccati quanto dovrebbero; che anzi vi sono taluni, a detta di Salomone, che si rallegrano del male commesso (Prv 2,14), mentre vi sono altri che se ne affliggono cosi amaramente, da disperare di salvarsi. Tale sembra essere stato il caso di Caino che esclamò: "II mio peccato è più grande del perdono di Dio" (Gn 4,13) e tale fu certamente quello di Giuda, il quale pentito, appendendosi al laccio, perdette insieme la vita e l'anima (Mt 27,3; At 1,18). La virtù della penitenza ci aiuta pertanto a conservare la giusta misura nel nostro dolore.

 

La stessa cosa si deduce anche da quanto si propone come fine chi davvero si pente del peccato. Questi, infatti, prima vuole cancellare la colpa e lavare tutte le macchie dell'anima; secondo, vuole dare soddisfazione a Dio per i peccati commessi, il che è evidentemente un atto di giustizia, poiché, sebbene tra Dio e gli uomini non possano esserci rapporti di vera e rigorosa giustizia, dato l'infinito abisso che li separa, pure taluno ve n'è, nel genere di quelli che si verificano tra padre e figli, tra padrone e servi; terzo, delibera di ritornare in grazia di Dio, nella cui inimicizia e disgrazia era caduto per motivo del peccato. Tutto ciò chiaramente mostra che la penitenza è una virtù.

 

 

 

 

 

Perché confessarsi da un prete?

 

 

 

A questo punto uno potrebbe anche ammettere che ha peccato, che sente il bisogno di confessare la sua colpa e di essere perdonato e tuttavia non capire la necessità di dire i propri errori ad una persona come lui. Cosa hai tu di tanto diverso da me per potermi perdonare a nome di Dio? Oppure, non posso vedermela io direttamente con Dio?

 

Queste difficoltà sono le stesse dei farisei che si scandalizzano quando Gesù perdonava i peccati del paralitico. Sembra davvero impossibile che Dio si debba servirsi di uomini per “far pace con altri uomini”. A chi ha un briciolo di fede cattolica direi così: perché ti fai questa domanda e invece non ti domandi come mai tu non puoi trasformare il pane nel corpo di Gesù? In fondo confessione e

 

Eucarestia sono due sacramenti, se puoi far uno puoi fare anche l’altro. Eppure, questa seconda domanda non ti sorge. Allora vedi che è stupido pensare di aver un rapporto immediato con Dio che non passi attraverso dei fratelli particolari scelti da Lui. A tutti gli altri direi così: da sempre l’uomo va da altri uomini per aver un contatto con la divinità o con gli spiriti... in passato i sacerdoti che uccidevano agnelli e vitelli per chiedere la benedizione per gli altri, adesso, nell’era moderna, maghi, fattucchiere, astrologi, medium... hanno la pretesa di metterci in contatto con il futuro con gli spiriti e noi gli crediamo. Ancora una volta andare dal prete non è un fardello che Gesù ci ha costretto a portare, ma un aiuto perché Lui sa bene che noi abbiamo bisogno di mediazioni concrete per capire veramente il peso della nostra colpa e quindi sentirci veramente perdonati. I pedagogisti sanno che quando un bambino afferra la sorellina e minaccia la mamma di buttarla giù dal 5 piano, sta facendo “una cosa buona” perché rende esplicito, oggettivo, un sentimento di invidia che prova e, in questo modo può allontanarsene. Chi va in giro dicendo che si suicida difficilmente lo farà. Chi lo pensa e non lo dice mai a nessuno quasi sicuramente lo farà. Così noi, dicendo i nostri peccati ad uno che è scelto da Dio, possiamo veramente distaccarcene e liberarcene, se li teniamo per noi non ne usciremo mai.

 

Avendo dunque il Signore concessa ai sacerdoti la facoltà di perdonare o di ritenere i peccati, è chiaro che egli li costituì giudici di quello che dovessero fare.

 

La stessa cosa il Signore parve volesse significare, quando agli Apostoli comandò di sciogliere Lazzaro risuscitato dalle bende in cui era avvolto (Gv 11,44). Sant'Agostino spiega così quel passo: "I sacerdoti possono ora andare più in là, possono più abbondantemente perdonare a chi confessa, rimettendo le colpe. Infatti il Signore affidò agli Apostoli l'incarico di sciogliere Lazzaro, ch'egli aveva risuscitato, mostrando che la facoltà di sciogliere veniva concessa ai sacerdoti".

 

Può anche invocarsi a questo proposito il comando impartito dal Signore ai lebbrosi, guariti lungo la strada, di presentarsi ai sacerdoti e di sottoporsi al loro giudizio (Lc 17,14).

 

Poiché dunque il Signore ha conferito ai sacerdoti la facoltà di rimettere o di ritenere i peccati, evidentemente essi sono costituiti giudici in questa materia.

 

Io non mi confesso perché sono libero e non devo rendere conto a nessuno.

 

Questa affermazione tocca un problema importante: quello della libertà. Vediamo se riesco a farmi capire... Tu sei libero di fare quello che vuoi, ma nel momento stesso in cui tu fai una qualsiasi scelta non sei più totalmente libero come prima. Se sei in macchina e arrivi ad un bivio, finché rimani nel bivio sei pienamente libero perché, in quel momento puoi andare sia a destra che a sinistra. Quando però decidi di andare ad esempio a destra, non sei più pienamente libero perché andando a destra hai costretto la tua libertà ad orientarsi e quindi a limitarsi e quindi a non essere così libero come era prima che potevi andare anche a sinistra.

 

Se sei onesto con te stesso capisci allora che non esiste la libertà assoluta, perché per essere assolutamente liberi non si dovrebbe mai scegliere. Fortunatamente esiste solo la mia libertà che si orienta o da una parte o dall’altra. Ora orientarsi vuol dire fare delle scelte, prendersi le proprie responsabilità che la scelta liberamente compiuta comporta. Questo lo esige la libertà stessa. Posso drogarmi... sì, ma poi non posso prendermela con il mondo perché non riesco più a venirne fuori, devo portare il peso di ciò che ho combinato e accusare solo me.

 

Posso scegliere quello che voglio, ma non posso pretendere di non dover mai render conto a nessuno perché minimo minimo devo rendere conto a me stesso e a quelli che mi vogliono bene e a cui ho voluto bene. Quando dico rendere conto voglio dire che le scelte che faccio toccano gli altri nel bene e nel male. Per restare nell’esempio della droga quando un ragazzo “si fa” poi ne paga le conseguenze lui e tutta la sua famiglia. Chi conosce un po' questa realtà sa che è proprio così. Poi se guardi la società dei grandi ti accorgi che più l’uomo si dichiara libero di fare quello che vuol più deve rendere conto con esattezza di tutto ciò che fa...

 

La confessione non è solo rendere conto a Dio, ma soprattutto essere ri -messi nella condizione di piena libertà. Per tornare all’esempio della macchina: sono al bivio ho voluto girare a destra anche se sapevo che c’era il divieto di transito... con la confessione se da una parte devo rendere conto al vigile che mi ricorda che sto andando contro mano, dall’altra miracolosamente vengo rimesso nuovamente al bivio per poter scegliere nuovamente in piena libertà.

 

Nessuno osi pensare che la confessione sia stata istituita dal Signore in modo che la pratica non ne sia necessaria. I fedeli sono tenuti a credere che chi ha la coscienza gravata da peccato mortale deve essere richiamato alla vita spirituale mediante il sacramento della confessione. Vediamo che il Signore espresse questa necessità con una magnifica immagine, quando definì il potere di amministrare questo sacramento "chiave del regno dei cieli" (Mt 16,19). Chi può penetrare in un luogo chiuso senza ricorrere a chi ne ha le chiavi? Così nessuno può entrare in cielo, se i sacerdoti, alla fedeltà dei quali il Signore consegnò le chiavi, non ne dischiudano le porte. Altrimenti sarebbe assolutamente inutile l'uso delle chiavi nella Chiesa e inutilmente chi ha questo potere potrebbe interdire l'ingresso in cielo ad alcuno, se vi fosse un'altra via per giungervi.

 

Bene spiegò la cosa sant'Agostino, dicendo: "Nessuno pretenda di far penitenza di nascosto, alla presenza del Signore, pensando: il Signore che mi deve perdonare, sa quel che è nel mio cuore. Ma allora è stato detto invano: "Quel che avrete sciolto sulla terra sarà sciolto in cielo"? E senza ragione sono state consegnate le chiavi alla Chiesa di Dio?" (Sermo 392, 3). Nel medesimo senso sant'Ambrogio scrive nel libro Sulla penitenza, combattendo l'eresia dei novaziani, i quali riservavano soltanto a Dio la potestà di rimettere i peccati: "Chi dunque presta maggiore ossequio a Dio: chi si uniforma ai suoi comandi o chi vi resiste? Orbene: Dio ha comandato di obbedire ai suoi ministri; ciò facendo, tributiamo in realtà onore direttamente a Dio".

 

Non potendo esserci dubbio alcuno sull'origine e istituzione divina della legge della confessione, ne segue che occorre ricercare chi debba a essa sottostare, in quale età e in quale tempo dell'anno. Dal canone del Concilio del Laterano, il quale comincia con le parole: "Ogni individuo dell'uno o dell'altro sesso", risulta che nessuno è vincolato dalla legge della confessione prima dell'età in cui può avere l'uso della ragione. Tale età però non si desume da un definito numero di anni. Sicché sembra doversi ritenere genericamente che la confessione comincia a obbligare il fanciullo quando abbia raggiunto la capacità di distinguere tra bene e male e la sua anima sia capace di malizia.

 

Si devono, cioè, confessare i propri peccati al sacerdote, non appena pervenuti a quella età in cui è dato di ragionare e di decidere intorno alla vita eterna, non essendoci altro modo di sperare in essa, per chi ha la consapevolezza di aver peccato.

 

Con il medesimo canone la santa Chiesa stabiliva così il tempo in cui è obbligatorio fare la confessione: "Tutti i fedeli devono confessare i propri peccati almeno una volta l'anno". Vediamo però se la cura della nostra salvezza non esiga qualcosa di più. In realtà, ogni volta che sembra imminente il pericolo di morte, o iniziarne un atto impraticabile per un uomo macchiato di colpa, come quando amministriamo o riceviamo i sacramenti, la confessione non deve essere tralasciata. Lo stesso faremo quando siamo nel dubbio di avere dimenticato una colpa. Non possiamo, evidentemente, confessare peccati che non ricordiamo, ma neppure otteniamo da Dio il perdono dei peccati, se attraverso la confessione non li cancella il sacramento della Penitenza.

 

la confessione deve essere integra e assoluta, dovendosi manifestare al sacerdote tutti i peccati mortali. I peccati veniali invece, che non tolgono la grazia di Dio e in cui cadiamo più di frequente, sebbene si possano opportunamente e utilmente confessare, come dimostra la consuetudine dei buoni cristiani, possono però tralasciarsi senza colpa ed espiarsi in molte altre maniere. Ma, ripetiamo, i peccati mortali devono essere tutti e singoli enunciati, anche i più segreti, come quelli che violano solamente i due ultimi comandamenti del Decalogo.

 

Accade sovente che tali colpe feriscano l'anima più seriamente di quelle altre, che gli uomini sogliono commettere apertamente. Così ha definito il Concilio Tridentino (sess. 14, cap. 5, can. 7) e ha sempre insegnato la Chiesa cattolica, come ne fan fede le testimonianze dei santi Padri. Leggiamo, per esempio, in sant'Ambrogio; "Nessuno può essere perdonato di una colpa, se non abbia confessato il suo peccato" (De parad., 14, 71). Commentando l'Ecclesiaste, san Girolamo conferma la medesima verità: "Chi sia stato segretamente morso dal serpente diabolico e infettato dal veleno del peccato all'insaputa di tutti, se tacerà e non farà penitenza, ne scoprirà la sua ferita al fratello e al maestro, questo maestro, che ha nella lingua la capacità di curare, non potrà essergli utile" (Comm. in Eccl., 10, 11). E san Cipriano, nel discorso sui Lapsi apertamente sentenzia: "Sebbene costoro non abbiano commesso il peccato di sacrificare [agli idoli] o di comprare il relativo libello, se ne ebbero il pensiero, devono nel dolore confessare la colpa ai sacerdoti di Dio". Su questo punto il parere dei santi Dottori è unanime.

 

Nella confessione si deve usare quella somma e diligentissima cura che usiamo nelle contingenze più gravi: dobbiamo mirare con tutte le energie a sanare le ferite dell'anima e a svellere le radici del peccato, ne dobbiamo limitarci a spiegare nella confessione i peccati gravi, ma anche le circostanze di ciascuno, che ne accrescono o diminuiscono notevolmente la malizia. Infatti vi sono circostanze così aggravanti, che da sole rendono mortale il peccato: è necessario perciò sempre confessarle. Chi abbia ucciso, dovrà dire se la vittima era laico o ecclesiastico. Chi abbia avuto rapporti carnali con una donna, dovrà spiegare se questa era nubile o coniugata, parente o consacrata a Dio con voto. Tutte queste circostanze costituiscono altrettanti generi di peccati: nel primo caso si tratta di fornicazione semplice; nel secondo di adulterio; nel terzo d'incesto; nel quarto, sempre secondo la nomenclatura dei teologi, di sacrilegio.

 

Anche il furto è genericamente un peccato; ma chi ruba uno scudo pecca molto più lievemente di chi ne ruba cento o duecento o, comunque, sottragga una forte somma, specialmente se sacra. Simile considerazione vale anche per il tempo e per il luogo, come appare dagli esempi ben noti addotti da tanti mai libri, che non occorre ripeterli. Tutto ciò va spiegato in confessione; però si ricordi che le circostanze non aggravanti la colpa in misura notevole possono essere taciute senza peccato. E’ veramente indispensabile che la confessione sia integra e completa. Chi di proposito confessi in parte i peccati e in parte li ometta, non solo non ritrarrà alcun vantaggi dalla confessione, ma si renderà reo di una nuova colpa. Simile difettosa manifestazione di colpe non potrà meritare il nome di confessione sacramentale. In tal caso il penitente dovrà rinnovare la confessione e in più si è fatto reo di un altro peccato, perché ha violato la santità sacramentale con la simulazione della confessione. Si badi però che le lacune della confessione, non volute di proposito, ma provenienti da involontaria dimenticanza o da manchevole esplorazione della propria coscienza pur sussistendo l'intenzione di confessare tutte le proprie colpe, non impongono che tutta la confessione sia ripetuta. Basterà in un'altra occasione confessare al sacerdote le colpe dimenticate, dopo che esse siano tornate alla memoria. Occorre badare a che l'esame di coscienza non sia troppo sommario e rapido. Se saremo stati cosi negligenti nell'esaminarci sui peccati commessi, che possa dirsi di noi di non averli in realtà voluti ricordare, saremo tenuti a ripetere la confessione.

 

Incardona Salvatore

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