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Il Sacro Cuore di Gesù e il Sacerdozio (da regalare ai Sacerdoti)

Ultimo Aggiornamento: 07/09/2009 15:17
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07/09/2009 15:02

IL SACRO CUORE E IL SACERDOZIO [SM=g27998]

Madre Luisa Margherita Claret de la Touche

Serva di Dio

Brevissima biografia

Margherita Claret de la Touche è nata a Saint-Germain-en-Laye il 15 mar­zo 1868. È entrata nella Visitazione di Romans il 20 novembre 1890. Il 6 giugno 1896 ha il suo primo incontro con il p. Alfredo Charrier, s.j., che diventa il suo principale confidente e direttore spirituale.

Il 5 giugno 1902 suor Luisa Margherita riceve le prime comunicazioni so­prannaturali in merito a un'Opera da fondare per unire di più i sacerdoti fra loro e farli annunziatori e testimoni di Dio Amore Infinito, perché il suo regno di amore si diffonda,nel mondo. Tali comunicazioni vengono regolarmente trasmesse al p. Charrier e annotate per scritto dalla suora; parte di questi scritti formeranno il materiale del libro Il Sacro Cuore e il Sacerdozio (per le vi­cende relative alla stesura di questo piccolo libro si veda l'introduzione).

Il 6 marzo 1906 suor Luisa Margherita, insieme con tutta la comunità, si trasferisce a Revigliasco (Torino), a causa dell'espulsione dalla Francia. Il 16 maggio 1907 suor L. Margherita viene eletta superiora, e in tale carica resterà sei anni, durante i quali la comunità si trasferirà prima a Mazzè (Torino) e quindi a Parella (Torino); queste due ultime località si trovano nella diocesi di Ivrea il cui vescovo - mons. Matteo Fílipello - prende a cuore la vicenda della nostra suora e si fa promotore nell'attuazione dei desideri manifestati dal Signore.

Nel maggio 1910 esce la prima edizione de Il Sacro Cuore e il Sacerdozio. L'Opera per i sacerdoti, con la denominazione di Alleanza sacerdotale, verrà istituita in diocesi di Ivrea da mons. Fílipello il 16 giugno 1918.

Nel frattempo suor Luisa Margherita aveva aperto in Vische (Torino) una nuova Visitazione con l'intento speciale di pregare per i sacerdoti (19 mar­- zo 1914). A Vische essa muore il 14 maggio 1915.

L'Alleanza Sacerdotale è il ramo centrale di un'Opera più vasta, l'Opera del­l'Amore Infinito, che comprende pure: l'istituto femminile di vita contemplativa Betania del Sacro Cuore, gli Amici e le Amiche di Betania, e le Missionarie del­l'Amore Infinito (istituto secolare); tutti i rami hanno lo scopo di vivere la consacrazione a Dio Amore e di pregare per i sacerdoti.



Parte prima

IL SACERDOTE, CREAZIONE DELL’AMORE INFINITO



CAPITOLO I

Il sacerdote, creazione dell'Amore Infinito


Da tutta l'eternità Dio regnava nella sua pace. Ma l'Amore Infinito sgorgava dal suo cuore: strappò dal nulla, per la potenza del suo Verbo, incomparabili meraviglie, e infine creò l'uomo, si­gnore e centro della creazione.

Nessuno potrà mai dire cosa uscì allora dal cuore di Dio a vantaggio di questa creatura privilegiata. L'Amore Infinito si vestì di tutte le forme: fu generoso e magnifico come un amore divino, previdente e saggio come l'amore di un padre, tenero, delicato e profondo come l'amore di una madre. L'uomo fu ricco di doni, di grazia e bellezza.

L'Amore continuò a effondersi, inesauribile, volta a volta, e im­provviso, come un amore che ripara, che conserva, che dà vita; un amore che protegge, perdona, attende; un amore che riscatta, puri­fica, salva.

Cristo, amore incarnato e salvatore, venne sulla terra. Viveva la stessa vita dell'uomo, toccava le sue debolezze, capiva le sue necessità. Ma soprattutto amava appassionatamente gli uomini, a cui si era intimamente unito.

L'Amore Infinito sgorgava dal suo cuore; voleva qualcuno che potesse continuare la sua opera, che venisse incontro a tutte le ne­cessità dell'uomo per sostenerlo, illuminarlo, ricordargli Dio: creò il sacerdote.

A lui, creatura dell'Amore Infinito del suo cuore, Cristo offrì di partecipare alla sua potenza: gli diede dedizione, disponibilità al servizio, bontà, misericordia. Gli donò umiltà e purezza, riempì il suo cuore d'amore. E, parallelamente alle quattro grandi neces­sità dell'uomo, gli attribuì quattro funzioni.

L'uomo è profondamente ignorante. Anche dopo la grazia del battesimo, le ombre del peccato annebbiano ancora la sua intelli­genza. I peccati personali rendono questa nebbia ogni giorno più fitta: avvolto dall'oscurità, immerso nell'ignoranza e nell'incertezza, l'uomo cammina, senza rendersene conto, verso lo smarrimento eterno. E il prete insegna. Apre l'uomo alla verità, gli fa vedere la strada che conduce a Dio; fa scoprire alla sua anima gli orizzonti luminosi della fede. La sua missione è di dissipare l'oscurità e far splendere di fronte a tutti la verità di Dio, che è, insieme all'amore, la vita dell'uomo.

L'uomo è peccatore. In lui rimangono le tracce indelebili del peccato, e lo spingono al male. Una specie di cedimento si fa sen­tire continuamente nella sua intelligenza come nel suo corpo e, malgrado la grazia che lo solleva e l'Amore Infinito che lo attira a sé, non smette di peccare. Sempre di nuovo imbrattato, ha biso­gno di essere sempre di nuovo purificato.

E il prete assolve. Depositario del sangue di Gesù, lo versa sulle ferite del peccato; attinge nel tesoro infinito dei meriti di Cristo, e offre all'anima purificata nuove energie e aiuti nuovi.

L'uomo è infelice. Bandito dal cielo, vive nella fatica e nel dolore; la sofferenza lo stringe da ogni parte. A volte attacca il suo corpo con la malattia; a volte fiacca il suo cuore con delusioni e lutti; a volte tormenta la sua anima con la paura, i rimorsi o il dubbio.

E il prete consola. Fa conoscere il premio della sofferenza; fa sperare in un'eternità felice in cambio di un dolore passeggero; apre davanti ai cuori afflitti e abbandonati le profondità dell'Amore Infinito; solleva chi è abbattuto rivelandogli la misericordia di Dio e, diffondendo intorno a sé la luce e l'amore, consola ogni dolore e disperde ogni timore.

L'uomo infine ha bisogno di Dio. La sua debolezza deve ap­poggiarsi sulla forza divina, la sua povertà reclama i tesori del cielo; il suo nulla ha un continuo bisogno di appoggiarsi alla sorgente degli esseri. E tuttavia il peccato lo spinge lontano dalla santità di Dio: Dio è grande, è puro, è inaccessibile verità e giustizia. Ci va un mediatore tra Dio e l'uomo, ed è Cristo. Ma tra Cristo e lui, l'uomo, tanto è miserabile, ha bisogno di un altro mediatore: il prete.

E il prete sacrifica. Prende nelle sue mani consacrate la Vit­tima divina; la solleva verso il cielo; Dio, a questa vista, si china sulla terra; la misericordia scende; l'Amore Infinito sgorga più ab­bondante dal seno dell'Eterno. Il Creatore e la creatura si sono riavvicinati, si sono abbracciati in Cristo: si sono riuniti nell'amore. Il prete insegna, assolve, consola, sacrifica per gli uomini. Pri­ma di lui lo aveva fatto, con perfezione suprema, Cristo. Avrebbe voluto continuare per sempre, se fosse stato possibile. Tuttavia, era opportuno che dopo essere passato attraverso la sofferenza, il Cristo fosse stabilito nella gloria. Il suo amore misericordioso for­mò allora il sacerdote, nel quale egli si perpetua, e rivive senza fine la sua vita di amore per gli uomini, suoi fratelli. È attraverso il prete che continua a istruire, purificare, consolare e riavvicinare a Dio tutte le generazioni che si succedono sulla terra.

Nella fase dolorosa che attraversa oggi il mondo, gli uomini sperduti sentono più che mai necessità immense. Chiedono di es­sere nutriti di verità, liberati dal male, consolati dalle loro tristezze, riavvicinati a Dio, riscaldati dall'amore.

Sembrerebbe quasi che Gesù debba tornare di nuovo sulla terra. Ma non è così: può restare nella gloria del Risorto. Ha provve­duto a tutti i bisogni del mondo, lasciandogli la sua Eucaristia e il suo sacerdozio.

Con l'Eucaristia, l'uomo può nutrirsi della verità eterna e del­l'Amore Infinito, divinizzare, in un certo senso, la debolezza che lo porta verso il peccato. Nel sacerdozio, può trovare quegli aiuti che gli sono continuamente necessari nel corso della sua povera vita. Tuttavia, se nell'Eucaristia Gesù è sempre lo stesso, eternamente vivo, nel prete la sua vita divina è più o meno intensa; non per­ché non si doni con uguale abbondanza, ma perché il prete, di questa ricchezza, prende ora più ora meno. Poiché Cristo rivive nel prete, il prete deve vivere di Cristo.

L'Amore Infinito, effondendosi da Dio, aveva creato l'uomo; questo stesso amore, effondendosi dal cuore di Cristo, ha creato il sacerdote; e allo stesso modo in cui l'uomo non trova la sua auten­tica vita e perfezione se non ritornando in Dio, così il prete non può vivere in pienezza, e neppure avere la perfezione del suo sacerdozio, se non andando verso il cuore di Cristo. Ed ecco per­ché, oggi che il ministero sacerdotale è così necessario al mondo, Cristo chiama i sacerdoti al suo cuore: perché essi attingano a que­sta fonte divina novità di grazia e, rituffandosi nell'oceano di amore da cui sono nati, vi trovino un rinnovamento e una crescita di vita sacerdotale.

Il prete, che ha una missione così grande e un ministero ricco di fecondità, vada a Cristo, si stringa a lui. Ripensi a ciò che ha fatto, ascolti la sua parola, penetri i suoi pensieri, lo segua passo passo nel Vangelo, impari da questo Maestro perfetto a compiere degnamente il suo ministero consacrato. Gesù lo ha fatto per pri­mo: il prete non ha che da seguire le sue tracce divine. Rivestirsi di Cristo è imitarlo, riprodurre le sue virtù, le sue azioni sante, fino ai suoi gesti divini. Se qualcuno deve essere rivestito di Cristo, questo è soprattutto il sacerdote, che deve darlo al mondo.



O Gesù, Pontefice eterno, divino Sacrificatore, tu che in uno slancio in­comparabile d'amore per gli uomini tuoi fratelli, hai fatto sgorgare dal tuo Sacro Cuore il sacerdozio cristiano, degnati di continuare a versare nei tuoi sacerdoti le onde vivificanti dell'Amore Infinito.

Vivi in essi, trasformali in te, rendili per mezzo delle tue grazie gli strumenti delle tue misericordie; opera in essi e per essi, e fa' che, dopo di essersi rivestiti di te, per mezzo della fedele imitazione delle tue ado­rabili virtù, essi facciano in tuo nome e per la forza del tuo Spirito, le opere che hai compiuto tu stesso per la salvezza del mondo.

O divin Redentore delle anime, vedi quanto grande è la moltitudine di quelli che dormono ancora nelle tenebre dell'errore; conta il numero di quelle pecorelle infedeli che camminano sull'orlo del precipizio; considera la folla dei poveri, degli affamati, degli ignoranti e dei deboli che gemono nell'abbandono.

Ritorna a noi per mezzo dei tuoi sacerdoti; vivi, o buon Gesù, in essi, opera per essi, e passa di nuovo in mezzo al mondo insegnando, perdo­nando, consolando, sacrificando, riannodando i sacri vincoli dell'amore fra il cuore di Dio e il cuore dell'uomo. Amen.



CAPITOLO II

Gesù è Maestro


Dopo una preparazione lunga e silenziosa di trent'anni, Gesù iniziò a predicare. Possedeva in pienezza tutte le scienze; la sua intelligenza umana, estesa e perfezionata attraverso l'unione con l'In­telligenza divina, giungeva a tutte le conoscenze più alte, e pene­trava fino al minimo dettaglio delle cose. L'armonia meravigliosa tra la sua intelligenza e il suo cuore, l'equilibrio perfetto che re­gnava in tutta la sua persona, regolavano il suo pensiero. Senza aver avuto bisogno di faticare per istruirsi, come tutti gli altri uomini, era padrone della sapienza allo stesso modo in cui, senza ostacolo, racchiudeva l'amore nel suo cuore.

Il mondo attendeva la sua lezione per rinascere alla vita e alla luce; ma Gesù lasciò passare trent'anni prima di manifestare la sua sapienza. Ci si può chiedere il perché di questa attesa, che per molto tempo ha privato gli uomini della luce per dissipare la notte della loro ignoranza. Ma anche in questo Cristo è nostro modello: sapeva che l'uomo ha bisogno di un lungo lavoro e di pesanti fati­che per impadronirsi dei tesori di saggezza e di scienza necessari per istruirsi e ha voluto così dare ai suoi preti l'esempio di una lenta e seria preparazione.

Al professore di una scuola basta sapere ciò che insegna ed essere capace di insegnare; ma quando si tratta di dare Dio agli uomini, non basta coltivare l'intelligenza. Deve essere trasformata la persona intera; e il maestro per primo deve passare per un sus­seguirsi di prove, iniziando almeno ad acquisire quella conoscenza esperienziale dei dolori, delle debolezze, delle miserie dell'umanità che dovrà possedere per istruire e illuminare i suoi fratelli.

Senza dubbio il prete può compiere questa funzione del suo ministero prima d'aver compiuto i trent'anni. Ma in questo ca­so, avrà bisogno di molta prudenza, di diffidenza nei confronti di se stesso e del ricorso umile ad altri che lo illuminino. Deve im­parare soprattutto alla scuola di Cristo: studi questo sublime mae­stro di anime, e si abitui a parlare come lui e a insegnare come lui.

Quando Gesù, lasciando la vita nascosta, iniziò a rivelare i te­sori di verità che portava in sé, il mondo intero era avvolto dal­l'oscurità del peccato. Il paganesimo, con i crimini da esso gene­rati, regnava dappertutto e anche fra il popolo eletto la verità ini­ziava a coprirsi di ombre. I Giudei, che fino allora erano stati i custodi del deposito della verità divina, sembravano vicini a perderlo. Nu­merose sette laceravano la Sinagoga: l'amore per le ricchezze, il desiderio degli onori avevano a poco a poco fatto cadere il muro che separava Israele dai pagani. Per le perfide insinuazioni di una filosofia bugiarda, stretti in un sensualismo snervante e nel dilagare delle passioni, i figli di Abramo sentivano vacillare la loro fede, e vedevano la luce spegnersi nelle loro mani.

In questa situazione apparve Gesù.

Verbo non creato, « Luce da Luce, Dio vero da Dio vero », veniva a portare agli uomini la verità, assoluta, senza confusioni e senza ombre, come è in Dio, nella sua eternità, limpida e sovra­namente pura. Veniva a dare nuova vita alla giustizia e alla verità, senza le quali gli uomini non possono che vagare sperduti nel loro cammino lungo il tempo. Veniva ad affermare, con tutta l'autorità della sua divina Sapienza, i diritti di Dio e i doveri dell'uomo, la misericordia di Dio e la miseria dell'uomo; veniva infine a rimettere ordine nell'intelligenza, sconvolta dagli errori del paganesimo.

La peccatrice di Samaria gli disse un giorno: « So che deve venire un Messia, cioè il Cristo, l'inviato di Dio. Quando verrà, ci spiegherà ogni cosa ». Era questa - istruire gli uomini - la grande missione del Salvatore. Il suo insegnamento è stato uni­versale. Su tutti gli argomenti e in ogni campo ha portato la luce della verità. Ha combattuto gli errori di allora e ha abbattuto in anticipo quelli cui sarebbe giunta in seguito l'attività sregolata del pensiero umano. Ha insegnato, prima con l'esempio e poi con le parole, cosa l'uomo può conoscere di Dio. Lo ha fatto vedere crea­tore potente, infinitamente santo e sovranamente giusto; ma soprat­tutto, lo ha rivelato Padre, ineffabilmente buono e misericordioso.

Il dogma, la morale, i rapporti dell'uomo con il suo Dio e con i suoi simili, i grandi princìpi che devono reggere la famiglia, la società, e orientare la coscienza dell'uomo fra le ombre della vita: tutto è stato penetrato dai raggi luminosi della verità di Cristo. Non trascurava nessuna occasione per istruire la folla: « erano me­ravigliati per questi suoi insegnamenti. Infatti egli li ammaestrava come uno che ha autorità e non come i loro maestri della legge ».

È sufficiente guardare quante volte Gesù, di solito così sobrio e misurato nel parlare, ripete: « In verità, in verità vi dico: noi parliamo di quel che sappiamo e siamo testimoni di quello che abbiamo visto ». Così quando esclama sotto il portico del tempio: « Io sono la via, la verità e la vita; chi mi segue, non cammina nelle tenebre ». E più tardi, all'inizio della Passione, in piedi nel cortile del pretorio, risponderà a Pilato, con maestà incomparabile: « Io sono nato e venuto nel mondo per essere un testimone della verità. Chi appartiene alla verità ascolta la mia voce ».

Questa voce, così umile e così dolce, non risuonò che per tre anni in un piccolo angolo del mondo, privilegiato fra tutti. Pochi uomini la udirono.

Ciò che insegnava, il contrario delle idee allora di moda, sem­brava delirio e follìa: ma era la verità. E la verità resta, prima o poi sconfigge la menzogna, e non muore mai, perché è nata da Dio, ed è immortale come lui.

La verità: ecco ciò che, dopo Gesù e con Gesù, il prete deve dare al mondo. Ma per insegnarla, per comunicarla agli altri, bi­sogna che la possieda in se stesso, e per possederla deve andarla ad attingere alla sua sorgente divina: deve andarla a cercare dal Maestro. Ricevendo la missione di insegnare, il prete riceve una ricchezza di luce che deve sviluppare in sé. Bisogna che renda salda e conservi intatta la verità che ha ricevuto; e sono così numerosi gli errori che la circondano che il prete la difende e la conserva integra non senza fatica e non senza lotta.

La verità di Dio è immutabile e non può cambiare. La Chiesa, inabitata dallo Spirito Santo, la possiede interamente. Se attraverso gli avvenimenti e le vicissitudini dei tempi, sembra che cambi, non è che apparenza. L'intelligenza dell'uomo, in quanto è più o meno pura, la percepisce più o meno luminosa.

La verità può accrescersi e svilupparsi, o al contrario sminuirsi nella comprensione dell'uomo; ma - in se stessa - è una e inva­riabile. Può precisarsi, affermarsi meglio, definirsi e chiarirsi - e questo giustifica lo sviluppo lento, ma incessante, delle verità in­segnate dalla Chiesa. Verità del tutto nuove, ancor più se in con­traddizione con la verità primitiva e antica, non possono esistere.



Il sacerdote, maestro degli uomini

Il prete, dunque, per conservare intatta la verità divina, ver­sata da Cristo nella sua anima il giorno della sua consacrazione, deve restare saldo contro gli attacchi dell'errore. Questi gli ven­gono da tre fronti:

1. Satana, lo spirito cattivo, l'eterno sobillatore di discordia e di odio, che cerca di distruggere la verità ovunque la trova, e cerca soprattutto di strapparla dal cuore del prete, suo nemico, sempre in lotta contro la sua azione infernale.

2. Lo spirito del mondo, i suoi princìpi, che tendono incessan­temente a indebolire la verità; il prete vive nel mondo, respira la sua aria di menzogna, e subisce quasi senza accorgersene l'influsso rammollente delle sue false dottrine.

3. Molti fermenti di errore vivono infine allo stato latente, in lui stesso, là dove il peccato originale ha lasciato le sue tracce. La minima ventata di orgoglio può risvegliarli, la minima impurità può farli proliferare.

Per sconfiggere questi nemici, il prete ha a sua disposizione tre armi potenti, che sempre assicurano la vittoria.

In primo luogo, l'unione alla Chiesa, l'attaccamento instancabile alla Cattedra di Pietro, organo infallibile della verità.

Le imprese di satana infatti non possono nulla contro la roccia su cui è fondata la Chiesa. Non si può smarrire chi cammina con quel Pietro a cui Gesù disse: « Ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno; tu, quando ti sarai convertito, prega per i tuoi fratelli ».

Il prete sconfigge lo spirito del mondo con l'unione a Cristo, vincitore del mondo; e questa unione si produce con lo spirito di preghiera, con lo studio del cuore di Cristo e delle sue adorabili virtù, con la separazione interiore, ma reale, da tutto ciò che nel mondo Gesù riprova e condanna.

Ma per sconfiggere se stesso, per cancellare in sé ogni genere di er­rore, per diventare inaccessibile alle falsità e saldo contro tutti gli attac­chi, per possedere con sicurezza i tesori della verità e conservarli intatti, il prete deve prosternarsi nell'umiltà. Una santa e giusta diffidenza nei confronti di se stesso, del suo giudizio personale, un facile ricorso ai lumi altrui, una umile sottomissione di fede: ecco ciò che è necessario al prete per rimanere integro, premunirsi con­tro le illusioni di una falsa scienza; per essere, in una parola, come Giovanni, lampada sempre accesa che illumina i popoli; per essere, con Cristo, la luce del mondo.

Gesù ha insegnato la verità a tutti, grandi e piccoli, poveri e ricchi, bambini e vecchi. Dal sommo sacerdote alla samaritana, tutti sono stati istruiti dalla sua parola, tutti hanno ricevuto la verità dalla sua divina bocca. Sempre con una meravigliosa elasticità del­l'intelligenza e una incomparabile umiltà, ha saputo mettersi alla portata di quelli che doveva istruire.

Con Nicodemo, dottore in Israele, è profondo, sublime. Af­fronta i misteri più alti; con i sacerdoti, gli scribi, il suo insegna­mento poggia sulla legge, i profeti, la Bibbia. Con la gente, è sem­plice, familiare. Si esprime con similitudini, prese dal lavoro dei campi, e sono le sue parabole: il seminatore, il granello di senape, la vigna, ecc. Si adatta sempre al suo uditorio; ma non è mai vol­gare, mai affettato, mai oscuro, anche parlando degli argomenti più grandi. È il fascino di questo insegnamento di Gesù, luminoso e semplice, tanto ricco di dottrina celeste, eppure spoglio di ogni orna­mento superfluo. Tutto vi è grande: serietà affabile, dignità mo­desta, forza persuasiva, chiarezza di espressione, grazia. In questi paragoni presi dalla natura c'è una poesia penetrante e sublime. Si potesse comprendere nei particolari l'incanto di Gesù... È il Verbo del Padre, il Maestro divino sceso dal cielo a istruire le anime: dir questo, è dire tutto.

Anche il prete deve offrire a tutti l'insegnamento della verità. Se vuol essere davvero un apostolo, autentico sacerdote di Cristo, deve, come Gesù farsi tutto a tutti. Il suo unico scopo dev'essere comunicare la verità che possiede e l'amore di cui brucia.

Siamo ben lontani, dunque, dal cercare uno stile particolare, un metodo nuovo o personale che tutt'al più possono interessare a qualcuno: il prete si sforzi di mettersi al livello di chi lo ascolta. Sempre chiaro, sempre preciso: dica la verità semplicemente, preoc­cupato solo di fare del bene. Troverà così il segreto di quella unzione penetrante che viene dal cuore e che il duplice amore di Cristo e degli uomini, diffonde naturalmente sulle sue labbra. Inse­gnando la verità, il prete deve donare il meglio di sé; senza disprez­zare nessuno, deve buttarsi completamente nella sua missione su­blime di educatore delle anime.



Difficoltà dell'insegnamento

Gesù, nel suo insegnamento, ha incontrato spesso ostacoli, dif­ficoltà, sofferenze. Ha avuto una pazienza infinita. Non si è lasciato scoraggiare né dalla grossolanità di coloro che incontrava, né dalla loro lentezza nel comprendere, né dalle obiezioni campate per aria. Le critiche, gli insulti, la doppiezza di coloro che cercava di istruire e illuminare non sono riuscite a stancarlo. Non ha mai cercato la gloria per sé: non aveva in vista il successo umano.

Ha gettato a piene mani e con tutto il cuore il seme divino nelle anime, e ha lasciato allo Spirito d'amore il compito di farlo schiu­dere e maturare. Sapeva che insegnando la sua morale, dolce sì, ma anche austera, ne avrebbe allontanati molti. Sapeva, perché era Dio, che molti di coloro che istruiva, o avrebbero lasciato morire in loro il germe della vita per negligenza, o l'avrebbero strappato con le loro mani. Ma non ha smesso di offrire a tutti i suoi inse­gnamenti divini, di aprire a tutti i tesori della saggezza.

Contraddizioni, disprezzo, difficoltà di ogni tipo sono anche sul cammino del prete: ma non deve lasciarsi abbattere. Gesù è con lui: le sue promesse possono confortare nelle sofferenze. Il sacerdote prenda dunque la croce del Maestro, e cammini. Ma si guardi bene, con il pretesto di conciliare lo spirito del mondo e lo spirito di Cri­sto, dall'ammorbidire il Vangelo; dal fare, per solleticare le pas­sioni umane, un cristianesimo di fantasia. Le verità del Vangelo si impongono da sole agli uomini, il prete deve solo farle vedere come sono, illuminate dai riflessi della dolcezza e della misericordia del cuore di Cristo.

Affermi i diritti di Dio, le sue leggi giuste e forti, e anche la sua pazienza, la sua bontà, l'amore ineffabile del Redentore; e non si abbassi mai ai compromessi, al modo di ragionare corrente, alla ricerca colpevole del successo personale.

« Ecco, io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe ». Sono le parole che Gesù disse ai suoi apostoli, mandandoli ad annunziare la buona novella. E lui stesso, nel suo insegnamento, ha unito la sempli­cità e la prudenza. Era molto prudente, quando ammaestrava gli uomini: andava per gradi, sopportava le debolezze, chiedeva a cia­scuno ciò che ciascuno poteva dare, aspettando, con pazienza infi­nita, che si aprisse all'azione della grazia, e rispondesse alle sue proposte misericordiose. Preparava i cuori lentamente e con dol­cezza, prima di far loro vedere la verità; incoraggiava chi era ab­battuto, non pretendeva nulla con durezza.

Anche nel suo insegnamento pubblico era prudente. Si mo­strava sempre rispettoso delle legittime autorità, amico della pace. Sapeva sconcertare, con la sua sapienza, l'astuzia dei suoi nemici; dopo tre anni di predicazione in cui aveva insegnato una dottrina e dato delle leggi opposte a quelle del mondo, non si trovò nes­suno che testimoniasse contro di lui, quando era accusato di fronte ai Giudei e ai capi dei sacerdoti.

Quando sferzava i vizi e gli errori, non faceva mai i nomi dei colpevoli. Ricordiamo la sua discrezione nel colloquio con l'adul­tera. E la riservatezza nelle parole con cui spiegava alla gente i precetti più delicati della morale, rivelando la santità del matri­monio o il fascino divino della verginità. Su quest'ultimo punto, la sua prudenza era così grande, le sue parole così caste che il bimbo più candido e più innocente può leggere e rileggere il Van­gelo senza che nulla lo possa inquietare o fargli intravedere del­le ombre.

Anche il prete allora, sull'esempio di Cristo, unisca nel suo inse­gnamento la prudenza e la semplicità. Se vuol fare del bene al­l'ambiente corrotto in cui vive, deve parlare e agire con la sapienza di Dio. Prudente nella predicazione: più apostolo che polemista, e molto più dispensatore dei doni di Dio e ministro di misericordia, che violento riformatore del mondo.

L'odio non è sconfitto che dall'amore, il peccato è distrutto solo dal sangue di Gesù, mite e umile di cuore. Qualche volta bisogna essere forti: ma la prudenza deve temperare la forza, contenere i giusti rigori, ispirare la punizione altrettanto bene che il perdono. Il prete sia prudente nel suo insegnamento privato; studi bene le anime, prima di divenirne il direttore; sia prudente nel decidere sulla loro vocazione; attento a non far loro contrarre legami che potrebbero vincolarne l'avvenire e, forse, turbare la loro coscienza. Soprattutto il prete sia prudente nei confronti delle ragazze e delle donne: sono già troppo spesso imprudenti loro! Ci sono troppe famiglie turbate, troppi sposi divisi, troppe anime disorientate e qualche volta gettate fuori strada nel loro cammino spirituale da un consiglio dato imprudentemente, da parole certo in sé giuste e sante, ma che potevano essere male interpretate.

Il prete di Cristo, sul suo esempio, si avvolga di prudenza. È anche lui maestro, maestro di anime; è maestro di santità e di virtù. Le sue parole siano allora l'eco delle parole di Cristo, impre­gnate di sapienza, di misura e di verità.



Insegnamento con l'esempio

Cristo non si è limitato a insegnare con le parole, con la pre­dicazione e con i colloqui a tu per tu; ha soprattutto insegnato con l'esempio. « Prima ha fatto - dice la Bibbia - poi ha insegnato »

La miglior lezione è quella dell'esempio. Ciò che l'orecchio non riesce sempre a udire, l'occhio lo vede, ed è più forte, più viva, l'impressione lasciata da ciò che si è visto. Il cuore si accende più facilmente per aver veduto che per aver sentito. Gesù lo sapeva: ed è per questo che, venuto per insegnare le virtù, ha cominciato con il metterle in pratica tutte.

Le faceva vedere in sé così belle, così desiderabili, così sedu­centi che i cuori si accendevano del desiderio di possederle.

Ed è il ricordo delle virtù che lui ha vissuto sulla terra che ci spinge ad imitarle. Pensare alla sua divina pazienza ci rende pazienti, pensare alla sua umiltà ci fa accettare le umiliazioni. Molto più delle poche parole che ha detto e che il Vangelo riporta, è l'esem­pio della purezza sua e della Vergine sua Madre che ha fatto fio­rire ovunque la verginità.

La nostra povera natura era stata così profondamente ferita dal peccato originale che le parole di Gesù, del Verbo incarnato, per potenti che fossero, non avrebbero potuto, forse trasformare gli uomini così prontamente, se il Salvatore non vi avesse unito il suo esempio.

Tutto quello che ha chiesto di virtù e di santità all'uomo rige­nerato, Cristo lo ha fatto per primo. Ha aperto la strada: si è impegnato per primo attirando dietro di sé tutti gli uomini di buona volontà. Si è posto come un modello di fronte all'uomo, sfi­gurato e pallido, che da molto tempo aveva perso la somiglianza con Dio e gli ha detto: « Guardami, e riproduci sulla tela della tua anima i miei tratti divini ». Gesù ha lavato questa tela nel suo sangue, e l'ha resa candida.

È venuta la Chiesa, che, vedendo l'umanità debole e sprovve­duta, l'ha presa maternamente per mano e le ha guidato il pennello. Ed ecco che presto sono apparse copie del Salvatore: alcune erano così somiglianti che il Padre vi ha riconosciuto il suo Figlio. Erano i santi, formati sull'esempio di Gesù, nutriti dalla sua parola, vi­venti la sua vita.

Come Gesù, il sacerdote insegna soprattutto con l'esempio. Deve essere una copia vivente di Cristo, presentare sempre agli occhi del mondo questa immagine divina. Offra dunque, in se stesso, un modello perfetto di virtù, modello vivo e visibile, facile da imi­tare. Uomo debole come gli altri, ma innalzato dalla grazia al di sopra delle miserie e delle bassezze della terra, deve aiutare con il suo esempio gli altri uomini, suoi fratelli, a salire fino all'altezza di Cristo.

« La vostra modestia - diceva l'apostolo ai cristiani - splen­da di fronte a tutti gli uomini ». E la modestia è un velo traspa­rente che tempera, senza nasconderle, due sublimi virtù; il loro pro­fumo insensibilmente si diffonde nei cuori, li attira e li trasforma: è il profumo dolcissimo dell'umiltà e della purezza. L'apostolo rac­comanda questa virtù ai credenti; ancor più va raccomandata ai preti.

Questa virtù divina splendeva sui lineamenti e in tutto l'aspetta di Cristo; nasceva dalla sua profonda umiltà e dalla sua perfetta purezza. Sia anche l'ornamento del prete: lo avvolga da ogni parte, si mescoli a tutte le sue azioni, si incontri nelle sue parole, lo ac­compagni nell'esercizio del suo ministero ed egli sarà una predica­zione vivente della verità e delle virtù di Gesù.

Tutto, nel prete, deve istruire, tutto deve edificare. Messo come un ponte tra Gesù e gli uomini, deve condurli a Cristo e unirli a lui nella sua stessa persona. Bisogna che le anime salgano a Cristo attraverso il sacerdote. Le sue parole, le sue azioni, la purezza, la umiltà, la dedizione della sua vita devono essere leve potenti che sollevano le anime, dei fari luminosi che le conducono a Dio.



Cristo, luce ineffabile, focolare divino della verità increata, vieni a il­luminare le anime.

Tu che sei il Verbo del Padre, splendore della sua gloria e luce del mondo, vieni e allontana le ombre che si stendono sul nostro orizzonte. Ogni giorno parli e insegni nel tuo sacerdozio. La tua luce ci giunga attraverso i tuoi preti, e come dalle loro mani noi riceviamo il tuo Corpo, così dalla loro bocca possiamo ricevere la tua verità. Confermali nel pos­sesso della giustizia e della verità, in modo che non si allontanino mai dalla tua via.

Uniscili intimamente a te; pensino solo ciò che tu pensi, non insegnino che la tua sapienza. Uniscili così strettamente fra loro che siano forti contro lo spirito dell'errore e invincibili all'assalto dei peccato. Riempi il loro spirito della tua luce e il loro cuore del tuo amore casto, perché illu­minino a loro volta le anime che tu hai loro affidato.

Amen.



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07/09/2009 15:04

CAPITOLO III

Gesù perdona


Dio è Amore. La sua vita è l'amore: ogni suo movimento, sia nella profondità del suo intimo che fuori di sé, è un movimento d'amore. Se genera nel suo seno, è il Verbo, sublime parola d'amore che Dio dice a se stesso. Se la bellezza e la grandezza del suo Fi­glio increato lo rapiscono e provocano un movimento d'amore, e se il Figlio, allo stesso tempo, rapito d'amore per il Padre, ha un moto simile, ne procede lo Spirito Santo, sospiro d'amore esalato dal Padre e dal Figlio.

Tutto ciò che Dio crea fuori di sé è creazione di amore, perché crea soltanto per amore, e ogni suo moto verso le creature è un moto d'amore. Comandi; proibisca, punisca, perdoni, assecondi o riprenda, è sempre l'amore.

Ma questo amore ineffabile prende nomi diversi, secondo il suo agire: quando comanda, è potenza; quando asseconda, bontà; quan­do punisce, giustizia; quando perdona, misericordia. Così l'amore vive, agisce in Dio, e quale che sia la sua forma, è un unico amore, un'unica azione, un'unica forza. Dio, nella sua unità assoluta, im­mensa, profonda, senza limite, incommensurabile, eterna.

L'uomo è stato creato dall'amore, un amore fecondo, generoso, abbondante, che chiede solo di espandersi; amore di un Padre che vuole comunicare la sua vita; amore di artista che vuole generare capolavori. L'amore che asseconda colmò l'uomo innocente dei suoi doni. Dopo il peccato, l'amore che punisce, la giustizia, stava per colpire; ma l'amore che perdona, la misericordia, era pronto a fer­mare il braccio già alzato per colpire.

Il Verbo di Dio, generato dall'amore, che viveva nel seno del­l'amore, l'Amore stesso, si offrì per pagare il debito del colpevole. Fu amore che perdona e, durante una lunga catena di secoli, que­sto amore misericordioso si innalzò come un baluardo nel seno stesso di Dio, per riparare l'uomo peccatore dai colpi della giusti­zia irritata.

Dopo che l'umanità ebbe per molto tempo sofferto e pianto, dopo aver più volte bussato - con una lunga attesa - alla pietà di Dio, e averla commossa, il Verbo discese sulla terra. Si rivestì della nostra carne. Prese su di sé le nostre debolezze e la nostra mortalità: fu il nostro Cristo, il nostro Gesù. Venne, Amore inef­fabile, Misericordia incarnata, non solo per insegnare la verità, non solo. per illuminare con la luce di Dio l'intelligenza umana, ma so­prattutto per portare sulla terra il perdono del Padre, lavare nel proprio sangue le iniquità del mondo, spezzare i legami che trat­tenevano l'anima dell'uomo prigioniero del peccato. Gesù era lui stesso il grande perdono di Dio, perdono sostanziale e vivo, per­dono efficace e salvatore.

Non ci stupirà allora se diremo che l'inclinazione di Gesù fu la Misericordia, che il movimento soprannaturale, ma naturale per il suo cuore, fu sempre perdonare e assolvere.

Se noi seguiamo Cristo nei tre anni della sua vita pubblica; se noi camminiamo dietro di lui durante questo periodo così labo­rioso e fecondo del suo apostolato, lo vedremo senza sosta alla ricerca dei peccatori, continuamente impegnato a spezzare i legami di iniquità che avvolgono gli uomini. « Dio - dirà Gesù - non ha inviato il suo unico Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui »?

La missione di Cristo sarà compiuta in pienezza: sarà ardente nella ricerca delle anime, saprà abbassarsi fino alla miseria più pro­fonda del peccatore, per sollevarlo, fino alla santità di Dio.

Gesù ama coloro che vuole perdonare, che assolve. E tuttavia i peccatori, di fronte a Dio, sono i nemici mortali. Innanzittuto sono ingrati: avevano ricevuto tutto da Dio e, disprezzando la sua generosità divina, hanno dimenticato la sua bontà e calpestato il suo cuore. Poi sono ribelli: obbligati dal loro essere creature alla dipendenza e alla docilità, hanno scosso da sé il giogo dell'autorità di Dio, così le­gittima e dolce, e si sono fatti da se stessi maestri. Infine sono tra­ditori: era stato loro affidato il governo del mondo; dovevano custo­dire, per condurle a Dio, le creature inferiori e, tradendo la fiducia di Dio, hanno distolto le creature dal loro fine, costringendole quasi ad abbandonare il loro Maestro, loro Creatore, loro Signore.

E Gesù li ama, questi peccatori. E’ il suo amore per loro che l'ha fatto scendere dal cielo e venire sulla terra a faticare, soffrire e morire nel dolore e nell'ignominia.

Mentre cammina sulla terra che presto sarà arrossata dal suo san­gue, guardate come frequenta volentieri i peccatori, come s'intrat­tiene con loro, come accoglie con gioia tutti quelli che si presen­tano a lui. È spesso in mezzo a loro e testimonia loro tale e tanta bontà che i farisei gelosi dicono ai suoi discepoli: « Perché il vo­stro Maestro mangia con pubblicani e peccatori? ». E prendono pretesto per negare la divinità della sua missione dalla sua bontà misericordiosa: « Se fosse davvero un profeta - dicevano nella amarezza del loro cuore egoista e privo di compassione - saprebbe che questa donna che lo tocca è una peccatrice », e non ne sop­porterebbe il contatto. Erano ben lontani dal conoscere Gesù quelli che credevano che la miseria dovesse disgustarlo, e che il pecca­tore che piange fosse indegno della sua misericordia.

Un'espressione di Gesù, semplice e profonda, ci rivela, in po­che parole, sia l'inclinazione tutta misericordiosa del suo cuore, sia la missione affidatagli dal Padre, di perdonare e di assolvere: « Sono venuto - disse un giorno - a cercare e a salvare ciò che era perduto ».

Difatti, non è venuto solo per accogliere quelli che andavano a lui, per perdonare chi era pentito: ma per andare incontro ai peccatori, per cercare dappertutto quelle anime accecate dal pec­cato, trattenute dalla vergogna o dominate dalla viltà.

Durante questi tre anni di apostolato non farà altro che cercare le anime: girerà senza sosta città e villaggi della Giudea e della Galilea; dirigerà la sua barca su tutte le rive del lago di Genezareth; si spingerà nel deserto; passerà per i territori pagani di Tiro e Si­done, seguirà le rive del Giordano e le coste del mare; andrà a mescolarsi, rischiando la vita, alle folle dei pellegrini per le feste di Gerusalemme, frequenterà il portico del tempio dove discutono i dottori, la piscina delle pecore dove i malati si affollano.

Niente lo scoraggerà nelle sue ricerche; nulla spegnerà il suo desiderio inesauribile di trovare uomini da salvare. L'ardente pas­sione per la salvezza dell'uomo trasporta Gesù, raddoppia le sue forze, gli fa accettare fatiche innumerevoli, fino a condurlo al Pre­torio e al Golgota.

Colui che Gesù ha scelto per continuare la sua vita sulla terra, questo privilegiato che una partecipazione all'unzione di Cristo Sal­vatore rende salvatore e liberatore delle anime, il sacerdote, deve avere nel suo cuore questa fiamma ardente, questo veemente desi­derio, questa passione santa per la salvezza dei fratelli. Investito da Cristo del potere altissimo di perdonare e assolvere, non deve desiderare altro che di poter servirsene e, con ardore generoso, deve andare alla ricerca degli uomini con tutto lo slancio del suo cuore e, se necessario, anche con lunghi cammini o viaggi pericolosi.

Deve tentare tutto per salvare un'anima: dimenticarsi di se stesso, abbandonare vedute personali, cacciare lontano da sé ogni desiderio di riposo e ogni ricerca di soddisfazioni. Gesù non ha calcolato le sue forze e il suo tempo, li ha consumati interamente. Si è donato completamente, non ha sognato gioie troppo umane, una vita calma, la tranquillità assicurata. Non ha pensato di poter essere salvatore risparmiandosi, o di poter dare vita a molti senza gettare e perdere la propria.

Il prete di Cristo, erede dei suoi sentimenti, ha il cuore grande, l'anima ardente. Mietitore infaticabile nel raccogliere, per darli a Dio, molti covoni di uomini, vuole versare in abbondanza il perdono del Padre. Non gli importa se il sole brucia, se il sudore bagna il suo corpo stanco. Lo sa: quando sarà giunta la sera della sua vita, quando sarà finita l'ora del lavoro, troverà nell'amore di Cristo un refrigerio inesprimibile.



La Maddalena e Zaccheo

Nel suo cammino Gesù, sempre teso a perdonare e assolvere, incontrò tipi diversi di persone. Alcune, come Maddalena, venivano da lui di propria iniziativa.

La nausea del peccato si era un giorno impadronita della donna di Magdala. Una grazia interiore aveva spinto il suo cuore a tor­nare al bene; una parola di Gesù, udita quasi per caso, aveva vinto le sue ultime resistenze. Era venuta a prostrarsi ai piedi del Cristo. In mezzo alle lacrime aveva fatto la confessione umiliante dei suoi errori. Addolorata, ma anche piena di fiducia, era rimasta là, ba­ciando i piedi di Gesù e attendendo quell'assoluzione che doveva liberarla dalle sue catene, quel perdono che l'avrebbe resa per sem­pre la felice conquista dell'Amore Infinito.

Cristo aveva riconosciuto in lei un'anima di elezione, uno di quei cuori ardenti che il piacere può affascinare per qualche istante, ma per i quali gli amori terreni sono troppo freddi, instabili e brevi. Questi cuori, attratti dall'Amore Infinito ma all'oscuro della via che vi conduce, si lasciano qualche volta ingannare dal miraggio degli affetti umani; scendono a poco a poco fino in fondo, ma non sanno rassegnarsi a rimanervi.

Maddalena era fatta così. La sorella di Marta e di Lazzaro, tra­dita dal suo cuore, aveva dimenticato le tradizioni sante del suo popolo e gli esempi dei suoi; era caduta nel peccato, gettando la sua famiglia nel dolore e nella vergogna. Ma la sua anima era troppo alta per sentirsi soddisfatta nel male; il suo cuore era troppo gran­de per accontentarsi dell'amore delle creature; doveva appartenere a Cristo, e Cristo la conquistò.

Una dolce emozione penetrò il cuore di Cristo quando vide davanti a sé questa donna, che era sì caduta ma che una sua sola parola avrebbe rialzato, rendendola bella con il perdono. Gesù ve­deva in lei virtù ammirevoli: la fede, giacché di sua iniziativa ve­niva a chiedere perdono; la speranza, una fiducia senza limiti la trat­tenevano ai piedi di Gesù; l'amore l'aveva soggiogata e vinta. La parola di Gesù « Ti sono rimessi i tuoi peccati » è la risposta alle lacrime e alla fiducia amorosa di Maria.

In seguito Gesù non l'abbandona. Continua a formare la sua anima, le chiede a volte atti di eroismo. La conduce lentamente verso l'eterna beatitudine, da Magdala a Betania, da Betania al Calvario e di lì al cielo, passando per l'abnegazione del « Noli me tangere » e per le persecuzioni di Gerusalemme.

Gesù fa di questa peccatrice un miracolo di amore. Sarà la santa, l'amante, la prediletta del suo cuore e l'opera del suo perdono mi­sericordioso.

Tra le persone che Cristo ha incontrato, altre, come Zaccheo, avevano peccato seguendo la strada larga e facile che traccia lo spi­rito del mondo. Il ricco pubblicano di Gerico, arrivato all'opulenza con mezzi più o meno onesti, gioiva dei piaceri della vita, senza fastidi e senza rimorsi. Una grazia segreta aveva però una volta messo in lui un vago desiderio di una vita migliore. Ma non era stato che un pensiero momentaneo, su cui l'urgenza degli affari, l'amministrazione delle sue ricchezze non gli avevano permesso di soffermarsi. La fama dei miracoli di Gesù era comunque arrivata fino a lui; improvvisamente viene a sapere che presto arriverà nella sua città. Una curiosità che lui pensa naturale - e che non è altro che un tocco benefico della grazia - lo spinge a desiderare di vederlo. Non ci tiene a parlargli. Gli sembra di non avere niente da dirgli, vuole solo vederlo, studiare quest'uomo straordinario il cui nome è sulla bocca di tutti, e che le folle acclamano.

Le critiche e il disprezzo dei Giudei non avevano affatto tur­bato Zaccheo nella sua vita lussuosa e comoda; e il rispetto umano non lo ostacola molto, quando vuole vedere Gesù. Sale su uno dei sicomori che crescono lungo la via principale di Gerico, e da lassù aspetta il passaggio del Maestro.

Mentre lo guarda avanzare lentamente, circondato dalla folla, sente all'improvviso lo sguardo di Gesù fissato su di lui. Quello sguardo profondo e dolce, luminoso, che penetra fino in fondo al­l'anima, lo scuote stranamente; ed ecco che si sente chiamare per nome: « Zaccheo, sbrigati a scendere, perché oggi vengo a pranzo a casa tua ». A casa sua! Non riusciva a convincersi di aver capito bene. Sconvolto fin nel profondo del cuore per questa delicatezza del Maestro, non poteva nemmeno rispondere. Corse a casa sua; diede ordini, fece preparare tutto: voleva che Gesù trovasse da lui un'ospitalità abbondante e magnifica.

Ben presto, il Figlio di Davide, il grande profeta di Israele, sempre seguito dalla folla, si presenta alla porta della sua sontuosa abitazione. Nell'animo di Zaccheo si succedono varie emozioni: una viva luce gli fa vedere l'ingiustizia della sua vita. La bontà di Gesù, che si è degnato di sceglierlo come ospite, malgrado il disprezzo generale di cui è oggetto da parte dei Gíudei, gli sembra così mi­sericordiosa e dolce che il suo cuore ne è profondamente toccato. Vedendo il Cristo poveramente vestito, che vive di elemosina, che passa facendo del bene, diffondendo la luce e la pace, il viso se­reno, lo sguardo colmo di misericordia e la mano sempre alzata per benedire, il ricco pubblicano capisce la vanità delle false ricchezze in cui fino allora ha riposto la propria felicità. Capisce di essere fatto per qualcosa di più grande, più utile, migliore.

In piedi di fronte a Gesù, che ha accolto come un re nella sua casa, con il cuore aperto, con la volontà interamente volta al bene, Zaccheo inizia a dire: « Ecco, io do la metà dei miei beni ai poveri, e se ho fatto torto a qualcuno in qualche cosa, gli renderò quattro volte tanto ».

Non dice che « darà »: dà, ha già deciso, e se ha commesso ingiustizie (è facile commetterne quando l'amore delle ricchezze do­mina il cuore), le ripara generosamente.

È grande la gioia di Gesù quando Zaccheo risponde così fedel­mente alla sua grazia. Il suo sguardo misericordioso non si è po­sato invano su quell'uomo; i suoi approcci pieni d'amore questa volta non sono stati respinti. Vedendo l'opera sublime compiuta dalla sua misericordia, Gesù esclama: « Oggi la salvezza è vera­mente entrata in questa casa! ». E, tuffando di nuovo il suo sguar­do limpido nelle profondità intime di quell'anima rigenerata dal suo amore, dice: « Quello è davvero un figlio di Abramo ».

Poi aggiunge, splendida sintesi della sua vita: « Il Figlio del­l'uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto ».



La Samaritana

Gesù non incontrava tutti i giorni sul suo cammino anime facili da conquistare. A volte doveva bussare per molto tempo alla porta degli uomini, stancarsi a cercarli, lottare con loro. Ne vediamo un esempio nella conversione della Samaritana. Il Signore, nel suo amore preve­niente, aveva visto nella città di Sichar molti che attendevano la salvez­za. In mezzo a loro, aveva vista una donna peccatrice e, nella sua mi­sericordia, aveva deciso non solo di allontanarla dal male, ma di farne l'apostolo dei suoi concittadini.

Molto spesso Gesù aveva preso di fronte al Padre l'atteggia­mento umile di chi supplica; molto spesso aveva donato la grazia del suo amore a persone che colpevolmente avevano resistito alla sua volontà di salvezza. Un giorno, tuttavia, volle tentare una spe­cie di ultimo assalto, e prese con i discepoli la via della Samaria. Si avvicinavano a Sichar. Il sole di mezzogiorno splendeva sulla pianura, coprendo di luce dorata il Garizim, laggiù all'orizzonte. Il grano, non ancora maturo, ondeggiava lontano sotto il soffio del vento. Sul bordo della strada, la fontana del Patriarca, all'ombra dei palmizi. Gesù si fermò, stanco. Lasciò che i discepoli conti­nuassero il cammino verso la città, e andò a sedersi, pensoso e tri­ste, accanto al pozzo di Giacobbe.

Ci dobbiamo stupire di fronte a questa debolezza di un Dio, a questa stanchezza che è anch'essa un mistero? Senza dubbio, non era solo la fatica del viaggio che pesava su Gesù. Era piuttosto il peso dei peccati degli uomini che premeva sulle spalle di colui che per questi peccati si offriva come vittima di amore. Era un peso che lo piegava. Le lunghe resistenze della peccatrice di Sichar, l'av­vertire che molti lottavano contro la sua misericordia, gettavano Gesù in una tristezza profonda. Anche il battito del suo cuore, pieno di amore, risentiva di questo dolore; anche il suo corpo era piegato, indebolito.

Ben presto, vide venirgli proprio quella donna per la cui sal­vezza aveva già molto sofferto e pianto. Cosa si poteva ancora fare? Dottrine piene di errori, di cui era stata nutrita fin dall'infanzia nella sua terra di Samaria, in cui qualche brandello della rivela­zione di Dio si mescolava all'idolatria più grossolana; influenze di­verse esercitate su di lei dai molti uomini cui si era di volta in volta data; tutto questo aveva falsato il suo animo e corrotto il suo giudizio. Un carattere tenace, razionale, portato all'ironia; una na­tura sensuale, nemica del lavoro e dello sforzo erano altrettanti osta­coli sul cammino della sua conversione. Gesù non si lascia scorag­giare. Non è venuto per i sani, ma per i malati. E’ la risurrezione e la vita, e vuole risuscitare questa donna, che vede con chiarezza morta al suo amore.

Gesù inizia dunque con la peccatrice il colloquio che ci ha tra­smesso il Vangelo. Il rispetto di Gesù per la persona, la prudenza che accompagna tutte le sue parole e tutte le sue azioni, la sua dol­cezza e pazienza, la sua umiltà si rivelano qui altrettanto che la sua profonda conoscenza del cuore dell'uomo. Chiede dapprima alla Sa­maritana un piccolo servizio. Sopporta, senza scomporsi, le sue impertinenze. Penetra a poco a poco nel suo cuore, stimolando abil­mente la sua naturale curiosità. La porta anche a dichiarare l'irre­golarità della sua posizione. È soltanto quando lei stessa dice « Non ho marito » e che Gesù le mostra di conoscere il peccato in cui lei vive. Ma lo fa semplicemente, senza traccia di rimproveri, sa­pendo bene che lei non può accoglierli; senza ferirla con il disprezzo, senza umiliarla con parole dure.

Questa dolcezza, questo sguardo che legge nel profondo del suo cuore, danno alla donna il coraggio di confidarsi con Gesù. E lui, con bontà, risponde alle sue domande, chiarisce i suoi dubbi, illu­mina i suoi pensieri. E le annuncia la sua missione. La Samaritana, tutta agitata, ritorna in fretta in città. Un turbamento strano si è impadronito di lei, è assalita da pensieri che non ha mai avuto. Sotto l'influenza della grazia si opera in lei, che ancora non ne ha coscienza, un cambiamento. Quando entra in Sichar, si sente spinta a dire a tutti quelli che incontra: « Venite, venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto: non sarà il Cri­sto? ». Non sa ancora se deve credere; ma capisce che quest'uomo così puro, così solenne e dolce insieme, che le ha parlato lungo la strada, non è un uomo qualunque. La Samaritana vuole che gli altri giudichino.

La sera di quello stesso giorno, quando, chiamato dagli abitanti, Gesù entra in Sichar, ritrova la peccatrice. L'amore l'ha trasformata. Viene incontro al suo Salvatore, non per confessare delle colpe che Gesù già conosce, ma per ricevere un perdono che la sua fede e il suo pentimento reclamano, e che Gesù è impaziente di darle. La misericordia aveva vinto ancora una volta. Aveva fatto di una crea­tura miserabile in cui tutto sembrava impuro e viziato una persona arricchita dall'amore, un apostolo della verità, un trofeo di gloria per il Cristo. Era un miracolo nuovo. E quando, due giorni più tardi, Gesù partì dalla città, proprio coloro che aveva attirato verso il suo amore, illuminato con la sua verità e salvato con la sua mi­sericordia, gli diedero per la prima volta, a una sola voce, il nome di Salvatore.

Già diciannove secoli hanno ripetuto questa parola di gioia dei Samaritani: « È veramente il Salvatore del mondo ». E Molti altri secoli, forse, la ripeteranno; gli echi dell'eternità la faranno risuo­nare senza fine. Gesù è il Salvatore del mondo perché è la Miseri­cordia; e il mondo ha molto bisogno di una misericordia che perdona...



L'indemoniato

Gesù passava di città in città, di villaggio in villaggio facendo del bene. Si trovò spesso di fronte a una categoria di uomini le cui sofferenze lo colpivano in modo particolare e profondo.

Le folle, entusiasmate dai suoi prodigi, gli portavano da ogni parte una moltitudine di ammalati e di indemoniati perché li libe­rasse. Molti fra loro, senza dubbio, potevano anche non essere in stato di peccato; il diavolo può, per un permesso di Dio, posse­dere i corpi; ma è soltanto con la volontà dell'uomo che può posse­dere la sua anima. Altri tuttavia soffrivano sotto il giogo pesante di una duplice possessione: del corpo, e anche dell'anima. Possia­mo immaginare il dolore di Gesù vedendo gli orribili stravolgi­menti operati nel cuore dell'uomo dalla presenza dello spirito del male. Guardiamo allora con quale dolcezza e pietà, con quale pre­mura rendeva presente la sua potenza divina per scacciare lo spirito delle tenebre. A prima vista, quando leggiamo i Vangeli, Gesù sem­bra fare uso soltanto della sua autorità sovrana e dell'onnipotenza della sua parola per liberare gli indemoniati. Ma un passo del Van­gelo ci fa vedere che utilizzava anche altri mezzi.

Un giorno, Gesù scendeva dal Tabor. Tornava dall'aver lasciato apparire ai suoi tre discepoli prediletti un riflesso splendente della sua gloria, e il suo volto conservava ancora le tracce della luce divina della Trasfigurazione. Una grande folla era raccolta ai piedi della montagna; alcuni discepoli discutevano; l'atmosfera era ecci­tata. Gesù, arrivando, si preoccupò della causa di tanta agitazione. Gli risposero che un giovane, posseduto dal diavolo, era stato por­tato ai discepoli perché facessero su di lui gli esorcismi, ma che questi non avevano risolto nulla. Ed ecco che Gesù chiama a sé il padre del giovane indemoniato. Gli chiede anzitutto un gesto di fede e di confidenza; poi si fa portare il giovane, parla con potenza allo spirito maligno, libera l'indemoniato e lo rende, guarito, a suo padre. La folla si ritira. Gesù entra in una casa vicina con i discepoli, e questi lo interrogano sul loro insuccesso, che li ha stu­piti. E Gesù fa vedere loro l'insufficienza della loro fede. Li invita a non fidarsi soltanto delle loro azioni, ma ad entrare nella potenza divina per una confidenza umile, senza limite, nella bontà infi­nita di Dio. Poi aggiunge: « Sono necessari preghiera e digiuno per cacciare questo genere di demoni ».

Una piccola frase. Ci dice che Gesù pregava, che faceva peni­tenza per la salvezza degli uomini. Quelle lunghe preghiere che occu­pavano un'intera notte, quelle privazioni di ogni genere cui si sot­toponeva volontariamente; quei lunghi viaggi a piedi, quei digiuni prolungati, quel dormire sulla nuda terra: sono i mezzi che servi­vano a Gesù per liberarci dalla schiavitù di satana.

Possiamo chiederci se ce n'era bisogno. Verbo del Padre, per cui tutte le cose sono state fatte, una sola parola uscita dalla sua bocca, un solo moto della sua volontà sarebbe stato più che suffi­ciente a cacciare qualunque demonio. Non dimentichiamo però che Gesù si era fatto nostro modello. Quello che lui poteva fare per virtù divina, non lo possiamo certo fare noi, per quanta ricchezza possiamo avere di doni divini.

L'umanità di Gesù priva di peccato non era di nessun ostacolo all'azione della sua divinità. Poteva sempre agire in Dio. Non aveva certo bisogno di ricorrere ad altri mezzi. La nostra umanità, mac­chiata dal peccato, oscurata da quella moltitudine innumerevole di imperfezioni e debolezze in cui cadiamo ogni giorno, è un ostacolo permanente all'azione dell'amore di Dio in noi, e alla piena effu­sione dei suoi doni nella nostra vita.

Il prete è rivestito, in Cristo, dei suoi poteri di Dio e, chiun­que e comunque sia come persona, resta sempre un prete. Dal gior­no in cui il carattere del sacerdozio è stato impresso in lui, ha potuto compiere gli atti del sacerdote. È entrato nella partecipazione della potenza divina per consacrare, assolvere, sacrificare. Può peccare: è sempre prete; prete indegno, è vero, oggetto d'orrore per Dio e di scandalo per il mondo. Il suo carattere sacro, splendente sulla sua fronte, non farà che illuminare la profondità della sua miseria e il triste naufragio d'ogni sua grandezza: ma è sempre prete: Tu es saceddos in aeternum.

Può consacrare, assolvere, sacrificare; ma la pioggia di grazie speciali che Dio offre al prete; la potenza d'amore sugli uomini per condurli a Dio; l'autorità sugli spiriti malvagi per metterli in fuga; la luce interiore per discernere la voce di ogni uomo, i disegni di Dio su di lui, la via lungo la quale condurlo; il coraggio per soste­nere le fatiche dell'apostolato o i rigori della persecuzione; la sa­pienza per difendere la verità; la forza per conservarsi casto; i privilegi, i doni, le grazie destinate da Dio al suo sacerdote, gli sono date soltanto in misura del suo amore e della sua purezza.

Per ottenere, per conservare, per accrescere in sé l'amore e la purezza, il prete deve ricorrere alla preghiera e alla penitenza. È per questo che Gesù disse ai discepoli: « per cacciare questo genere di demoni... »; per avere una potenza, in tutto simile alla mia; per fare ciò che io faccio, alla grande grazia del sacerdozio che io vi comunicherò e di cui siete già in parte rivestiti, aggiungete ancora la preghiera e la penitenza.



Il sacerdote perdona con Gesù

Il prete, seguendo Gesù, incontra gli uomini che Gesù stesso ha incontrato. Qualche volta, trova sulla sua strada anche qualcuno posseduto da uno spirito malvagio. Potrà tentare molte strade: con­vincerlo, ad esempio. Ma questi uomini sono ormai troppo lontani dal prete perché possa loro giungere la sua voce. Potrà cercare di conquistarseli con benefici e gesti di amicizia, ma essi fuggono la sua presenza e respingono i suoi doni.

Non resterà allora che inginocchiarsi in preghiera, chiedere mi­sericordia, importunare l'amore di Dio; bisognerà aggiungere alle proprie suppliche le opere della penitenza, rinnovare nella propria carne le sofferenze di Cristo o, almeno, imporre ai propri sensi il giogo salutare della mortificazione che Gesù ha costantemente por­tato su di sé. Così, unendo la preghiera e la penitenza alla fermezza di una fede illuminata e di una confidenza senza limiti, il prete acquisterà la potenza per scacciare i demoni da coloro che ne sono posseduti, e per distruggere l'influenza nefasta che essi esercitano sul mondo.

Altre volte il prete incontrerà qualcuno come la Samaritana, che bisognerà saper attendere per molto tempo, e presso cui biso­gnerà agire con molta prudenza. Incontrando persone così, pregherà per loro. Sarà paziente per attenderle, coglierà con attenzione ogni occasione per far loro un po' di bene. Trattando con loro, imporrà il rispetto con una modesta gravità. Le convincerà non con discus­sioni violente o con infuocate controversie, ma con parole misu­rate, benevole, semplici e luminose, sempre umili. Toccherà il loro cuore con una bontà senza debolezza e un autentico interessamento. Come Gesù, non si stupirà mai del male (questo genere di stupori fa soffrire molto i peccatori... ). Non sembrerà mai stanco di ascol­tare, e nemmeno scandalizzato dalle loro confessioni. E arriverà così, poco alla volta, a rivelare loro Cristo, il Salvatore.

Se il prete incontra degli Zaccheo, di quegli uomini cioè in fondo buoni, ma senza luce, che non vedono altro che i loro affari, sciupati dai piaceri e irritati dall'intolleranza di qualche cristiano con lo spirito del fariseo, si avvicini a loro a cuore aperto e dia, con la propria vita, l'esempio di quel che è un cristiano, fino a far vedere in sé Gesù: Gesù con il suo amore grande, con la sua semplicità; e questi uomini riconosceranno da se stessi la miseria della loro vita, la vanità dei beni cui sono attaccati. Guadagnati dalla mansuetudine e dagli esempi del prete, torneranno a Gesù, Unico Sacerdote.

E se Cristo mette sulla strada qualche Maddalena, il prete la accolga come un dono dalle sue mani. La purifichi, la istruisca, la circondi di attenzioni vigilanti. La coltivi con amore, perché pro­duca quei frutti squisiti di virtù perfette che Cristo attende da lei. Persone così sono un dono divino che Gesù fa al sacerdote, ed egli può amarle, docili sotto la sua mano e obbedienti alla sua voce, e le può aver care più delle altre; ma sempre e soltanto con l'amore di Cristo.

Questo amore di Cristo, tenero come il cuore di una madre, ardente come il cuore di una vergine, puro come il cuore di un bambino, forte, generoso e fedele come il cuore di un padre! Come il prete partecipa alla potenza di Cristo, così deve anche partecipare a questo amore. Non è autenticamente sacerdote se non vive della vita di Gesù, se non agisce attraverso le azioni di Gesù, se non ama attraverso l'amore di Gesù. Deve aderire a Cristo, ispirarsi ai suoi esempi, consigliarsi con lui, lasciarsi istruire da lui.

La missione del prete è difficile. È una missione tutta di amore e di misericordia. Esige illuminazioni profonde, molta prudenza, una dedizione senza limiti e una pazienza che non si stanca. Solo Gesù Cristo, Dio e Uomo, poteva realizzarla completamente; e lo possono fare coloro che, trasformati da Cristo e viventi di lui, non hanno, con lui, che un solo cuore e un'anima sola.

Gesù, abbiamo detto, è l'amore che perdona. Per questo, anche se è particolarmente unito alle anime belle e pure che hanno sem­pre conservato lo splendore della somiglianza con Dio, ha una in­clinazione, forse ancora più affettuosa, per quelle che ha purificato. « C'è più gioia in cielo per un peccatore che si converte che per novantanove giusti ». Questo cielo è il cuore di Cristo, taberna­colo dell'Amore Infinito da cui prorompe la gioia quando in un uomo si realizza la missione del Salvatore.

Gesù ha spesso pianto sui peccati del mondo. Ha versato lacri­me amare e lacrime di sangue su chi rifiutava la sua misericordia. Molte volte ha sparso il suo dolore sull'infedeltà di Gerusalemme. Molte volte, prosternato al cospetto del Padre, ha prolungato la sua preghiera e pianto per ottenere a un uomo la grazia preziosa del pentimento. Al Getsemani, non solo i suoi occhi ma il suo corpo intero piangeva lacrime di sangue. La terra era impregnata di que­sta rugiada d'amore che Gesù versava su di essa per fecondarla. Gesù ha pianto spesso su di noi.

Il Vangelo non parla del suo sorriso; tuttavia ha sorriso spesso. Sorrideva a Maria, sua madre immacolata. Sorrideva all'innocenza dei bambini che gli si avvicinavano a frotte. Sorrideva ai discepoli, alla sera di giornate faticose, per riconfortarli e rallegrarli. Sorri­deva alla sofferenza come a una sposa molto amata attraverso cui gene­rava popoli di salvati e di eletti.

Ma il sorriso più dolce di Cristo, quello che riservava al Padre e di cui nessuno ha sorpreso la gioia, veniva la sera, quando Gesù si ritirava in solitudine a pregare: in quelle sere che venivano dopo un giorno in cui aveva perdonato, in cui aveva spezzato le catene ai prigionieri del male. E’ allora che viveva la gioia. E là, sotto la volta del cielo in cui scintillavano le stelle, di fronte al suo Pa­dre dei cieli che lo stringeva con amore, sorrideva estaticamente, in un rapimento divino.



Signore, Amore Infinito, misericordiosa bontà, che sei venuto fra noi a cercare quello che era perduto, a purificare ciò che era macchiato, a risollevare chi era caduto, dona ai tuoi sacerdoti l'amore e la tenerezza di cui è ripieno il tuo cuore. Fa' che coloro che ti imitano, i preti, si mettano, con coraggio instancabile, alla ricerca delle pecore smarrite e che, colmi di pietà e di amore, dopo aver fasciato le loro ferite, le riportino nel tuo ovile. Dona ai tuoi preti la grazia di raggiungere la profondità del cuore degli uomini. Da' loro la consolazione di guadagnare molti al tuo amore, perché un giorno possano sentirsi dire da te: - Venite, servitori buoni e fedeli, entrate nella gioia del vostro Signore ».

Amen.



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07/09/2009 15:06

CAPITOLO IV

Gesù consola


Il dolore non è stato affatto creato per l'uomo; doveva essere l'eredità soltanto degli angeli ribelli e decaduti che, separandosi dal­l'Amore eterno con un atto libero e abusivo della loro volontà, si erano votati per sempre a un odio eterno.

Dopo il peccato dell'uomo, quando il progetto divino, realizzato dall'Amore Infinito per la felicità della sua creatura prediletta, fu sconvolto e distrutto, il dolore, infrangendo le sue dighe, si preci­pitò sull'umanità come un torrente in piena.

L'uomo cominciò allora a soffrire in ogni parte del suo essere. Soffrire nel corpo: il lavoro e le sue fatiche, le intemperie del clima, le molestie delle malattie, gli accidenti improvvisi si unirono per fargli sperimentare la sofferenza. La meravigliosa struttura del suo corpo, la raffinatezza dei suoi organi, la perfezione dei suoi sensi, che dovevano servire a moltiplicare le sue gioie, contribui­rono soltanto più, dopo il peccato, a moltiplicare i suoi tormenti. Nessuna delle sue membra, neppure una fibra della sua persona può essere, presto o tardi, risparmiata dal dolore.

Soffri nel suo cuore. Questo strumento armonioso dell'amore, che non doveva risuonare se non sotto il tocco delicato della mano di Dio, si trovò ad essere tormentato dalle mani inesperte delle creature. Le sue corde fragili e melodiose si spezzarono l'una dopo l'altra sotto i colpi dell'ingratitudine, dell'odio, dell'abbandono per gli strappi causati dalla morte, per le tristi infedeltà e le disillu­sioni amare.

Soffri nella sua anima. Creata a immagine di Dio, era stata do­tata di possibilità meravigliose, il cui esercizio pieno e perfetto doveva offrire gioie sublimi. Ma il peccato, gettandovi le sue ombre, paralizzando i suoi slanci, vi fece entrare il dolore. L'intelli­genza dell'uomo soffrì la sua impotenza a conoscere, a penetrare i misteri appena intravisti. La sua memoria soffrì il ricordo dei do­lori passati o delle gioie perdute. La sua volontà soffrì le proprie ribellioni, incertezze e instabilità. L'uomo soffrì nella sua imma­ginazione i timori per il futuro; soffrì infine in tutto il suo essere e in ogni tempo della sua vita.

Già nella culla, piangeva; lacrime senza dubbio incoscienti, ma reali. E vagiva con gemiti di pianto. La sua infanzia, la sua adolescenza, la sua maturità ebbero le loro preoccupazioni e i loro lutti. La sua vecchiaia ebbe la solitudine, le infermità e i rimpianti. Poi venne la morte, con l'agonia e l'angoscia e le ultime lacrime, versate già sull'orlo della tomba.

Attraverso i secoli, questo dolore umano salì come un grido disperato verso il cielo, chiamando un Consolatore, perché l'uomo, quando soffre, ha bisogno di essere consolato. È troppo debole per portare da solo il peso del dolore; ha bisogno di un aiuto, di un sostegno; ha bisogno di una mano per asciugare le sue lacrime e per fasciare le sue ferite; di un braccio per essere sorretto, di una voce che lo incoraggi e lo sollevi, di un cuore amico in cui possa rifugiarsi.

Dal seno dell'Amore Infinito un'eco rispose a questo appello, a questa supplica: l'incarnazione del Verbo. Gesù, l'Agnello di Dio, colmo di dolcezza e tenerezza, venne in mezzo alla nostra desola­zione. Venne non solo per portare all'uomo ignorante la luce della verità e al peccatore il perdono delle colpe; all'uomo sofferente e solo portò il balsamo celeste della consolazione.

Nessuno meglio del Verbo incarnato poteva essere il consola­tore. Abbraccia tutti i dolori e ha tanto amore da poterli alleviare. E’ Dio. Conosce, nella sua intelligenza infinita, ogni minima de­licatezza delle sue creature, e sa bene i turbamenti che il peccato vi ha portato. Vede le lotte intime dell'uomo, i suoi dolori più segreti.

E’ Uomo. Ha sperimentato in se stesso tutte le sofferenze del­l'umanità. Nella sua Passione, la sua carne, bagnata dal sangue del­l'agonia, straziata dalla flagellazione, ferita dalle spine e dai chiodi, ha sofferto il martirio più doloroso. Il suo cuore così ricco di amore è stato spezzato da ingratitudini e gelosie, dall'odio e dall'abban­dono. La sua anima ha conosciuto la tristezza e il terrore, torture indicibili e angosce mortali.

Conosce i nostri dolori. E questo illumina le sue parole: « Ve­nite a me, voi tutti che soffrite e che siete oppressi, io vi conso­lerò ». Cristo chiama i sofferenti di questo mondo, gli addolorati, i disperati; tutti coloro che portano, nel corpo, nel cuore o nell'anima, una ferita sanguinante che deve essere guarita.

Sembra impossibile che possiamo essere consolati: le nostre sof­ferenze sono troppo numerose, i nostri dolori troppo profondi, fino a sembrare qualche volta senza rimedio. Cristo ci consola con il suo Cuore, in cui l'Amore Infinito si è stabilito, da cui si span­dono su di noi le ondate della consolazione di Dio.

Durante la sua vita, abbiamo visto Gesù, tenero come una ma­dre, chinarsi sull'umanità sofferente e versarvi il balsamo che alle­via il dolore e guarisce la malattia. E dopo il suo ritorno trionfale nella gloria, quando non può più continuare la sua missione di consolatore in forma umana, non abbandona i suoi; invia lo Spirito Santo, lo Spirito di amore che procede dal Padre e dal Figlio. Cri­sto stesso consolerà gli uomini attraverso la conoscenza delle verità eterne, attraverso la consacrazione soprannaturale dell'Amore Infinito.

Ma questa azione di consolatore si manifesterà soprattutto at­traverso la Chiesa, e nella Chiesa attraverso il prete. La Chiesa e il sacerdozio sono i grandi doni che Cristo consolatore ha fatto al suo popolo. La Chiesa, autenticamente madre, sempre pronta ad asciugare le lacrime; sempre pronta ad accogliere nelle sue braccia, a cullare sul suo cuore i figli che soffrono. Il sacerdote, rappresen­tante di Gesù, colmo della grazia dello Spirito Santo, che si china, come Gesù, su ogni dolore umano, e su ogni sofferenza versa la consolazione...



Gesù consola la sua gente

Con l'aiuto del Vangelo seguiamo ora Gesù nella sua missione di consolatore. Durante i tre anni della vita pubblica non si accontenta di insegnare e di perdonare i peccatori. Passa, dolcissimo consolatore, in mezzo alle miserie degli uomini, guarendo i corpi sofferenfi, medicando le ferite dei cuori piagati, diffondendo la sua pace, quella pace che supera ogni sentimento e placa ogni dolore.

All'inizio del suo ministero, comincia col trasformare le nostre opinioni sul dolore. Prima di lui, la sofferenza era un'umiliazione e il dolore una vergogna; un corpo ammalato era oggetto di orrore, il gemito dei cuori spezzati non trovava alcun'eco. Ma quando sulla montagna proruppe in questo grido: « Beati i poveri... Beati quelli che piangono... Beati quelli che soffrono... » l'uomo conobbe il valore del dolore. Scoprire questo valore inestimabile; sapere ciò che esso espia, ciò che ottiene, ciò che merita. Qualche giorno di sofferenza sulla terra, confrontato con il peso immenso di gloria che sarà eternamente nostro, è una consolazione. Ci aiuta a guardare in alto: fortifica la nostra volontà, naturalmente debole di fronte alla sofferenza; moltiplica il nostro coraggio con la prospettiva di ricompense immortali.

Per farci vedere fino a che punto il dolore è degno della no­stra stima, Gesù lo prende come sua parte d'eredità. Lo sceglie pre­ferendolo ad ogni gioia. Si sottomette, come abbiamo visto, a ogni sofferenza che travaglia la nostra debole umanità. Si fa povero per consolare i poveri; vuol essere respinto e calunniato per incorag­giare quelli che il mondo respinge e perseguita. Soffre volentieri in tutta la sua persona, perché noi lo incontriamo al nostro fianco in ogni nostro dolore. La sua pietà verso i malati è profonda. Non può ascoltare il loro pianto senza esserne commosso, e lo vediamo affrettarsi per rialzarli e guarirli. È per loro che usa la sua potenza di Figlio di Dio. Non allontana nessuno, per quanto umile, mise­rabile, ripugnante sia. « Tutti coloro che avevano dei malati, afflitti da malattie diverse, li portavano à Gesù. E Gesù, imponendo loro le mani, li guariva ». Si sposta infaticabile da un luogo all'altro, verso chi ha bisogno del suo aiuto. Usa parole piene di dolcezza, trova con delicatezza la parola giusta da dire al malato che si pre­senta a lui...

Ricco di compassione, ascolta l'umile preghiera dell'ufficiale di Cafarnao, che osa appena sollecitare il Maestro per la guarigione del suo bambino ammalato. Gesù lo vede prostrato dal dolore; gli dice soltanto: « Va', tuo figlio vive ».

Al paralitico che lo supplica di essere guarito, e che insieme sente il dolore di un passato di peccatore: « Coraggio, figlio mio, i tuoi peccati ti sono perdonati ». La guarigione del corpo non basta a consolare chi soffre anche del ricordo dei suoi errori: bi­sogna anzitutto rasserenare questa tristezza con il dono del perdono. Un giorno, in mezzo alla folla, Gesù è colpito da una grande tristezza. Una donna si sforza di avvicinarsi a lui, perché pensa: « Se soltanto tocco l'orlo della sua veste, sarò guarita ». Gesù ha compassione; lascia sfuggire da sé qualcosa della sua potenza, ed ecco che l'ammalata si sente esaudita. Turbata da quanto ha osato fare, e ancor più per gli sguardi che la circondano, resta lì immo­bile e confusa. Ma Gesù trova una parola di consolazione: « Co­raggio, figlia mia, la tua fede ti ha salvata ». È stata la fede a portare questa donna in mezzo alla folla. Cristo, che legge nei cuori, lo sa, e con queste sole parole « La tua fede ti ha salvata » la consola delle faticose ricerche che ha dovuto fare per avvicinarsi a lui, delle lunghe attese che ha sopportato nella speranza di incontrare il suo Salvatore.

Un'altra volta, Gesù visita la piscina delle pecore. Numerosi ma­lati sono in attesa del miracoloso movimento delle acque. Fra loro, Cristo ha notato un ammalato con il volto triste e abbattuto. Que­st'uomo non chiede nulla. Non supplica dal Maestro né la guari­gione né l'elemosina; non sa che il Cristo ha il potere di rendergli la salute. Gesù è spinto dal suo amore verso questo dolore muto, e si rivolge al paralitico: « Vuoi guarire? ». Gesù si china verso questo emarginato; verso colui che nessuno veniva a soccorrere e aiutare. Consolatore, porta la guarigione e la gioia. E quando Cristo incontra persone straziate per la morte di qualche persona cara, con­divide quel dolore, si affretta a fare uso della sua onnipotenza per ridare la vita a chi tanto amano.

Giaìro è caduto nella disperazione. La sua unica figlia sta mo­rendo, anzi è già morta. Il suo abbattimento è così profondo, che appena può credere che Gesù nella sua potenza possa rendergli la sua bambina. Lo chiama, tuttavia, e Gesù accorre, ansioso di con­solare questo padre addolorato. « Non temere - gli dice dolce­mente - soltanto credi, ed ella sarà salvata ». E la bambina, risu­scitata, è resa ai suoi genitori smarriti.

Ma non è ancora abbastanza per l'amore di Gesù. Vuole che essi abbiano la gioia non solo di vedere la propria figlia viva, ma anche in piena salute e in forze. « E ordinò che le fosse portato da mangiare. Così - dice il Vangelo - furono pieni di ammi­razione e di gioia ».

Durante i suoi viaggi, entrando nel villaggio di Naim, Gesù vede una madre in lutto. Segue il funerale del suo unico figlio. Cristo è commosso da questo dolore di una madre, vuole consolarla. Si avvicina alla donna in lacrime: « Non piangere più », le dice, e il giovane, risuscitato dalla parola onnipotente del Maestro, è restituito a sua madre.

Lazzaro è appena morto. Gesù, che lo amava come un amico fedele, è triste. Si addolora, forse, ancor più per Marta e per Maria, che sa abbattute sotto il peso del dolore. Si sente spinto ad andare a consolarle e si incammina alla volta della Giudea, malgrado gli avvertimenti prudenti che lo sconsigliavano di ritornarci. Arrivato a Betania, incontra Marta, e si sforza di risollevare il suo abbatti­mento ricordandole la vita eterna e l'eterno incontro. Maria, a sua volta, riceve consolazioni soprannaturali; ma la peccatrice conver­tita, dal cuore così capace di amare, è in quella disperazione di spi­rito che rifiuta ogni conforto.

Gesù è turbato di fronte a così profondi dolori; piange anche lui, insieme alle sorelle inconsolabili di Lazzaro. Si avvicina al se­polcro, si rivolge al Padre dei cieli, lo prega di esaudirlo ancora: « Padre mio, ti ringrazio di avermi esaudito. Lo sapevo, che mi ascolti sempre. Ma ho parlato così per la gente che mi sta attorno, perché credano che mi hai mandato ». Dopo aver detto questo, grida: « Lazzaro, vieni fuori! ». E subito, quest'uomo, che era morto, esce, i piedi e le mani avvolti dalle bende e il volto coperto dal sudario. « Slegatelo e lasciatelo andare », dice il Salvatore.

Il prete, ambasciatore di Gesù, è chiamato spesso, come lui, a consolare coloro che soffrono per l'infermità e la malattia, a risol­levare i cuori abbattuti da dolorose separazioni. Se non può, come Cristo, guarire e risuscitare i corpi, può, con la grazia di Cristo che parla attraverso di lui, consolare molti dolori e asciugare molte lacrime.

La visita dei malati: è una parte magnifica e consolante del mi­nistero del prete. Egli deve farne il suo più dolce sollievo, e andare verso queste immagini viventi del Crocifisso, con tutta la tenerezza del suo cuore. Può diminuire l'intensità delle loro sofferenze, mo­strandone il pregio, orientando le speranze dei malati verso i beni eterni. Il prete usi perciò la massima prudenza e la più grande carità per elevare gli uomini a Dio, per far loro comprendere la nullità dei beni di questo mondo e l'illusione delle amicizie vane. Quando il corpo soffre, l'anima è più facilmente vicina a Dio.

Ma nelle consolazioni che distribuisce, il prete sia sempre so­prannaturale, e le sue parole, come quelle di Gesù, siano tutte di confidenza e di fede. La fede nelle promesse di Dio, la confidenza nell'amore infinito e misericordioso di Cristo: ecco cosa il prete deve offrire come la migliore, la più solida delle consolazioni, a chi è costretto dalla malattia su un letto di dolore, a chi piange accanto alla salma dei propri cari.



Gesù consola i suoi

È soprattutto con i suoi discepoli, con i suoi apostoli, che Gesù si mostra consolatore.

Un giorno, li vede contristati per il loro piccolo numero e per la loro povertà, inquieti di fronte all'incerto avvenire che si apre davanti a loro. Vuole rassicurarli, e li incoraggia: « Piccolo gregge, non temere, perché il Padre ha voluto darti il suo regno ».

Alle folle, il Maestro predica la verità in tutto il suo rigore; annuncia loro la venuta del Figlio dell'uomo nell'ultimo giorno, e i segni terribili che lo accompagneranno. Ma per i suoi discepoli, ha delle parole di conforto; non vuole lasciarli in preda a una così penosa impressione: « Quando queste cose inizieranno ad accadere, alzate la testa e guardate, perché la vostra liberazione è vicina ».

E quando i tre anni di apostolato di Gesù si avvicinano al loro termine, quando sta per lasciare il mondo per ritornare al Padre, ha compassione dei suoi discepoli, agitati e addolorati per la sua prossima partenza. Cerca di consolarli con le parole più dolci: « Il vostro cuore non si turbi. Voi credete in Dio, credete anche in me ». E « Non vi lascerò orfani: tornerò con voi ». E Gesù inizia ad an­nunciare loro un aiuto nuovo. Fedele a quelli che si è scelto, con­tinuerà a vivere in loro attraverso la sua grazia, a vivere con loro nell'Eucaristia; ancora, lo Spirito Santo verrà in essi, li riempirà di luce e di forza e continuerà ad istruirli. « Lo Spirito Santo, il Consolatore, che il Padre mio invierà in mio nome, vi insegnerà ogni cosa, e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto ». « Il vo­stro cuore non si turbi, non abbia paura ». « Se voi rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete al Padre mio e ve lo concederà ». « Come il Padre ha amato me, così io ho amato voi ». « Quando verrà il Consolatore che vi man­derò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, vi ren­derà testimonianza di me » « In verità, vi dico, è conveniente per voi che me ne vada, perché se non me ne vado il Consolatore non verrà a voi; ma se me ne vado, ve lo manderò ».

Durante quest'ultima sera, Cristo riversa le consolazioni più alte e più dolci nel cuore dei suoi discepoli. Mai prima d'ora si è mo­strato così tenero, così confidenziale, così familiare. È perché li vede soffrire... Sente i loro cuori, turbati da terrificanti prospettive, sanguinare già ora per questa separazione, la cui ora si avvicina e che sarà preceduta da avvenimenti così dolorosi. Gesù sa bene che la sofferenza è buona per coloro che gli sono cari; ma, come una madre che ama, vuole, con la delicatezza del suo amore, addolcire la tristezza dei suoi discepoli prediletti.

La Passione inizia. Gesù sta per bere il calice dell'amarezza. Lungi dal ripiegarsi su di sé, dimentica se stesso per consolare i suoi. Piegato sotto il peso della croce, trova ancora la forza di in­coraggiare le donne che lo seguono da vicino. Appeso al patibolo infame, preda dei dolori più atroci, cerca ancora di consolare quelli che lo circondano con la morte nel cuore. Al ladro pentito, si af­fretta ad annunciare la gioia che gli ha riservato: « Fatti coraggio - sembra che dica - la tua sofferenza non sarà lunga; oggi stesso tu sarai con me in Paradiso ».

Vuole consolare la Vergine, sua madre, e Giovanni, il suo di­scepolo fedele. Li vede immersi in un dolore profondo, agonizzare con lui con lo strazio del pensiero della separazione. Maria dovrà abitare da sola, come una derelitta, senza sposo e senza figlio, senza difesa e senza sostegno? Questo abbandono sarebbe duro, questa solitudine amara. E Giovanni, Giovanni che ha sacrificato a Cristo tutti gli affetti della terra, che ha lasciato tutto per unirsi a lui, dovrà restare senza guida e senza amore? Dovrà privare la sua gio­vinezza di ogni tenerezza umana? No. Gesù trova per ciascuna di queste due persone che ama un mezzo di addolcire la sofferenza. Le dona l'una all'altra. Maria incontrerà un altro figlio in Gio­vanni. Giovanni potrà portare su Maria quell'affetto filiale e puro che aveva per Gesù. Tutti e due saranno uno nell'amore di Cristo; tutti e due si consoleranno nel suo ricordo gioioso, lavorando a diffondere la sua dottrina, a farlo conoscere e amare.

Gesù, scomparendo al nostro sguardo, non ci ha lasciati orfani. Ha inviato alla Chiesa lo Spirito Santo e ha formato, per conti­nuare sulla terra la sua missione di Consolatore, il prete, quest'altro se stesso, nel cuore del quale ha fatto passare il suo Cuore.

È magnifica questa missione del sacerdote. È dolce, ma è diffi­cile e delicata. Per compierla degnamente, bisogna che egli conosca le sofferenze dei suoi fratelli; che si sforzi di comprendere i dolori più profondi, quelli che dopo il peccato hanno invaso l'umanità, e che sono sovente tanto più penosi quanto più sono intimi e segreti. L'anima e il cuore dell'uomo sono due strumenti pieni d'armo­nia; ma fragili e delicati. La mano che li suona deve essere leggera, eppure sicura e senza maldestre esitazioni. Sia che si tratti dei tormenti del cuore, o delle torture dell'anima, è necessario al prete che consola un discernimento perfetto. Le anime sono molto di­verse: la stessa prova, lo stesso dolore non produce, in ciascuna di loro, lo stesso tipo di sofferenza; ad ogni anima, ad ogni ferita è necessaria una consolazione differente.

La conoscenza dei dolori umani attraverso l'intelligenza non è sempre sufficiente al prete per essere un consolatore efficace. La con­solazione deve giungere al cuore sofferente; e deve partire da un cuore che sa compatire. Il prete deve formare il suo cuore sul mo­dello di quello di Gesù. Deve far parte con lui di tutti i suoi senti­menti di compassione e di dedizione a Dio.

Il prete che consola deve essere, come Gesù, colmo di bontà, di pazienza, di dolcezza. L'altezza, la purezza dei suoi sentimenti gli fanno cogliere, con tatto squisito, tutti i dolori che gli sono confi­dati. Come Cristo, ama chinarsi su di loro. La sua missione è di asciugare le lacrime, di riportare la pace nelle anime turbate, di of­frire la gioia di Dio a chi è triste e abbattuto.

Abbiamo detto « la gioia di Dio », perché bisogna che il prete si guardi bene dall'offrire consolazioni soltanto umane. Le verità che predica vengono da Dio; la parola che rivolge agli uomini è la stessa parola di Dio; le consolazioni che offre devono essere quelle che nascono dall'amore di Gesù. Amore infinitamente buono e pronto alla compassione, ma anche sovranamente forte e ancorato in Dio.

Il prete deve stare attento soprattutto a questo: innalzare gli uomini, farli salire nel momento della prova, impedire loro di ripiegarsi su se stessi. Il dolore è un bagno salutare e fortificante che tempra gli uomini e li purifica; ma non bisogna che consolazioni soltanto umane o parole sdolcinate vengano a distruggere la sua azione benefica.

Cristo, nella parabola del Buon Samaritano, sembra indicarci l'aiuto pieno di carità, dolce e forte al tempo stesso, che il prete deve offrire a chi, ferito nel profondo di sé, incontra sulla sua strada. Sulla strada che va da Gerusalemme a Gerico, un uomo è steso a terra, nudo e ferito, privo di forze e di soccorso. I viaggia­tori che gli passano accanto e lo vedono in questo stato pietoso, restano indifferenti, e si allontanano senza neppure uno sguardo di pietà, una parola di conforto. Un Samaritano, a sua volta, arriva; si commuove, ha compassione. Subito si avvicina al ferito, fascia con cura le sue ferite e vi versa del balsamo e del vino. Poi, sollevan­dolo fra le sue braccia, con precauzione, delicatamente, lo carica sulla sua cavalcatura e lo accompagna alla più vicina locanda. Là, gli prodiga le sue cure e, costretto a partire l'indomani, lo affida a persone caritatevoli e provvede alle sue necessità.

Il prete, questo degno continuatore dell'opera di Cristo, quando incontra il dolore sulla sua strada non gira l'angolo. È troppo buono, troppo simile al suo Maestro per non essere colpito dalle disgrazie dei suoi fratelli. Si avvicina, si piega su quest'uomo spogliato di ogni affetto, su quest'anima ferita dalle lotte della vita. Lega con le fasce della più tenera carità queste ferite sanguinanti; versa su di loro balsamo e vino: la dolcezza della sua compassione e la forza potente della fede. Rialza con l'ardore della sua disponibilità que­st'uomo indebolito e, dolcemente, lo accompagna verso Dio. Lo fa entrare a poco a poco nelle dimore della Carità del Padre dove il medico del cielo penserà lui, con il balsamo del suo amore infinito, a curare le ferite della sua creatura più amata.

E’ questa la missione del prete che consola, missione di miseri­cordia e di amore. In lui, è Cristo che continua a passare per le strade facendo del bene, versando i tesori dell'amore di Dio, la sovrabbondanza della sua anima penetrata dall'amore infinito, su tutto ciò che geme e soffre. L'unione profonda all'amore di Cristo, la dipendenza assoluta dalle mozioni dello Spirito Santo, faranno del prete quel perfetto consolatore che l'umanità sofferente invoca, e di cui essa ha bisogno per continuare senza indebolirsi il cammino della vita.



Spirito Santo, divino consolatore, inviato da Cristo alla nostra deso­lazione, riempi il cuore della tua Chiesa, il sacerdozio, del fuoco della tua carità. Gli uomini gemono sotto il peso delle sofferenze; hanno bisogno, per continuare il cammino verso l'eternità attraverso le ombre del dolore, di essere guidati, sostenuti, consolati.

Spirito, Amore sostanziale del Padre e del Figlio, effondi sui sacerdoti l'abbondanza dei tuoi doni. Versa nei loro cuori i sentimenti della compas­sione, della tenerezza che riempiva il cuore di Gesù, perché, illuminati da te, penetrati dalla carità del Cristo, possano offrire al mondo, attra­verso un rinnovamento di fede e di amore, la consolazione a ogni soffe­renza, e calmare ogni dolore. Amen.



CAPITOLO V

Gesù si offre in sacrificio

Figure del sacrificio


Una grande tristezza si è sparsa nella natura: l'uomo, il signore della creazione, che doveva guidare verso l'incontro con Dio tutte le altre creature, ha abbandonato lui per primo la sua via: ha offeso il suo Creatore e suo Dio. Ha peccato. Dopo i pochi istanti di pia­cere che hanno seguito il suo errore, Adamo colpevole è stato assa­lito dal timore. Conosce la bontà di Dio, ma sa anche che è giusto e potente, e il pensiero di questa potenza e di questa giustizia di Dio che stanno per colpirlo lo getta in un terrore folle. Per la pri­ma volta, l'uomo ha paura di Dio e, udendo la sua voce risuonare nel giardino, quella voce grave e dolce che fino a questo momento non gli ha indirizzato che parole di un Padre, si nasconde tutto tremante. Presto la terribile sentenza è pronunciata? Seguito dalla sua infelice compagna, Adamo lascia il Paradiso delle delizie per iniziare, sulla terra divenuta meno fertile e sotto un cielo troppo sovente offuscato dalle nubi, una vita di lavoro, di lotta e di do­lore che sarà, fino alla fine dei tempi, l'eredità dei suoi discendenti.

Di tanto in tanto, il ricordo dell'uomo si riporta ai giorni fe­lici dell'Eden, ai giorni della sua intimità con il Creatore, e li rim­piange nelle lacrime: cerca di ritrovare la felicità perduta, di riav­vicinarsi a Dio, di entrare, come una volta, in comunicazione con lui. Ma il Cielo è chiuso per lui, e sordo alla sua voce; invano l'uomo peccatore cerca di riannodare con il suo Creatore quei lega­mi d'amore che il peccato ha spezzato. Obbligato alla lotta contro gli elementi scatenati, contro le forze di quella natura ora ribelle, ma che egli aveva visto nei primi giorni della creazione sottomessa e meravigliosamente ordinata, avverte più profondamente la po­tenza infinita di Dio, la sua grandezza, il suo potere sovrano e, penetrato dal senso della sua debolezza e del suo nulla, si inginoc­chia in adorazione. Se ha capito la grandezza di Dio, l'uomo è an­cora più colpito dalla sua bontà. Dio onnipotente lo poteva annien­tare dopo il peccato, oppure, volendo conservarlo per una lunga espiazione, poteva distruggere queste splendide bellezze, queste in­numerevoli ricchezze dell'universo che, sia pure più difficili da rag­giungere, sono tuttavia ancora alla sua portata. Così, nella sua sven­tura, l'uomo riconosce la bontà di Dio, e il suo cuore è spinto a levare verso il cielo un canto di ringraziamento e di lode.

Ma allora ritornano alla sua mente le ultime parole che Dio, irri­tato, ha pronunciato contro di lui cacciandolo dall'Eden. Rivede la spada di fuoco dell'angelo che custodisce la porta del giardino, e il ricordo delle terribili manifestazioni della giustizia di Dio ferma sulle sue labbra il canto di riconoscenza, e lo gela nel terrore. Tre­ma, si confonde; vorrebbe riparare l'offesa a costo della vita; e, al grido disperato che lancia verso il cielo, non c'è nessuna risposta di perdono.

A poco a poco, tuttavia, la pace ritorna in quest'uomo torturato. Si ricorda la divina promessa di un Salvatore e, inginocchiandosi sulla terra nuda, così spesso bagnata dal sudore e dalle lacrime, il colpevole si sforza, con i suoi gemiti e l'ardore veemente della preghiera, di far scendere fino a lui la misericordia promessa. Così, quasi ad ogni momento, nella sua angosciosa solitudine e sotto il peso schiacciante del suo peccato, il primo uomo è com­battuto e straziato da sentimenti diversi. E un giorno, volendo riu­nire in un solo gesto l'espressione intima e personale della sua adorazione, della sua riconoscenza, della sua riparazione e delle sue instancabili preghiere, per presentarla a Dio, offre il suo primo sa­crificio...

Sotto la volta del cielo le cui azzurre profondità sono colme di mistero, al centro di questa vasta terra appena popolata, su un blocco di granito che gli serve da altare, l'uomo deposita la sua offerta. È senza valore, certo; ma l'uomo la pensa preziosa, perché gli è costata preoccupazioni e fatiche, e gli sembra utile. Sono frutti strappati dal lavoro delle sue braccia alla terra poco fertile; è un animale che ha nutrito con sollecitudine e allevato con fatica, pri­mizia del suo gregge. Presenta questa offerta a Dio, e la distrugge. La immola alla gloria del Signore dei cieli, sperando così di toc­care il suo cuore e ottenere il suo perdono...

E l'Altissimo si degna di chinarsi verso l'uomo pentito. Vedia­mo, infatti, ai primi giorni del mondo, Abele offrire a Dio i suoi sacrifici, e il Signore guardare favorevolmente Abele e le sue of­ferte. Anche in seguito, l'Altissimo continua a gradire questi sacri­fici, e qualche volta manda dal cielo una fiamma che consuma l'olo­causto; risposta misericordiosa ai deboli sforzi tentati dall'uomo per riavvicinarsi al suo Creatore e suo Dio.

Ma come può, l'Essere supremo, il Dominatore dei mondi, gra­dire un sacrificio del genere? Come è possibile che un sacrificatore colpevole e una vittima senza intelligenza possano glorificare Dio, rappacificarsi con la sua giustizia, ottenere i suoi doni?

Dio è Amore. Vedeva il peccato coprire con la sua ignominia l'uomo, e molto prima che all'uomo venisse in mente di offrirgli un sacrificio, nell'intimità dell'Amore Infinito si tenne consiglio. Il Verbo, Figlio unico del Padre, si offriva per pagare il debito del­l'umanità colpevole. Si sarebbe incarnato nel tempo e, insieme Sa­cerdote e Vittima, si sarebbe immolato volontariamente. Ogni glo­ria sarebbe così stata tributata alla maestà di Dio; la giustizia sarebbe stata soddisfatta da questa riparazione di valore infinito; i legami formati dall'amore tra il Creatore e la creatura, e spezzati dal peccato, si sarebbero riannodati per sempre in questo sacrificio divino.

Il Padre dei cieli e lo Spirito d'amore erano stati d'accordo alla proposta della Sapienza increata; la giustizia si era vista disarmata dalla misericordia; la potenza e la bontà si univano per preparare un capolavoro: Gesù Cristo, Sacerdote di Dio, Vittima dell'unico sacrificio degno della Maestà più alta. Ed ecco come i sacrifici im­perfetti offerti dall'uomo sulla terra erano graditi a Dio: la Trinità vedeva in loro la figura, il simbolo di quel Sacrificio del Verbo incarnato che sarebbe stato offerto un giorno e che avrebbe operato la riconciliazione definitiva tra il cielo e la terra.

L'umanità, disperdendosi, portava ovunque l'idea del sacrificio. Non vi è alcun popolo, alcuna religione che non abbia un sacrificio alla base del suo culto. Ma, per la perversione della sua intelli­genza e del suo cuore, l'uomo doveva a poco a poco perdere la conoscenza del suo Dio, ed è a miserabili idoli che, quasi ovunque, offrirà i suoi sacrifici. Solo il popolo eletto, la nazione santa chia­mata a conservare il culto del vero Dio, continuerà ad offrirgli oblazioni, fino al giorno in cui ciò che è imperfetto lascerà il posto a ciò che è perfetto, il sacerdote della nuova alleanza offrirà alla Maestà di Dio l'unica vittima che egli può gradire.

Sotto l'Antico Testamento nulla era parso perfetto e completo. Il sacerdozio levitico, che era come l'anima della Legge, era debole e impotente. Ma un altro sacerdote doveva sorgere, nell'ordine di Melchisedech, che, sacrificando una vittima santa, pura e gradita a Dio, avrebbe portato alla giustizia perfetta tutti coloro che dove­vano essere santificati.



Il sacrificio di sangue

Era venuto il tempo che la legge della grazia avrebbe abolito la legge del timore. La lunga attesa dei patriarchi, i sospiri ardenti dei profeti, i gemiti dell'uomo avevano chiamato in causa la Miseri­cordia: il Verbo si era incarnato... Nell'ombra della notte, mentre nel più alto dei cieli gli angeli cantano il gloria, sulla terra, nel­l'umiltà di una stalla, il Sacerdote della nuova alleanza fa il suo in­gresso. E’ appena nata la Vittima santa che egli deve immolare... È là, stesa in un'umile mangiatoia, circondata da animali privi di pre­gio, in attesa dell'ora, ancora lontana, della grande immolazione. La Vergine Maria, madre immacolata, prendendo in braccio il corpo fragile di suo Figlio, lo alza verso il cielo e lo offre al Padre.

Non si può dire il valore infinito di questo primo sacrificio, in cui Gesù appena nato offre se stesso, nella pienezza della sua volontà, preludio al sacrificio supremo del Calvario; e in cui la Vergine, nello slancio generoso dell'amore, malgrado lo strazio del suo cuore di madre, offre in anticipo il frutto del suo ventre all'immolazione della croce.

Durante trent'anni, nel segreto del loro cuore, il Figlio e la Madre rinnoveranno in ogni momento questa oblazione. Il giorno della circoncisione, durante la presentazione al tempio, il sacrificio sarà più solenne; ma durante gli anni dell'esilio in Egitto, nella vita calma e silenziosa di Nazareth, proseguirà: nascosto agli sguardi d'uomo, non sarà però meno efficace e sublime agli occhi di Dio. Gesù rimarrà, durante questi anni, Sacerdote e Vittima: Sacerdote, Mediatore potente tra Dio e l'uomo; Dio e Uomo insieme, l'unico quindi degno di avvicinarsi a Dio, di immolargli una vittima senza macchia, di offrirgli il sacrificio di adorazione, di lode, di ricono­scenza che Dio merita; degno di intercedere per i suoi fratelli pec­catori; degno di ottenere, con la sua preghiera, i doni dell'infinita Bontà. Vittima santa, sempre offerta, la sola capace di essere com­pletamente gradita, e il cui profumo, salendo fino al trono di Dio, pacifica la sua giustizia e ottiene misericordia.

Gli anni passeranno in questa offerta misteriosa. A poco a poco Gesù, Sacerdote e Vittima, arriverà alla pienezza dell'età e lo ve­dremo, nelle sinagoghe e sotto il portico del Tempio, fare impal­lidire con la sua sapienza l'erudizione e la falsa scienza degli scribi, dei dottori e dei sacerdoti.

Presto, questo tempio magnifico, innalzato per la gloria di Jahwè in tutta la possenza della sua architettura, sarà distrutto, e non ne resterà pietra su pietra. Non importa. Per il Sacerdote divino, la splendida costruzione di Salomone è un tempio indegno: l'uni­verso è il suo tempio, ed è in ogni luogo e in ogni tempo che vuole compiere le funzioni del suo sacerdozio e innalzare sacrifici. Se è sacerdote, è innanzitutto sacrificatone, e l'altare di bronzo utilizzato per offrire gli olocausti non era degno della Vittima che doveva offrire.

Questa Vittima, è Gesù. Appena sarà uscito dall'ombra della sua vita nascosta, appena sarà stato riconosciuto dal Precursore, che gri­derà di lui: « Ecco l'Agnello di Dio, ecco colui che cancella il pec­cato del mondo », Gesù sarà l'Agnello divino della nuova Pasqua, il cui sangue sparso preserverà dalla distruzione quelli che ne sa­ranno segnati; le sue ossa saranno consumate dal fuoco dell'amore, la sua carne sarà mangiata in un banchetto eterno.

Così, durante gli ultimi anni della sua vita mortale, Gesù ci apparirà sempre, e ogni volta, Sacerdote e Vittima. Sacerdote, quan­do lo vediamo prostrato in campagna o sulle cime dei monti, insi­stendo nella preghiera con le mani levate al cielo, intercedendo pres­so il Padre per gli uomini. Lo è nella sua predicazione, nel suo insegnamento paziente, nella consolazione che sparge sul dolore. Lo è soprattutto quando sacrifica, quando immola, per la gloria del Padre e la salvezza degli uomini, il suo corpo, con dolori di ogni genere in attesa della croce.

Vittima, lo è senza sosta: nel suo digiuno solitario di qua­ranta giorni, nelle fatiche dei suoi viaggi apostolici, nelle privazioni che si impone, negli smarrimenti del cuore, nel sudore di sangue al Getsemani, nelle torture della sua anima, nell'offerta sempre rin­novata della sua vita, nell'accettazione del supplizio.

Il giorno del grande sacrificio, Cristo, con i paramenti purpurei del suo sangue, la fronte cinta dalla corona che i soldati del pre­torio hanno costruito per lui, avanza nella maestà del suo sacer­dozio regale, seguito dal corteo della folla che, lentamente, lo ac­compagna sui pendii del Calvario. Giunto in cima, di fronte alla folla attenta, la Vittima si stende sull'altare, e il sacrificio prose­gue fino alla completa immolazione.

Gesù appeso alla croce è Sacerdote e Vittima. Sacerdote, perché si immola volontariamente, nel pieno possesso delle sue facoltà. Da poche ore ha risposto a Pilato: « Tu non hai alcun potere su di me, se non quello che ti è stato dato dall'alto » Ha appena detto, in agonia: « Padre, nelle tue mani affido il mio spirito ». Ed ora grida, nello slancio supremo del suo sacerdozio: « Tutto è com­piuto! ».

Vittima. Completamente. Le sue piaghe non si contano; è tor­mentato dai chiodi, dalla tensione dei nervi, dai dolori innumerevoli che lo torturano, dalla sete che lo brucia... E il suo cuore soffre di fronte alle lacrime e allo strazio dei suoi, all'ingratitudine di molti che ha colmato di beni, al disprezzo della folla che solo cinque giorni prima lo acclamava, all'odio dei carnefici che vogliono la sua morte.

Quasi dimenticando la propria divinità, sembra abbandonato dal Padre dei cieli, agonizza nella notte senza aiuto e senza luce: « Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? ».

Tutto è compiuto. Gesù-sacerdote ha immolato Gesù-vittima. Il cielo si è riavvicinato alla terra. Dio ha perdonato all'uomo il suo peccato. Attraverso questo sacrificio di sangue, Cristo ha lodato splen­didamente la Bontà infinita, offrendole il più grande omaggio di adorazione che essa possa ricevere. Ha reso grazie al Padre per tutti i suoi beni, per la sua generosità che si estende su tutta la crea­zione. Ha rappacificato la giustizia di Dio, che l'uomo aveva offeso con il peccato e che esigeva una riparazione completa. Ha solleci­tato, infine, e ottenuto, tutti i favori, tutti gli aiuti, ogni perdono di cui la nostra miseria ha bisogno. Tutto è compiuto.



Il sacrificio eucaristico

Gesù Cristo è morto. Il mondo è riscattato, la pace è fatta tra cielo e terra. Sull'altare della croce, la giustizia e la misericordia si sono abbracciate, e l'Amore Infinito, riversandosi sull'umanità at­traverso la Redenzione, le rende la vita divina che il peccato le aveva rubato.

Ma se Cristo ha voluto offrirsi una volta per tutte a Dio Pa­dre in dono di amore per la salvezza dell'uomo, ha voluto ancora di più. Il peccato, malgrado la grazia sovrabbondante della Reden­zione, doveva continuare a trasmettersi di generazione in generazione, tanto la natura umana era rimasta debole, e tanto sono audaci e arroganti i nemici che la circondano. L'uomo sente ogni giorno que­sto bisogno profondo di innalzarsi verso Dio per offrire un sacrifi­cio. Per questo, il sacerdozio di Cristo non è finito con la sua morte: Gesù è Sacerdote in eterno, e anche il suo sacrificio in qualche modo è permanente. L'uomo, debole e peccatore, potrà rendere al suo Dio il culto di onore e di lode che gli è dovuto: potrà sempre immolare l'unica Vittima che Dio accetta.

È un mistero della potenza, della saggezza e della bontà di Dio. Non bastava il sacrificio del Verbo incarnato? Ci vorranno altre im­molazioni dopo la Risurrezione? Lasciamo il Calvario, su cui il cor­po di Gesù, inerte e freddo nella morte, spicca livido sullo sfonda delle tenebre che lo circondano. Ritorniamo con il pensiero a quella sera in cui Gesù e gli apostoli, riuniti nel Cenacolo, celebravano la Pasqua antica, chiudendo così la catena del culto antico e dell'an­tica alleanza, alla quale stava per essere unita la nuova alleanza e il nuovo culto.

Era l'ora della Cena. Il Cristo stava per essere consegnato. Preoc­cupato di lasciare alla sua Chiesa, a questa Chiesa così cara che aveva fondato allora, un sacrificio visibile e perpetuo, il suo amore inventò l'Eucaristia. Sacerdote dell'ordine di Melchisedech, nella mae­stà del suo sacerdozio eterno, Cristo offre al Padre il suo corpo e il suo sangue sotto le apparenze del pane e del vino, e li offre ai suoi discepoli che contemporaneamente costituisce sacerdoti della nuova alleanza. « Fate questo in memoria di me » dice agli apo­stoli e ai loro successori nel sacerdozio, ordinando loro di offrire la sua carne e il suo sangue in sacrificio incruento.

Quest'ultimo doveva non soltanto rappresentare il sacrificio della croce ma anche applicare la sua realtà di salvezza alla remissione dei peccati che si sarebbero commessi durante i secoli. Già il profeta dice: « Una offerta immacolata sarà offerta in ogni luogo nel suo Nome, che sarà grande fra le nazioni ». Così, nel Cenacolo, nella stesso momento l'Amore Infinito ha operato due meravigliose crea­zioni: l'Eucaristia e il Sacerdozio.

L'Eucaristia. Gesù vivo, nella verità della sua carne e del suo sangue, con il suo cuore ardente e puro, con la sua anima, con le due nature in una sola persona. Gesù Cristo, come fu nel cammino della sua vita, e come è nella gloria alla destra del Padre, come sarà per tutta l'eternità. Gesù Cristo, Dio e uomo, il Verbo umanizzato, nella maestà sublime della potenza, della saggezza, della bontà, nello splendore della sua divinità; nell'umiltà profonda, nella dolcezza, nella misericordia della sua umanità. Gesù Cristo...

E Gesù Cristo Vittima... Offerto in oblazione volontaria, non soltanto appeso una volta per tutte alla croce, ma ogni giorno, in ogni istante, nell'ombra della chiesa, in fondo al Tabernacolo, nel ciborio in cui vuole riposare... Immolato non soltanto una volta sul Calvario da carnefici indegni, mentre grida al Padre, ma in tutto l'universo, da ciascuno dei suoi preti, sull'altare del sacrificio, nel silenzio del pane e del vino... Gesù Cristo: divenuto nutrimento dell'uomo, viatico del suo viaggio verso l'eternità, bevanda che fa germogliare in lui il fiore della verginità e i frutti delle virtù... L'Eucaristia: tutti i beni, l'unico bene, Dio; e tutte le grazie di redenzione, di salvezza, di vita eterna.

Uomo, questa è la tua gioia. Il tuo Dio è con te. È tuo. Si è fatto tuo nutrimento per purificarti, fortificarti, renderti simile a lui. Si dà a te tutto intero, si sacrifica per te. Adora, prostrato nella riconoscenza, la generosità del tuo Dio.

L'Eucaristia è per te; per te è anche il sacerdozio, attraverso il quale l'Eucaristia ti è data. Rallegrati. Cristo, il tuo sacerdote è eternamente vivo con te. Puoi trovarlo al tuo fianco in ogni ne­cessità della tua vita. Se hai sete di verità, ti istruisce con la sua luce; se hai peccato, è là per assolverti e risollevarti; se soffri, se il dolore ti tormenta, ti consola; se vuoi trovare un Mediatore che si avvicini in nome tuo alla gloria di Dio, che presenti i tuoi sacri­fici al Signore con la certezza di essere sempre accolto con favore, Cristo stesso sale i gradini dell'altare e parla per te.

Gesù Sacerdote, eternamente vivo, vive nel sacerdozio. E’ lui il Sacerdote per eccellenza, l'unico Sacerdote dell'Altissimo, senza il quale nessun sacerdozio può esistere. Il sacerdozio antico che lo aveva preceduto traeva già da lui, nella fede nella promessa e nella speranza della sua venuta, l'efficacia delle sue preghiere e dei suoi sacrifici. Il sacerdozio nuovo che Gesù forma, uscito da lui, inne­stato in lui, soltanto da lui riceve l'essere e le sue virtù. Gesù solo è sacerdote nei preti della nuova Legge. Attraverso di loro, esercita il suo sacerdozio nel tempo; con loro, lo continuerà eternamente nella gloria.

Se Cristo vive nell'Eucaristia, se vive nel sacerdozio, esistono legami ben stretti tra sacerdote ed Eucaristia. È Gesù Cristo stesso questo legame. Allora si comprende il culto fervente, il rispetto, l'amore del prete per questo Gesù nascosto nel sacramento, che si rimette alle sue mani e si fa così vittima, certo, per tutti i fedeli, ma soprattutto per i suoi preti.

Lo dice Gesù nella Cena, consacrando il calice del suo sangue: « Questo - dice agli apostoli - è il calice del mio sangue che sarà sparso per voi e per tutti ». Anche in questo momento solenne, Gesù distingue dapprima i suoi preti; gli altri fedeli si presentano solamente dopo di loro al suo pensiero.

È innanzitutto per i preti che si fa sacramento, per essere il loro compagno di strada nella ricerca degli uomini, il loro amico fedele, il loro consolatore nel giorno della prova, il nutrimento di tutta la loro vita. E’ attraverso di loro che vuol essere sempre di nuovo sacrificato, attraverso di loro che vuol essere dato a tutti. L'Eucaristia è il tesoro del prete. La custodisca con vigilanza, la distribuisca con generosità, perché quanto più vi attingerà per arric­chire i suoi fratelli, tanto più ne sarà ricco lui stesso.

Gesù Cristo è nell'Eucaristia. Il prete dunque deve avere per questo sacramento d'amore un amore profondo. Gesù Cristo è nel prete. Vivo, e vi agisce mediante il suo sacerdozio eterno. Il prete allora rispetti se stesso, e sia attento a far trasparire Gesù da ogni sua azione.

Ma Gesù è, ovunque e sempre, Sacerdote e Vittima. L'uomo scelto da lui per continuare il suo sacerdozio entra in partecipazione con questo stato divino ed è anche, insieme, sacerdote e vittima. E’ sacerdote di Dio, sacrificatore della Vittima più grande che, sola, ottiene misericordia, mediatore tra la Maestà di Dio e gli uomini suoi fratelli. Si deve vedere risplendere in lui la potenza dolce, la gravità serena, l'assiduità nella preghiera, la benevolenza del Cristo-­sacerdote. Il prete è vittima: lo si deve perciò vedere umile e dolce, sempre offerto e che sempre si offre, dato in sacrificio perpetuo come il suo Signore.

Sacrificare e sacrificare-se-stesso, questa è stata la vita di Cri­sto. Questa deve essere la vita del prete. Ma « per voi che mi avete seguito - dice Gesù - che mi avete seguito nelle mie prove e nelle mie gioie, che avete partecipato alla mia vita, che avete continuato sulla terra la mia esistenza di vittima e di prete, per voi che mi avete seguito, quando, al tempo della rigenerazione, il Figlio dell'uomo sarà assiso sul trono della gloria, anche voi siederete su dodici troni, e giudicherete le dodici tribù di Israele ».



Eterno Padre, Dio onnipotente, tu che ci hai amato fino ad offrire il tuo unico Figlio per essere insieme nostro sacerdote e nostra vittima, nostro mediatore sempre ascoltato e nostro riscatto sovrabbondante, guar­da, ti supplichiamo, con il tuo sguardo d'amore i nostri altari.

Riconosci nei preti che ti offrono il sacrificio le immagini vive del tuo Figlio. Come lui, passano facendo del bene, diffondendo la luce, spargen­do il perdono, consolando chi soffre, bevono allo stesso calice, lo seguono al Calvario e diventano insieme a lui sacrificio di soave odore. Uniti con lo stesso sacerdozio al tuo Figlio, sono con lui dispensatori della tua ca­rità infinita e dei tuo amore misericordioso.

Fa', Padre dei cielo, che i preti di Cristo siano resi, per mezzo della tua grazia onnipotente, così conformi a Colui che è loro esempio che tu possa dire vedendoli: Ecco i miei figli amatissimi, in cui mi sono com­piaciuto; ascoltateli.

Amen.



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07/09/2009 15:08

PARTE SECONDA

LE VIRTU' SACERDOTALI DEL CUORE DI CRISTO



CAPITOLO I

Gesù Cristo modello del sacerdote


Gesù è il modello di ogni uomo. È lo stampo in cui gli eletti devono essere gettati prima di aver parte al regno di Dio. Ma se Cristo è il tipo che ognuno deve riprodurre; se ogni uomo deve regolare il battito del suo cuore su quello del cuore dell'uomo-Dio, c'è però qualcuno, fra gli altri, che deve più particolarmente ancora conformarsi a lui.

Sono quei privilegiati chiamati a seguire Cristo più da vicino; quegli uomini felici che vivranno una vita in tutto simile alla sua e che, nutrendosi della sua parola, seguendo il suo esempio, saranno, nel mondo, immagini viventi del Redentore: sono i preti di Gesù. Gesù-sacerdote, continua nella gloria il suo sacerdozio eterno. Ma vuole che lungo i secoli, degli altri se-stesso proseguano nel mondo la sua opera redentrice.

Un tempo Dio si era riservato la tribù di Levi. L'aveva presa per sé, destinata e consacrata al suo servizio. Così, sotto la legge della grazia e dell'amore, Dio ha destinato a sé un gruppo scelto. Chiama, in mezzo al Popolo di Dio, uomini più specialmente amati da lui. Li rende, più degli altri, conformi all'immagine del suo Fi­glio. Li colma di grazie, li arricchisce con doni maggiori, dà loro più amore. Li colma dei suoi privilegi e, rivestendoli di una parte della sua potenza, li rende, con il sacramento, sacerdoti e re, mini­stri della sua giustizia e dispensatori della sua misericordia.

Il prete è un altro Cristo: è l'unto del Signore. Segnato dal si­gillo del sacramento, passa in mezzo agli uomini, dominandoli dal­l'altezza della sua dignità e abbassandosi misericordiosamente fino alle loro miserie. Passa come passava Gesù; facendo il bene, gua­rendo ogni infermità e ogni debolezza degli uomini, offrendo la verità alle intelligenze, la consolazione al dolore, il perdono al pen­timento.

Passa come Gesù: nel mondo, ma non del mondo. Tocca ogni genere di impurità, ma rimane puro; si scontra con l'odio, ma rimane buono. Passa senza voltarsi indietro, senza costruire nulla di caduco per il futuro. Pensa all'oggi; versa la sua carità nel cuore dei più deboli e infelici.

Passa, ma la sua azione rimane. Se la sua anima di prete ripro­duce l'anima di Cristo; se il suo cuore si modella sul cuore di Cri­sto; se è così, allora non è più lui che agisce, ma Cristo che agi­sce in lui.

« Il cuore di Paolo è lo stesso cuore di Gesù ». Dovremmo sempre poter dire lo stesso di ogni prete. Allora non ci stupiremmo se questi preti ottenessero risultati, miracoli di grazia sull'esempio del ministero di Paolo. Ma troppo spesso la grazia della consacra­zione non ha trasformato il sacerdote. Il suo cuore è rimasto freddo, la sua anima troppo umana; il suo spirito non ha imparato ad innal­zarsi oltre la volgarità, e invece di essere, per la luce delle sue virtù e della sua santità, un faro luminoso che nella notte e nella tem­pesta conduce le navi al porto, è anche lui una misera barchetta in balia delle passioni.

Non è salito all'altezza da cui avrebbe potuto rischiarare gli uomini in difficoltà; non ha voluto restare sullo scoglio da cui avrebbe potuto tendere la mano ai naufraghi della vita. Forse la schiuma delle onde avrebbe qualche volta bagnato i suoi piedi; il vento si sarebbe forse scatenato contro di lui; ma sarebbe rimasto stabile, forte della forza di Dio.

Il prete non deve certo ritirarsi nella solitudine e nascondersi nell'ombra della sacrestia. Bisogna che viva in mezzo ai suoi fra­telli, nella loro vita, pronto a raccogliere su di sé, nella carità, ogni loro miseria e ogni loro dolore. Bisogna che sia là, preso da tutti e sempre, come Gesù, pronto a donarsi, frumento d'amore offerto per la vita di tutti. Ma se deve vivere in mezzo agli uomini, un prete non deve vivere una umanità banale. Perché i suoi fratelli - trovino in lui confidenza, perché possano appoggiarsi su di lui, bi­sogna che lo vedano più forte di loro, più illuminato, più puro, più disinteressato, migliore, autenticamente santo.

Studiando l'amore di Gesù, appropriandosi delle sue virtù, il prete riuscirà a trasformare il suo cuore. Vada verso quel cuore di­vino, vi penetri con una meditazione anch'essa carica di amore; si lasci soprattutto penetrare dalla sua vita. Si sforzi di pensare come Gesù, di amare come lui, di vivere come lui. Diventi, nell'unione a Cristo, un solo sacerdote con lui, un solo cuore e un'anima sola con il Signore.

Gesù Cristo, Dio e uomo, racchiude in sé la pienezza di ogni dono e virtù. Ma, fra tutte le perfezioni, alcune riguardano di più l'intelligenza, altre il cuore, altre l'esterno. La sapienza di Dio, la sua saggezza, riguardano per esempio soprattutto l'intelligenza; la carità e la misericordia, il cuore; la modestia e le attrattive della Persona di Gesù, l'esterno.

Tuttavia, se consideriamo il cuore di Cristo come il simbolo, l'organo, il tabernacolo del suo amore infinito, e se pensiamo che questo amore è il principio e il motore delle sue azioni, delle sue parole, della sua vita di Salvatore, potremo chiamare virtù del suo cuore, del suo amore, tutto quanto vedremo in lui.

Quando Gesù chiama i suoi preti al suo cuore, li chiama alla sorgente del suo amore; li invita a dissetarsi alle sorgenti della ca­rità di Dio; ma vuole anche invitarli ad approfondire lo studio delle sue perfezioni. Vuole i suoi preti simili a lui, santi come lui, buoni come lui, autenticamente formati sul suo cuore.

Tra le virtù del cuore di Cristo, alcune sembrano essere partico­larmente virtù sacerdotali. Lo si vede nei suoi rapporti di sacer­dote con il Padre e con gli uomini che ha frequentato - e ne ha frequentati molti - per essere di esempio a quanti dopo di lui dove­vano continuare la sua opera di sacerdote e di apostolo nel mondo.

Cristo, maestro adorato, rivela tu stesso ai preti le tue virtù. Sono degne di adorazione perché sono di Dio; ma, siccome sono anche umane, possono essere imitate. Tu le hai rese, attraverso l'unzione fortificante della grazia, accessibili alla debolezza dell'uomo, e quando hai segnato il tuo eletto con il sigillo che lo rende, con te, sacerdote per l'eternità, tu lo hai rivestito di luce e di forza.

Fa' riposare sul tuo Cuore quelli che vuoi unire alla tua missione; con­cedi loro di ascoltare i suoi palpiti. Ma più ancora, falli entrare nel tuo Cuore attraverso la contemplazione. Attingano il loro sacerdozio a questa sorgente di amore e verità; vi prendano lo spirito di preghiera e di fedeltà, la disponibilità e la dolcezza, l'umiltà e la purezza, la misericordia e l'amo­re.

Amen.



CAPITOLO II

Lo spirito di preghiera


Era giunto il momento per Gesù di manifestarsi al mondo. Stava per iniziare i suoi viaggi apostolici e mettersi alla ricerca delle pe­core perdute della casa di Israele.

Trent'anni di vita nascosta, trascorsi nel lavoro, nella preghiera e nel silenzio sembravano una preparazione più che sufficiente ai tre anni di vita pubblica. Tuttavia, Gesù non è di questo parere, e lo vediamo, prima di iniziare questa nuova fase della sua vita, spinto dallo Spirito nel deserto. Va a cercare, in una solitudine più pro­fonda, in una penitenza più austera, in una preghiera più ardente e costante, un'ultima e immediata preparazione.

Senza dubbio, Gesù non aveva bisogno di andare a prendere nell'intimità del Padre grazie e illuminazioni che possedeva in se stesso per l'unione della sua umanità con il suo essere Dio. Ma vo­leva esserci d'esempio, e indicare ai suoi sacerdoti, a coloro che dovevano dopo di lui continuare la sua missione, sia l'altezza del loro ministero, sia la necessità di cercare in Dio illuminazioni, doni, grazie esigite dalla loro missione.

La cura delle anime è ciò che c'è di più grande: è il lavoro di Dio. È però difficile, e sarebbe insostenibile per l'uomo, che av­verte la sua debolezza. Quando Dio chiama a questa missione, si impegna, nello stesso tempo, a provvedere il necessario. Tuttavia, se il prete non si mette in comunicazione con Cristo, se non va, con la preghiera, a pescare nei tesori di Dio, rimane vuoto, e si trova, di fronte alla grandezza dei suoi doveri, solo con la sua debolezza e con la sua insufficenza. « Senza di me non potete fare nulla ». È soprattutto nella cura delle anime che si rivela l'impo­tenza dell'uomo.

Spesso, Dio stesso avverte la volontà dell'uomo resistergli, e oc­corre che con i suoi benefici la pieghi, o che la spezzi con la sua potenza. L'uomo non può dominarsi e pretendere di entrare da solo nella via stretta del Vangelo; la parola dell'uomo non scuote le volontà che si ribellano, e l'azione esteriore del prete non può nulla, senza l'azione interiore della grazia nei cuori di coloro cui si rivolge.

Gesù ha pregato non solo per prepararsi al suo sacerdozio; durante i tre anni del suo apostolato, il Vangelo ce lo fa spesso vedere in colloquio con il Padre. A volte, lo vediamo sul monte prolungare la sua preghiera lungo la notte; a volte, abbandonando le folle, cerca un luogo più favorevole alla sua preghiera fra gli olivi del Getsemani o nella tranquilla casa di Betania. Lungo le strade della Giudea o della Galilea, lo vediamo spesso in disparte dal gruppo dei discepoli, raccolto in preghiera.

Ogni volta che sta per compiere qualcosa di grande, si apre al Padre. Quando raggiunge i discepoli camminando sulle acque del lago, è l'alba e arriva dall'aver passato, in solitudine sul monte, una lunga notte in preghiera. Quando vuole aprire le orecchie al sor­domuto, sospira profondamente e leva gli occhi al cielo. Accanto al sepolcro di Lazzaro, dopo aver sofferto di fronte allo spettacolo raccapricciante della morte e della corruzione, Gesù alza le mani e gli occhi verso il Padre, in una preghiera piena d'amore: « Padre, ti ringrazio perché mi hai esaudito. Sapevo bene che mi ascolti sempre. Se parlo così, è per questi che mi circondano, perché cre­dano che sei tu che mi hai mandato ».

Il prete, nel suo ministero, deve spesso camminare sull'orlo del­l'abisso. Deve anche aprire le orecchie ai sordi, e sciogliere la lin­gua ai muti; deve risuscitare alla grazia uomini addormentati nella corruzione del peccato. Non può far tutto questo, se non va a pren­dere in Dio la potenza che gli manca. Per queste imprese, così al di sopra dei mezzi umani, ci vuole l'intervento di Dio.

Dopo la Cena, Gesù prega ardentemente. Prega per la sua Chiesa, per coloro che il Padre gli ha dato, e l'amore trabocca dal suo cuore. In questo momento, è pienamente sacerdote, intercessore tra Dio e gli uomini, ponte tra Dio che è nei cieli e i suoi figli in terra.

Gesù prega per i suoi: prega anche per se stesso. Appena en­trato nell'orto degli ulivi, prova una tristezza mortale. Il turba­mento lo assale; lo spavento, il disgusto si impadroniscono di lui e lo accasciano. Gli sfugge un grido di dolore: « Padre, se è pos­sibile passi da me questo calice ». Ma ha pregato, e a poco a poco torna la pace: « Allora, un angelo gli apparve dal cielo per conso­larlo »; si rialza temprato per la lotta, pronto a tutto.

Nella sua vita privata, superiore a quella ordinaria, il prete deve spesso lottare con se stesso, contro le aspirazioni di una na­tura che, per quanto purificata e santificata, non è morta. Quando rientra nella sua casa deserta, quando si trova solo in una parroc­chia isolata, sconosciuto, senza un avvenire, una carriera, privo di tutte le gioie umane, a volte la solitudine pesa sul suo cuore di uomo. Se si sente invadere dalla tristezza; se la tentazione, come vento impetuoso, risveglia le sue passioni assopite e lo lascia cadere nel turbamento, allora deve ricorrere alla preghiera. Come Gesù, deve prostrarsi di fronte al Padre, chiedergli aiuto, chiamare a sé il Consolatore, che è fratello, amico: solo Gesù, con il suo amore, può colmare il vuoto del suo cuore.

Gesù ha pregato in croce. Mentre gli insulti e le bestemmie sali­vano verso di lui, ha pregato così: « Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno ». Quando le tenebre circondavano il suo patibolo e la sua anima era torturata da abbandoni che non sapeva spiegarsi, fu un grido di angoscia, un appello disperato al Padre: « Mio Dio! Mio Dio! Perché mi hai abbandonato? ». In­fine, quando tutto era compiuto, un'ultima preghiera, la preghiera della confidenza e dell'abbandono: « Padre, nelle tue mani affido il mio spirito ». Come Cristo, il prete è esposto agli scherni, alle ingiurie, alle maledizioni della gente ignorante e grossolana; pre­ghi per chi lo insulta, e la sua preghiera farà scendere in loro grazie insperate di conversione. Preghi quando soffre; preghi in agonia. Viva di preghiera, sull'esempio di Cristo. Rimanga, con la preghiera, in colloquio costante con la sorgente di ogni bene. Il prete deve donare molto: vada quindi a prendere molto in Dio.



CAPITOLO III

Il dono di sé


Venendo nel mondo, il Verbo incarnato ha detto al Padre: « Non ti sono graditi olocausti e sacrifici, ma mi hai dato un corpo... ». Un corpo, un cuore, un'anima umana: eccoli, te li offro; li dono alla tua gloria; li dono per la salvezza dei miei fratelli.

L'intera vita di Gesù è stata un'ininterrotta donazione. Ha di­menticato totalmente se stesso e ha dato tutto, senza escludere nulla. Ha dato il suo lavoro e il suo riposo, il suo tempo e le sue forze. Ha fatto dono totale della sua vita, e prima d'offrirla sul Calvario, l'ha consumata a poco a poco in un dono continuo. Ha dato il suo cuore ai suoi fratelli: ecco il segreto. « Ha amato e si dato ». Gesù ha unito in sé il sacerdote e il sacrificatore alla vittima. Come Sa­cerdote, non ha offerto altre vittime, donandosi e votandosi total­mente, è stato sacrificato. Ma non è un altro sacerdote che lo ha immolato: si è sacrificato. Veramente Gesù è insieme Sacerdote e Vittima, Sacerdote eterno e Vittima eterna per un sacrificio senza fine.

Cristo vuole in tutto simili a sé quelli che ha chiamato a se­guirlo ai vertici del sacerdozio. Il sigillo con cui li segna li rende partecipi della sua condizione. Sono sacerdoti con Gesù-sacerdote; con Gesù-vittima, sono vittime. Sono chiamati, certo raramente, ad andare con Gesù fino al culmine del sacrificio, a mischiare davvero il loro sangue al suo. È un'immolazione mistica, come l'immola­zione dell'Eucaristia, quella che è chiesta loro; ma è anche un'im­molazione visibile: il dono di sé, la disponibilità.

Cristo ha dato il suo lavoro e il suo riposo. Fin dall'inizio della vita pubblica, lo vediamo che predica di città in città, di villaggio in villaggio, la buona novella; insegnando nelle sinagoghe, gua­rendo i malati, consolando quelli che soffrono. Le sue giornate non gli appartengono: sono a disposizione di tutti. Passa da un luogo all'altro, da una infermità all'altra, da un dolore all'altro, sempre pronto a consolare. Le sue notti non gli appartengono di più: quelle che non consacra all'adorazione del Padre o all'intercessione per i peccatori, le passa a conversare con dei discepoli segreti. Offre ve­ramente tutto il suo tempo e tutte le sue forze. Senza riguardi per la debolezza del corpo, è sempre pronto al lavoro e al sacrificio. Molte notti passano senza riposo, molte volte mangia in fretta, molte giornate trascorrono senza un attimo di respiro. A volte sono marce faticose sotto il sole ardente, altre volte è la stanchezza in mezzo alla folla che preme da ogni parte. La sua disponibilità non arretra di fronte a nulla: calunnie, disonore, ingiurie, ingratitudine di quelli che colma di beni. Si dà, si esaurisce, annienta se stesso in una do­nazione totale.

Anche il prete di Cristo deve offrirsi ai suoi fratelli, e al Padre: non è prete per sé. Con l'ordinazione, diviene come Gesù e con Gesù il bene di tutti; diviene la vittima offerta al Padre per i pec­cati del popolo. Tutto ciò che è suo è di Dio, tutto ciò che è in lui è per gli uomini. Il suo lavoro, il suo riposo, il suo tempo, le sue forze, la sua stessa vita non sono suoi: tutto è dato, tutto è offerto.

L'aveva ben capito quel prete secondo il cuore di Dio che ri­spondeva così a quelli che lo rimproveravano per la sua disponibilità eccessiva: « A cosa serve un prete se non si consuma? ». A cosa serve il grappolo d'uva se rimane intero, con gli acini intatti? Se il succo non è spremuto, il vino non può riempire la coppa. A cosa serve il prete se non è interamente offerto? Se non è, in qualche misura, svuotato di se stesso, Dio non ha il suo calice, e gli uomini non sono dissetati.

Gesù ha lasciato tutto generosamente. Verbo di Dio, ha lasciato le altezze del cielo, il riposo nel seno del Padre, la pace della beatitudine senza fine. Ha lasciato tutto questo per prendere la forma del servo, per chiudersi nella debolezza e nell'infermità di un corpo mortale. Uomo, ha rinunciato alle gioie di una famiglia, alla tran­quilla sicurezza di una vita laboriosa e nascosta. Ha abbandonato tutto per una vita di rinuncia e di sacrificio, piena di incertezze e di angosce, di sofferenze e privazioni. Non ha cercato la propria gloria; lasciando la gloria risalire verso il Padre, ha tenuto per sé soltanto la sofferenza e l'umiliazione.

Alla sequela di Gesù, gli apostoli, i suoi primi sacerdoti, hanno abbandonato tutto. Pietro poteva dire sinceramente a Gesù: « A noi che abbiamo lasciato tutto per seguirti, cosa succederà? ». Il prete deve lasciare tutto; non che sia obbligato a lasciare mate­rialmente ogni cosa, ma il suo affetto non può essere legato a nulla di terreno. Non per questo deve spezzare i legami della famiglia e dell'amicizia: Gesù non ha amato meno Maria, sua madre, per la sua donazione totale; è stato amico di Marta e Maria e di Lazzaro. Ha per­messo a Giovanni, che amava, di riposare sul suo cuore. Questi le­gami, che Gesù ha benedetto, non sono terreni.

Ciò che il prete deve spezzare, sono quei legami umani che lo trattengono nella disponibilità. Rinneghi se stesso, le sue ambizioni, le sue inclinazioni al riposo, i punti di vista personali, le soddisfa­zioni puramente umane; tutto ciò che è dell'uomo carnale e mon­dano e tutto ciò che è della terra; tutto ciò che rimpicciolisce e abbassa.

Faccia degli uomini la sua famiglia, e vi si consacri completa­mente. Apra il suo cuore, lo colmi dei sentimenti di Cristo. Si offra, rinunci a se stesso, si dimentichi di sé. Si sacrifichi con Gesù sacrificato. Sia il pane delle anime con Gesù Eucaristia.



CAPITOLO IV

La passione per la gloria di Dio


Davide, personificando Gesù Cristo, esclamava rivolto a Dio: « Mi divora lo zelo per la tua casa ». Lo zelo, questa gelosia ar­dente della gloria di Dio e della salvezza degli uomini, ha consu­mato, ha divorato Cristo e, come tutte le passioni violente, lo ha portato ad eccessi, a follie d'amore e di donazione. Innamorato della gloria di Dio, ha deciso di lottare contro tutto ciò che poteva dimi­nuirla, di abbattere ogni cosa che potesse ostacolarla. Non meno infiammato per il bene e per la salvezza dell'uomo, si è votato a combattere, fino alla morte, tutto ciò che poteva nuocergli e com­promettere la sua felicità eterna. Questa passione bruciante lo ha man­tenuto sempre pronto alla lotta contro il male, contro gli errori, combattendo contro lo spirito del mondo, di quel mondo per il quale non ha voluto pregare. Ha condannato ogni falsità, ogni in­giustizia; tutto ciò che contrasta l'amore di Dio.

Gesù ha combattuto il male. Venuto nel mondo per allontanare lo spirito delle tenebre, lo vediamo costantemente alle prese con esso. Lo scaccia dal corpo degli indemoniati; lo minaccia, gli parla con autorità. Non si accontenta di liberare i corpi: lo scaccia anche dalle anime e lo perseguita in ogni forma sotto cui si nasconda. Gesù, bene sovrano e infinito, si trova costantemente in opposi­zione con satana, lo spirito del male.

Nulla arresta lo zelo di Gesù. Senza adulazioni per i grandi e i potenti della terra, senza cercare il favore della folla, va dritto al male ovunque lo veda. Un giorno, si arma di una frusta e, disper­dendo gli animali destinati ai sacrifici, abbattendo i banchi dei cambiavalute, purifica il Tempio dalla folla dei trafficanti? Non teme di scagliare l'anatèma, con forza, contro tutte le passioni umane: « Guai a voi, ricchi... Guai a voi, dottori della legge... Guai a voi, scribi e farisei ipocriti...» Gesù ha combattuto ogni errore. Ha portato al mondo la luce, la verità. Ogni errore che incontra sul suo cam­mino: errori di dottrina, di morale, false interpretazioni delle Scrit­ture, deviazioni dalla Legge, vane discussioni sulle osservanze le­gali, tutto ciò che va contro la retta ragione illuminata dalla fede; tutto questo è denunciato da Gesù, e perseguitato senza pietà.

Infine, Gesù combatte lo spirito del mondo: « Non amate il mondo, né ciò che è del mondo; perché tutto ciò che è del mondo è concupiscenza degli occhi, o concupiscenza della carne, o orgoglio della vita; non amate ciò che non viene dal Padre, ma dal mondo ». Così parlava Giovanni, l'apostolo che Gesù amava, che aveva ripo­sato sul suo petto e che doveva, più di ogni altro, aver conosciuto e capito i sentimenti più profondi di Gesù. Tutte le parole di Gesù, ogni sua azione, sono dirette contro questo spirito del mondo così opposto allo spirito di Dio. Gesù ha abbattuto e rovesciato il muro della triplice concupiscenza che teneva prigioniero l'uomo.

Il prete è un soldato di Dio. Come un tempo si vedevano i legionari marciare nei deserti e fra monti selvaggi per tracciare le strade della civilizzazione; come li si vedeva combattere fino alla morte all'ombra delle aquile romane per la gloria del loro Cesare; così si deve vedere il prete combattere costantemente per il bene, sotto la bandiera della Croce e lottare con coraggio contro il male invasore. Lavora per la gloria del suo Re; alla sua sequela, marcia alla conquista del mondo. Se cerca di divenire maestro delle anime, non è per asservirle, ma per liberarle. Il prete è con Gesù il difen­sore della verità: deve sostenere i suoi diritti e farli trionfare. Con la sua parola, se può parlare; con i suoi scritti, se sa usare la penna; con il suo esempio soprattutto, con la sua vita deve condannare ogni falsità e tutto ciò che può nuocere alla verità di cui è depositario. La passione per la gloria di Dio, ardente come quella di Gesù, illuminata dalla fede, infiammata dall'amore lo deve condurre a uti­lizzare ogni sua risorsa per quella Gloria e per la salvezza dei fratelli. Creato per sostenere i diritti di Dio, per difendere la sua eredità, per proteggere la debolezza degli uomini dalle imprese dei loro ne­mici, per diffondere il regno di Dio su tutti gli uomini, il prete deve temprare il suo coraggio attraverso la lotta. Deve essere, come Cristo, la luce del mondo: con la sua scienza, con la purezza della sua dottrina, soprattutto con la sua virtù, potenza di santità, zelo ispirato dall'amore. Deve essere una luce viva, ma anche vivificante e calda, che convince le intelligenze infiammando le volontà, che si impadronisce delle energie spirituali delle anime per indirizzarle al sommo Bene.

È grande la potenza del prete colmo della passione che nasce dall'amore di Cristo. È prete secondo il cuore di Gesù, ardente per la gloria di Dio, innamorato della salvezza delle anime, auten­tica fiamma d'amore uscita dalla carità di Dio per accendere il mondo.



CAPITOLO V

La dolcezza


La dolcezza è l'anima della bontà, forma delicata che la rende attraente. Una bontà rude e grossolana è una bontà senza volto, che non conquista. Ma quando è rivestita di dolcezza, attira tutto a sé. Così è stata la bontà di Gesù.

La dolcezza, temperando la sua dedizione ardente, rendeva Cri­sto affabile, attraente. Aveva segnato tutta la sua persona di un fascino così irresistibile che tutti, i bambini come gli anziani, gli ammalati, le folle andavano a lui e seguivano il suo cammino. « Im­parate da me che sono mite e umile di cuore », aveva detto Gesù. Questa mitezza interiore traspariva dalla sua persona e gli guada­gnava ogni uomo.

Amavano la sua conversazione, accoglievano i suoi insegnamenti che sapeva rendere semplici da capire e facili da abbracciare. Lo seguivano fin nel deserto, dimenticando le necessità della vita e, quando l'avevano intravisto una volta, quando avevano gustato il fascino della sua parola, non potevano più staccarsi da lui.

« Lasciate che i piccoli vengano a me ». Costantemente cir­condato dai bambini, amava prenderli in braccio, benedirli, pro­porli come esempi di semplicità e di purezza ai discepoli. « Male­detto - diceva - chi scandalizza uno di questi piccoli che cre­dono in me ».

Con gli ammalati e gli infermi che si avvicinavano a lui era pieno di benevolenza e compassione. Era facilmente colpito dal ve­dere la loro sofferenza. Lui, così pronto a soffrire, così impaziente di spargere il suo sangue, così desideroso della croce, delle spine, dei flagelli, non poteva sopportare la visione del dolore dei suoi fra­telli. Non poteva vedere una sofferenza senza guarirla; non poteva vedere piangere Marta e Maria senza piangere con loro. Con gioia e generosità utilizzava la potenza che gli veniva da Dio per guarire e per risuscitare.

Con i suoi discepoli, ancora così grossolani, dimostra una pa­zienza infinita. Li istruisce, li incoraggia, li rimprovera qualche volta, ma con dolcezza. Dopo giornate faticose, li invita a riposare: « Ve­nite, e riposatevi un poco ». Quando il pensiero della sua morte li turba e li lascia abbattuti, cerca di addolcire il loro dolore. Pro­mette loro il Consolatore, li assicura che sarà sempre con loro. Permette a Giovanni, il più giovane e amato degli apostoli, di appoggiare la testa sul suo petto come un bambino che riposa sul petto di suo padre. Tommaso vede Gesù rispondere alle resi­stenze della sua incredulità con generose concessioni: « Metti la tua mano nel mio costato, e non essere più incredulo, ma fedele ». E quando Pietro lo rinnega, non lo rimprovera; ma, per calmare il suo dolore, gli fa fare tre atti d'amore, tre proteste di disponi­bilità e di fedeltà che riscattano il suo triplice rinnegamento.

Tutte le parole di Gesù hanno il respiro della pace e della bontà: « Sono io, non temete ». « Abbi fiducia, ti sono rimessi i tuoi peccati ». « Perché rattristate questa donna? ». « Venite a me, voi tutti che siete stanchi, e io vi consolerò ». « La pace sia con voi - Io vi do la pace ». Il Profeta aveva detto che non si sarebbe sentita la sua voce gridare, e che non avrebbe disputato sulle piazze. Il suo parlare, infatti, è ricco di dolcezza; il suo inse­gnamento riveste di solito una forma semplice e armoniosa, misu­rato sulla bellezza della natura che lo circonda. E quando flagella le passioni cattive e i crimini dell'uomo, si sente, nella sua voce, più l'amore per i peccatori che il disprezzo o la collera.

Se già durante il suo apostolato, e poi dopo la risurrezione, Gesù ha mostrato questa dolcezza, lo ha fatto soprattutto durante la Pas­sione. Quando, dopo la Cena, lascia andare Giuda a compiere il suo misfatto, gli parla così dolcemente che gli altri apostoli credono che lo mandi a fare un'elemosina. Al Getsemani, quando il tradi­tore si avvicina e lo bacia, Gesù ricambia il bacio e gli dice « Amico, cosa sei venuto a fare? ». E quando Pietro impugna la spada: « Rimetti subito quella spada nel fodero », gli dice, e voltandosi verso l'uomo che aveva ferito, lo guarisce. Nel palazzo di Anna, un servo lo schiaffeggia brutalmente e Gesù: « Se ho parlato male, fammi vedere dove sbaglio; ma se ho parlato bene, perché mi per­cuoti? ». Di fronte ai giudici iniqui che lo condannano, in mezzo ai soldati che lo dileggiano e lo torturano, di fronte a quella folla che ha colmato di doni e che ora lo insulta e lo sbeffeggia, con­serva una dolcezza inalterabile, e rimane, Agnello muto, nelle mani dei suoi persecutori. Mentre lo inchiodano alla croce, non gli sfugge neppure un lamento, neppure una parola amara verso chi lo cro­cifigge.

Il prete è chiamato a rivivere la mansuetudine di Cristo. È mandato a guadagnare a Dio gli uomini, e nessun'arma è più po­tente della dolcezza e della bontà. Sia buono della stessa bontà del Salvatore, pieno di pazienza e di dolcezza, di tolleranza e carità.

Arriveranno a lui molte miserie; molte debolezze cercheranno il suo appoggio. Anime sofferenti o ferite, cuori urtati dalle ingiustizie della vita, spiriti sviati dagli errori del mondo, volontà abbattute o fuori strada saranno dirette verso di lui dalla mano misteriosa della Provvidenza.

Dovrà avere una mano dolce e delicata per fasciare tutte que­ste ferite. La sua azione dovrà essere soave e paziente. Può certo parlare con forza, colpire i vizi e ammonire i peccatori; ma le sue parole, le verità che annuncia, saranno più penetranti e convincenti se avvolte di dolcezza.

Il prete deve far conoscere Gesù. Deve farlo amare offrendo, con la sua vita, l'idea di ciò che è Gesù, bontà incarnata. Coloro che lo incontrano potranno allora chiedersi: « Se il servo è così buono, cosa sarà mai il suo padrone? ».

La dolcezza è una calamita potente che attira le anime. È quella rete misteriosa che il prete, pescatore di uomini, getta su di loro per trarli dagli abissi del peccato e portarli, nella barca della Chiesa, alla vita di Dio. Discepolo fedele, amico, compagno di Gesù, il prete che si è modellato su Cristo può continuare nel mondo l'opera di Cristo.

E’ un'opera d'amore; è l'opera della riconciliazione e della pace, della carità che soltanto l'amore, e la bontà che nasce dall'amore, la dolcezza che è il fiore e il profumo della bontà possono conti­nuare e portare a compimento.



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07/09/2009 15:11

CAPITOLO VI


L'umiltà


Un'altezza infinita che si abbassa; una maestà sovrana che discen­de; una autorità, una potenza senza limiti che si inchinano e si rendono deboli: ecco quello che vediamo in Gesù.

Vediamo un Dio umiliato fino alla condizione miserabile del­l'uomo, fino alla carne corruttibile e mortale. Ma non sono queste le umiliazioni del Verbo che vogliamo prendere in considerazione: sono gli abbassamenti della sua natura umana. È l'umiltà che appare dagli anni della sua vita pubblica, che si presenta oggi alla nostra meditazione e soprattutto alla nostra imitazione.

Inizia la vita apostolica con una umiliazione: mischiandosi ai peccatori, riceve il battesimo di penitenza. Nel deserto, dove lo Spirito lo ha condotto, scende volontariamente fino al gradino più basso delle nostre miserie: la tentazione. Permette allo spirito del male di rivolgersi alle inclinazioni naturali della sua umanità. Per­mette a satana di toccarlo.

La tentazione è spesso per l'uomo una umiliazione necessaria. Gli fa scoprire la sua debolezza; lo mette in guardia contro le occa­sioni di pericolo; gli fa volgere il cuore agitato e tremante verso colui che solo può sostenerlo e salvarlo.

Anche per il prete la tentazione è necessaria. Potrebbe credere che il suo sacerdozio lo metta al di sopra delle miserie dell'uma­nità. Potrebbe inorgoglirsi dei doni che ha ricevuto da Dio. E poi, « chi non è tentato, che cosa sa? ». Il prete, che è chiamato a gui­dare e istruire le anime, deve aver sperimentato, se non tutte, al­meno una parte delle loro debolezze.

Quando Gesù predica, lo vediamo talvolta nelle ricche sinago­ghe di Cafarnao o di Gerico; lo ascoltiamo parlare al Tempio di Gerusalemme, sotto il magnifico portico di Salomone; lo vediamo rivolgersi ai grandi sacerdoti e ai brillanti cortigiani di Erode. Ma molto più spesso lo vediamo circondato dalla gente parlare sulle spiagge ai pescatori, o nutrire con un pane miracoloso, nel deserto, la folla stracciata e affamata che lo segue. Vuole salvare molti uomini, e sa che i potenti e i ricchi sono un piccolo numero, e che i pic­coli e i poveri sono la maggioranza. Per questo va verso i poveri: la mietitura sarà più abbondante.

Sarebbe ben lontano da Cristo quel prete che, sdegnando l'apo­stolato dei semplici e degli ignoranti, si rivolgesse solo a scelti intel­lettuali, o a chi è baciato in fronte dalla fortuna; che trovandosi allo stretto nelle povere chiesette di campagna o in quelle di peri­feria, si sentisse a suo agio solo sulle grandi cattedre delle basili­che; o che giudicasse indegno di lui il catechismo ai bambini o la visita ai poveri. Il sacerdote di Cristo, al contrario, pensando come lui, non vede nulla di troppo basso per sé. Sa quello che vale un uomo, sa che vale tutto il sangue di Cristo; e per salvarne uno solo offre senza calcolo tutto il suo tempo, le sue forze, la sua vita. Per offrire una briciola di gloria a Cristo, accetta volentieri di es­sere annientato e dimenticato.

L'umiltà di Gesù si vede anche nella cura che mette a nascon­dere il suo operato sotto l'azione del Padre, e a far scomparire, per quanto può, la propria personalità. Molte volte ripete parole di questo genere: « Il Figlio non fa nulla da se stesso »; «Tutto ciò che ho udito dal Padre mio, ve l'ho detto »; « Il Padre mio opera sempre, e anch'io opero ».

Cerca in ogni modo di velare lo splendore dei miracoli. Ai ciechi che ha appena guarito dice: « Badate che nessuno venga a saperlo ». « Va' - dice a un lebbroso - e non dirlo a nessuno ». Proibisce espressamente ai demoni che proclamano come per forza la sua divinità, di dire che lui è il Cristo, il Figlio di Dio e non chiama se stesso che Figlio dell'Uomo.

Ma è soprattutto nella sua dipendenza, nello spirito di sotto­missione che dimostra in ogni circostanza, che Gesù ci fa scoprire la sua profonda umiltà. I primi trent'anni della sua vita si pos­sono riassumere così: « Era loro sottomesso ». Durante gli ultimi tre, non ha cambiato stile. Si è dimostrato, in tutto e sempre, sot­tomesso. Uguale al Padre nell'essere Dio, non fa nulla senza ricor­rere a lui nella preghiera; è felice di fare sempre ciò che piace al Padre del cielo. Sembra quasi dimenticare le grandezze, i doni, i privilegi della sua natura divina per ricordarsi soltanto dell'im­potenza e della debolezza della sua natura umana. « Padre mio, dice nell'orto degli Ulivi, non la mia volontà, ma la tua, sia fatta ».

Così è sempre obbediente alla Legge di Mosè, ai suoi ordini, alle molteplici osservanze del culto. Non obbedisce solo alle leggi reli­giose, ma anche a quelle civili. Raccomanda di pagare il tributo, paga le tasse per sé e per i discepoli. Ogni legittima autorità lo trova sottomesso e rispettoso. Ma va più lontano: vuole dipendere da tutti, dalle folle che lo circondano, da quelli che lo fermano ad ogni passo per chiedergli un favore. Il centurione lo informa della malattia del suo servo: « Andrò - dice subito - e lo guarirò ». Appena Giairo lo informa della morte della sua bambina, si mette in cammino verso la sua casa. « Non è venuto per essere servito, ma per servire ». La sua umiltà lo porta a comportarsi come se fosse debitore verso tutti.

È obbediente anche ai suoi carnefici. Si lascia spogliare, flagel­lare, rivestire di un manto beffardo, coronare di spine. Prende in mano la canna che gli viene data come scettro. Porta la croce, sten­de le braccia per agevolare il compito a quelli che devono croci­figgerlo, spreme con le sue labbra la spugna imbevuta di fiele e di aceto che gli viene offerta. Muore quando tutto è compiuto, quando, fino alla fine, ha portato a compimento le Scritture e le profezie.

Questa sottomissione di Gesù è una lezione per l'uomo. L'uomo, quest'essere debole e miserabile, obbligato dalla sua natura a di­pendere da molti altri esseri e da molte altre cose, cerca continua­mente di liberarsi da questo stato di dipendenza, fuori del quale non può che sbagliare.

Gesù si distoglie, per così dire, dalla coscienza della propria onnipotenza e sapienza per non vedere in se stesso altro che il nulla del suo stato di creatura; e l'uomo, per vanità e orgoglio, dimen­tica al contrario la propria inferiorità, e il corteo di miserie che si porta appresso, ricordandosi soltanto di quelle che pensa essere le sue meraviglie e di ciò che può, nella cecità del suo giudizio, ele­varlo ai propri occhi e a quelli dei suoi fratelli. Preferisce sempre ciò che fa lui a ciò che fanno gli altri. La stima che ha dei propri pensieri, l'appoggio che trova in se stesso, la fiducia che nutre nella sicurezza dei suoi giudizi e nella saldezza del suo spirito, malgrado gli scacchi e gli insuccessi, gli fanno disprezzare i consigli dell'espe­rienza e le caritatevoli messe in guardia dei prudenti.

Il sacerdote di Cristo è diverso. Mite e umile di cuore come il suo maestro, riconosce la propria debolezza, confessa la propria im­potenza, diffida delle proprie vedute. Inchina volentieri la sua intel­ligenza, le illuminazioni del suo spirito, le sue aspirazioni di fronte all'autorità sovrana di Dio. E vede splendere su molte fronti questa aureola dell'autorità di Dio.

Figlio docile della Chiesa, vede, nel suo capo il rappresentante infallibile di Cristo. Si appoggia volentieri alla cattedra di Pietro. La pienezza del sacerdozio di cui è rivestito il suo vescovo gli ispira rispetto. Gli obbedisce come al successore degli apostoli, lo venera e lo ha caro come un padre.

Nella sua attività, nei differenti ministeri che gli sono affidati, agisce con una umile diffidenza di se stesso. Spinto a cercare lumi presso quelli che l'età, un lungo ministero sacerdotale, una vita esem­plare o una virtù riconosciuta segnalano come maestri, è ben lon­tano dall'agire per se stesso, o di preferire i propri consigli a quelli che può ricevere.

Non considera di più la propria attività di quella che vede fio­rire nei suoi vicini. Non desidera successi maggiori, o opere più grandi di quelle di chi lavora con lui per la gloria di Dio. La sua sola ambizione è questa gloria, la piena diffusione del regno di Dio. E’ dimentico di sé, e, purché il bene si compia, purché Cristo sia più amato e meglio servito, è soddisfatto, e si rallegra altrettanto dei successi dei suoi fratelli che dei propri.

Loda volentieri i loro talenti e le loro attività; imita le loro virtù. Se vede qualcuno fra loro in difficoltà, o commettere qual­che errore, cerca di riportarlo al bene, se non con il suo consiglio, almeno con l'esempio. Prega per lui, soffre per lui, e teme per sé di cadere negli errori che condanna.

Il prete mite ed umile che cammina per le strade del mondo non è soltanto il sacerdote di Cristo: è Gesù-sacerdote. È Gesù stesso, quel Gesù la cui altezza si è abbassata per amore, la cui santità risplende tanto quanto è circondata dall'ombra dell'umiltà. Forse è stata l'umiltà il fascino profondo dell'umanità di Cristo. Essa offre all'azione del prete e alla sua parola un fascino simile: lo rive­ste completamente di Cristo.



CAPITOLO VII

La purezza


Nessuno ha mai dubitato della purezza di Gesù. Poteva sfidare i suoi contemporanei: « Chi tra voi mi convincerà di peccato? », senza paura di essere smentito. I suoi nemici, furenti, lo insulta­vano, lo chiamavano indemoniato e blasfemo; non hanno mai osato sospettare della sua virtù. La folla, entusiasta delle grandi opere di Gesù e rispettosa della sua vita santa e pura, lo riconosceva, se non come Messia, almeno come un profeta, un inviato di Dio, nella verità, nella giustizia, nella santità. Noi che sappiamo che è Dio, lo adoriamo nella sua purezza che nessuna macchia, nessuna ombra ha mai oscurato.

È il puro, il santo per eccellenza. Verbo di Dio, splendore del­l'eterno, rivela, nella sua natura di Dio, degli splendori, delle tra­sparenze, dei candori di cui nulla può offrirci un'idea anche imperfetta. Era un uomo perfettamente puro. La sua anima era splendida di innocenza. Il suo cuore, tabernacolo dell'Amore Infinito, batteva soltanto per la gloria del Padre e la salvezza dell'uomo, essendo in­sieme altare e vittima del sacrificio più puro. Il suo corpo, formato dallo Spirito Santo dal sangue puro di una Vergine, di una Vergine immacolata che la nascita del suo frutto benedetto ha reso più ver­gine ancora; la sua carne che doveva essere immolata per il peccato e diventare l'antidoto per il veleno dell'impurità iniettato nel san­gue dell'uomo dal peccato originale; questa carne di Gesù è la più pura, la più idealmente candida che possiamo immaginare.

Nulla può darci un'idea di questa purezza. Il raggio del sole, nell'istante in cui prorompe, prima ancora di aver trapassato le nubi del cielo e le pesanti nebbie della terra, è meno puro di Cristo. Il fiocco di neve che scende dalle regioni ghiacciate dell'aria, che non ha toccato nulla, sballottato dal vento nello spazio, è meno puro di Cristo. Il giglio appena sbocciato, in fondo a una valle solitaria, che nulla di impuro ha contaminato, che nessuno sguardo ha sfio­rato, nel cui calice neppure un'ape si è ancora posata, è meno puro di Cristo.

Tutto ciò che è in Gesù e che emana da lui respira purezza. La più piccola delle sue parole, il suo minimo gesto, tutta la sua persona ispira purezza e la spande come un profumo. È quello che ci sembra dire Giovanni a Patmos quando, volendo dipingerci Gesù, ce lo fa vedere con un abito lungo, cinto con una cintura d'oro, il capo e i capelli di un bianco abbagliante, bianchi come la lana e come la neve?

Sembra superfluo cercare le prove di questa purezza. Ma ci è d'aiuto considerare la stima e l'amore di Gesù per la purezza, e conoscere le precauzioni che ha voluto prendere, non per preser­vare se stesso (non aveva nulla da temere), ma per insegnarci, con l'esempio, la prudenza che deve accompagnare il nostro cammino. La visione di Dio, che colma ogni nostro desiderio, placa ogni nostro bisogno, è promessa da Gesù a chi è puro di cuore. La pu­rezza del cuore contiene tutte le altre. Se il cuore è puro, lo sono i pensieri, gli affetti, le parole, i gesti.

Nel corso della sua vita pubblica Gesù parlerà molte volte della castità alle folle assetate dei suoi insegnamenti. Ma quello che la gente, ancora troppo grossolana, non avrebbe saputo comprendere, lo dirà soltanto ai suoi discepoli più cari. Si rivolge ad anime elette che possono fissare il loro sguardo sull'altezza luminosa di una vita più perfetta: « Chi ha orecchi per intendere, intenda ».

Sono soprattutto gli esempi di Gesù che debbono aiutarci. Cristo ha abbracciato volontariamente una vita austera e mortificata. Ha scelto la povertà con le sue privazioni e il lavoro con il suo sudore. Digiuna, si impone delle lunghe veglie, sopporta le fatiche continue della vita apostolica. Dorme sulla nuda terra, avvolto nel mantello; concede al suo corpo soltanto lo stretto necessario. Sa che a noi è utile tenere sotto il giogo e ridurre in schiavitù la nostra natura così incline al male, e i nostri sensi, pronti a ribellarsi.

Il Vangelo ci mostra Gesù, qualche volta, prendere parte alle feste e alle nozze; ma in mezzo a queste gioie Gesù non perde di vista la sua missione, e si unisce alle gioie dell'uomo soltanto per benedirle e santificarle. Sempre solenne, calmo e dignitoso, non pren­de parte alle conversazioni se non quando può, con la sua parola, istruire, illuminare, edificare e consolare.

Una sola parola del Vangelo basta a rivelarci la riservatezza di Gesù nei suoi rapporti con le donne. Stanco per un lungo viaggio, si era seduto accanto al pozzo di Giacobbe ed aveva iniziato con la Samaritana quel colloquio che avrebbe fatto della peccatrice un apostolo. Alcuni discepoli ritornarono da lui e, dice il Vangelo, « si meravigliarono che parlasse con una donna ». Si meraviglia­rono: doveva essere ben poco un'abitudine di Gesù, una faccenda strana che gli apostoli non avevano mai visto.

Tuttavia, sappiamo che Gesù parlava talvolta con donne. Parla all'emorroissa dopo la sua guarigione, a Maddalena per rassicurarla del suo perdono, a Marta per calmare la sua ansia, alla moglie di Zebedeo spinta ai suoi piedi da un cieco amore materno. Ma non parlava loro da solo. Era in mezzo alla gente, circondato dai disce­poli, generalmente in presenza di qualcuno che potesse testimoniare delle sue parole e dell'onestà del suo comportamento. Anche dopo la risurrezione, conserva questa riservatezza. Permette alle donne che incontra lungo la strada di baciargli i piedi; ma a Maddalena, la sua prediletta, che lo vede solo nel giardino, dice « Non toccarmi ».

Quando il profeta Eliseo aveva cercato di rendere la vita al bambino della donna che lo ospitava, si era steso sul piccolo corpo. Aveva posato i suoi occhi sui suoi occhi, la sua bocca sulla sua bocca, il suo cuore sul suo cuore; l'aveva riscaldato con il suo respiro e vivificato con il proprio contatto. Quando Gesù opera i miracoli, evita di toccare i corpi. Senza dubbio, vuole mostrare l'onnipotenza della sua parola; ma vuole anche metterci in guardia contro familiarità pericolose.

Gesù è sempre attento a predicare con l'esempio una purezza assoluta. La vuole vedere splendere in tutti i suoi discepoli. Ne traccia regole per tutti. Ma ai suoi apostoli chiede di più.

Deve essere grande la purezza dei sacerdoti di Cristo, ministri dell'Altissimo, díspensatori dei misteri di Dio. Il Padre li ha messi sopra gli stessi angeli. Ha comunicato loro una potenza, dei pri­vilegi che ha negato a quelle intelligenze pure. Li ha chiamati a rendere, al corpo eucaristico di Cristo, gli stessi onori che la Ver­gine rendeva al suo bambino. Lo teneva fra le sue mani; lo fasciava; lo presentava perché fosse adorato; asciugava il suo sangue che co­lava sotto il coltello della circoncisione; gli dava dei baci materni; lo offriva al Padre dei cieli e si sacrificava con lui.

Le mani del prete che toccano il corpo consacrato di Cristo de­vono essere pure, alzandolo verso il cielo di fronte ai fedeli ingi­nocchiati. Pure le labbra che gli danno ogni giorno il bacio della comunione. Puri gli sguardi che lo contemplano, così spesso e così da vicino, sotto il velo del sacramento.

Il prete dovrebbe, se fosse possibile, essere più puro di un an­gelo e casto come Maria. Ma il prete è un uomo, e la sua carne, come un mantello pesante, lo piega verso la terra e lo stringe dolo­rosamente. Per rimanere sulle vette a cui lo chiama la grazia, deve camminare sulle orme di Gesù e costruire la sua vita sull'esempio della sua. Se Dio non gli fa il dono inestimabile della sofferenza e della malattia, supplisce affaticando il suo corpo con l'attività in­cessante di un ministero di dedizione e sacrificio. Abbraccia una vita spoglia delle soddisfazioni della carne e dei sensi, e si sforza di sviluppare in sé, con lo studio, con la preghiera, con la ricerca costante dei beni superiori, la vita della sua anima e le proprie energie intellettuali.

Il prete è sacrificatore con Gesù; ma è anche vittima. Le vit­time devono essere pure, sante, senza macchia per essere gradite a Dio: una vittima macchiata è respinta da Dio, è un orrore davanti a lui. Il sacerdote di Cristo si sforzi dunque di purificarsi sempre più da ogni attaccamento umano, da ogni soddisfazione volgare, da ogni piacere dei sensi. Non è un uomo qualunque: è un Cristo, un consacrato, un benedetto, un separato. E’ grande, degno di rispetto e di amore in mezzo ai suoi fratelli, puro, distaccato dalle passioni grossolane, al di sopra di tutto ciò che è terreno e soltanto umano. Chi ogni mattina placa la sua sete al calice dell'altare; chi beve quel vino che fa germogliare i vergini, non può essere assetato dei piaceri della terra.

Chi conosce l'ebbrezza dell'amore di Cristo non può cercare altre delizie. Se vuole, il prete troverà nell'amore di Dio, nel cuore di Cristo il suo amico, con cui soddisfare i legittimi bisogni del suo cuore, le aspirazioni della sua anima, per quanto tenera ed amante possa essere.



CAPITOLO VIII

La misericordia


Il cuore di Cristo racchiude in sé tutte le virtù di Dio. Da lì si irraggiano tutte le bellezze morali, ogni dono naturale e sopranna­turale che possiamo sognare.

Tra tutto questo, c'è una virtù particolare che sembra essere più specificamente propria del Sacro Cuore, la sua virtù, la sua disposizione: la misericordia. La misericordia è autenticamente l'at­tributo del cuore di Cristo.

La Scrittura, e soprattutto i Salmi, fanno risuonare le lodi della misericordia di Dio, la esaltano e la cantano in mille modi. Tuttavia è stato soltanto con l'Incarnazione che la misericordia di Dio ci è apparsa sotto una forma sensibile, palpabile per così dire dall'in­telligenza e dall'amore dell'uomo. Sotto la legge del timore, la mise­ricordia si intravedeva; sotto quella della grazia, si vede e si tocca.

L'Amore era Dio e l'Amore era in Dio, ed è venuto nel mondo. Coprendosi con il velo della condizione umana, scendendo sulla terra è rimasto l'Amore, ma ha preso un nome e una forma nuovi. Ha preso il nome e la forma della misericordia: è diventato Gesù o la Misericordia. La Misericordia o Gesù: è la stessa forma del­l'Amore.

Ogni parola, ogni azione, ogni gesto di questo Amore umaniz­zato portano il sigillo della misericordia. Essa esce da lui con natu­ralezza, come l'acqua dalla sorgente, come il calore dal focolare:

« Io voglio la misericordia, e non i rigori della giustizia ». La sua volontà, è di essere misericordioso. « Il Figlio dell'uomo è venuto a cercare e a salvare quello che era perduto »? E’ venuto a portare alla creazione decaduta la grazia di risollevarsi e il perdono di Dio. È per salvare, e non per giudicare, che ci è stato mandato. Così lo ascoltiamo dire agli apostoli, pronti a chiedere giustizia: « Non sapete di quale spirito siete! ».

Questa misericordia infinita del cuore di Cristo traspare con molta evidenza da due brani del Vangelo. Maria, la peccatrice di Magdala, pentita e con autentica umiltà, offre, nella casa del fari­seo, a Gesù l'omaggio del suo amore e della sua adorazione. Cristo, che in genere rifiuta questo tipo di testimonianza, accetta volen­tieri in questo momento, le manifestazioni dell'amore di lei: la vuole così riabilitare pubblicamente. E con delicatezza e tatto fa vedere a Simone come la sua opinione su di lei sia falsa. Gesù ama chi è pentito, e dice a Maddalena che « molti peccati le sono perdonati perché molto ha amato ».

Un'altra volta, gli viene condotta una donna sorpresa in adul­terio. La Legge ordina la lapidazione: Gesù non dice sempre che bisogna obbedire alla legge? Non si mantiene egli stesso fedele alle sue prescrizioni? Ma la sua misericordia gli suggerisce il sistema per far prevalere la bontà sulla giustizia: « chi fra voi è senza peccato scagli la prima pietra! » Tutti, uno dopo l'altro, abbandonano la piazza, e Gesù rimane solo con la peccatrice: una grande miseria e una misericordia più grande ancora: « Donna, qualcuno ti ha con­dannata? - No, Signore. - Neanch'io ti condanno; va', e non pec­care più ».

Ma nulla riesce a farci vedere l'inesauribilità della misericordia di Gesù più delle due parabole, due perle d'amore, della pecorella smarrita e del figlio prodigo. L'amore misericordioso di Gesù si rivela qui completamente, con delicatezze tenere e soavi, tanto che nessuno può non rimanere toccato.

Gesù, il Pastore, va in cerca della pecorella smarrita, la ritrova e la perdona. La riporta all'ovile. La fatica e le sofferenze del ri­torno sarebbero certo un castigo giusto, anche se leggero, dei suoi errori passati; ma il Pastore non vuole che la pecora soffra più, non vuole che si stanchi nel cammino. Se ci dovrà essere qualche sof­ferenza, qualche fatica per espiare, le sopporterà lui. Prende la fug­gitiva in braccio, la stringe al petto, le offre privilegi e carezze che non aveva conosciuto nei giorni della sua innocenza.

E quando il figlio prodigo ritorna alla casa di suo padre, il per­dono è abbondante. Il padre non solo lo accoglie, non solo lo rein­tegra nei suoi diritti per il futuro, ma vuole ancora che, nella gioia della festa e delle musiche, dimentichi le amarezze del suo passato. Basta poco per toccare il cuore di Gesù e provocare la sua mi­sericordia. Una confidenza, un'invocazione del ladro crocifisso ac­canto a lui è abbastanza perché tutto gli sia perdonato e gli siano aperte le porte del cielo. Davvero la misericordia è lo spirito di Gesù, è Gesù stesso.

La grande missione del prete è rivelare agli uomini la miseri­cordia di Dio. Tutti hanno, più o meno, peccato. Tutti avvertono, fra la santità infinita di Dio e la propria miseria, un abisso che sem­bra loro incolmabile e che li spaventa. In fondo ad ogni uomo, anche quando è avvolto dalle tenebre, rimane una traccia di verità che gli fa vedere Dio infinitamente santo e sovranamente puro. Per questo, quando si vede colpevole, cerca di allontanarsi da Dio, si sforza di dimenticarlo e, non potendo annullare realmente que­sto Dio che lo condannerà, cerca almeno di cancellarlo dai propri ricordi e di distruggerlo nella sua mente. Allora, continua ad andare sempre più lontano sulla strada del male, e precipita negli abissi.

Ma quando gli si fa vedere l'amore misericordioso di Dio, per poco che abbia di sincerità, il timore scompare, il pentimento nasce, e la grazia della riconciliazione porta a compimento l'opera che la misericordia aveva iniziato.

Far conoscere Gesù nel suo aspetto più amabile e attraente; far penetrare nel profondo dell'uomo la conoscenza della misericordia, aprire i cuori alla confidenza e all'amore: è il compito del prete. Ma le sue parole non potranno nulla se non sarà, lui stesso, discepolo di Cristo nella compassione per i peccatori. Bisogna che lo si veda, preoccupato per la salvezza dei suoi fratelli, andare alla ricerca delle pecore smarrite sulle tracce di Gesù, senza lasciarsi scorag­giare dalla lunghezza del cammino o dalle asperità della strada. E quando avrà ritrovato questi uomini coperti dalle piaghe del pec­cato, abbia pietà di loro, si chini e versi olio e vino sulle loro ferite, li prenda fra le braccia e li riporti al Signore.

È una gioia, per il prete, essere il ministro del Dio della mise­ricordia. Dovrebbe fonderglisi d'amore il cuore in petto, quando dice, in nome di Cristo, a un peccatore: « Io ti assolvo ». Mai Dio è più grande che nel perdono. Mai il prete è più rivestito di Dio e più autenticamente Gesù che quando perdona e assolve.



CAPITOLO IX

L'amore


La Bibbia ci dice che il Paradiso terrestre era stato ornato dal Creatore di ogni sorta di delizie. Dio si incontrava con l'uomo e si intratteneva con lui, e le bellezze della natura, in quest'aurora del mondo, erano lo scenario meraviglioso di questi incontri. Là, il cielo era sempre mite, la terra sempre feconda. L'albero della vita, crescendo al centro del giardino, dava i suoi frutti immortali; e quattro fiumi, nascendo da lui e scorrendo fuori del giardino por­tavano lontano la vita e la fertilità.

Il cuore di Cristo è simile a questo paradiso, dato come dimora ai primi rappresentanti della nostra umanità. È un giardino di deli­zie, spalancato da Dio di fronte a uomini con un desiderio insa­ziabile di luce, di verità e di amore.

Colmo dei doni più grandi, ornato dalla bellezza, sede delle gioie di Dio, è il luogo dell'incontro dell'uomo con Dio. Dio abbas­satosi per amore vi scende fino alla miseria dell'uomo; e l'uomo, reso pesante dal peccato, vi trova dei sentieri misteriosi per salire fino a Dio. L'albero della carità si innalza al centro, carico dei frutti più squisiti, e quattro fiumi lo bagnano e si spandono, portando fuori le onde di vita dell'amore di Dio.

L'Amore Infinito vi risiede in pienezza. Tutti i sentimenti di Dio sono gli stessi sentimenti di Cristo; tutti i sentimenti di verità dell'uomo, sono gli stessi di Cristo. Il suo amore abbraccia e som­merge l'immensità dei mondi e la moltitudine degli esseri: è l'Amore Infinito, senza limiti e senza misura.

Ci sembra tuttavia che in Cristo l'amore abbia rivestito quattro forme diverse, portandosi su quattro oggetti diversi; si è, per così dire, diviso in quattro fiumi d'amore: Gesù ha amato il Pa­dre di un amore di figlio e di creatura, pieno di rispetto e di pietà; ha amato la Vergine sua madre con un amore di fanciullo, tutto con­fidenza e dolcezza; ha amato la Chiesa, formata come una nuova Eva dal suo costato, di un amore di sposo, tutto tenerezza e fedeltà; ha amato gli uomini con l'amore di un padre, tenero, previdente, pieno di dedizione.

Il cuore di Cristo si è rivelato a noi come un luogo di deli­zie; ma anche l'amore del prete è oggetto del compiacimento di Dio. Anche questo cuore di uomo, puro, distaccato dalle brutture della terra, libero da legami umani, è uno spettacolo di gioia agli occhi di Dio. Senza dubbio, il Padre dei cieli vi discende, quando lo vede in tutto simile a quello del suo Figlio. La preoccupazione costante del prete deve allora essere quella di modellarsi sul cuore di Cristo, di imprimere nel suo cuore le sue stesse virtù, la stessa purezza, la stessa dolcezza: soprattutto lo stesso amore. È nell'amore che i cuori si assomigliano.

Il cuore del prete è un vaso in cui Dio instilla il suo amore. Deve essere ben pulito e capace. Dev'essere vasto come un oceano e profondo come un abisso, perché il torrente dell'Amore Infi­nito deve passarvi per raggiungere gli uomini.

Il prete è un cuore solo e un'anima sola con Cristo. Le stesse virtù, le stesse altezze, lo stesso amore per il Padre, per Maria, per la Chiesa e per gli uomini. « Chi ha sete venga a me e beva ». Avviciniamoci a questa sorgente di vita e di amore; a queste fonti del Salvatore sempre straripanti; inebriamoci a questo calice ricolmo dell'Amore Infinito.



L'amore di Cristo per il Padre

Gesù ha amato il Padre. Una sua frase ci rivela il suo amore ardente e filiale: « Io faccio sempre ciò che piace al Padre mio ».

Il segno più sicuro dell'amore è proprio questa inclinazione del­l'anima a fare sempre ciò che piace all'amato, questa attenzione a spiare i suoi desideri, ad abbracciare la sua volontà, a compiacerlo in tutto. I pensieri di Gesù sono stati costantemente fissi nella volontà del Padre, gli sguardi interiori della sua anima sempre cen­trati su di lui. Ha gioito nel contemplare le sue perfezioni, ha ab­bassato se stesso per esaltare ancor più la grandezza del suo Padre dei cieli. Per riparare l'oltraggio che il peccato aveva fatto alla sua gloria, si è sacrificato; per dilatare questa gloria, per aumentarla non ha risparmiato nulla: ha immolato se stesso.

L'amore del Padre ha dominato tutta la vita di Gesù. La sera della Cena, quando appena poche ore lo separavano dalla Passione, ha lasciato uscire dal suo cuore quegli slanci d'amore, di adorazione, di fiducia filiale che non si possono leggere senza cadere in ginoc­chio e piangere. Ama il Padre, e si sa amato da lui; e questo amore infinito, che va dall'uno all'altro in un flusso e riflusso divino, ha profondità, ardori, splendori, slanci inesprimibili: « Padre, è giunta l'ora. Perché il Figlio ti glorifichi, glorificalo tu. La vita eterna, è conoscerti. Tu, solo vero Dio... Padre Giusto, il mondo non ti ha conosciuto; ma io ti ho conosciuto... Che siano uno, come tu, Pa­dre, sei in me e io in te, perché il mondo creda che tu mi hai mandato... ».

Quando Gesù avrà tutto compiuto, quando avrà fino alla fine fatto la volontà del Padre, sarà ancora verso il Padre che si vol­gerà per dirgli nell'abbandono dell'amore: « Padre, nelle tue mani affido il mio spirito ».

L'amore verso Dio deve dominare anche la vita del prete. L'amo­re per il Padre dei cieli che ha fatto di lui una creatura benedetta fra tutte, che l'ha segnato da tutta l'eternità per farlo partecipare all'unzione del suo Cristo; l'amore soprattutto a Cristo, che l'ha colmato dei suoi doni più splendidi, che lo ha sollevato alle dignità più grandi, che l'ha reso un altro se stesso; l'amore a Cristo, un amore profondo, intimo, vivo, deve essere il motore delle azioni, dei pensieri, della vita del prete. Se conosce bene Gesù, se gli ri­mane unito nell'amore, agirà come lui, avrà in sé la Vita.

« Chi mi ama, il Padre mio lo amerà, e verremo in lui e faremo in lui la nostra dimora ». Queste parole sono dette per tutti, ma particolarmente per i preti. Gesù vive, nel prete, in modo tutto speciale: all'altare, sulla cattedra della verità, nel confessionale non è un uomo qualunque, è Gesù, Gesù che insegna e illumina, Gesù che perdona e assolve, Gesù che offre e che sacrifica.

E quando Cristo ha così investito il prete, lo ha riempito di se stesso, quando ha vissuto in lui le tre grandi azioni del sacerdozio, non si ritira. Finché il peccato non lo scaccia, Gesù continua a vi­vere nel suo sacerdote. Ci vive a tal punto che vuole che il prete dica, parlando del suo corpo e del suo sangue: « Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue ». Se il prete pensasse a questa ina­bitazione di Cristo in lui, sarebbe felice di ritirarsi in se stesso, chiudere la porta dietro di sé per intrattenersi con questo ospite divino.

Gesù vive in lui, tutto intero, Dio e Uomo, nel suo splendore e nella sua potenza, nella gloria e nella sapienza di Dio, con la dol­cezza e la tenerezza di un fratello, l'amabilità di un amico.

Tutto Cristo vive nel prete. Sono uno: l'intelligenza di Cristo si unisce a quella del prete e la illumina; il cuore di Cristo batte al­l'unisono con quello del prete e lo accende di amore per gli uomi­ni; il corpo di Cristo si unisce a quello del prete e vi imprime la grazia della castità. È un grande amore che lega questi due esseri. Scambio di pensieri e sentimenti, unione di volontà, conformità di vita, armonia dei cuori, intimità dell'anima.



L'amore di Cristo per Maria

Gesù ha amato la Vergine, sua madre. Fin dall'inizio della sua vita pubblica, ha voluto dare le prove del suo amore di figlio. Erano a Cana, in Galilea. Gesù e sua madre partecipavano a una festa di nozze; il vino era finito, e i servi vennero a dare la notizia a Maria.

Subito lei si volse verso suo Figlio e disse: « Non hanno più vino ». E Gesù, di risposta: « Donna - disse (donna per eccellenza, l'uni­ca, la sola fra tutte senza peccato) - che cosa c'è di comune fra noi? La mia ora non è ancora venuta ». Non ho ancora iniziato a compiere i miracoli che debbo fare. Ma, parlandomi in questa circostanza, mi hai certo voluto ricordare cosa c'è di comune fra noi: il legame del sangue che ci unisce, la comunione di vita, di pensieri, di desideri, d'amore che regna fra noi. Come potrei resi­stere alla tua preghiera, e non anticipare l'ora che avevo fissato? E Maria, comprendendo il suo pensiero, sicura del suo cuore di Figlio, si volge verso i servitori: « Fate tutto quello che vi dirà ». E, riempite le anfore fino all'orlo, Gesù compì il suo primo prodigio.

Queste parole del Salvatore sono state, lo sappiamo, interpre­tate in modi diversi. Ma, per chi ha una qualche conoscenza del cuore di Cristo, possono confermare una delicata, affettuosa allusione a quell'unione così stretta con cui la natura lega madre e figlio. Gesù ha voluto che tutto fosse in comune, tra sé e sua Madre. L'ha associata alla sua grandezza, l'ha unita alle sue gioie, le ha fatto parte dei suoi dolori, l'ha resa vittima con lui, partecipe in qualche modo del suo sacerdozio e corredentrice con lui. L'amore vuole questa unione completa di sentimenti e di stati.

I primi sguardi di Gesù, che vagiva nella culla, erano stati per sua madre. Il primo miracolo della sua vita pubblica è stato fatto per intercessione di Maria; gli ultimi pensieri di Gesù in croce e i suoi ultimi sguardi saranno ancora per lei. Vedendo la Vergine in piedi presso il suo patibolo, in agonia, si china su di lei e, in punto di morte, getta fra le sue braccia ciò che dopo di lei ha di più caro: gli uomini. È la sua eredità, il suo ultimo dono d'amore. Nella persona di Giovanni, che egli amava, le affida tutti i suoi figli. La rende madre feconda fra tutte le madri, regina dell'universo, dispensatrice delle sue grazie.

Tra i sentimenti dell'uomo, il più profondo, forse, è l'amore per sua madre. È una composizione squisita di forza e tenerezza, di sottomissione rispettosa e di fanciullesca familiarità. Quando il figlio riposa sul petto materno che lo ha nutrito, si crede ancora bambino, debole ma molto amato; quando stringe sua madre sul suo cuore, si sente forte, coraggioso per difenderla, potente per proteggerla. È, con lei, docile come un bambino, semplice e pieno di confidenza. Le parla dei suoi desideri, le confida le sue debo­lezze, le rivela i suoi progetti, ci tiene ai suoi consigli, vorrebbe sempre obbedirle.

L'amore per la madre è il primo che nasce nel cuore dell'uomo. E’ anche l'ultimo che vi rimane. È un amore che copre, protegge, purifica, consola, sostiene. È un amore, forse l'unico, al quale ci si può abbandonare con tutto il cuore, senza temere di sciuparlo o di pentirsi.

Per l'uomo, per il prete, la madre è un dono di Dio. Trova in lei, nel suo amore così discreto e fedele, tutto ciò che il suo cuore può desiderare; il suo appoggio, la sua dolcezza, la sua salvezza.

Se il prete deve amare sua madre, se la ama sempre, ancora più deve amare la Madre incomparabile, la Madre di Cristo, Maria. Abbiamo ripetuto spesso che il prete è un altro Gesù. Quello che Maria era per Gesù, lo è anche per il prete. È madre, amorevole, soccorrevole, fedele. Lo circonda con le sue cure, lo guarda con amore, lo ispira, lo istruisce, lo difende, lo benedice.

Quello che Gesù era per Maria, lo deve essere anche il prete: un figlio obbediente, rispettoso, pieno d'amore. Sia sempre con Maria come con sua madre: un bambino. Si nasconda fra le sue braccia nella sofferenza, vada a lei nella gioia; la interroghi quando vuole sapere; ricorra a lei per i minimi bisogni; le confidi ogni suo desiderio, le riveli ogni sua debolezza. Non parli mai, non agisca mai, mai si fermi anche solo a pensare senza che la figura divina­mente pura della Vergine proietti su di lui la sua ombra protettiva.

L'amore di Maria è, nel cuore del prete, un elemento neces­sario. È il raggio di sole e la rugiada che fanno sbocciare in lui il fiore della castità. E’ principio di vita, seme di virtù. Il prete che ama Maria come sua madre, che si confida con lei, che dipende da lei, non uscirà dal giusto cammino; resterà umile, puro, fervente: farà vivere Cristo in lui.



L'amore di Cristo per la Chiesa

L'amore di Cristo per la Chiesa è stato un amore sponsale. Cri­sto ha abbandonato, per unirsi a lei, la gloria del cielo; le si è donato completamente. Le ha offerto la sua vita, consacrandovi, senza alcun limite, la sua intelligenza, la sua volontà, la sua me­moria e tutte le operazioni del suo spirito. Le ha donato il suo cuore, votandosi a un amore ardente, fedele, unico, eterno. Le ha dato il suo corpo. L'ha ornata con le gemme più preziose. L'ha cir­condata delle sue cure più tenere e più vigili. L'ha resa grande, nobile, onorata. L'ha resa feconda. Le ha conservato una fedeltà inviolabile.

Nessuna unione è mai stata più stretta e indissolubile dell'unione di Cristo con la Chiesa. Nessun amore è mai stato così ardente e forte, nessuna dedizione più totale è mai regnata fra due sposi. Sulla croce, come in un letto nuziale, la loro unione mistica si è consu­mata. Da allora, da queste nozze, sono stati per sempre l'uno per l'altra. Nella prosperità e nella sventura, nelle persecuzioni e negli onori, nella gioia e nell'angoscia non sono mai stati separati. Quan­do Cristo è stato disprezzato, la Chiesa è stata disprezzata; quando Cristo è stato abbandonato, la Chiesa, sua sposa, ha conosciuto l'ab­bandono. Quando Cristo è stato amato e lodato, la Chiesa è stata nella gioia.

Così, ogni offesa fatta alla Chiesa ha colpito il suo sposo di­vino; tutte le prove che essa ha attraversato, le ha condivise con lui. Essi sono così strettamente uniti e legati, che i colpi diretti a Cristo, dall'empietà di ogni tempo, hanno sempre ferito la Chiesa, e il fango gettato sulla veste della Chiesa ha sempre macchiato la veste di Cristo.

La prima lacrima di Cristo, versata nella culla, era sufficiente a riscattare il mondo; il primo battito del suo cuore, nascendo, sarebbe stato un riscatto abbondante. Le fatiche, le sofferenze, le lacrime e il sangue versato che sono seguiti, sono l'amore di Cristo per la Chiesa. Egli la voleva arricchire con i tesori di Dio. Voleva rivestirla di porpora, e per tingere il suo mantello ha dato il suo sangue; voleva offrirle una collana di perle, e ha sparso le sue lacrime; voleva coronarla di gloria e di onore, e ha offerto la sua vita e la sua gloria per formare la sua corona.

L'amore non sembra poter andare più lontano, estendersi oltre la morte. Quando lo sposo ha dato la vita per la sua sposa, sem­bra non poterle offrire di più. Ma Cristo si è spinto più avanti. Quella vita che aveva sacrificato, se l'è ripresa. L'ha trasformata e, costringendosi con questa vita nuova in un tabernacolo angusto, rimane, per l'amore della sua Chiesa, fino alla fine dei tempi, in uno stato perpetuo di sacrificio.

E quando ogni giorno si immola per lei, continua a colmarla di doni. La illumina della luce di Dio. La riscalda con il suo amore, la nutre di un cibo delizioso che è il suo corpo divino.

Nelle lotte che essa deve sostenere, perché vive sulla terra, la fortifica, le fornisce le armi. Nelle angosce la consola e le prepara, per il giorno che non avrà fine, un trionfo definitivo, una completa glorificazione.

Se la Chiesa è la sposa di Cristo, è anche la sposa del prete. È la compagna che ha scelto. Nell'ora in cui doveva offrire il suo cuore e consacrare la sua vita, il chiamato da Cristo ha riflettuto sulla direzione in cui orientare il suo destino e, mosso dalla grazia, illuminato dall'Amore Infinito, ha scelto. Senza guardare la bontà che passa, la gioia che perisce e quelle felicità incerte che il tempo offre e che la morte finisce comunque per distruggere, andando ol­tre tutto questo, con un atto libero ha scelto la Chiesa come sua unica sposa; l'ha presa come sua eredità e si è donato totalmente a lei. Il diaconato è stato il giorno del fidanzamento, l'ordinazione sacerdote quello dell'unione completa. Ora, camminano insieme nella vita; divideranno le stesse gioie, soffriranno e si rallegreranno insieme; la gloria dell'uno sarà la gloria dell'altra: non potranno più essere separati.

È bella la Chiesa, con la sua giovinezza sempre nuova che sfida lo scorrere dei secoli. $ ricca dei tesori di Dio. Figlia di Dio, im­bevuta del sangue del Figlio, è nobile e grande. Il prete deve amarla con un amore che non mette confini; deve conservarla gelo­samente nella sua integrità, deve difenderla con ardore dai nemici che sempre la attaccano. La Chiesa deve essere la grande passione del prete. Per renderla libera, felice; per vederla risplendere dal centro della sua splendida unità su tutti gli uomini, il prete deve essere pronto ad ogni fatica, ad ogni sacrificio.

La Chiesa, nei suoi dogmi, nei suoi insegnamenti, nella sua gerarchia; le meraviglie di virtù, di purezza, di donazione, di genio che in venti secoli ha generato, meritano bene che ci si doni a lei, nella pienezza della propria anima e con tutto lo slancio del pro­prio cuore. La Chiesa rende ciò che le si dona, e lo rende migliore. Allarga le intelligenze, innalza gli spiriti, riscalda i cuori. Quando prende un uomo, lo trasforma, perfeziona le sue facoltà, allarga i suoi orizzonti, sviluppa le sue possibilità di essere e di conoscere. La Chiesa è, con Dio, la grande riformatrice dell'umanità; è la me­ravigliosa trasformatrice degli uomini, delle società, dei popoli.

Il prete deve amare questa sposa come l'ha amata Gesù: nelle fatiche, nelle persecuzioni, fino alla follia del sacrificio e della croce.



L'amore di Cristo per gli uomini

È stato la sua vita, la sua ragion d'essere. Insieme al desiderio appassionato della gloria del Padre, è stato l'aspirazione costante della sua anima, il battito del suo cuore, il principio e il fine delle sue azioni, delle sue parole, di ogni suo pensiero. Cristo è nato per gli uomini. E’ morto per loro e, nei trentatré anni che ha tra­scorso sulla terra fra la culla e il sepolcro, questo amore, come un fuoco divorante, non ha smesso un istante di consumarlo.

Se volessimo citare qualche fatto della vita di Cristo che ci parlasse di questo amore per gli uomini, dovremmo trascrivere tutto il Vangelo. Il Vangelo è il poema dell'amore. Nelle sue pagine ve­diamo il Verbo di Dio, disceso volontariamente dal trono della glo­ria, esiliato dal cielo che gli appartiene, umiliato, avvilito, nascosto sotto il velo della condizione umana, passare come un mendicante sulle strade del mondo. Lo vediamo disponibile alle fatiche più umili sopportare le sofferenze più grandi e, alla fine, offrirsi alla morte. E tutto questo, per conquistare l'uomo, per unirsi a lui in un abbraccio d'amore.

Se ci avviciniamo alla croce, se cogliamo dai suoi rami il frutto di sangue che vi è sospeso, se spremiamo questo frutto maturato al sole del dolore, l'amore ne esce a fiotti: non c'è altro che amore. È impossibile contemplare Cristo in croce senza essere convinti del suo amore per gli uomini.

Cristo ha detto che non ci può essere amore più grande di quello di chi offre la sua vita per i suoi fratelli. E questo amore grande, egli lo ha avuto per gli uomini. Prima, ha offerto la sua vita goc­cia a goccia, con preghiere incessanti, lunghe fatiche, con tre anni di viaggi apostolici, di predicazione, di privazione, di prove; con il dolore continuo che la moltitudine dei peccati dell'uomo segnava in lui. Infine, ha offerto questa vita pura e santa, con l'effusione totale del sangue, iniziata all'orto degli ulivi negli spasimi dell'ago­nia, proseguita al pretorio sotto i colpi della flagellazione e le spine di cui è stato incoronato, compiuta sul Calvario con i chiodi della crocifissione, ultimata sulla croce con il colpo di lancia che ci ha aperto il suo cuore.

Se non possiamo guardare la croce senza credere all'amore, non possiamo avvicinarci al tabernacolo senza sentirci immersi nelle sue onde di vita. L'amore tende invincibilmente all'unione. Il desiderio di unirsi agli uomini è stato continuo, pressante, in Gesù. Questo bisogno di unione è stato, forse, il grande tormento di Cristo e, per soddisfarlo, ha inventato mezzi sempre nuovi. Ha scavalcato ogni ostacolo, ha utilizzato tutta la sua potenza di Dio.

Dopo essersi unito all'uomo nella conformità della natura, ha rafforzato questa unione con una somiglianza perfetta di vita, di attività, di sentimenti e di stati. Ha voluto vivere nell'uomo per mezzo della grazia; ma non era ancora un'unione sufficiente. Nella sua sapienza e potenza ha costituito un'unione intima, reale, fino allora inaudita; una unione per mezzo della quale viene a vivere in noi spiritualmente, nella quale colma di vita ogni parte della nostra persona: l'unione dell'Eucaristia.

È il capolavoro dell'amore. Con più amore e dedizione di un padre che nutre i suoi figli con i frutti del suo lavoro, più tenero di una madre che dà il suo latte, Cristo si fa pane per nutrire lui stesso la sua creatura più amata. Penetra in noi e ci compenetra di sé. Vivifica, con la sua sostanza divina, la nostra sostanza. Si incorpora a noi. Diviene noi e noi diveniamo lui. Per ogni uomo Cristo si sacrifica e si dona, si consuma e si annienta.

L'amore degli uomini regna nel cuore del prete come in quello di Cristo, perché questi due cuori, uniti nello stesso amore, sono una cosa sola. Prima di tutto, il prete ama gli uomini perché Cristo li ha amati. Vuole sacrificarsi per loro, perché Cristo si è offerto in sacrificio per la loro salvezza. Il bisogno che ha di imitare in tutto il Signore lo porta con un'attrazione irresistibile verso gli uomini, amati a tal punto da Gesù.

Altri motivi ancora lo spingono ad amarli: è stato creato per amore, è stato creato per gli uomini. Dio è Amore: tutto ciò che viene da lui è amore, tutti gli esseri che crea sono creazioni del­l'amore. Ma particolarmente il prete è una creazione dell'amore. Dio ha tanto amato gli uomini che ha donato loro il suo Figlio unico; il Verbo ha tanto amato che si è incarnato e immolato per loro. E quando Cristo è stato nuovamente innalzato nella gloria, Dio, nel suo amore, ha creato il prete per gli uomini perché vi siano sem­pre con loro altri Gesù per istruirli, consolarli, assolverli e amarli.

Ecco perché il prete deve amare gli uomini: perché è ciò che è, un privilegiato da Dio, un altro Gesù, soltanto a causa loro e per loro. Il prete è stato donato agli uomini, gli uomini sono donati al prete. Da questa doppia oblazione devono nascere, nel cuore del prete, una dedizione, uno zelo, una tenerezza infiniti. È la creatura di Dio, che egli ama negli uomini; è l'oggetto dell'amore appassio­nato di Cristo, è il dono speciale della chiamata di Dio. Gli uomini sono la ragione delle grazie e dei privilegi che sono concessi al prete. Sono la causa della sua grandezza.

Gli uomini sono di Dio e il prete è degli uomini. A loro offre la sua fatica, i suoi sudori, le sue lacrime e il suo sangue. A loro l'opera della sua intelligenza, gli slanci della sua volontà; a loro la sua parola, il suo pensiero, la sua vita; a loro gli slanci della sua giovinezza, la forza della sua maturità, le ultime fatiche e gli ultimi sforzi della vecchiaia.

Cristo ha amato gli uomini e ha dato le prove del suo amore soffrendo per loro e unendosi ad essi a tal punto da farsi loro nutri­mento. Il prete segue il suo esempio, entra nelle sue disposizioni d'amore, fa propri i suoi sentimenti.

Soffre per gli uomini, e qualche volta con molto dolore; ma, nelle angosce del parto spirituale, si rallegra, perché sa che in que­sto modo offre a Dio dei figli nuovi. Si unisce a loro donandosi completamente, vivendo soltanto per essi, utilizzando ogni sua dote per renderli felici, per salvarli.

Questa salvezza degli uomini è la grande, l'unica preoccupazione del prete; conquistarne uno solo all'amore di Cristo è la sua gioia più grande. Questa passione per gli uomini si impadronisce di lui a tal punto che dimentica completamente se stesso. La sua felicità, la sua consolazione, è deporre ai piedi di Cristo il frutto delle sue fatiche, il trofeo d'amore delle sue vittorie di pace. Aprire il seno della misericordia a un peccatore; lavare il fango che copre le im­magini di Dio e, con un lavoro continuo, con ritocchi successivi, ricostruire la rassomiglianza divina; vedere dei capolavori di san­tità formarsi sotto le sue mani, ecco le gioie, le ebbrezze divine che l'amore degli uomini riserva al sacerdote di Gesù.

Bossuet dice in qualche luogo, parlando di Maria: « Maria è un Cristo iniziato ». Il prete, è un Cristo continuato. La sua vita è come un prolungamento, nei secoli, della vita terrena di Gesù. La sua parola non è solo un'eco, più o meno sonora, della parola di Cristo: è la parola stessa di Gesù che passa nella sua voce, perché il nostro Salvatore ha detto ai suoi sacerdoti: « Chi ascolta voi, ascolta me ». Se è così, se il prete è un Cristo, deve essere circondato di ri­spetto. Questo rispetto, questo onore dovuti al sigillo che lo segna, li incontra ancora in coloro che conservano una retta coscienza e l'ideale delle grandi cose. È anche spesso insultato, ed è per lui un onore e una gioia d'essere in questo simile al suo Maestro.

Ma il prete, rispetta abbastanza se stesso? Ha una idea com­pleta della sua dignità e della sua grandezza? Sa quanto deve a Dio di adorazione e di riconoscenza, quanto deve a Cristo di amore e di imitazione, quanto deve ai suoi fratelli di edificazione e di­sponibilità? È il desiderio di Cristo, vedere i suoi preti, consci della grandezza del loro ministero e insieme della propria debo­lezza, venire al suo Cuore e ricevervi la luce che rischiara e il calore che dà la vita.

Andate allora, sacerdoti di Cristo, alle sorgenti del Salvatore. Andate ad accostare le vostre labbra a quella piaga di amore da cui sgorga il sangue dei vostri calici. Andate a questo fuoco del­l'Amore Infinito: infiammate il vostro cuore, riempitevi di amore e spargetelo sul mondo. Cristo ha portato il fuoco sulla terra: vuole che accenda e bruci, ed è compito vostro, sacerdoti del Signore, attizzare queste fiamme e accendere il mondo di amore.



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07/09/2009 15:12

PARTE TERZA

L'AMORE DEL VERBO INCARNATO PER 1 SUOI SACERDOTI



CAPITOLO I

Amore di Cristo per i suoi sacerdoti prima della sua nascita


Il Verbo, Dio da Dio, luce da luce, generato e non creato, ge­nerato dall'Amore Infinito, Amore egli stesso, tanto autenticamente Amore quanto autenticamente Dio, è rimasto lo stesso anche nell'in­carnazione. E poiché Gesù Cristo, Verbo incarnato, è Dio, è anche l'Amore.

L'umanità di Cristo, unita a questo Amore, penetrata da lui, animata da lui, deve amare, e ama: ama di un amore appassionato e ardente. Ama, per tutta la sua vita, in pienezza. Il cuore di Cristo ha dei battiti che i nostri cuori non ci hanno mai fatto ascoltare. Ora che il Salvatore è nella gloria, continua ad amare. Amerà nello spazio immenso dei tempi e, come Gesù risorto non muore più, così anche il suo cuore non può più smettere di amare. Per tutta l'eternità amerà di un amore senza cedimenti e senza fine.

Questo amore di Cristo che non avrà mai fine, ha però avuto un inizio. Il Verbo ama da sempre; ma il cuore d'uomo di Cristo, creato nel tempo, ha iniziato a battere un giorno preciso: un giorno ha iniziato ad amare. Quando vediamo un grande fiume scorrere maestosamente, pensiamo con naturalezza che quelle onde che si spingono e si succedono andranno infine a perdersi nel mare, in quell'oceano immenso nel quale si confonderanno. Ma qualche volta ci fermiamo a pensare alla sorgente da cui questo fiume dalle larghe onde è uscito, e risaliamo il suo corso per cercare il luogo, in genere solitario e nascosto, da cui stillano le prime gocce delle sue acque. Così, meditando sull'amore infinito di Cristo, possiamo non soltanto considerarlo nella sua durata eterna; possiamo cercare l'inizio di questo amore, risalire fino al primo battito del suo cuore.

Il Verbo si abbassava nell'incarnazione per glorificare il Padre dei cieli e riscattare gli uomini dal peccato e dalla morte. I primi palpiti del cuore di Gesù furono quindi certamente per il Padre suo, per la Vergine che gli aveva dato il suo sangue e la sua carne, per l'uomo peccatore che veniva a salvare. Ma, accanto a questi tre grandi amori, vediamo nascere in Cristo un'altra predilezione che dominerà l'intera sua vita e di cui non cesserà mai di fornire le prove.

Appena concepito nel seno verginale di Maria, ispira sua Madre a dirigersi verso le montagne ed entrare in casa del sacerdote Zac­caria. Ha fretta di comunicare a Giovanni, ancora nel seno materno, la purezza e la santità.

È questo l'amore di Cristo per i suoi sacerdoti, per quel sacer­dozio di cui egli è il Capo. Sacerdote in eterno nell'ordine di Melchi­sedech, unico sacerdote in cui e per cui soltanto ogni altro sacerdote è tale, Cristo ama, con un amore di predilezione, coloro che rende partecipi del suo sacerdozio. Li ama: e riconosce, nel bambino di Elisabetta, l'anello misterioso che congiunge il sacerdozio dell'Antica Alleanza, che sta per scomparire, al nuovo sacerdozio che egli sta per fondare. Grazie a Giovanni, la catena sacerdotale non sarà spez­zata. Per mezzo suo il germoglio che nasce dal ceppo abbattuto di Aronne potrà trarre la sua linfa da un passato glorioso, mentre il fuoco dello Spirito e la rugiada del sangue di Cristo gli faranno crescere fiori meravigliosi e frutti squisiti. Ecco che cosa ha attratto il Verbo incarnato verso il figlio di Elisabetta e di Zaccaria.

Ma, si potrebbe obiettare, Giovanni non fu un sacerdote. Non successe a suo padre nelle funzioni del culto. Non lo si vide, al Tempio, offrire l'incenso o sacrificare agnelli sull'altare. Non mangiò mai la carne delle vittime offerte a Jahwè. Non visse il ministero del sacerdozio cristiano; non prese parte alla Cena del Signore; non consacrò il calice del sangue di Gesù; non amministrò i sacramenti vivificanti della nuova Alleanza.

Siccome doveva servire da ponte fra i due sacerdozi, non doveva appartenere completamente né all'uno né all'altro, e tuttavia parte­cipava di ciascuno di essi.

L'Evangelista sembra compiacersi nel far risaltare il carattere sacerdotale del Battista, quando annota, all'inizio del suo libro, che non solo Zaccaria, ma anche Elisabetta erano della stirpe di Aronne. L'annuncio del prossimo concepimento di Giovanni è dato, a suo padre, nel Tempio, e nella parte riservata ai sacerdoti, mentre Zac­caria offre l'incenso, nel pieno quindi del suo servizio sacerdotale. Giovanni nasce. Ben presto si ritira nel deserto ed è là che cresce separato dal resto degli uomini, educato soltanto da Dio.

Giovanni è in un certo senso sacerdote. Il suo tempio è il de­serto. E’ là, sotto lo splendido cielo d'Oriente, che fa salire verso Dio l'incenso della sua adorazione e il canto armonioso del suo amore; è là che offre una vittima, certo migliore di quelle della legge an­tica e tuttavia inferiore alla Vittima della nuova Alleanza: offre se stesso, immolandosi con la spada di una rigida penitenza.

Come i preti del sacerdozio cristiano, annuncia la buona novella, predica la penitenza, indica il Salvatore agli uomini, insegna, illu­mina, rimprovera. Giovanni è una magnifica figura di sacerdote, di­staccato dai legami del mondo, puro nella sua vita, appassionato della verità, in tutto dedito agli uomini, forte nella condanna del male. Il rigore della legge del timore si sente nella sua predicazione, che non è ancora stata penetrata dalla misericordia di Cristo. Ma è umile, dimentico di se stesso, rispettoso e tenero con Gesù.

Giovanni era il precursore di Cristo; ogni prete è chiamato ad essere come lui precursore di Gesù. « Ecco l'Agnello di Dio »: dopo diciannove secoli, i preti lo ripetono ancora presentando l'Eucaristia, e sono un'eco della parola del Battista.

È stato quindi l'amore per i suoi sacerdoti che ha condotto Gesù dal Battista, per donargli l'abbondanza della grazia. Purificandolo, santificandolo, colmandolo di gioia nel seno di sua madre, purificava il suo sacerdozio, lo separava, lo innalzava sull'umanità. E più tardi, quando, sulle rive del Giordano, chiese a Giovanni il suo battesimo e si chinò sotto la sua mano, lo fece certo per assumere la forma del peccatore e rendersi simile a noi; ma era anche un omaggio al suo sacerdozio. Alludeva a quell'atteggiamento di sottomissione che

avrebbe assunto nei confronti dei suoi preti, rimettendosi nelle loro mani, obbedendo alla loro volontà (nell'Eucaristia).

Cristo ha donato ai preti le primizie del suo amore, nella per­sona di Giovanni. $ una consolazione, per essi, saperlo. Sono loro che erano amati già nel precursore; loro cui si rivolgeva la grazia preveniente di Cristo; loro che egli muniva dei suoi doni. È una consolazione, e uno stimolo: ad amare, ad offrire a Cristo la pro­pria giovinezza, i primi battiti d'amore del proprio cuore.



CAPITOLO II

Amore di Cristo per i suoi sacerdoti durante la vita nascosta e la vita pubblica


Gesù ha amato i suoi sacerdoti fin dall'aurora della sua vita, da quell'istante in cui i primi lineamenti della sua umanità sono stati formati in Maria. E come un recipiente si impregna e conserva a lungo il profumo del primo liquore di cui è stato riempito, così il cuore di Cristo era stato, fin dall'inizio, colmato di amore per i suoi preti, essendone compenetrato più profondamente che da qual­siasi altro amore. In tutta la sua vita ha lasciato trasparire questa predilezione per il suo sacerdozio.

Dei lunghi anni della sua vita nascosta a Nazareth ci è giunto soltanto un frammento. Salito a Gerusalemme per la festa, all'età di dodici anni, Gesù rimane, all'insaputa di Maria e Giuseppe, in città e viene ritrovato dopo tre lunghi giorni di ricerche. È rimasto al Tempio. Viene ritrovato là, non in adorazione davanti all'Arca, non accanto all'altare dei sacrifici, ma con i dottori e i sacerdoti, mentre li ascolta e li interroga?

Più tardi, nella vita pubblica, questo rispetto per i sacerdoti rimane. Un giorno, guarisce un lebbroso: « Va' - dice -, e fatti vedere dal sacerdote ». Rendigli omaggio, riconosci la sua autorità, fa' ciò che vuole, sembra aggiungere. Obbligato, per illuminare il popolo, a sferzare i vizi e le degradazioni di questo sacerdozio giu­daico, un tempo così grande e ora caduto così in basso, Cristo non dimentica di far notare la dignità sacerdotale, e di indicare i sa­cerdoti e i dottori dispensatori della verità e maestri degli uomini: « Sono seduti sulla cattedra di Mosè: fate quello che dicono, ma non fate quello che fanno ».

Giovanni, nel Vangelo, riferendo questa parola di Caifa: « E’ meglio che un solo uomo muoia per il popolo », ci fa notare la grandezza del sigillo sacerdotale e i privilegi che conferisce: « Pro­fetizzò - dice il Vangelo -, perché era Sommo Sacerdote ». Mal­grado la propria indegnità, a dispetto dell'odio e della gelosia da cui è animato, Caifa, per il fatto solo che è Sommo Sacerdote, ri­ceve da Dio il dono della profezia. Rivela, con quelle poche parole, forse senza saperlo, il mistero della Redenzione. Sì, anche quando il prete ha sbagliato, anche quando il peccato lo avvilisce e lo macchia, bisogna ancora rispettare la sua dignità. Dio la rispetta anche quando la vede abbassata e avvilita in un Caifa.

Nelle ultime ore della sua vita, Gesù rispetta ancora quel sacer­dozio antico che vacilla sulle sue fondamenta. Si mostra deferente e rispettoso nei confronti di quelli che si sono fatti suoi giudici. In piedi di fronte al Sommo Sacerdote, lo ascolta e gli risponde. Il suo contegno testimonia che ne riconosce l'autorità. Non gli sfugge una parola di protesta. Si lascia colpire, e perdona.

Cristo insegna il rispetto per il sigillo sacerdotale. Il prete co­nosce le debolezze: è un uomo. Gettiamo un velo su queste miserie umane: guardiamo più in alto. Scorgiamo le grandezze di Dio na­scoste sotto la bassezza e la nullità; riconosciamo l'azione di Cristo nascosta sotto ombre umane. E anche quando la decadenza è com­pleta, rispettiamo ancora il prete: è una rovina, piangiamo su questi resti sparsi di un tempio che Dio aveva scelto come sua casa, e che oggi serve di ricovero alle bestie selvatiche. Piangiamo e preghiamo. Se Gesù ha rispettato il sacerdozio giudaico, ancor più ha amato quello cristiano. Lo ha scelto, lo ha formato con le sue mani. È la sua opera preferita, l'opera del suo cuore. Seguiamo Gesù nei tre anni della vita pubblica: lo vedremo senza sosta impegnato nella formazione, nell'istruzione, nel perfezionamento dei suoi sacerdoti. È lui che li sceglie e li chiama a seguirlo. Il suo sguardo si fissa su di loro. Vede le loro possibilità e, a dispetto delle loro miserie e della loro debolezza, li attira a sé. Alcuni, chiamati da lui, si ritire­ranno dopo averlo seguito; altri sentiranno, fin dall'inizio, il loro coraggio vacillare di fronte ai sacrifici che questa chiamata impone. Cristo soffrirà di queste defezioni, e volgendosi verso quelli che gli sono fedeli dirà: « Volete andarvene anche voi? ».

Dopo aver fatto dei Dodici i capi della sua Chiesa, separa an­cora dalla folla dei discepoli, settantadue persone, più fedeli e di­sponibili. Dà loro le istruzioni; trae dal tesoro del cielo la pie­nezza dei doni di Dio; poi li manda, a due a due, ad annunciare la salvezza ad ogni creatura. Quando ritornano dai loro viaggi apo­stolici, li accoglie e li invita con affetto a riposarsi. « Venite, e ri­posatevi un poco ».

Alle folle, parla in parabole, velando lo splendore delle verità di Dio con l'ombra delle immagini, per non abbagliare i deboli occhi della gente. Ma, quando i discepoli gli chiedono, in privato, qualche spiegazione, risponde volentieri ad ogni loro domanda: « A voi è concesso di conoscere i misteri del regno di Dio ». Se li vede spaventati da qualche suo prodigio: « Abbiate fiducia - dice loro -, sono io, non temete ».

Indirizza loro parole sempre soavi, illumina ogni loro dubbio e risolve ogni difficoltà. Attento alle loro minime necessità, cerca oc­casioni per insegnare loro a conformarsi a quelle virtù sacerdotali di cui è lui stesso la pienezza e il modello.



CAPITOLO III

Amore di Cristo per i suoi sacerdoti nelle ultime ore della sua vita


Nelle ultime ore della sua vita mortale, Gesù fece apparire in maniera ancor più evidente il suo amore per i sacerdoti. Nel discorso della Cena che Giovanni ci ha conservato, la tenerezza di Cristo risplende si può dire ad ogni parola: sono le effusioni più intime del suo amore.

« Ho desiderato molto - dice - di mangiare questa Pasqua con voi prima di soffrire ». Desiderava rendere partecipi del suo sa­cerdozio gli apostoli, segnarli con il sigillo che li innalza oltre le gerarchie angeliche. Era ansioso di mettersi nelle loro mani nel­l'Eucaristia, di offrirsi totalmente a loro, di dipendere da loro. Come un artista impaziente di veder sorgere sotto le sue mani il capola­voro che ha sognato, Gesù affrettava con il suo desiderio il mo­mento in cui doveva costituire l'opera sognata dal suo Cuore: il sacerdozio cattolico.

« Ho desiderato molto... ». E’ un'aspirazione profonda. Ha desí­derato molto di mangiare questa Pasqua. Altre volte prima di al­lora aveva mangiato la Pasqua con i discepoli: ma non era questa Pasqua, nel corso della quale avrebbe istituito il suo sacerdozio. Come un padre in mezzo ai suoi figli, presiede il pasto; poi si alza e, umilmente, si inginocchia di fronte agli apostoli e rende loro il servizio di uno schiavo, lavando loro i piedi e asciugandoli. Per diminuire, in qualche modo, la distanza che li separa da lui; per incoraggiarli e renderli meno indegni, anche ai loro occhi, della sua bontà. Dice loro: « Voi siete puri »? Fa ancora di più. Li innalza fino a sé. Li rende uguali a sé e si spinge fino ad assicurarli che « chiunque riceverà colui che egli avrà mandato, riceverà lui stesso » La bontà di Cristo non avvolge soltanto i suoi discepoli puri, si estende fino all'apostolo infedele. Con avvertimenti pieni d'affetto cerca di toccare il cuore del traditore. Si sforza di far nascere in lui la fede e la confidenza che potrebbero ancora distoglierlo dal suo peccato.

Il momento solenne è giunto. L'Amore Infinito sta per produrre il suo capolavoro; la sapienza e la potenza di Dio stanno per agire insieme. Sarà il dono per eccellenza della carità di Dio: l'Eucari­stia. Dio con noi, Dio in noi; Gesù Cristo, Dio e uomo, unito spirito a spirito, cuore a cuore, corpo a corpo con l'uomo riscattato e sal­vato: « Prendete e mangiate, prendete e bevetene tutti ».

Ma lo sforzo dell'Amore non è terminato. Gesù non sarà sempre presente, nella sua forma umana e palpabile, a operare il miracolo. Bisogna che altri uomini rivestiti della sua potenza gli succedano e rinnovino, lungo i secoli, la misteriosa transustanziazione che ha ap­pena compiuto. In quel momento il sacerdozio scaturisce dal cuore di Cristo. Coloro che circondano Gesù in quest'ora ricevono quel si­gillo sacro e incancellabile che li rende sacerdoti per l'eternità e che, di generazione in generazione, i chiamati dall'Amore porteranno per la gloria di Dio e la salvezza del mondo.

Appena gli apostoli sono rivestiti del sigillo del sacerdozio, Gesù sente il proprio amore per loro aumentare ancora. Non può più contenerlo in se stesso. Bisogna che lo testimoni loro: « Per voi che siete stati con me anche nella prova, io preparo un regno come il Padre mio lo ha preparato a me »' Come una madre, li chiama « bambini miei ». Non vuole che si lascino prendere dalla tristezza: « Non sia turbato il vostro cuore, ( ... ) vado a prepararvi un posto... ritornerò e vi prenderò con me ». « Pregherò il Padre perché vi mandi il Consolatore... Non vi lascerò orfani ». « Chi mi ama sarà amato dal Padre mio... »

Poi, parla loro della vite e dei tralci, di questa unione misteriosa che stabilisce in lui la comunione di un solo sacerdozio. Raccomanda loro di stringere ogni giorno di più i legami di questa unione indi­spensabile, senza la quale non potranno portare frutto: « In questo è glorificato il Padre mio, se portate molto frutto. Come il Padre ha amato me, così io ho amato voi. Rimanete nel mio amore ».

Il Battista si era attribuito il titolo magnifico di « amico dello Sposo ». Gesù lo aveva approvato e se ne era servito lui stesso per qualificare i suoi apostoli, rispondendo un giorno ai discepoli del Battista: « Gli amici dello Sposo non possono digiunare e pian­gere quando lo Sposo è con loro ». Ma, in quest'ultima sera, Gesù riprende questo titolo e lo offre solennemente ai suoi sacerdoti, come loro nome: « Voi siete miei amici; non vi chiamerò più servi, ma amici... ». Amico: è il nome proprio della persona amata, della persona scelta dall'amore. Un padre, un fratello, addirittura uno sposo possono non essere affatto amati; ma un amico no. Si è amici soltanto perché si è amati, e se si cessasse di esserlo, si smetterebbe pure di essere chiamati amici.

Il prete è dunque l'amico più caro di Gesù. In mezzo al popolo di Dio, che Gesù ama, Cristo lo ha distinto, e lo ha chiamato alla sua amicizia. Così, dice agli apostoli: « Sono io che vi ho scelti e vi ho costituiti ». E aggiunge: « Vi ho separato dal mondo... ». Cristo separa il prete dalla massa, ma per innalzarlo e unirlo più intimamente a sé.

Infine, per completare la testimonianza del suo affetto e per in­coraggiarli, li rassicura dell'amore del suo Padre dei cieli: « Il Padre vi ama perché voi mi avete amato... ». « Vi ho detto tutte queste cose perché troviate in me la vostra pace. Nel mondo, voi sarete oppressi dalle tribolazioni. Ma abbiate fiducia, io ho vinto il mondo ».

Cristo prorompe in una preghiera ardente. Gli occhi rivolti al cielo, le mani alzate, Gesù raccomanda al Padre il sacerdozio che ha appena istituito. Sa che presto uscirà dal mondo, e che non sarà più visibilmente in mezzo ai suoi apostoli per sostenerli e consolarli. Sa anche che sono deboli, e che nel mondo in cui li invia, come agnelli in mezzo ai lupi, saranno esposti a molte sofferenze e a molti pericoli. Così, in quest'ora suprema in cui sta per abdicare in qualche modo alla sua divinità e alla sua potenza per essere sol­tanto più vittima di espiazione, prova il bisogno di confidare al Padre le attese più vicine al suo cuore: « Prego per loro ».

Tra poco pregherà per i suoi fedeli, per quelli che « crederanno per la loro parola »? Ma ora, pensa soltanto ai suoi preti: « Io non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato ». Chiede per loro la comunione perfetta dei cuori e delle volontà, necessaria per compiere il bene; quell'unione di pensiero e di azione che, sola, è forza e che permetterà alla sua Chiesa di attraversare senza cedi­menti le onde del male e le tempeste della persecuzione: « Che siano uno come noi lo siamo ». Infine, dopo aver ripetuto più volte che i suoi sacerdoti non sono del mondo - indicando anche, con questa insistenza, che se essi devono vivere nel mondo, non devono però assumerne lo spirito, né conformarsi alle sue abitudini - Gesù con­clude con umiltà e tenerezza: « E io mi santifico per loro, affinché anche loro siano santificati nella verità ».

Quando una madre vuole insegnare al suo bambino a camminare, fa ella stessa, davanti a lui, dei piccoli passi, come lui li dovrà fare; e quando, più tardi, gli insegna a leggere, còmpita anche lei, come i bambini, le prime parole del libro. Gesù, che vuole santi i suoi preti, santífica se stesso nelle debolezze e nelle necessità dell'uomo. Li vuole in tutto simili a sé e inizia col rendersi in tutto simile a loro. Così per tutte le virtù: si assoggetta alle precauzioni che richiede il conservare la castità, lui infinitamente puro; e si lascia qualche volta assalire dalla tristezza, per insegnare loro a vincere tentazioni del genere. Si santifica per servire da modello, per essere il tipo eterno del sacerdote cattolico, il tipo completo della perfe­zione sacerdotale.

Le ore sono trascorse rapidamente in questo colloquio intimo, in cui Cristo si è mostrato colmo d'affetto per i suoi discepoli. L'agonia è venuta a ferire il suo cuore... Gesù tuttavia si è rialzato ed è avanzato coraggiosamente verso la coorte che si avvicinava per catturarlo... Giuda gli dà il bacio del tradimento. Gesù potrebbe folgorare con lo sguardo il discepolo infedele, coprirlo di meritati rimproveri o schiacciarlo con un silenzio sprezzante: non fa nulla di tutto questo. Ha visto, sulla fronte del traditore, il sigillo del sacerdozio. Lo rispetta ancora; ama ancora quest'uomo che aveva innalzato e che vede precipitare così in basso: « Amico cosa sei ve­nuto a fare qui? » Qualche istante più tardi, mentre si sta consegnando ai suoi ne­mici, Cristo pensa ancora ai suoi discepoli. Accetta, vuole per sé la prigione e le catene, ma per loro desidera la pace e la libertà:

« Se è me che cercate - dice al capo della coorte, lasciate an­dare costoro ».

Quando Gesù, nell'agonia della Croce, pensò ai suoi apostoli, ai suoi preti che aveva colmato di tanti benefici, il suo cuore si deve essere colmato di amarezza. Pietro, che aveva reso capo e pontefice del suo sacerdozio, l'aveva rinnegato tre volte, dicendo sprezzante: « Non conosco quell'uomo ». Giuda, cui aveva testimoniato una confidenza particolare, lo aveva tradito e venduto, e ora, rifiutando la misericordia, si abbandonava alla disperazione e alla morte.

A eccezione di Giovanni, il fedele, che Gesù vedeva ai piedi del suo patibolo, tutti lo avevano vigliaccamente abbandonato; tutti lo avevano lasciato indifeso e privo di aiuto nelle mani dei carnefici... Restava solo nel dolore... Solo... ma con il suo amore invincibile, e il cuore colmo di perdono.



CAPITOLO IV

Amore di Cristo per i suoi sacerdoti dopo la risurrezione


La morte poteva, per qualche ora, irrigidire il cuore pulsante di amore di Gesù e impedirgli di battere. Ma appena fosse apparsa l'aurora radiosa della risurrezione; appena la vita fosse rientrata trion­fale nell'Umanità del Salvatore, l'Amore avrebbe nuovamente fatto battere il cuore di Cristo, e per primo ne sarebbe traboccato l'amore per il suo sacerdozio.

Le prime parole di Gesù a Maddalena, dopo essersi fatto rico­noscere, sono per i suoi preti: « Va' a dire ai miei fratelli che io risalgo al Padre mio e Padre vostro, al mio Dio e vostro Dio ». I miei fratelli. Non dice: va' a dire ai miei discepoli, o ai miei apo­stoli. Queste parole sono troppo fredde per soddisfare il suo amore. « Andate a dire ai miei fratelli », ripete alle donne venute al se­polcro. I tradimenti, le ingratitudini, le viglíaccherie della vigilia, tutto è dimenticato. Questo amore supera le possibilità di essere capito.

I quaranta giorni che il Salvatore trascorre sulla terra dopo la risurrezione saranno tutti impiegati all'edificazione definitiva della Chiesa e alla formazione dei suoi preti. In precedenza, si offriva alla folla: insegnava, consolava, guariva i malati e accarezzava i bam­bini. Si faceva tutto a tutti. Ora, sembra aver ripreso la vita soltanto per dedicarla ai suoi apostoli. La sua parola, i miracoli, le sue be­nedizioni saranno soltanto per loro. Li copre con la sua potenza, li colma di beni tanto che nessuna creatura potrà eguagliarli. Li in­nalzerà così in alto che i re della terra dovranno inchinarsi a loro e i principati del cielo potranno invidiarli. Li rivestirà a tal punto di se stesso, vivrà a tal punto in loro che compiranno le opere che egli ha compiuto, e anche più grandi ancora. E’ l'amore più grande quello che opera un'unione così totale.

Dopo essere apparso alle donne, il cui coraggio e attaccamento a lui meritavano una simile preferenza amorosa, Gesù apparve a Pietro. Questo discepolo, malgrado la sua caduta così dolorosa per Cristo, è tuttavia il primo a ricevere le sue benedizioni. Perché è il capo del sacerdozio nuovo, pastore supremo del gregge di Cristo. La sera dello stesso giorno, dopo aver illuminato e consolato i due discepoli sulla strada di Emmaus, ed essersi rivelato loro nel­l'Eucaristia, il Salvatore viene al Cenacolo, e appare fra i suoi apo­stoli riuniti. Il suo volto è raggiante; le sue parole colme di tene­rezza: « La pace sia con voi... Perché avete paura?... »' Mostra loro le mani e i piedi, e con semplicità chiede qualcosa da mangiare per convincerli del tutto della realtà della sua risurrezione. Allora, quando la fede entra in loro, Gesù si china e con il suo soffio comunica loro lo Spirito vivificatore.

Al tempo della creazione, Dio aveva formato l'uomo dal fango della terra, gli aveva dato vita con il suo soffio e aveva conferito alla sua anima l'immortalità. Al tempo della Redenzione, questo stesso soffio onnipotente, uscendo dalla bocca del Cristo, comunica ai preti il potere di dare la vita alle anime, di risuscitarle dalla morte del peccato: « Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi; a chi li riterrete, saranno ritenuti ». Quasi una partecipazione offerta ai preti alla potenza creatrice di Dio.

Otto giorni dopo, Gesù appare nuovamente nel Cenacolo. Viene a soddisfare la curiosità del discepolo ostinato e incredulo. « Tom­maso - gli dice -, vieni qui: metti le tue dita nella ferita del mio costato, e non essere più incredulo, ma credente ». Sembra dire: metti la tua mano nel mio cuore e ascolta i suoi palpiti di amore. Tommaso non poteva non riconoscere, in questa bontà, il suo Si­gnore e il suo Dio.

Un giorno gli apostoli, spinti dalla necessità, avevano ripreso le loro barche e le reti ed erano andati a pescare, su quel lago di Ti­beriade che spesso era stato testimone dei miracoli di Gesù. Dopo una lunga notte di lavoro infruttuoso, era giunto il mattino. Ed ecco che sulla riva, alle prime luci dell'aurora, apparve una figura: era Gesù. La sua voce risuonò sulle onde, nel silenzio della natura an­cora addormentata: « Figli miei, non avete niente da mangiare? ». È la bontà di un padre: « Figli miei... ». E quando gli apostoli ap­prodano, trainando le reti miracolosamente cariche di pesci, trovano un fuoco acceso, la colazione preparata e Gesù, come il più piccolo fra loro, che apparecchia ogni cosa e si prepara a servire egli stesso il pasto.

Al termine, Gesù si avvicina a Pietro. Per rimproverargli le sue cadute? Per toglierli il primato e darlo a qualcuno più degno e più fedele? Per metterlo ancora alla prova, e rimetterlo di fronte alla sua debolezza? Niente di tutto questo. Cristo è troppo delicato per fare anche soltanto un'allusione al passato: « Simone, mi ami tu più di costoro? - Signore, io ti amo. - Pasci i miei agnelli », cioè governa il mio popolo, sii loro capo e loro padre, nutrili con le tue attenzioni e le tue fatiche.

E Gesù riprende ancora: « Simone, mi ami tu? - Sì, Signore. - Pasci i miei agnelli! ». Sii madre per il mio popolo, portalo nel tuo cuore, nutrilo di te, offri la vita per lui.

E di nuovo Gesù domanda: « Simone, mi ami tu? ». Due affer­mazioni non sono bastate al Maestro per convincerlo dell'amore di Pietro? Certo sono bastate, e per questo la cura di reggere il popolo di Dio gli è stata affidata. Ma Gesù vuole ancora donare qualcosa al suo apostolo. Vuole affidargli la parte del suo gregge più cara al suo cuore e, per questo, esige un amore più grande e più forte.

Pietro, rattristato da questa inspiegabile insistenza, risponde: « Signore, tu sai ogni cosa, e sai dunque bene che ti amo ». Questa risposta non è solo un atto di amore, come i due precedenti; è anche un atto di fede solida nella divinità di Cristo: « Tu sai ogni cosa », e di assoluta confidenza in lui: « tu sai bene che ti amo ». Gesù aspettava proprio questo. Dice a Pietro: « Pasci le mie pecore ». Sii il capo, il pastore del mio sacerdozio; conduci i miei preti ai pa­scoli della verità. Dedica le tue attenzioni più vigili a queste pecore così teneramente amate; fa' che siano forti e feconde, perché è attraverso di loro che il mio gregge si accresce.

Gesù aveva detto ai suoi discepoli di portarsi su un monte della Galilea, e di raccogliere intorno a sé molti discepoli. Quando fu­rono tutti riuniti, apparve. Questa volta, il Maestro non si accon­tenta più dell'intimità degli Undici. Sta per compiersi qualcosa di grande; vuole che una folla di fedeli sia testimone di ciò che sta per fare, e possa raccontare alle generazioni future l'immensa ge­nerosità e i doni inauditi di grazia e di amore che sta per spargere sui suoi sacerdoti. Tutti si sono prostrati di fronte a lui e lo hanno adorato. Tuttavia Cristo non si rivolge alla folla rispettosa e rac­colta che lo contempla. Chiama a sé gli apostoli, i suoi preti, e di fronte a questi cinquecento testimoni, li riveste della propria po­tenza e conferisce loro la pienezza dei suoi doni.

Con quella autorità sovrana, che gli appartiene; con quella maestà che è anche dolcezza e che sempre lo avvolge, Cristo parla: « Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra. Andate e insegnate a tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte e ciascuna le cose che vi ho confidato ».

Ogni potere mi è stato dato, e io vi associo alla mia potenza. Tutto ciò che ho fatto, lo farete anche voi. I miei poteri, ve li do. Andate, non più come uomini deboli e impotenti, ma come Cristi, inviati di Dio. Andate per tutta la terra e ammaestrate tutte le nazioni. Dissipate le tenebre dell'ignoranza; offrite la verità alle in­telligenze; siate i maestri del mondo e gli educatori degli uomini.

Siate preti, ministri del Dio vivente. Agendo in nome della Trinità, purificate gli uomini, trasformateli, innalzateli fino al cielo con la potenza del Padre, con la sapienza del Figlio, con la carità ardente dello Spirito Santo. Tutti quelli che crederanno alla vostra parola, tutti quelli che si sottometteranno alla vostra autorità, saranno sal­vati; quelli che respingeranno il vostro insegnamento saranno con­dannati.

E Gesù termina con queste grandi parole: « Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla consumazione dei secoli ». Non si indi­rizza alla folla, in questo momento; non vuole quindi parlare qui dell'unione di grazia che deve avere con tutti i cristiani. Non è neppure quell'unione generale che produce la sua presenza eucari­stica, perché tutti possono avvicinarsi al tabernacolo e ogni fedele in grazia può nutrirsi del Corpo del Signore. È di una grazia particolare di unione con i preti che Gesù in questo momento intende parlare; grazia tutta speciale, che unisce così intimamente il prete a Gesù che essi sono un unico sacerdote; unione così stretta che la parola del prete è la parola stessa di Cristo: « Chi ascolta voi, ascolta me », e che disonorare il prete è disonorare Cristo: « Chi vi disprezza, disprezza me ».

Unione d'amore, attraverso la quale Gesù non solo attira il prete a sé, ma penetra in lui, vive in lui per farne un altro se stesso: un altro Gesù nella potenza sugli uomini, nella luce al cuore degli uomini, nella tenerezza per loro.

I quaranta giorni fissati da Gesù volgono al termine; per un'ultima volta, egli si manifesta agli apostoli prima di andare a prendere pos­sesso della sua gloria. Compare in mezzo a loro, a Gerusalemme, e, questa volta, mettendo da parte la sua dolcezza e la sua indulgenza abituali, rimprovera loro la durezza del cuore, la loro lentezza nel credere alla sua risurrezione, il loro orgoglio e la loro viltà.

È ancora il suo amore per gli apostoli che lo spinge a parlare così. Li ha innalzati alle più sublimi grandezze; li ha fatti i maestri del mondo; tra pochi istanti aprirà il loro spirito, dando loro la comprensione delle Scritture; altri doni mirabili saranno loro ben presto comunicati dallo Spirito Santo. Occorre un contrappeso a tanta grazia; bisogna che siano convinti della propria debolezza e della loro miseria di uomini, per non inorgoglirsi, per non esaltarsi, credendosi dei, per i benefici del loro Maestro.

Dopo aver loro svelato il senso nascosto delle Scritture, e aver loro ricordato ciò che era stato scritto di lui e ciò che aveva portato a compimento, dice loro: « Ora, voi siete testimoni di queste co­se... »; « abiterete in Gerusalemme finché non sarete rivestiti di forza dall'alto. Riceverete lo Spirito Santo che scenderà in voi, e mi renderete testimonianza in Samaria, in Giudea... e fino all'estre­mità della terra... ». I confini, i limiti che Gesù mette all'apostolato dei suoi sacerdoti e alla loro azione divinizzante sono soltanto le estremità della terra!

Terminate queste parole, Gesù esce con gli Apostoli e li con­duce sul monte degli Ulivi. Percorre ancora una volta con loro quella strada che avevano fatto insieme, quaranta giorni prima, la sera della Cena, e dove aveva fatto loro ascoltare quelle parole traboc­canti tenerezza che abbiamo riportato più sopra. Attraversa il giar­dino del Getsemani, testimone della sua agonia, sale, sale ancora.

Giunto in cima al monte, Gesù si volge verso i suoi discepoli. Li guarda, con quello sguardo profondo, luminoso, che penetra fino nell'intimo dell'anima. Tutto il suo amore ardente, fedele, buono passa in quello sguardo che getta sugli apostoli prostrati ai suoi piedi. Alza le braccia per benedire e, lentamente, come rincresciuto di lasciare i discepoli che ama, si innalza nel cielo limpido, splendente del sole di primavera, sale a poco a poco, allontanandosi gradata­mente dalla terra. Presto una nube di luce lo avvolge; gli apostoli distinguono soltanto più le mani tese che continuano a benedire; poi, tutto si perde nella luce: Cristo è entrato nella gloria.



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07/09/2009 15:13

CAPITOLO V

Amore di Cristo per i suoi sacerdoti dopo l'ascensione


Appena formato nel seno di Maria, il cuore di Cristo aveva pal­pitato d'amore per il suo sacerdozio. Il figlio di Zaccaria era stato il primo ad avvertirne gli effetti e, come abbiamo visto, tutta la vita di Gesù è stata una lunga serie di testimonianze di questo amore. Nelle ultime ore della sua vita, fino alla sua morte, amò i suoi sa­cerdoti. Dopo la risurrezione, si dedica ad essi completamente, li ricolma della pienezza delle sue grazie e li uguaglia, per così dire, a se stesso.

Ma dopo che è salito al cielo? Nella beatitudine in cui regna, nella gloria eterna che gli apparteneva di diritto e che tuttavia ha voluto conquistare, il suo amore non è cambiato. Ciò che amava nella sua vita terrena, lo ama di un amore eterno, senza turbamenti e senza fine.

Così, vediamo Cristo, nel momento in cui abbandona la terra, lasciare ai suoi sacerdoti un altro segno della tua tenerezza. Mentre sale verso il cielo, dalle sue mani benedicenti cade sui discepoli un dono di grazia immenso, precursore di quei doni ancor più meravi­gliosi che presto lo Spirito comunicherà loro.

L'autore ispirato nota espressamente che dopo l'Ascensione gli apostoli lasciarono il monte degli Ulivi e rientrarono pieni di gioia in Gerusalemme.' Avevano perso la presenza visibile, così consolante e fortificante, del Maestro. Si vedevano soli di fronte a un avvenire colmo di persecuzioni e sofferenze; senza forza, senza luce, in un'at-

tesa colma di incertezza, con il peso di una missione schiacciante. Tristezza, inquietudine, scoraggiamento, dolore travagliavano il loro cuore, e tuttavia tornavano colmi di gioia.

Questa gioia, era il dono di Cristo al suo sacerdozio. Non era affatto una consolazione vana, un godimento terreno; ma una un­zione santa, uscita dalla carità di Dio e passata dalle mani di Gesù fin nel più intimo del cuore degli apostoli. Era, se così ci si può esprimere, la gioia sacerdotale.

Il prete soffre, e soffre più di altri, forse, perché deve vivere quotidianamente al di sopra di se stesso, separato costantemente da tutto ciò che è soltanto umano. Ma, se è fedele, prova con tutto questo, nel profondo di se stesso, un sentimento di gioia che supera la natura, una tranquilla serenità, una unzione particolarmente dolce che, dal suo intimo, si diffonde fin sul suo volto.

Di solito, il prete fedele e fervente è gioioso. [ ... ] La purezza della sua vita, l'unzione della gioia sacerdotale, gli conservano in­fatti la giovinezza e, fino a un'età avanzata, il prete conserva una freschezza d'animo, una vivacità di sentimenti, una delicatezza di impressioni che gli altri uomini non saprebbero avere.

Un solo amore riempie il cuore del prete: l'amore di Dio. Questo unico e vivificante amore non delude. Una sola ambizione lo spinge e lo guida: la gloria di Dio. E questa nobile ambizione non è mai delusa. Così la gioia lo invade, ed è per lui una prima e magnifica, ricompensa per i sacrifici che ha accettato. È un saggio della beati­tudine promessa ai valorosi soldati di Cristo, assicurata agli amici più cari del Salvatore.

Dieci giorni dopo l'Ascensione, il Consolatore promesso, lo Spi­rito di amore che procede dal Padre e dal Figlio, è inviato da Gesù agli apostoli per completare la sua opera in loro, per ultimare di istruirli, per illuminarli, fortificarli e arricchirli dei doni più belli. L'Amore Infinito quel giorno non ha badato a misure o a riserve, e si è diffuso così totalmente sul suo sacerdozio che Pietro e i suoi fratelli riuniti non furono soltanto nutriti e saziati dalla grazia, ma furono davvero inebriati, e talmente trasportati dall'amore che un solo istante bastò a trasformarli.

Dopo questo dono dello Spirito Santo fatto da Gesù al suo sacerdozio, non ci fu neppure un giorno, forse neppure un'ora che non fosse segnata da testimonianze nuove dell'affetto di Cristo per i suoi preti. Nella lunga serie dei secoli, vediamo questo Amore In­finito avvolgere il sacerdozio, e il Maestro divino lavorare con lui, combattere per lui, vivere in lui.

Nel corso dei lunghi secoli in cui il sangue dei cristiani inondava la terra, il sacerdozio era là, nella prima fila dei martiri, incoraggiando i deboli, sostenendo quelli che vacillavano. Molti pontefici e preti hanno ricevuto allora la palma della vittoria.

Al sorgere delle eresie, il sacerdozio era presente per difendere la verità in pericolo. Sono i Gregorio, i Basilio, gli Agostino che Gesù illumina ed erge come una barriera invincibile di fronte al­l'errore e alla menzogna.

Cristo rende grande il sacerdozio in Ambrogio, che ferma l'impe­ratore eretico sulla porta della cattedrale e lo spinge a inginocchiarsi in penitenza. Lo rende potente in Leone, che ferma con un gesto il torrente in piena dei barbari.

E, mentre quel nuovo periodo di trasformazione si delineava come una civiltà nuova, è ancora il sacerdozio che illumina le na­zioni sorgenti e i popoli nuovi. Sono molti i santi papi sulla cattedra di Pietro. Molti i santi vescovi che portano in ogni regno, insieme alla fede cristiana, lo splendore della morale del Vangelo. Più tardi, è la voce di un papa, la voce di un prete che incita l'Europa intera e la getta, entusiasta, alla conquista del sepolcro di Cristo.

La teologia, la filosofia, le scienze, le stesse arti ricevono dal sacerdozio un impulso nuovo. Si vede ancora sotto il suo soffio vivo l'opera immortale di un Tommaso d'Aquino e di un Bonaventura, insieme alla meravigliosa architettura delle cattedrali gotiche.

Accanto alle arti e alle scienze, splendono le virtù più sublimi e, se seguiamo il corso dei secoli, vedremo sempre Gesù colmare dei suoi benefici i suoi papi e i suoi preti. Cristo incorona il suo sa­cerdozio di ogni gloria; gli affida la direzione delle anime; lo rende grande, potente, disinteressato, caritatevole e misericordioso come lui. Lo rende umile nelle persecuzioni, coraggioso nella sofferenza, forte contro i nemici della fede, ardente alla conquista delle anime.

Sono, volta a volta, Domenico e i suoi predicatori; i figli umili e poveri di San Francesco; il cavaliere Ignazio e il suo esercito d'élite; Filippo Neri e i santi preti che lo seguono. E’ il grande vescovo di Milano che unisce alla porpora cardinalizia la povertà di Cristo e l'austerità degli anacoreti. È il vescovo di Ginevra, dolce e forte, il maestro della pietà e dottore dell'amore.

È, per fermarsi soltanto alla Francia in questi secoli così fe­condi, un Vincenzo de' Paoli colmo della carità del Salvatore, e la schiera dei preti santi, Bérulle, Condren, Olier e i loro ferventi di­scepoli. Sono i grandi oratori che fanno splendere la verità dal­l'alto della cattedra cristiana, e quella folla di missionari, chiamati da tutti i popoli, che fanno germogliare con il loro sudore e il loro sangue, su ogni spiaggia, nuove comunità cristiane.

Durante i giorni bui della Rivoluzione francese, Cristo ha con­cesso a molti preti fedeli 1'onore e la grazia di versare il loro sangue nel suo nome. Altri hanno preso la strada dell'esilio; altri ancora, con dedizione ammirevole, hanno rischiato la vita per la salvezza delle anime.

Anche nel secolo appena terminato Cristo non ha cessato di distribuire i suoi doni. Vediamo incoronati con la tiara papi ammi­revoli: Pio IX, colmo della bontà del Salvatore, grande nella sfor­tuna, paziente e forte nelle disgrazie, colui che ha proclamato i dogmi dell'Infallibilità e dell'Immacolata Concezione. E Leone XIII, che ha illuminato il mondo con le sue encicliche immortali, re senza territorio, senza tesori e senza esercito, che domina tutti i re della terra e diviene loro arbitro.

In Germania, in Italia, in Francia, ovunque dei vescovi, degni successori degli apostoli, resistono, con la forza che viene loro da Cristo, al dilagare delle rivoluzioni, offrendo se stessi ai colpi del­l'empietà per difendere le pecore del proprio gregge. Ne vediamo morire sulle barricate, o sotto i proiettili dei nemici di Dio, vittime sante immolate per il popolo. E molti preti che creano opere di apostolato, molti che combattono con la parola, molti ferventi e pii... E quelli, i piccoli e gli ignoranti: i Vianney, gli Eymard, gli Chevrier, i Cottolengo, i Bosco e molti altri giganti della santità, premiati da Gesù, l'amico degli umili, con i suoi doni più grandi.

È questo l'amore che ha avuto Cristo per il suo sacerdozio. Ha offerto infinite prove del suo amore immortale durante i diciannove secoli che hanno seguito il suo ingresso nella gloria. Cristo non ha cessato un istante di vivere nei suoi preti, e sono le sue virtù, la sua intelligenza, lo splendore della sua anima e la bontà del suo cuore che abbiamo visto di volta in volta risplendere in loro. Cristo ha donato la sua anima, ha comunicato il suo cuore al suo sacer­dozio: ecco il 'motivo della grandezza di tanti preti nella storia; ecco ciò che li ha resi puri, buoni, ricchi di carità e di luce.



CAPITOLO VI

Amore di Cristo per i suoi sacerdoti oggi


Un così grande numero di doni d'amore non ha esaurito il cuore infinitamente amante di Cristo. All'aurora di questo ventesimo secolo è così ardente, così tenero nei confronti del sacerdozio come al tempo in cui personalmente formava i suoi sacerdoti e, dopo averli edu­cati con la sua parola e con l'esempio, li inviava in missione. Dall'alto del trono della gloria, dal buio dei suoi tabernacoli so­litari e troppo abbandonati, Cristo ha visto gli uomini, traviati da un soffio d'indipendenza, spezzare il giogo benefico della legge e uscire dalla retta via. Ha visto le onde del male avventarsi sulle anime. Ha visto l'idolatria della materia, il culto della ragione umana rimpiazzare nell'uomo la fede nell'Essere creatore, la coscienza del proprio nulla e la speranza nel suo destino immortale.

Ha visto l'egoismo freddo e i suoi calcoli indegni divorare, come un cancro, il cuore dell'uomo, creato per un amore infinito e per gli slanci del dono di sé. Ha visto lo scetticismo, la negazione di ogni azione soprannaturale, l'avidità dell'oro e gli avvilimenti del­l'impurità agire come solventi potenti su tutte le società umane, e, spezzando ogni legame, disgregare e distruggere la famiglia, la fra­ternità sociale e l'omogeneità delle nazioni.

Ha visto il mondo vacillare sulle sue fondamenta e, mosso da una immensa pietà per quest'umanità riscattata dal suo sangue, per questa umanità ingrata che si distoglie da lui, si è chinato verso i suoi sacerdoti e ha detto loro: Venite a me, miei fedeli, miei pre­diletti; venite ad aiutarmi a riconquistare le anime! Ecco che, nuova­mente, io vi mando per ammaestrare le nazioni: offrite loro la salvezza con la verità delle vostre parole e con la luce del vostro esempio.

Dovrete combattere, e soffrire; ma, poiché lavorerete per la mia gloria e mi offrirete le anime, voglio farvi un regalo, il più pre­zioso di tutti i doni: vi regalo il mio Cuore! Ve lo do come spada e scudo nelle vostre battaglie; come guida e luce nel vostro cammino; come consolatore nelle vostre sofferenze. Attingete senza timore ai tesori d'amore che contiene.

Attingetene innanzitutto per voi stessi; arricchitevi della sua pie­nezza; riempitene i vostri cuori fino a farli traboccare. Attingetene ancora per gli altri; diffondete il mio amore fra gli uomini; portate ovunque questo fuoco di Dio che deve purificare e rinnovare la terra. E Gesù, attirando il suo sacerdozio a sé, gli ha donato il suo cuore, segno del suo incomparabile amore.

Ma Cristo ha pensato che non tutti forse ci avrebbero creduto, e che qualcuno avrebbe dubitato della sua parola. Allora ha tratto dal suo cuore un dono di amore visibile a tutti. Ha fatto al suo sacerdozio ancora una grazia, questa volta visibile e tangibile.

Una grande luce si era appena spenta nel cielo della Chiesa; un grande papa era disceso nel sepolcro, e il mondo era in attesa. I figli del secolo, nella loro folle presunzione, designavano anticipa­tamente, secondo le proprie preferenze, il successore di Pietro. I fe­deli pregavano; i cardinali incerti cercavano l'eletto del Signore. Ma lo Spirito Santo, Spirito d'amore, scese sul Conclave, e la sua divina influenza fece uscire dal sacro calice il nome di Giuseppe Sarto. Il mondo rimase ammutolito dallo stupore, e la Chiesa si inginocchiò per ricevere, dalle mani di Gesù Cristo, il vicario che si era scelto.

Il clero comprese presto quale ineffabile regalo il cuore di Cristo gli faceva dandogli come padre e guida il patriarca di Venezia. Nes­suno meglio di lui sarebbe stato capace di guidare il gregge di Cristo: gli agnelli e le loro madri. Nessuno meglio di lui avrebbe potuto comprendere sia la grandezza del prete, sia le difficoltà che egli incontra, l'azione che può esercitare e i bisogni della sua anima e del suo cuore.

Originario di un'umile famiglia, come la maggioranza dei preti, il nuovo papa aveva vissuto, nella sua giovinezza, la vita austera e laboriosa degli studenti poveri. Si era innalzato, con le sole forze della sua intelligenza, al di sopra della sua condizione. Più tardi, come tanti altri, era stato debitore a caritatevoli protezioni del suo ingresso in seminario. Aveva poi percorso tutti i gradi del sacerdo­zio. Aveva conosciuto l'umile dipendenza e le fatiche del viceparroco, la solitudine della piccola parrocchia di campagna, la vita frugale del povero curato del villaggio. Per molto tempo, per la sola gloria di Dio, aveva offerto il meglio di se stesso alle anime affidate alle sue cure.

Poi la sua luce aveva brillato agli sguardi. Distinto dagli altri per le sue virtù forti e dolci, aveva salito poco a poco i gradi su­periori della gerarchia e, sempre fedele a se stesso, modesto allo stesso modo sotto la mitra del vescovo e sotto la porpora del car­dinale che nell'umile canonica di un villaggio, era apparso ovunque come il modello del prete, del prete secondo il cuore di Dio: fer­vente nella preghiera, votato agli interessi di Gesù, appassionato della verità, rivestito della bontà e dell'umiltà del Salvatore, casto e austero nella sua vita, misericordioso con i peccatori, colmo di amore per Gesù, suo adorabile Maestro, per Maria, sua Madre im­macolata, per la Chiesa e per le anime.

E’ stato appena innalzato sulla cattedra di Pietro che, spinto da un'ispirazione divina, si rivolge ai sacerdoti. Nella sua prima enci­clica, nelle sue prime parole rivolte al mondo, Pio X lascia emergere il suo grande amore per i preti.

Come Gesù, li vuole santi, disponibili, ferventi e dedicati alle anime. Li vuole superiori a tutti per la scienza, certo, ma soprattutto per la virtù. Li vuole colmi dell'ardore apostolico dei primi preti formati da Gesù. Si sente, nelle parole di Pio X, un cuore permeato della grandezza e della bellezza del sacerdozio; un cuore deciso a circondare della sua sollecitudine questa parte più nobile ed eletta del suo gregge. Questo padre, questo pastore delle pecore di Cristo, è un dono d'amore del cuore di Gesù ai suoi preti.

Cristo ha offerto loro questa testimonianza visibile del suo amore. Ha porto loro, presentando il suo cuore, il calice divino da cui l'Amore Infinito si effonde. Non poteva donare loro di più. Ma può donarsi di nuovo ogni giorno; può stringere sempre più strettamente a sé i suoi sacerdoti, amati così appassionatamente per venti secoli; può rendere i preti sempre più simili a lui, sempre più degni del suo amore immortale.

All'inizio abbiamo paragonato l'amore di Cristo a un fiume dalle limpide acque, ed eravamo risaliti verso la sua sorgente, per vedere l'amore per il sacerdozio fluire dal suo Cuore fin dal primo istante del concepimento. Da allora, non ha mai smesso di effondersi. Sem­pre, la tenerezza appassionata di Gesù per il suo sacerdozio è uscita dal suo cuore con una regale abbondanza. Abbiamo cercato di se­guire, attraverso il tempo, il corso di questo fiume d'amore. Sarebbe stato bello sederci sulle sue sponde, fermarci a lungo, contemplare per lunghe ore il limpido succedersi delle onde... Siamo dovuti an­dare avanti...

Scorrerà ancora per molto tempo questo fiume divino, fecondando le sue rive. La fedeltà dei preti santi nel corrispondere all'amore di Cristo, le loro virtù, la loro dedizione e la loro purezza saranno gli affluenti da cui sarà ingrandito, e andrà infine a precipitare la sua abbagliante massa d'acqua nell'oceano immenso dell'Amore eterno. L'amore di Gesù per i suoi sacerdoti non finirà... Dopo aver dato loro, nel tempo, la giurisdizione sulle anime, li chiamerà ac­canto a sé nel giudizio finale e, per tutta l'eternità, rimarranno con lui, Sacerdote eterno e Vittima eterna, sempre sacerdoti e sempre vittime, proprietà di Dio. Saranno per sempre di fronte alla Maestà suprema, insieme all'Agnello sempre immolato, come un sacrificio perpetuo di lode e di adorazione.

Per sempre l'Amore Infinito, a cui renderanno onore e gloria, li colmerà dei suoi doni, e li inebrierà per sempre delle sue delizie perché avranno lavorato sulla terra a diffondere le sue fiamme ar­denti.

zione, la confidenza, l'amore. È per mezzo loro che vuoi compiere tutto ciò che la tua Carità ha deciso di compiere per la salvezza dell'umanità. È per mezzo loro che vuoi chiamare il mondo a te; con le loro braccia vuoi abbracciare gli uomini e stringerli a te; con le loro fatiche e il loro sudore vuoi fecondare la terra; con l'ardore del loro amore vuoi riscaldare il mondo. t su di loro che fai affidamento per vincere il male; è da loro che vuoi ricevere la gloria del trionfo. Cristo, misericordiosa bontà, quan­to ami i tuoi sacerdoti!



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07/09/2009 15:16

PARTE QUARTA

ELEVAZIONI SULL'AMORE INFINITO E IL SACERDOZIO



ELEVAZIONE 1

Gli abissi dell'Amore Infinito


O sacerdote, privilegiato dell'Amore Infinito, vieni a contemplare gli abissi della Carità di Dio e, se puoi, sondane la profondità. Ecco per primo un abisso immenso, così vasto che nessuno sguardo creato può abbracciarlo: è l'Amore creatore. L'Amore Infinito aveva sentito il bisogno di espandersi fuor di se stesso, e aveva deciso la creazione dell'uomo per potersi riversare in lui. E, come una giovane madre prepara con amore e con le sue mani la culla del bambino che sta per mettere al mondo e si sforza di renderla non solo comoda, ma anche graziosa e lieta; così Dio, che doveva essere insieme padre e madre, preparò con amore la culla dell'uomo, l'uni­verso. Si compiacque di ornarlo e arricchirlo di tutto ciò che po­teva concorrere all'utilità, al bene e alla gioia della sua creatura amata.

Qualche volta Dio si fermava, e guardava ciò che aveva già fatto. Vedeva che non mancava nulla, e che tutto era buono. Infine, quando il grande edificio dell'universo fu pronto a ricevere l'ospite regale per cui era stato costruito, Dio creò l'uomo, e fu là che l'Amore Infinito si compiacque. Nella comunione della Santa Trinità l'uomo fu formato e il soffio divino, lo Spirito di Dio, l'Amore, gli diede vita, la vita naturale del corpo e la vita soprannaturale dell'anima, una vita perfetta, pura, la vita come Dio l'intendeva per l'uomo.

Contempla ora il secondo abisso. L'uomo aveva peccato. Aveva trasgredito l'ordine di Dio e, creatura ribelle, doveva essere punito. La Santità infinita reclamava i suoi diritti. La Giustizia stava per annientare questo essere che aveva risposto alla generosità dell'Amore creatore soltanto con la disobbedienza e l'orgoglio. Ma l'Amore, l'Amore mediatore, ponendosi in mezzo tra l'uomo peccatore e Dio oltraggiato, scavò un abisso profondo, e la Giustizia non poteva più raggiungere l'uomo per punirlo.

Durante lunghi secoli, questo Amore mediatore preservò la crea­tura peccatrice dai colpi della giustizia di Dio. Guidò il cammino dei patriarchi, e si rivelò a loro; parlò per mezzo dei profeti; con­servò l'autentica idea di Dio nel popolo eletto; lavorò per preparare l'umanità intera all'opera della Redenzione...

Un terzo abisso d'Amore ti si mostra ora, così profondo, vasto e incomprensibile che soltanto un incomprensibile Amore potrebbe spiegarlo: l'Amore redentore.

Il Verbo si era incarnato. Aveva visitato la terra. Aveva svelato all'uomo i misteri nascosti della salvezza. Aveva offerto tutto il suo sangue, e in questo bagno l'umanità colpevole era stata lavata. Tutta la vita di Gesù, ogni sua immolazione era là. L'Amore-sacerdote aveva offerto l'Amore-vittima: il mondo era riscattato, la Giustizia di Dio disarmata. La riconciliazione definitiva tra Creatore e creatura era avvenuta. Gesù era morto per darci la vita; risorto, aveva terminato di costruire la Chiesa; ora, risaliva al Padre...

Un altro abisso di amore si apre davanti a te: l'Amore che il­lumina. Lo Spirito Santo, Spirito di Dio, Amore sostanziale del Padre e del Figlio, è sceso sulla Chiesa per fecondarla, come in precedenza aveva fecondato il seno verginale di Maria. La Chiesa ha generato molti figli, e lo Spirito continua a illuminarla. I misteri sono rivelati più chiaramente; gli uomini, infiammati dall'Amore, servono Dio come egli vuol essere servito, in spirito e verità. La parola degli apostoli, il sangue dei martiri, gli insegnamenti dei dot­tori, dei decreti dei concili, queste lampade vive che sono i santi vengono, al momento desiderato, suscitati dall'Amore che illumina, per completare lo splendido diadema della Sposa di Cristo...

Guarda, ora, un quinto abisso dell'Amore. I tempi sono compiuti.

Sono apparsi nuovi cieli e una terra nuova, e l'Amore che glorifica sta per incoronare gli eletti. Non manca nulla alla pienezza di Dio: tutte le creature sono rientrate nel seno del Padre e l'Amore, glori­ficandole, glorifica se stesso. Abisso immenso, contiene tutti gli es­seri. Come torrente delle gioie di Dio, inonda tutti i benedetti; e, come fuoco che consuma e vendica, divora tutti i maledetti. L'Amore regna Signore sovrano e incontrastato. Ha compiuto la sua opera; ha vinto; ogni gloria a lui in eterno!

Sacerdote, non vedi ancora un altro abisso, di cui nessuna pa­rola d'uomo saprebbe esprimere le proporzioni, e che nessuna in­telligenza creata ha mai misurato? È l'Amore senza forma, l'Amore senza manifestazioni esteriori, Dio stesso. Prostrato sull'orlo di questo abisso insondabile, adora in silenzio, ascolta una voce che ti dice: « L'Amore Infinito avvolge, penetra e riempie tutte le cose. È la sorgente unica della vita e di ogni fecondità. $ il principio eterno degli esseri, e il loro eterno fine. Se vuoi possedere la vita e non essere sterile, spezza i legami che ti uniscono ancora a te stesso e alle creature, e tuffati in quest'abisso ».



ELEVAZIONE 2

Amore di Dio per l'uomo e dell'uomo per Dio Dio è Amore.

Ama dall'eternità, e fino all'eternità.


Mentre l'Amore Infinito opera in se stesso, compiacendosi del meraviglioso flusso che va dal Padre al Figlio, e dal Padre e dal Figlio allo Spirito - in questa ineffabile comunicazione che le tre persone divine si fanno del medesimo Amore, che è la loro essenza e il loro essere -, questo stesso Amore agisce ancora fuori di sé; ed essendo l'azione propria dell'Amore amare, ama ogni creatura, ogni opera sorta dalla sua parola potente, tutto ciò che è stato, tutto ciò che è, tutto ciò che sarà.

Dio ama. È di questo che si occupa nel possesso sovrano del suo Essere, e nella pace serena della sua gloria immortale. Ama. la sua vita, la sua azione, il suo piacere, il suo alimento e il suo riposo infinitamente dolce. Ama. Vuole amare, e amare ancora. Il suo Amore è lui stesso, e se cessasse di amare, cesserebbe imme­diatamente di essere Dio.

Dio è Amore. Effonde amore senza misura. Lo versa con inesauri­bile abbondanza sull'intera creazione. Nulla sfugge a questo diluvio divino che vuole tutto inghiottire.

Dio ama. Ma vuol essere amato: l'Amore ha bisogno di reci­procità. Se nel seno stesso della divinità il Padre, il Verbo e lo Spirito si corrispondono così perfettamente che si amano del me­desimo amore che è loro essere e loro essenza, allo stesso modo l'Amore Infinito vuole incontrare, fuori di sé, una reciprocità, certo relativa e proporzionata alle 'debolezze della creatura, ma reale.

Dio effonde torrenti d'amore sulla creatura: a sua volta, la crea­tura deve amare. Dio ha posto in ciascuno, nella creazione, un prin­cipio d'amore, non tuttavia allo stesso grado e nella stessa forma.

Quindi, giustamente e necessariamente, ogni creatura ama secondo la sua natura e la volontà del suo Creatore. Ha ricevuto tutto da Dio, e deve rendergli tutto; ciò che essa è, è tutto merito di Dio, e deve impegnare tutta se stessa per Dio.

Questo primo amore, necessario alla creatura, conosce come due movimenti. Il primo, un moto di restituzione: la creatura offre quaìcosa a Dio, gli restituisce. Il secondo è un moto di sottomissione: la creatura compie la volontà del suo Creatore.

Vediamo questa maniera d'amare espressa molto bene nelle crea­ture inferiori. La terra ha ricevuto la fecondità, e sempre produce per il suo Creatore. Il fiore ha ricevuto lo splendore della corolla e la dolcezza del profumo: fiorisce, ad ogni primavera, per il suo Dio e gli rende la sua bellezza e il suo profumo. L'uccello ha ri­cevuto la leggerezza delle ali e la dolcezza del gorgheggio; e vola e canta alla presenza del suo Dio. Gli animali selvaggi che popolano le foreste hanno ricevuto dal Creatore l'agilità della corsa, la forza delle loro difese, la bellezza del mantello; e crescono davanti a Dio, secondo le leggi della loro natura, compiendo la sua volontà e mol­tiplicandosi secondo il desiderio del loro Signore. Questo compimento regolare della volontà di Dio, e questo dono rinnovato di ciò che esse hanno in sé è il modo di amare delle creature inferiori.

Ma Dio ha formato creature superiori. Anche in loro ha deposto principi d'amore; e siccome esse hanno ricevuto di più dalla gene­rosità di Dio, devono rendergli in proporzione. Dio non s'aspetta più soltanto quell'amore di natura e di istinto che gli offrono gli esseri inferiori; avendole create ragionevoli, si attende da loro un amore ragionevole; avendo dato loro una volontà libera, si attende un amore volontario; avendole create a sua immagine, si attende da loro un amore simile al suo.

Dio ha deposto nell'uomo non soltanto quel principio d'amore che ha dato alle creature inferiori, e per mezzo del quale dovrebbe già, come per istinto, tendere a Dio e sottomettersi a lui: gli ha dato ben di più. Gli ha formato un'anima dotata di intelligenza, di volontà e, per mezzo di queste facoltà, l'uomo può entrare nella conoscenza del suo Creatore e far crescere nel suo cuore un amore superiore, sovranamente ragionevole, e veramente degno di Dio. È questo amore illuminato, questo amore libero che l'uomo deve a Dio. Perché non glielo offre? Perché l'amore è così poco capito dal cuore dell'uomo? Dico l'amore vero, l'amore puro, l'amore che supera la natura, voluto da Dio, disceso da lui e che deve risalire a lui; l'amore, non come i sensi corrotti della creatura maledetta lo hanno concepito, ma come l'Amore Infinito l'attende dall'essere ra­gionevole; un amore finito e creato, senza dubbio, come la creatura, ma splendente, libero e forte.

Tuttavia pochi uomini amano Dio come Dio vorrebbe essere amato. Il senso dell'uomo, profondamente turbato dal peccato, ha perso la nozione chiara del vero. Vaga senza mèta, si inciampa, sbaglia strada; non ha più quell'intelligenza bella e luminosa, quella volontà ferma e retta che aveva nei primi giorni della creazione. È soggetto all'ignoranza, alla concupiscenza. Così, lo si vede disto­gliersi facilmente dalla verità, mutare l'ordine delle cose, trasformare il bene in male, e preferire spesso il male al bene: il giudizio del­l'uomo non è più colmo della rettitudine delle origini, si piega e troppo spesso si smarrisce.

L'umanità, dopo il peccato, è caduta in molti errori. Ma, forse, su nessun altro punto si è tanto sbagliata come sull'amore. Man mano che l'uomo si distaccava da Dio, si attaccava altrettanto alle crea­ture; e, per saziare il suo cuore che reclamava l'Amore Infinito, lo pascolava in questo attaccamento puramente terreno che chiamava « l'amore ».

L'uomo, dimentico di Dio, non unendosi più a lui con l'amore, non sapendo più a che cosa credere, non osando sperare nulla, si trovò, nel mondo, come un naufrago smarrito nell'oceano. Cercò di afferrare tutto ciò che si presentava a lui; si attaccò al più piccolo relitto in balìa delle onde e, aggrappandovisi come un disperato, lo strinse al suo cuore, e si persuase di amarlo.

Ma non è quello l'amore... L'amore vero, il solo che merita questo nome divino, è quello che sale a Dio, principio unico d'amore. Le cupidigie della terra, le voluttà carnali sono passioni scatenate dalla colpa originale; sono prodotti del peccato. Non potranno mai sa­ziare contemporaneamente l'intelligenza e il cuore dell'uomo; non saranno mai l'amore.

L'intelligenza e il cuore dell'uomo: due meravigliosi strumenti creati da Dio. Toccati dal soffio dell'Amore Infinito, dovevano, in perfetto accordo, esalare l'armonia più soave e, raccogliendo in qualche modo tutte le altre note scagliate verso il cielo dalle creature in­feriori, formare un inno di lode, di riconoscenza e di adorazione.

Tutta la bellezza morale dell'uomo, l'armonia umana che deve salire da lui verso il cielo, consiste in quest'accordo, in questo equi­librio perfetto che conserva e mantiene tra la sua intelligenza e il suo cuore. Una sola mano, un solo soffio dovevano farlo vibrare al­l'unisono, e solo l'Amore Infinito è l'artista capace di toccare questi strumenti armoniosi che lui stesso ha creato.



ELEVAZIONE 3

Duplice movimento dell'Amore Infinito


Dio è Amore. Questo Amore, che è la sua essenza, fa, nello stesso tempo, sia l'Unità della natura che la Trinità delle persone. Questo Amore Infinito, vivente e vivificante, vivente in sé e per se stesso e vivificante fuori di sé, non tende soltanto per natura propria alla comunicazione, ma è, per l'intensità della sua vita e della sua immortale fecondità, la comunicazione stessa.

L'Amore Infinito, poiché è vivente e fecondo, è un movimento. Questo movimento si compie in Dio stesso per la comunicazione delle tre persone. È come una circolazione ininterrotta che va dal Padre al Figlio e allo Spirito. E’ un unico movimento vitale, così rapido e intenso che al primo sguardo sembrerebbe immobilità. Questo movimento d'amore si compie anche fuori dell'intimità di Dio. L'opera più perfetta uscita da questo movimento d'amore è l'umanità di Gesù.

Il movimento interiore non tende ad alcuna creazione, ad alcuna produzione nuova; è un movimento di riposo e godimento, un moto completo che non può crescere, né diminuire, né cambiare. È la pienezza dell'amore che si soddisfa in un movimento eterno e sempre uguale tra le tre persone divine.

Il moto esteriore tende alla creazione, a una produzione inces­sante. E’ un movimento di lavoro, e si soddisfa con una perpetua produzione di grazie, doni, vita spirituale e di creature materiali.

Questi due moti, o piuttosto quest'unico movimento, non è meno fecondo nell'una o nell'altra delle sue forme: è fecondo, in Dio, nell'eterna generazione e nell'eterna comunicazione; è fecondo, fuori di Dio, nella grazia e nella creazione.



ELEVAZIONE 4

La Carità di Dio


“Radicati e fondati nella carità siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità...”

La Carità di Dio, immensa, infinita, non poteva essere misurata dall'occhio umano, dallo sguardo dell'anima. Allora l'Essere-Amore ha in qualche modo condensato questa Carità e, nel Cuore del Verbo Incarnato, l'ha resa visibile.

Gli esseri creati hanno potuto vedere in questo Cuore creato, ma degno d'adorazione e divino, l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità dell'Amore Infinito.

Ampiezza: è Dio che abbraccia la moltitudine degli esseri. Non c'è una sola creatura che l'Amore Infinito non stringa fra le sue braccia; nessuna che egli non abbia voluta, guardata, amata; nes­suna che non abbia dotata e provvista di tutto ciò che costituisce la sua forma e la sua esistenza.

Anzitutto l'angelo, creatura pura, spirito immateriale, fiamma di fuoco vivo. L'uomo, che unisce in sé l'anima immortale, intelligente, ragionevole, libera alla forma materiale di un corpo di carne; crea­tura ammirevole, che avvolge, con un velo passibile e mortale, un'anima spirituale, luce creata, vivificata dalla vita di Dio.

Poi l'animale, che cresce e si moltiplica sotto la benedizione di Dio ed è guidato con sicurezza dall'istinto verso il suo fine. L'al­bero delle foreste che avverte ad ogni primavera una linfa di vita salire nel suo tronco secolare, ed effondersi in verdi gemme; l'erba dei campi, che ondeggia sotto il vento, e fiorisce per la gloria del suo Creatore. Più in basso, i corpi inerti, che ricevono dal Prin­cipio divino la loro forma e il loro splendore.

Lunghezza: è la durata senza limite di questo Amore. Un giorno, le creature hanno iniziato a ricevere l'amore di Dio, e fu il giorno della creazione; ma, in Dio, l'amore per le creature non ha avuto inizio. Portava la loro idea in se stesso dall'eternità. Le amava, quindi, ben prima d'averle create. Le ha amate da quando le ha concepite nel suo pensiero. Ma le ha concepite un giorno? O non ha portato il loro ideale in se stesso fin da quando è stato Dio? E quando ha cominciato ad essere Dio?... Dall'eternità, senza inizio, l'Amore Infinito ha dunque avvolto le sue creature... Smetterà un giorno di amarle? Mai! L'amore in Dio è immutabile e senza vicissi­tudini. Ciò che ha amato una volta, lo ama sempre, e se qualche volta colpisce e sembra distruggere, è sempre l'amore che lo guida. Ha amato dall'eternità. Amerà fino all'eternità.

Lunghezza. Chi misurerà la lunghezza di questo Amore Infinito? Chi gli darà un inizio e un limite?... Lunghezza!... Ha sempre amato, amerà sempre, in eterno!

Altezza. L'Amore Infinito si è innalzato ad altezze incomprensi­bili. Si innalza, nel Padre, fino alla generazione del Verbo, Parola onnipotente, Sapienza eterna, Figlio unico, in tutto uguale al Padre. Si innalza, nel Padre e nel Figlio, fino alla processione dello Spirito Santo, principio di ogni amore e di ogni santità, Dio come il Padre e il Figlio. Si innalza, nella Trinità, fino a formare l'unità più per­fetta; tanto che il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo non sono che un solo amore, un solo Dio unico in tre persone. Si innalza, nel Dio unico, fino all'idea della creazione, fino al suo compimento, fino alla generosità divina di cui godono le creature.

Questo Amore Infinito è apparso nella sua sublimità quando ha inventato l'incarnazione; quando, dopo la caduta dell'uomo, ha di­sarmato la Giustizia; quando, malgrado i peccati continui, ha con­servato la sua pazienza misericordiosa. Questo Amore è stato sublime quando il Verbo si è incarnato; quando si è fatto bambino, povero, umiliato, sofferente; quando ha vissuto in mezzo a noi nella sem­plicità, nella bontà, nel dono di tutto se stesso. Sublime quando agonizza, nell'Orto, vedendo le nostre iniquità; quando appare inca­tenato, flagellato, insultato e crocifisso. Sublime, lungo i secoli, nel Tabernacolo in cui si fa prigioniero, nel Sacrificio in cui s'immola, nell'Eucaristia in cui si fa nostro nutrimento.

Altezza dell'amore infinito di Dio, chi può innalzarsi fino a te per capirti!

Profondità. E chi potrà discendere fino alle insondabili profon­dità di Dio? L'Amore Infinito, questo edificio meraviglioso formato dall'Onnipotenza, dalla Sapienza infinita, dalla Bontà sovrana, dalla Giustizia invariabile, dalla divina Misericordia, dal Bene assoluto, dalla Bellezza perfetta, ha fondamenta così profonde che nulla ha mai potuto scuoterle. Il tempo che distrugge non ha potuto nulla contro di lui. Le onde del peccato dell'uomo sono venute a infran­gersi alla sua base, come la burrasca sugli scogli di granito. L'eternità intera non sarà sufficiente all'anima eletta per penetrare fino alle intime profondità di questo abisso di amore.

Profondità! Andiamo al cuore di Gesù. Attraverso il largo squar­cio che vi ha fatto la lancia, gettiamo uno sguardo nell'abisso della carità di Dio; cerchiamo di sondarne la profondità. Ma le vertigini assalgono l'anima di fronte a questa voragine d'amore. Bisogna chiu­dere gli occhi, abbandonare ogni appoggio e lasciarsi cadere; cadere, cadere senza fine nella profondità di Dio, senza cercare di capire, senza voler spiegare: l'Amore non si spiega... Lo si desidera, lo si vuole, lo si sente, lo si gusta, ci si inebria, se ne vive, se ne muore: non lo si capisce. Profondità!...



ELEVAZIONE 5

L'Amore Infinito umanizzato


San Giovanni, volendo farci conoscere Dio, volendo riassumere in una sola parola tutte le grandezze, tutte le bellezze, tutti gli at­tributi di Dio, ha detto: Dio è Carità! Dio è Amore! E se noi vo­gliamo descrivere Gesù Cristo, Dio e Uomo, con una sola parola; se vogliamo racchiudere in un solo termine tutto ciò che egli è, tutto ciò che fa e perfino la ragione del suo essere, possiamo dire: Gesù Cristo è il suo cuore, il Sacro Cuore.

La Carità di Dio, l'Amore Infinito, è Dio intero; Dio, ciò che è in se stesso, e anche ciò che fa fuori di sé; Dio con la sua potenza, con la sua bontà, con la sua giustizia e la sua sapienza; Dio che è, Dio che crea, Dio che riscatta, Dio che illumina e che ricompensa. È Dio senza divisioni, senza esclusioni, senza riserve, splendidamente riassunto con una parola: « Dio è Carità ».

Il Sacro Cuore, è Cristo tutto intero, Dio e Uomo, Verbo in­carnato. Non è solo il cuore di carne che gli batte in petto, questo cuore umile e dolce che noi adoriamo come il simbolo o l'organo del suo amore incomparabile: è tutto il suo essere: la sua divinità, la sua anima, il suo corpo, ogni suo membro; tutti i suoi pensieri, atti, parole. Il Sacro Cuore è Dio fatto uomo; è Gesù Cristo umi­liato, venduto, morente; è Gesù-Eucaristia, ostia d'amore, Gesù im­molato sull'altare, Gesù prigioniero del Tabernacolo.

Dio è completamente spiegato da questa parola: Carità, perché l'amore tutto spiega, pur essendo in se stesso inspiegabile. Gesù, è tutto spiegato da questo nome: Sacro Cuore. La sua dedizione, la sua bontà, la sua misericordia, tutte le sue virtù, il suo sacrificio e la sua morte, tutto questo lo spiega il suo amore. Il Sacro Cuore è la Carità di Dio incarnata, l'Amore Infinito umanizzato.



ELEVAZIONE 6

L'Eucaristia e il Sacro Cuore


La devozione all'Eucaristia e la devozione al Sacro Cuore sono devozioni sorelle. Sono così intimamente unite, si completano così perfettamente, che l'una richiama quasi necessariamente l'altra. Non solo la prima non può essere di pregiudizio alla seconda; poiché esse si completano e si perfezionano a vicenda, così anche si ac­crescono reciprocamente.

Se abbiamo la devozione al Sacro Cuore, vorremmo incontrarlo per adorarlo, amarlo, offrirgli le nostre riparazioni e le nostre lodi; e dove lo cercheremo, se non nell'Eucaristia in cui si trova eterna­mente vivo? Se amiamo questo cuore degno d'adorazione, vorremmo unirci a lui, poiché l'amore ricerca l'unione: vorremmo riscaldare il nostro cuore all'ardore di questa fiamma divina.

Ma, per raggiungere questo cuore santo, per afferrarlo, per met­terlo in contatto con il nostro, non potremo scalare il cielo per rapire il cuore di Gesù trionfante nella gloria: andremo all'Eucari­stia, al Tabernacolo, prenderemo l'ostia bianca e, quando l'avremo racchiusa in noi, sentiremo il cuore di Cristo battere davvero ac­canto al nostro.

La devozione al Sacro Cuore conduce infallibilmente all'Eucari­stia, e la fede, la devozione all'Eucaristia fa necessariamente sco­prire i misteri dell'Amore Infinito di cui il cuore di Cristo è l'organo e il simbolo.

Se crediamo all'Eucaristia, crediamo all'amore: è il mistero del­l'amore. Ma l'amore è in se stesso immateriale e inafferrabile. Per confermare il nostro spirito e i nostri sensi noi cerchiamo una forma dell'amore, una sua manifestazione sensibile: questa forma, questa manifestazione sensibile, è il Sacro Cuore.

Il Sacro Cuore, l'Eucaristia, l'Amore, una stessa cosa. Nel Ta­bernacolo, troviamo l'ostia; nell'ostia, Gesù; in Gesù, il suo cuore e nel suo cuore l'Amore, l'Amore Infinito, la Carità divina, Dio, principio di vita, vivo e vivíficante.

Ma ancor più: il miracolo dell'Eucaristia non si può spiegare che con l'amore. Con l'amore di Dio, certo, ma con l'amore di Gesù, Dio e Uomo. Ora, l'amore di Gesù è l'amore del suo cuore: è il suo cuore, per riassumere tutto in una parola. Dunque, l'Eucaristia non è spiegata che dal Sacro Cuore.

L'Eucaristia è il complemento sublime dell'amore di Gesù per l'uomo. È la più alta, l'ultima espressione, il parossismo, se così si può dire, di questo incomprensibile amore.

Tuttavia, senza l'Eucaristia avremmo potuto credere all'amore: per questo, è sufficiente l'Incarnazione. Una sola goccia delle ama­rezze della Passione ci sarebbe stata più che sovrabbondante per darci le prove di questo amore. Avremmo potuto amare il cuore di Gesù, avremmo dovuto amarlo, crederlo sovranamente buono anche se non fosse giunto a questo eccesso divino dell'Eucaristia.

Ma siccome ha inventato questa meraviglia, come dovremmo amare questo cuore santo, così tenero, così inspiegabilmente deli­cato e generoso e, osiamo dirlo, così follemente innamorato della sua creatura? Sì, l'Eucaristia aumenta, infiamma il nostro amore per il cuore di Cristo.

Ma, poiché sappiamo che incontreremo questo cuore santo sol­tanto nell'Eucaristia; poiché abbiamo sete dell'unione con questo cuore tenero e ardente, ci prosterniamo di fronte al Sacramento, adoriamo l'ostia nell'ostensorio, ci accostiamo alla Mensa santa con una avidità ardente, baciamo con amore la patena su cui l'Ostia riposa ogni giorno. Circondiamo di onore, di rispetto, di magnifi­cenza il tabernacolo di cui Gesù, vivo e amante, ha fatto la sua casa.

È un'empietà dire che il culto del Sacro Cuore può nuocere al culto dell'Eucaristia. Come! La conoscenza del donatore fa disprez­zare il dono? No, più ameremo il cuore di Cristo, più il nostro culto a lui sarà autentico, più sarà esteso e illuminato, più anche il nostro culto e il nostro amore per l'Eucaristia si svilupperanno e si fortificheranno.



ELEVAZIONE 7

Il sacerdote, un altro Gesù Cristo


C'è, nel seno di Dio, una pienezza traboccante d'amore, che è la sua essenza, la sua vita, il suo movimento, la sua fecondità. Questa pienezza ha un continuo bisogno di espandersi, di effondersi. Va verso la creazione, verso l'uomo in particolare, per un'inclinazione natu­rale. $ un bisogno dell'Amore riempire il vuoto della creatura, e vivificare ogni cosa.

L'Amore Infinito è qualche volta avvertito dal cuore dell'uomo, ma è meno sovente conosciuto dalla sua intelligenza. Questo perché molte ombre rimangono nell'intelligenza umana, soprattutto per ciò che concerne la conoscenza di Dio, dei suoi misteri e delle verità che oltrepassano la natura.

L'amore non deve essere per l'uomo solo un sentimento, che egli prova unicamente attraverso la sensibilità. Deve essere conoscenza acquisita con le proprie facoltà intellettuali. In tanto in quanto un uomo concepirà l'Amore Infinito nel suo spirito e nel suo cuore, concepirà e gusterà anche la conoscenza delle verità eterne e di ogni mistero di Dio. L'Amore Infinito, come fuoco, è calore per il cuore dell'uomo e luce per la sua intelligenza. Se l'uomo si allontana dal focolare dell'amore, il suo cuore diviene freddo, e il suo spirito si oscura.

Il movimento che in Dio attira a sé la sua creatura amata è un movimento di amore e misericordia. Inizia con l'abbracciare il suo sacerdozio per stringerlo sul suo cuore e intriderlo d'amore, poi - attraverso i suoi preti - abbraccia tutti gli uomini.

I sacerdoti devono quindi penetrare in una conoscenza appro­fondita e tutta rinnovata dell'Amore Infinito. Il mondo non può ricevere direttamente questa rivelazione di amore, e nemmeno far propri i suoi frutti di grazia e di salvezza. È il prete che, più vi­cíno a Dio e già consacrato a lui, riceve questa manifestazione del­l'amore e la comunica al mondo.

Attraverso il cuore di Gesù, studiato nel mistero delle sue virtù e imitato, il prete entrerà nel pieno possesso del mistero dell'Amore Infinito. Non deve accontentarsi di accogliere la devozione al Sacro Cuore, o anche di praticarla egli stesso e comunicarla agli altri. Tutto questo è certo necessario, ma Gesù vuole ben altra cosa.

Il prete deve entrare, attraverso questo cuore santo, nella co­noscenza intima di Gesù Cristo. $ come una porta, attraverso la quale deve passare per penetrare nell'intimo di Cristo, ed essendosi completamente impregnato di lui, divenire come uno specchio lu­cente in cui l'Amore Infinito possa riflettersi.

L'Amore Infinito è un sole. Se proiettasse i suoi raggi diretta­mente sul mondo, gli uomini sarebbero abbagliati e consumati, per­ché non sono così grandi e così puri. Bisogna che questo sole di­vino si rifletta in uno specchio, e la riflessione dei suoi raggi in questo specchio illuminerà il mondo e lo riscalderà.

Questo specchio, è l'anima del sacerdote: ma dev'essere puro e trasparente. L'anima del prete deve diventare conforme all'anima di Cristo. Quando il prete è veramente un altro Gesù Cristo, diviene questo specchio lucente che riflette i raggi divini dell'Amore Infinito.



ELEVAZIONE 8

II Cuore mistico di Cristo


Il cuore di Cristo si svela a noi, questa volta, non come cuore di carne, umile e dolce, che batte nel petto umano di Gesù; non come simbolo sensibile del suo amore ardente, in cui si elabora il sangue redentore e che il colpo di lancia aprì sul Calvario; ma come Cuore mistico.

Cristo ha avuto, oltre il corpo di carne di cui si è rivestito per meglio unirsi alla nostra natura, anche un corpo mistico che ha formato con amore e di cui è il Capo; un corpo, come ogni corpo vivente, formato da membra, e da un cuore. La Chiesa è il Corpo mistico di Cristo, i fedeli sono le sue membra, il sacerdozio è il suo cuore.' Il sacerdozio è il cuore di quel corpo vivente di cui Cristo è il Capo.

Un corpo muore se la testa o il cuore sono feriti a morte, per­ché è dalla testa e dal cuore che la vita si irradia nel corpo intero; ma può, senza che la sorgente della vita si inaridisca in lui, veder perire molte sue membra. Così la Chiesa può vedere talvolta e con dolore morire qualcuno dei suoi membri senza che la vita venga meno, perché il suo Capo, Cristo-Amore, è immortale, e il suo cuore, il sacerdozio santo innestato su Cristo Sacerdote eterno, non potrebbe morire.

Secondo il piano di Dio, il sacerdozio, cuore mistico di Cristo e autentico cuore della Chiesa, è dunque, per questa, un organo vitale, altrettanto necessario, altrettanto indispensabile quanto il cuore per il corpo dell'uomo. Senza il suo Capo, Cristo, senza la sua anima, lo Spirito Santo, la Chiesa non esisterebbe; e senza il suo cuore, il suo sacerdozio che la riscalda e la vivifica, sarebbe morta. E’ at­traverso di esso che il movimento divino che le giunge dal suo Capo è comunicato a tutte le membra; che il sangue vivificante della grazia cola fino alle sue estremità; che il calore vitale dell'amore ri­scalda ogni sua parte.

Questo sacerdozio santo è un organo unico, ma composto da una moltitudine di parti. I papi, i preti, tutti i gradi della gerarchia sono queste parti, molecole, se così ci si può esprimere, che riunite insieme formano il corpo del sacerdozio. Il sacerdozio è dunque ciò che sono in se stesse le parti che lo compongono.

È il cuore della Chiesa, e per poter compiere in essa le sue ope­razioni di vita, deve essere robusto e sano; deve essere libero e ar­dente; occorre che il suo movimento sia pieno, sempre uguale e costante.

1. Deve essere robusto e sano. È la sua purezza che lo rende forte. Il sacerdote casto è forte contro se stesso, forte contro i nemici che lo provocano dal di dentro e contro quelli che lo attac­cano dal di fuori. Attraverso la sua purezza, si innalza al di sopra degli altri uomini; li sovrasta con la dignità e la potenza che gli viene da questa energia sovrumana con la quale egli domina se stesso. Attraverso la sua purezza estingue i germi morbosi che ogni uomo riceve fin dalla nascita e, se non può distruggerli del tutto, li rende per lo meno inattivi.

2. Deve essere libero e ardente: libero dagli ostacoli che suscita al prete l'ostilità degli empi; libero dalle visuali troppo umane o ambiziose; libero dalla ricerca della sensualità e del benessere; li­bero al di fuori e libero dentro di sé, di quella libertà autentica che gli permette di compiere l'opera del Cristo; ma certo non di quella

falsa libertà che reclamano alcuni spiriti indipendenti e sregolati, che confidano solo in se stessi e rifiutano ogni legittima autorità.

3. Il suo movimento deve essere pieno, sempre uguale e costante. Se si appoggia in Dio, il sacerdote non può essere scosso. Malgrado le vicissitudini della vita e la propria naturale incostanza, il ministro fedele compie senza debolezze e senza scoraggiarsi l'opera dell'Amore. Contribuisce, per la sua piccola parte, a vivificare la Chiesa con il calore del suo entusiasmo, con la sua attiva disponibilità, con la sua carità ardente, e soprattutto con il dono che fa di Cristo agli uomini.



ELEVAZIONE 9

Dio è di Cristo, Cristo del sacerdote, il sacerdote è degli uomini


Dio è di Cristo, il Cristo è del sacerdote, e il sacerdote è degli uomini.

Dio è di Cristo: il Cristo è Dio egli stesso. Dall'intimo possesso che l'umanità di Gesù ha della divinità, e viceversa; dall'unione santa, abbraccio ineffabile, che in Gesù si compie tra le due nature, divina e umana, nascono queste meravigliose attrattive del Cristo; grandezza unita a profonda umiltà, giustizia insieme a tenera bontà, forza unita a pazienza instancabile, santità sovrana, congiunta alla misericordia più compassionevole. La luminosa divinità di Cristo, che traspare dal velo della sua umanità, ci appare in un dolce splen­dore; e la sua umanità, trasfigurata dalla luce divina, ci sembra così bella che ognuno dovrebbe avvicinarsi a lui per congiungersi a questa meraviglia adorabile.

Il Cristo è del sacerdote. Si è volontariamente dato a lui. Nel­l'Eucaristia diviene il suo possesso divino. Tutto Gesù: il suo spi­rito, la sua dottrina, le sue parole, la sua anima santa, il suo cuore amante, il suo corpo puro, la sua divinità, appartengono al prete, che ne può disporre come di beni suoi, di sue proprietà particolari. Li prende nelle sue mani; si disseta con il suo sangue, si nutre con la sua carne; e non soltanto vive di Gesù, ma ne fa vivere gli altri. Non soltanto può godere del possesso di Gesù, ma può donarlo e farne gioire altri.

Il Cristo è del sacerdote. Anche il sacerdote è del Cristo: deve esserci reciprocità. E poiché il Cristo si è dato al prete completa­mente, anche il prete deve essere completamente di Gesù. Tutto intero: il suo spirito, il suo cuore, il suo corpo; come dire tutta la sua intelligenza e i suoi pensieri, tutti i suoi affetti e volontà, tutte le sue azioni, tutti i momenti della sua vita.

Il sacerdote è di Cristo. Il Cristo può dunque disporne con lo stesso potere con cui il sacerdote dispone di lui. Poiché c'è ugua­glianza, bisogna che il sacerdote nelle mani del Cristo sia come l'ostia nelle mani del sacerdote.

Meditiamo su quanto vi è di profondo, di divino in questa unione di Cristo con il prete, e del prete con Cristo. Non è come l'unione del Verbo con l'umanità in Gesù, ma è tuttavia qualcosa di molto stretto e molto intimo.

Il sacerdote è degli uomini. E’ loro proprietà come è proprietà di Cristo. È loro: non appartiene dunque più a se stesso; non può più vivere per sé. Bisogna che sia completamente offerto, comple­tamente consacrato agli uomini. La madre non appartiene forse al suo bambino? Non deve forse essere tutta sua, e il bambino non ha forse diritto nella sua debolezza a tutti gli aiuti che la madre può dargli? E anche il bambino appartiene alla mamma. $ il suo bene; è un deposito che il buon Dio le ha affidato, lo porta dove vuole. Lo accarezza o lo rimprovera; ne dispone a suo giudizio per il bene, e ha diritto alla sua obbedienza. Così gli uomini sono del sacerdote, e da questo duplice possesso, fatto nello spirito e nella grazia di Gesù, devono nascere, da parte del prete, una dedizione senza li­miti e, da parte degli uomini, una confidenza senza riserve.

Riflettiamo su quanto vi può essere di attenzioni e delicatezze nel cuore del prete per gli uomini divenuti il suo tesoro, il suo bene, il suo splendido possesso in Cristo; e cosa dovrebbe esserci anche negli uomini di rispetto, confidenza per il prete che Dio ha donato loro per condurli a sé.

Dio ha fatto cose grandi, il suo Amore Infinito ha operato me­raviglie. Ma lo sguardo dell'uomo è debole, poco illuminato, l'intel­ligenza umana è povera. Ci sarebbe qui materia per un'estasi d'amore, ma il peso della nostra miseria è troppo grande.



ELEVAZIONE 10

Il dispensatore dell'Amore Infinito


Il sacerdote è stato costituito dispensatore dei misteri di Dio e dei tesori del suo amore. Tutte le cose gli sono state affidate perché le distribuisca agli uomini. Ha, per così dire, in se stesso, il deposito dei misteri della Verità non creata e dei tesori dell'Amore Infinito. È questa la grandezza del sacerdote, motivo del rispetto e dell'onore di cui è degno.

Ma se è dispensatore, deve distribuire. Bisogna che ciascuno ri­ceva da lui il necessario per la sua intelligenza e il suo cuore. Dio dà direttamente agli uomini qualche grazia, come il ricco fa lui stesso qualche elemosina ai poveri che incontra. Ma Dio vuole che la mag­gior parte delle sue grazie giunga agli uomini attraverso le mani del prete, come il ricco che fa distribuire le sue grandi ricchezze dal­l'intendente che si è scelto.

Il sacerdote ha dunque in suo possesso, non per nasconderli ma per distribuirli, tutti i tesori della Verità e dell'Amore. Se non li dà, questi beni divini e vivi, e li trattiene, li nasconde, ne priva gli uomini, si rende colpevole.

Se li distribuisce, al contrario, è un dispensatore fedele e bene­detto. E ancor più: diviene un canale vivo e vivificante attraverso il quale l'Amore Infinito fa passare le sue onde sante.



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07/09/2009 15:17

ELEVAZIONE 11

Intermediario tra Dio e l'uomo


Ogni uomo può personalmente avvicinarsi a Dio con fiducia, perché Dio è creatore di tutti, Padre di tutti. Ama ogni uomo. Il Verbo incarnato, Cristo-Amore, è colui che introduce gli uomini alla presenza del Padre e, attraverso di lui, essi sono certi di essere ac­colti con bontà. Ma a Dio, ma a Gesù piace che la sua umile crea­tura si serva, per avvicinarsi a lui, in molte circostanze, dell'inter­mediario che Dio stesso ha designato a presentargli gli uomini, i sacrifici e i doni che essi vogliono offrirgli. Questo intermediario scelto da Dio, è il prete.

Dio ha formato, nella sua sapienza e nel suo amore, una sorta di scala misteriosa o, se si preferisce, di catena che va dalla creatura alla divinità: dalla creatura materiale all'uomo, dall'uomo al sacerdote, dal sacerdote al Cristo, dal Cristo a Dio. E dall'amore infinito di Dio stesso discendono tutte le grazie e tutti i benefici lungo questa stessa catena d'amore fino alle più umili e piccole creature; da Dio, Amore Infinito, a Cristo, da Cristo al sacerdote, dal sacerdote alla moltitudine degli uomini, da questi alle creature materiali.

L'Amore Infinito passa e ripassa così, in un flusso e riflusso eterni, da Dio alla creazione, e dalla creazione a Dio.



ELEVAZIONE 12

La Vergine Maria e il sacerdote


L'amore del sacerdote per Gesù deve essere diverso da quello degli altri uomini e singolarmente più ardente, perché « chi più ha ricevuto ama di più ». Ora, le grazie e i doni particolari che arric­chiscono l'anima e il cuore del sacerdote sono così numerosi che chi li ha ricevuti e li possiede non ne ha neppure una vaga idea, e quand'anche creda di aver molto ricevuto, non può neppure allora conoscere la moltitudine di grazie che l'Amore Infinito gli ha fatto. Sarà una delle beatitudini del prete in cielo vedere e conoscere tutto ciò che l'Amore ha fatto per lui, e quanto è stato privilegiato tra gli uomini.

Il sacerdote passa in qualche modo allo stato di essere diviniz­zato nell'unione che ha con Cristo, e nella potenza che ha, da Cristo, sulle anime, per il loro bene e la loro salvezza. Così è obbligato ad avere per Dio, Nostro Signore, un amore tutto particolare, forte, tenero e ardente.

Non c'è che una sola creatura che ha amato e che ama Gesù come il sacerdote deve amarlo; non c'è che un cuore che possa ser­vire da modello al suo per questo amore: è il cuore della Vergine santa. L'amore del sacerdote per Gesù deve essere in tutto simile a quello di Maria per il suo Figlio divino.

Come Maria, il sacerdote innalzato da una grazia d'elezione, ri­mane tuttavia una creatura inferiore, sottomessa al Maestro divino. Come lei, è per sua natura un nulla, e entra nell'intimo della di­vinità per un privilegio d'amore. Come lei, deve essere illuminato più profondamente sulla verità della propria miseria e piccolezza, e più illuminato dai raggi dell'Amore Infinito. Come lei, riceve, grazie allo Spirito, il potere di generare al mondo il Verbo incarnato: la Madre lo genera nella verità del suo corpo visibile; il sacerdote, nella verità del suo corpo eucaristico.

L'amore di Maria per Gesù è l'amore di una creatura privilegiata. È un amore di riconoscenza ardente e di profonda umiltà; un amore che si abbassa e si dona, che si dà tutto intero, per il bisogno di rendere il più possibile a Colui da cui tutto si è ricevuto. L'amore di Maria è anche un amore di madre; tenero, delicato, premuroso; un amore che difende e protegge, che si dona ancora, ma diversa­mente; che si dà non per restituire, ma per darsi ancora a Colui cui già si è dato.

L'amore del sacerdote per Gesù deve essere simile a questo. Deve avere un amore di umile riconoscenza, amore di creatura amata che adora, ringrazia, si dà senza calcolare; un amore pieno di deli­catezze; amore geloso che custodisce, vigila, protegge, circonda di cure, si dà fino all'oblìo di se stesso.

Maria ha avuto per Gesù non soltanto un amore di creatura privilegiata, e di madre amante, ha avuto di più, ha avuto sempre, per il suo Figlio, un amore di vergine. È un amore umile, ancora; ma confidente, fedele, unico, colmo di caste familiarità, di attenzioni e di ardori rispettosi.

Ancora così deve essere l'amore del sacerdote per Gesù: un amore puro, disinteressato, fedele e fiducioso. È vero, il sacerdote non ha il candore ideale dell'Immacolata. Il suo cuore non ha la purezza di quello della Vergine Madre. Ma ha solo da attingere alle grazie del suo sacerdozio: vi troverà sorgenti di tenerezza verginale e di dedizione eroica.

Gesù vuol essere amato dal sacerdote come lo è stato dalla Vergine Maria, e ha racchiuso, nel privilegio del sacerdozio, grazie simili a quello che contiene il privilegio della maternità divina: grazie di unione intima e tutta particolare con lui; grazie di purezza; grazie di dedizione senza riserve.



ELEVAZIONE 13

Pasci le mie pecore


Gesù ha detto un giorno a Pietro: « Pasci i miei agnelli... Pasci le mie pecore ».' Secondo l'interpretazione comune, gli agnelli sono i fedeli e le pecore i pastori; e il prete è il pastore del gregge che gli è affidato. In questa sola parola pecora Gesù ha racchiuso, in sintesi, tutti i doveri del sacerdote: i suoi doveri verso Dio, verso il papa, vicario di Cristo, verso i suoi confratelli nel sacerdozio, verso le anime.

La pecora appartiene completamente al suo padrone; gli deve la vita, la fecondità; il padrone ha diritto di disporre di lei a suo piacere. Il sacerdote si deve tutto a Dio, suo Padrone sovrano. È completamente di Cristo; gli deve la fecondità delle sue opere e, se è il caso, il sacrificio della sua vita.

La pecora deve essere docile al pastore che la dirige in nome del padrone. Deve rispondere alla sua voce, seguirlo nei pascoli in cui la conduce, deve essergli obbediente e fedele. Così il sacerdote deve essere docile alla voce del papa; entrare nelle sue vedute, nutrirsi soltanto delle dottrine che egli approva, rimanere fedele e sottomesso al pastorale di Pietro.

Ogni pecora del gregge non ha altri doveri verso quelle che la circondano che la dolcezza e l'unione. Non deve allontanarsi dal gregge e restar sola, perché si esporrebbe alla morte. Gesù vuole che i suoi preti abbiano fra loro una stretta unione, che conservino l'unità della fede nel vincolo della carità fraterna e che, lavorando nel medesimo spirito, diano pace al mondo e gloria a Dio.

Infine la pecora è madre, madre degli agnelli. Li porta nel suo ventre, li nutre del suo latte, li riscalda e li difende. Il prete non è soltanto padre delle anime; è anche madre. Deve avere, per loro, l'amore tenero e delicato delle madri, la loro dedizione fino al sa­crificio. Deve dare alle anime il meglio della propria sostanza, del­l'anima spirituale e pura; riscaldarle con le fiamme dell'Amore In­finito, difenderle dal male.

Si trova, in queste considerazioni, un segno della divinità del Salvatore. All'uomo sono necessarie molte parole per rendere un'idea; Gesù con una sola parola rende tutto un insieme di pensieri.

Questo si vede ad ogni passo nei Vangeli. Con questo solo ter­mine pecora lasciato cadere come per caso nel discorso, Gesù ha detto tutto del sacerdote: tutto ciò che deve essere, tutto ciò che deve fare, tutto ciò che deve offrire di se stesso a Dio, alla Chiesa, alle anime. Perché Gesù è il Verbo. E’ il pensiero divino e la pa­rola increata. Una sola parola caduta dalle sue labbra racchiude un pensiero di Dio.

È bello conoscere Gesù, così grande nella sua divinità, così dolce nella sua umanità. Ci sia concesso di poter esprimere il poco che sappiamo di lui, di farlo conoscere, di farlo amare, adorare, di circondarlo di lodi, d'amore, di gloria, di esaltarlo per sempre.



ELEVAZIONE 14

L'amore e la giustizia


« Dio è troppo buono; non può punire in eterno ». E’ così che molti ti giudicano, Signore. E sotto questo sciocco pretesto, prefe­riscono servire le loro cattive passioni e le loro cattive inclinazioni piuttosto che rinunciare a se stessi e seguirti.

Nulla tuttavia è più contrario alla dottrina della tua Chiesa: l'inferno è ben lontano dall'essere opposto alla tua bontà, ed è precisamente perché io credo al tuo amore, o Dio potente e buono, che io credo all'inferno.

Se tu non fossi Amore; se egoisticamente chiuso nella tua bea­titudine tu non avessi gettato sugli esseri inferiori a te che sguardi indifferenti, forse l'inferno avrebbe potuto non esistere. Ma tu... tu hai creato tutto per amore. Hai formato l'uomo a tua somiglianza; l'hai vivificato con il tuo respiro; l'hai colmato dei tuoi doni, e non hai chiesto a questa creatura, così riccamente dotata, che un poco di fiducia, di fedeltà e di amore. E quando essa ti disprezza e si rivolta contro di te, tu resteresti impassibile, come un Essere incompleto, privo di amore e di sentimento? Dio! Io credo ai rigori della tua giustizia perché credo alle eccessive tenerezze del tuo cuore! Ti amo, mio Dio, Amore Infinito, che ti chini verso la creatura, che la sostieni e la sollevi. Ma ti amo anche, Amore misconosciuto e oltraggiato, che ti irrigidisci e punisci.

Se l'inferno non esistesse, non ti amerei altrettanto. Quando vedo un principe lasciare, nel suo regno, tutti i delitti impuniti; quando lo vedo spargere le sue ricchezze con altrettanta profusione su vili e traditori come sui suoi sudditi fedeli, e trascinare nell'avvilimento la grandezza e la maestà regali, non posso che disprezzarlo e chia­marlo ingiusto e fiacco. No, se non ci fosse l'inferno, mancherebbero tre gemme splendide alla corona delle tue perfezioni: mancherebbero la giustizia, la potenza e la dignità.

Ti amo, ti adoro, mio Dio, nella tua misericordia per i deboli, nella tua bontà per i piccoli, nella tua generosità per i poveri. Ti adoro nel tuo perdono senza riserve; nell'amore che scende dal tuo seno su tutte le creature; nelle tue attese senza stanchezza; nelle grazie che spandi a profusione sulle anime per toccarle, per ricon­durle a te, per illuminarle, per vincerle.

Ti adoro anche, ti amo appassionatamente grande, maestoso, ter­ribile, che consumi in una fiamma eterna coloro che hanno resistito all'assedio del tuo amore.

Del resto non sei tu, mio Dio, sovranamente buono, che con­danni e punisci: sono i cattivi stessi che, rifiutandosi di gettarsi nelle fiamme del tuo amore senza fine, si precipitano in quelle dell'eterna giustizia.

Sì, ti amo come tu sei.

Ti adoro, incoronato dall'insieme infinito delle perfezioni; tanto giusto come buono, grande tanto per la tua potenza e santità che per la tua misericordia, e sempre l'Amore, l'Amore Infinito; Amore che crea, che dona, che perdona, che vivifica; Amore che comanda, riprende e castiga...



APPENDICE I

Esame di coscienza del sacerdote


Il cuore di Gesù, il divin Sacerdote, è stato guidato in tutta la sua vita da tre sentimenti:

- una sete ardente della gloria del Padre;

- un appassionato desiderio della salvezza dei suoi fratelli;

- un bisogno irresistibile e costante di sacrificio e di immolazione. Questi tre sentimenti sono stati vivi oggi in me?

- che cosa ho fatto per la gloria del Padre?

- come ho cercato il bene dei miei fratelli?

- quali croci ho portato, in unione con Gesù?

Gesù, il divin Sacerdote, ha accettato insulti e umiliazioni per riparare la gloria del Padre.

- Mi sono umiliato, oggi, davanti a Dio, riconoscendo il mio nulla e il mio peccato, e riferendo a lui la gloria per il bene che mi ha concesso di fare? Ho accolto con gioia indifferenze e offese dagli altri?

Gesù, il divin Sacerdote, ha dimenticato se stesso, ha rinunciato a ogni cosa e si è impoverito per potersi dare interamente alla sal­vezza dei fratelli.

- Che cosa ho donato oggi ai miei fratelli: del mio tempo, del mio cuore, delle mie cose, sia materiali che spirituali?

Gesù, il divin Sacerdote, dopo essere vissuto in spirito di sa­crificio per tutta la vita, alla fine si è offerto sulla croce e ha im­molato la propria vita per amore.

- Ho agito con spirito di sacrificio?

- che cosa ho sacrificato: delle mie soddisfazioni personali, dei miei godimenti intellettuali, delle mie forze, del mio riposo, della mia vita insomma, per amore di Gesù e delle anime?



Rincrescimento profondo, doloroso, delle mancanze di questo giorno.



Offerta al cuore di Gesù del bene compiuto.



APPENDICE II

Atto di adorazione e donazione all'Amore Infinito


O Amore Infinito, Dio eterno, principio di vita, sorgente dell'Essere, io ti adoro nella tua Unità sovrana e nella Trinità delle tue Persone.

Ti adoro nel Padre, Creatore onnipotente di tutte le cose. Ti adoro nel Figlio, sapienza eterna, per il quale tutto è stato fatto, Verbo del Padre, incarnato nel tempo nel seno della Vergine Madre, Gesù Cristo, Redentore e Re.

Ti adoro nello Spirito Santo, Amore sostanziale del Padre e del Figlio, nel quale è la luce, la forza, la fecondità.

Ti adoro, Amore Infinito, nascosto nei misteri tutti della nostra fede, risplendente nell'Eucaristia, ridondante sul Calvario, vivificante nella santa Chiesa per mezzo dei sacramenti, canali della grazia.

Ti adoro palpitante nel cuore del Cristo, tuo ineffabile tabernacolo e a te mi consacro.

Io mi dono a te, senza timore, nella pienezza della mia volontà; prendi possesso del mio essere, pervadilo totalmente.

Io non sono che un niente, incapace a servirti, è vero. Ma sei tu, Amore Infinito, che questo niente hai vivificato e attrai a te.

Eccomi dunque, o Gesù, pronto a fare la tua Opera di amore, per diffondere, quanto mi sarà possibile, nelle anime dei tuoi sacerdoti e per essi nel mondo intero, la conoscenza delle tue misericordie infinite e delle sublimi tenerezze del tuo Cuore.

Io voglio compiere la tua volontà a qualunque costo, sino all'effusione del mio sangue, se il mio sangue non sarà reputato indegno di scorrere per la tua gloria.

O Maria, Vergine Immacolata, che l'Amore Infinito ha resa feconda, per le tue mani verginali io mi dono e consacro all'Infinito Amore.

Ottienimi di essere umile e fedele

e di dedicarmi senza riserva alcuna agli interessi di Gesù Cristo, tuo adorabile figlio, e alla glorificazione del suo sacratissimo Cuore.

Amen.


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