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Il Sacro Cuore di Gesù e il Sacerdozio (da regalare ai Sacerdoti)

Ultimo Aggiornamento: 07/09/2009 15:17
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07/09/2009 15:06

CAPITOLO IV

Gesù consola


Il dolore non è stato affatto creato per l'uomo; doveva essere l'eredità soltanto degli angeli ribelli e decaduti che, separandosi dal­l'Amore eterno con un atto libero e abusivo della loro volontà, si erano votati per sempre a un odio eterno.

Dopo il peccato dell'uomo, quando il progetto divino, realizzato dall'Amore Infinito per la felicità della sua creatura prediletta, fu sconvolto e distrutto, il dolore, infrangendo le sue dighe, si preci­pitò sull'umanità come un torrente in piena.

L'uomo cominciò allora a soffrire in ogni parte del suo essere. Soffrire nel corpo: il lavoro e le sue fatiche, le intemperie del clima, le molestie delle malattie, gli accidenti improvvisi si unirono per fargli sperimentare la sofferenza. La meravigliosa struttura del suo corpo, la raffinatezza dei suoi organi, la perfezione dei suoi sensi, che dovevano servire a moltiplicare le sue gioie, contribui­rono soltanto più, dopo il peccato, a moltiplicare i suoi tormenti. Nessuna delle sue membra, neppure una fibra della sua persona può essere, presto o tardi, risparmiata dal dolore.

Soffri nel suo cuore. Questo strumento armonioso dell'amore, che non doveva risuonare se non sotto il tocco delicato della mano di Dio, si trovò ad essere tormentato dalle mani inesperte delle creature. Le sue corde fragili e melodiose si spezzarono l'una dopo l'altra sotto i colpi dell'ingratitudine, dell'odio, dell'abbandono per gli strappi causati dalla morte, per le tristi infedeltà e le disillu­sioni amare.

Soffri nella sua anima. Creata a immagine di Dio, era stata do­tata di possibilità meravigliose, il cui esercizio pieno e perfetto doveva offrire gioie sublimi. Ma il peccato, gettandovi le sue ombre, paralizzando i suoi slanci, vi fece entrare il dolore. L'intelli­genza dell'uomo soffrì la sua impotenza a conoscere, a penetrare i misteri appena intravisti. La sua memoria soffrì il ricordo dei do­lori passati o delle gioie perdute. La sua volontà soffrì le proprie ribellioni, incertezze e instabilità. L'uomo soffrì nella sua imma­ginazione i timori per il futuro; soffrì infine in tutto il suo essere e in ogni tempo della sua vita.

Già nella culla, piangeva; lacrime senza dubbio incoscienti, ma reali. E vagiva con gemiti di pianto. La sua infanzia, la sua adolescenza, la sua maturità ebbero le loro preoccupazioni e i loro lutti. La sua vecchiaia ebbe la solitudine, le infermità e i rimpianti. Poi venne la morte, con l'agonia e l'angoscia e le ultime lacrime, versate già sull'orlo della tomba.

Attraverso i secoli, questo dolore umano salì come un grido disperato verso il cielo, chiamando un Consolatore, perché l'uomo, quando soffre, ha bisogno di essere consolato. È troppo debole per portare da solo il peso del dolore; ha bisogno di un aiuto, di un sostegno; ha bisogno di una mano per asciugare le sue lacrime e per fasciare le sue ferite; di un braccio per essere sorretto, di una voce che lo incoraggi e lo sollevi, di un cuore amico in cui possa rifugiarsi.

Dal seno dell'Amore Infinito un'eco rispose a questo appello, a questa supplica: l'incarnazione del Verbo. Gesù, l'Agnello di Dio, colmo di dolcezza e tenerezza, venne in mezzo alla nostra desola­zione. Venne non solo per portare all'uomo ignorante la luce della verità e al peccatore il perdono delle colpe; all'uomo sofferente e solo portò il balsamo celeste della consolazione.

Nessuno meglio del Verbo incarnato poteva essere il consola­tore. Abbraccia tutti i dolori e ha tanto amore da poterli alleviare. E’ Dio. Conosce, nella sua intelligenza infinita, ogni minima de­licatezza delle sue creature, e sa bene i turbamenti che il peccato vi ha portato. Vede le lotte intime dell'uomo, i suoi dolori più segreti.

E’ Uomo. Ha sperimentato in se stesso tutte le sofferenze del­l'umanità. Nella sua Passione, la sua carne, bagnata dal sangue del­l'agonia, straziata dalla flagellazione, ferita dalle spine e dai chiodi, ha sofferto il martirio più doloroso. Il suo cuore così ricco di amore è stato spezzato da ingratitudini e gelosie, dall'odio e dall'abban­dono. La sua anima ha conosciuto la tristezza e il terrore, torture indicibili e angosce mortali.

Conosce i nostri dolori. E questo illumina le sue parole: « Ve­nite a me, voi tutti che soffrite e che siete oppressi, io vi conso­lerò ». Cristo chiama i sofferenti di questo mondo, gli addolorati, i disperati; tutti coloro che portano, nel corpo, nel cuore o nell'anima, una ferita sanguinante che deve essere guarita.

Sembra impossibile che possiamo essere consolati: le nostre sof­ferenze sono troppo numerose, i nostri dolori troppo profondi, fino a sembrare qualche volta senza rimedio. Cristo ci consola con il suo Cuore, in cui l'Amore Infinito si è stabilito, da cui si span­dono su di noi le ondate della consolazione di Dio.

Durante la sua vita, abbiamo visto Gesù, tenero come una ma­dre, chinarsi sull'umanità sofferente e versarvi il balsamo che alle­via il dolore e guarisce la malattia. E dopo il suo ritorno trionfale nella gloria, quando non può più continuare la sua missione di consolatore in forma umana, non abbandona i suoi; invia lo Spirito Santo, lo Spirito di amore che procede dal Padre e dal Figlio. Cri­sto stesso consolerà gli uomini attraverso la conoscenza delle verità eterne, attraverso la consacrazione soprannaturale dell'Amore Infinito.

Ma questa azione di consolatore si manifesterà soprattutto at­traverso la Chiesa, e nella Chiesa attraverso il prete. La Chiesa e il sacerdozio sono i grandi doni che Cristo consolatore ha fatto al suo popolo. La Chiesa, autenticamente madre, sempre pronta ad asciugare le lacrime; sempre pronta ad accogliere nelle sue braccia, a cullare sul suo cuore i figli che soffrono. Il sacerdote, rappresen­tante di Gesù, colmo della grazia dello Spirito Santo, che si china, come Gesù, su ogni dolore umano, e su ogni sofferenza versa la consolazione...



Gesù consola la sua gente

Con l'aiuto del Vangelo seguiamo ora Gesù nella sua missione di consolatore. Durante i tre anni della vita pubblica non si accontenta di insegnare e di perdonare i peccatori. Passa, dolcissimo consolatore, in mezzo alle miserie degli uomini, guarendo i corpi sofferenfi, medicando le ferite dei cuori piagati, diffondendo la sua pace, quella pace che supera ogni sentimento e placa ogni dolore.

All'inizio del suo ministero, comincia col trasformare le nostre opinioni sul dolore. Prima di lui, la sofferenza era un'umiliazione e il dolore una vergogna; un corpo ammalato era oggetto di orrore, il gemito dei cuori spezzati non trovava alcun'eco. Ma quando sulla montagna proruppe in questo grido: « Beati i poveri... Beati quelli che piangono... Beati quelli che soffrono... » l'uomo conobbe il valore del dolore. Scoprire questo valore inestimabile; sapere ciò che esso espia, ciò che ottiene, ciò che merita. Qualche giorno di sofferenza sulla terra, confrontato con il peso immenso di gloria che sarà eternamente nostro, è una consolazione. Ci aiuta a guardare in alto: fortifica la nostra volontà, naturalmente debole di fronte alla sofferenza; moltiplica il nostro coraggio con la prospettiva di ricompense immortali.

Per farci vedere fino a che punto il dolore è degno della no­stra stima, Gesù lo prende come sua parte d'eredità. Lo sceglie pre­ferendolo ad ogni gioia. Si sottomette, come abbiamo visto, a ogni sofferenza che travaglia la nostra debole umanità. Si fa povero per consolare i poveri; vuol essere respinto e calunniato per incorag­giare quelli che il mondo respinge e perseguita. Soffre volentieri in tutta la sua persona, perché noi lo incontriamo al nostro fianco in ogni nostro dolore. La sua pietà verso i malati è profonda. Non può ascoltare il loro pianto senza esserne commosso, e lo vediamo affrettarsi per rialzarli e guarirli. È per loro che usa la sua potenza di Figlio di Dio. Non allontana nessuno, per quanto umile, mise­rabile, ripugnante sia. « Tutti coloro che avevano dei malati, afflitti da malattie diverse, li portavano à Gesù. E Gesù, imponendo loro le mani, li guariva ». Si sposta infaticabile da un luogo all'altro, verso chi ha bisogno del suo aiuto. Usa parole piene di dolcezza, trova con delicatezza la parola giusta da dire al malato che si pre­senta a lui...

Ricco di compassione, ascolta l'umile preghiera dell'ufficiale di Cafarnao, che osa appena sollecitare il Maestro per la guarigione del suo bambino ammalato. Gesù lo vede prostrato dal dolore; gli dice soltanto: « Va', tuo figlio vive ».

Al paralitico che lo supplica di essere guarito, e che insieme sente il dolore di un passato di peccatore: « Coraggio, figlio mio, i tuoi peccati ti sono perdonati ». La guarigione del corpo non basta a consolare chi soffre anche del ricordo dei suoi errori: bi­sogna anzitutto rasserenare questa tristezza con il dono del perdono. Un giorno, in mezzo alla folla, Gesù è colpito da una grande tristezza. Una donna si sforza di avvicinarsi a lui, perché pensa: « Se soltanto tocco l'orlo della sua veste, sarò guarita ». Gesù ha compassione; lascia sfuggire da sé qualcosa della sua potenza, ed ecco che l'ammalata si sente esaudita. Turbata da quanto ha osato fare, e ancor più per gli sguardi che la circondano, resta lì immo­bile e confusa. Ma Gesù trova una parola di consolazione: « Co­raggio, figlia mia, la tua fede ti ha salvata ». È stata la fede a portare questa donna in mezzo alla folla. Cristo, che legge nei cuori, lo sa, e con queste sole parole « La tua fede ti ha salvata » la consola delle faticose ricerche che ha dovuto fare per avvicinarsi a lui, delle lunghe attese che ha sopportato nella speranza di incontrare il suo Salvatore.

Un'altra volta, Gesù visita la piscina delle pecore. Numerosi ma­lati sono in attesa del miracoloso movimento delle acque. Fra loro, Cristo ha notato un ammalato con il volto triste e abbattuto. Que­st'uomo non chiede nulla. Non supplica dal Maestro né la guari­gione né l'elemosina; non sa che il Cristo ha il potere di rendergli la salute. Gesù è spinto dal suo amore verso questo dolore muto, e si rivolge al paralitico: « Vuoi guarire? ». Gesù si china verso questo emarginato; verso colui che nessuno veniva a soccorrere e aiutare. Consolatore, porta la guarigione e la gioia. E quando Cristo incontra persone straziate per la morte di qualche persona cara, con­divide quel dolore, si affretta a fare uso della sua onnipotenza per ridare la vita a chi tanto amano.

Giaìro è caduto nella disperazione. La sua unica figlia sta mo­rendo, anzi è già morta. Il suo abbattimento è così profondo, che appena può credere che Gesù nella sua potenza possa rendergli la sua bambina. Lo chiama, tuttavia, e Gesù accorre, ansioso di con­solare questo padre addolorato. « Non temere - gli dice dolce­mente - soltanto credi, ed ella sarà salvata ». E la bambina, risu­scitata, è resa ai suoi genitori smarriti.

Ma non è ancora abbastanza per l'amore di Gesù. Vuole che essi abbiano la gioia non solo di vedere la propria figlia viva, ma anche in piena salute e in forze. « E ordinò che le fosse portato da mangiare. Così - dice il Vangelo - furono pieni di ammi­razione e di gioia ».

Durante i suoi viaggi, entrando nel villaggio di Naim, Gesù vede una madre in lutto. Segue il funerale del suo unico figlio. Cristo è commosso da questo dolore di una madre, vuole consolarla. Si avvicina alla donna in lacrime: « Non piangere più », le dice, e il giovane, risuscitato dalla parola onnipotente del Maestro, è restituito a sua madre.

Lazzaro è appena morto. Gesù, che lo amava come un amico fedele, è triste. Si addolora, forse, ancor più per Marta e per Maria, che sa abbattute sotto il peso del dolore. Si sente spinto ad andare a consolarle e si incammina alla volta della Giudea, malgrado gli avvertimenti prudenti che lo sconsigliavano di ritornarci. Arrivato a Betania, incontra Marta, e si sforza di risollevare il suo abbatti­mento ricordandole la vita eterna e l'eterno incontro. Maria, a sua volta, riceve consolazioni soprannaturali; ma la peccatrice conver­tita, dal cuore così capace di amare, è in quella disperazione di spi­rito che rifiuta ogni conforto.

Gesù è turbato di fronte a così profondi dolori; piange anche lui, insieme alle sorelle inconsolabili di Lazzaro. Si avvicina al se­polcro, si rivolge al Padre dei cieli, lo prega di esaudirlo ancora: « Padre mio, ti ringrazio di avermi esaudito. Lo sapevo, che mi ascolti sempre. Ma ho parlato così per la gente che mi sta attorno, perché credano che mi hai mandato ». Dopo aver detto questo, grida: « Lazzaro, vieni fuori! ». E subito, quest'uomo, che era morto, esce, i piedi e le mani avvolti dalle bende e il volto coperto dal sudario. « Slegatelo e lasciatelo andare », dice il Salvatore.

Il prete, ambasciatore di Gesù, è chiamato spesso, come lui, a consolare coloro che soffrono per l'infermità e la malattia, a risol­levare i cuori abbattuti da dolorose separazioni. Se non può, come Cristo, guarire e risuscitare i corpi, può, con la grazia di Cristo che parla attraverso di lui, consolare molti dolori e asciugare molte lacrime.

La visita dei malati: è una parte magnifica e consolante del mi­nistero del prete. Egli deve farne il suo più dolce sollievo, e andare verso queste immagini viventi del Crocifisso, con tutta la tenerezza del suo cuore. Può diminuire l'intensità delle loro sofferenze, mo­strandone il pregio, orientando le speranze dei malati verso i beni eterni. Il prete usi perciò la massima prudenza e la più grande carità per elevare gli uomini a Dio, per far loro comprendere la nullità dei beni di questo mondo e l'illusione delle amicizie vane. Quando il corpo soffre, l'anima è più facilmente vicina a Dio.

Ma nelle consolazioni che distribuisce, il prete sia sempre so­prannaturale, e le sue parole, come quelle di Gesù, siano tutte di confidenza e di fede. La fede nelle promesse di Dio, la confidenza nell'amore infinito e misericordioso di Cristo: ecco cosa il prete deve offrire come la migliore, la più solida delle consolazioni, a chi è costretto dalla malattia su un letto di dolore, a chi piange accanto alla salma dei propri cari.



Gesù consola i suoi

È soprattutto con i suoi discepoli, con i suoi apostoli, che Gesù si mostra consolatore.

Un giorno, li vede contristati per il loro piccolo numero e per la loro povertà, inquieti di fronte all'incerto avvenire che si apre davanti a loro. Vuole rassicurarli, e li incoraggia: « Piccolo gregge, non temere, perché il Padre ha voluto darti il suo regno ».

Alle folle, il Maestro predica la verità in tutto il suo rigore; annuncia loro la venuta del Figlio dell'uomo nell'ultimo giorno, e i segni terribili che lo accompagneranno. Ma per i suoi discepoli, ha delle parole di conforto; non vuole lasciarli in preda a una così penosa impressione: « Quando queste cose inizieranno ad accadere, alzate la testa e guardate, perché la vostra liberazione è vicina ».

E quando i tre anni di apostolato di Gesù si avvicinano al loro termine, quando sta per lasciare il mondo per ritornare al Padre, ha compassione dei suoi discepoli, agitati e addolorati per la sua prossima partenza. Cerca di consolarli con le parole più dolci: « Il vostro cuore non si turbi. Voi credete in Dio, credete anche in me ». E « Non vi lascerò orfani: tornerò con voi ». E Gesù inizia ad an­nunciare loro un aiuto nuovo. Fedele a quelli che si è scelto, con­tinuerà a vivere in loro attraverso la sua grazia, a vivere con loro nell'Eucaristia; ancora, lo Spirito Santo verrà in essi, li riempirà di luce e di forza e continuerà ad istruirli. « Lo Spirito Santo, il Consolatore, che il Padre mio invierà in mio nome, vi insegnerà ogni cosa, e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto ». « Il vo­stro cuore non si turbi, non abbia paura ». « Se voi rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete al Padre mio e ve lo concederà ». « Come il Padre ha amato me, così io ho amato voi ». « Quando verrà il Consolatore che vi man­derò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, vi ren­derà testimonianza di me » « In verità, vi dico, è conveniente per voi che me ne vada, perché se non me ne vado il Consolatore non verrà a voi; ma se me ne vado, ve lo manderò ».

Durante quest'ultima sera, Cristo riversa le consolazioni più alte e più dolci nel cuore dei suoi discepoli. Mai prima d'ora si è mo­strato così tenero, così confidenziale, così familiare. È perché li vede soffrire... Sente i loro cuori, turbati da terrificanti prospettive, sanguinare già ora per questa separazione, la cui ora si avvicina e che sarà preceduta da avvenimenti così dolorosi. Gesù sa bene che la sofferenza è buona per coloro che gli sono cari; ma, come una madre che ama, vuole, con la delicatezza del suo amore, addolcire la tristezza dei suoi discepoli prediletti.

La Passione inizia. Gesù sta per bere il calice dell'amarezza. Lungi dal ripiegarsi su di sé, dimentica se stesso per consolare i suoi. Piegato sotto il peso della croce, trova ancora la forza di in­coraggiare le donne che lo seguono da vicino. Appeso al patibolo infame, preda dei dolori più atroci, cerca ancora di consolare quelli che lo circondano con la morte nel cuore. Al ladro pentito, si af­fretta ad annunciare la gioia che gli ha riservato: « Fatti coraggio - sembra che dica - la tua sofferenza non sarà lunga; oggi stesso tu sarai con me in Paradiso ».

Vuole consolare la Vergine, sua madre, e Giovanni, il suo di­scepolo fedele. Li vede immersi in un dolore profondo, agonizzare con lui con lo strazio del pensiero della separazione. Maria dovrà abitare da sola, come una derelitta, senza sposo e senza figlio, senza difesa e senza sostegno? Questo abbandono sarebbe duro, questa solitudine amara. E Giovanni, Giovanni che ha sacrificato a Cristo tutti gli affetti della terra, che ha lasciato tutto per unirsi a lui, dovrà restare senza guida e senza amore? Dovrà privare la sua gio­vinezza di ogni tenerezza umana? No. Gesù trova per ciascuna di queste due persone che ama un mezzo di addolcire la sofferenza. Le dona l'una all'altra. Maria incontrerà un altro figlio in Gio­vanni. Giovanni potrà portare su Maria quell'affetto filiale e puro che aveva per Gesù. Tutti e due saranno uno nell'amore di Cristo; tutti e due si consoleranno nel suo ricordo gioioso, lavorando a diffondere la sua dottrina, a farlo conoscere e amare.

Gesù, scomparendo al nostro sguardo, non ci ha lasciati orfani. Ha inviato alla Chiesa lo Spirito Santo e ha formato, per conti­nuare sulla terra la sua missione di Consolatore, il prete, quest'altro se stesso, nel cuore del quale ha fatto passare il suo Cuore.

È magnifica questa missione del sacerdote. È dolce, ma è diffi­cile e delicata. Per compierla degnamente, bisogna che egli conosca le sofferenze dei suoi fratelli; che si sforzi di comprendere i dolori più profondi, quelli che dopo il peccato hanno invaso l'umanità, e che sono sovente tanto più penosi quanto più sono intimi e segreti. L'anima e il cuore dell'uomo sono due strumenti pieni d'armo­nia; ma fragili e delicati. La mano che li suona deve essere leggera, eppure sicura e senza maldestre esitazioni. Sia che si tratti dei tormenti del cuore, o delle torture dell'anima, è necessario al prete che consola un discernimento perfetto. Le anime sono molto di­verse: la stessa prova, lo stesso dolore non produce, in ciascuna di loro, lo stesso tipo di sofferenza; ad ogni anima, ad ogni ferita è necessaria una consolazione differente.

La conoscenza dei dolori umani attraverso l'intelligenza non è sempre sufficiente al prete per essere un consolatore efficace. La con­solazione deve giungere al cuore sofferente; e deve partire da un cuore che sa compatire. Il prete deve formare il suo cuore sul mo­dello di quello di Gesù. Deve far parte con lui di tutti i suoi senti­menti di compassione e di dedizione a Dio.

Il prete che consola deve essere, come Gesù, colmo di bontà, di pazienza, di dolcezza. L'altezza, la purezza dei suoi sentimenti gli fanno cogliere, con tatto squisito, tutti i dolori che gli sono confi­dati. Come Cristo, ama chinarsi su di loro. La sua missione è di asciugare le lacrime, di riportare la pace nelle anime turbate, di of­frire la gioia di Dio a chi è triste e abbattuto.

Abbiamo detto « la gioia di Dio », perché bisogna che il prete si guardi bene dall'offrire consolazioni soltanto umane. Le verità che predica vengono da Dio; la parola che rivolge agli uomini è la stessa parola di Dio; le consolazioni che offre devono essere quelle che nascono dall'amore di Gesù. Amore infinitamente buono e pronto alla compassione, ma anche sovranamente forte e ancorato in Dio.

Il prete deve stare attento soprattutto a questo: innalzare gli uomini, farli salire nel momento della prova, impedire loro di ripiegarsi su se stessi. Il dolore è un bagno salutare e fortificante che tempra gli uomini e li purifica; ma non bisogna che consolazioni soltanto umane o parole sdolcinate vengano a distruggere la sua azione benefica.

Cristo, nella parabola del Buon Samaritano, sembra indicarci l'aiuto pieno di carità, dolce e forte al tempo stesso, che il prete deve offrire a chi, ferito nel profondo di sé, incontra sulla sua strada. Sulla strada che va da Gerusalemme a Gerico, un uomo è steso a terra, nudo e ferito, privo di forze e di soccorso. I viaggia­tori che gli passano accanto e lo vedono in questo stato pietoso, restano indifferenti, e si allontanano senza neppure uno sguardo di pietà, una parola di conforto. Un Samaritano, a sua volta, arriva; si commuove, ha compassione. Subito si avvicina al ferito, fascia con cura le sue ferite e vi versa del balsamo e del vino. Poi, sollevan­dolo fra le sue braccia, con precauzione, delicatamente, lo carica sulla sua cavalcatura e lo accompagna alla più vicina locanda. Là, gli prodiga le sue cure e, costretto a partire l'indomani, lo affida a persone caritatevoli e provvede alle sue necessità.

Il prete, questo degno continuatore dell'opera di Cristo, quando incontra il dolore sulla sua strada non gira l'angolo. È troppo buono, troppo simile al suo Maestro per non essere colpito dalle disgrazie dei suoi fratelli. Si avvicina, si piega su quest'uomo spogliato di ogni affetto, su quest'anima ferita dalle lotte della vita. Lega con le fasce della più tenera carità queste ferite sanguinanti; versa su di loro balsamo e vino: la dolcezza della sua compassione e la forza potente della fede. Rialza con l'ardore della sua disponibilità que­st'uomo indebolito e, dolcemente, lo accompagna verso Dio. Lo fa entrare a poco a poco nelle dimore della Carità del Padre dove il medico del cielo penserà lui, con il balsamo del suo amore infinito, a curare le ferite della sua creatura più amata.

E’ questa la missione del prete che consola, missione di miseri­cordia e di amore. In lui, è Cristo che continua a passare per le strade facendo del bene, versando i tesori dell'amore di Dio, la sovrabbondanza della sua anima penetrata dall'amore infinito, su tutto ciò che geme e soffre. L'unione profonda all'amore di Cristo, la dipendenza assoluta dalle mozioni dello Spirito Santo, faranno del prete quel perfetto consolatore che l'umanità sofferente invoca, e di cui essa ha bisogno per continuare senza indebolirsi il cammino della vita.



Spirito Santo, divino consolatore, inviato da Cristo alla nostra deso­lazione, riempi il cuore della tua Chiesa, il sacerdozio, del fuoco della tua carità. Gli uomini gemono sotto il peso delle sofferenze; hanno bisogno, per continuare il cammino verso l'eternità attraverso le ombre del dolore, di essere guidati, sostenuti, consolati.

Spirito, Amore sostanziale del Padre e del Figlio, effondi sui sacerdoti l'abbondanza dei tuoi doni. Versa nei loro cuori i sentimenti della compas­sione, della tenerezza che riempiva il cuore di Gesù, perché, illuminati da te, penetrati dalla carità del Cristo, possano offrire al mondo, attra­verso un rinnovamento di fede e di amore, la consolazione a ogni soffe­renza, e calmare ogni dolore. Amen.



CAPITOLO V

Gesù si offre in sacrificio

Figure del sacrificio


Una grande tristezza si è sparsa nella natura: l'uomo, il signore della creazione, che doveva guidare verso l'incontro con Dio tutte le altre creature, ha abbandonato lui per primo la sua via: ha offeso il suo Creatore e suo Dio. Ha peccato. Dopo i pochi istanti di pia­cere che hanno seguito il suo errore, Adamo colpevole è stato assa­lito dal timore. Conosce la bontà di Dio, ma sa anche che è giusto e potente, e il pensiero di questa potenza e di questa giustizia di Dio che stanno per colpirlo lo getta in un terrore folle. Per la pri­ma volta, l'uomo ha paura di Dio e, udendo la sua voce risuonare nel giardino, quella voce grave e dolce che fino a questo momento non gli ha indirizzato che parole di un Padre, si nasconde tutto tremante. Presto la terribile sentenza è pronunciata? Seguito dalla sua infelice compagna, Adamo lascia il Paradiso delle delizie per iniziare, sulla terra divenuta meno fertile e sotto un cielo troppo sovente offuscato dalle nubi, una vita di lavoro, di lotta e di do­lore che sarà, fino alla fine dei tempi, l'eredità dei suoi discendenti.

Di tanto in tanto, il ricordo dell'uomo si riporta ai giorni fe­lici dell'Eden, ai giorni della sua intimità con il Creatore, e li rim­piange nelle lacrime: cerca di ritrovare la felicità perduta, di riav­vicinarsi a Dio, di entrare, come una volta, in comunicazione con lui. Ma il Cielo è chiuso per lui, e sordo alla sua voce; invano l'uomo peccatore cerca di riannodare con il suo Creatore quei lega­mi d'amore che il peccato ha spezzato. Obbligato alla lotta contro gli elementi scatenati, contro le forze di quella natura ora ribelle, ma che egli aveva visto nei primi giorni della creazione sottomessa e meravigliosamente ordinata, avverte più profondamente la po­tenza infinita di Dio, la sua grandezza, il suo potere sovrano e, penetrato dal senso della sua debolezza e del suo nulla, si inginoc­chia in adorazione. Se ha capito la grandezza di Dio, l'uomo è an­cora più colpito dalla sua bontà. Dio onnipotente lo poteva annien­tare dopo il peccato, oppure, volendo conservarlo per una lunga espiazione, poteva distruggere queste splendide bellezze, queste in­numerevoli ricchezze dell'universo che, sia pure più difficili da rag­giungere, sono tuttavia ancora alla sua portata. Così, nella sua sven­tura, l'uomo riconosce la bontà di Dio, e il suo cuore è spinto a levare verso il cielo un canto di ringraziamento e di lode.

Ma allora ritornano alla sua mente le ultime parole che Dio, irri­tato, ha pronunciato contro di lui cacciandolo dall'Eden. Rivede la spada di fuoco dell'angelo che custodisce la porta del giardino, e il ricordo delle terribili manifestazioni della giustizia di Dio ferma sulle sue labbra il canto di riconoscenza, e lo gela nel terrore. Tre­ma, si confonde; vorrebbe riparare l'offesa a costo della vita; e, al grido disperato che lancia verso il cielo, non c'è nessuna risposta di perdono.

A poco a poco, tuttavia, la pace ritorna in quest'uomo torturato. Si ricorda la divina promessa di un Salvatore e, inginocchiandosi sulla terra nuda, così spesso bagnata dal sudore e dalle lacrime, il colpevole si sforza, con i suoi gemiti e l'ardore veemente della preghiera, di far scendere fino a lui la misericordia promessa. Così, quasi ad ogni momento, nella sua angosciosa solitudine e sotto il peso schiacciante del suo peccato, il primo uomo è com­battuto e straziato da sentimenti diversi. E un giorno, volendo riu­nire in un solo gesto l'espressione intima e personale della sua adorazione, della sua riconoscenza, della sua riparazione e delle sue instancabili preghiere, per presentarla a Dio, offre il suo primo sa­crificio...

Sotto la volta del cielo le cui azzurre profondità sono colme di mistero, al centro di questa vasta terra appena popolata, su un blocco di granito che gli serve da altare, l'uomo deposita la sua offerta. È senza valore, certo; ma l'uomo la pensa preziosa, perché gli è costata preoccupazioni e fatiche, e gli sembra utile. Sono frutti strappati dal lavoro delle sue braccia alla terra poco fertile; è un animale che ha nutrito con sollecitudine e allevato con fatica, pri­mizia del suo gregge. Presenta questa offerta a Dio, e la distrugge. La immola alla gloria del Signore dei cieli, sperando così di toc­care il suo cuore e ottenere il suo perdono...

E l'Altissimo si degna di chinarsi verso l'uomo pentito. Vedia­mo, infatti, ai primi giorni del mondo, Abele offrire a Dio i suoi sacrifici, e il Signore guardare favorevolmente Abele e le sue of­ferte. Anche in seguito, l'Altissimo continua a gradire questi sacri­fici, e qualche volta manda dal cielo una fiamma che consuma l'olo­causto; risposta misericordiosa ai deboli sforzi tentati dall'uomo per riavvicinarsi al suo Creatore e suo Dio.

Ma come può, l'Essere supremo, il Dominatore dei mondi, gra­dire un sacrificio del genere? Come è possibile che un sacrificatore colpevole e una vittima senza intelligenza possano glorificare Dio, rappacificarsi con la sua giustizia, ottenere i suoi doni?

Dio è Amore. Vedeva il peccato coprire con la sua ignominia l'uomo, e molto prima che all'uomo venisse in mente di offrirgli un sacrificio, nell'intimità dell'Amore Infinito si tenne consiglio. Il Verbo, Figlio unico del Padre, si offriva per pagare il debito del­l'umanità colpevole. Si sarebbe incarnato nel tempo e, insieme Sa­cerdote e Vittima, si sarebbe immolato volontariamente. Ogni glo­ria sarebbe così stata tributata alla maestà di Dio; la giustizia sarebbe stata soddisfatta da questa riparazione di valore infinito; i legami formati dall'amore tra il Creatore e la creatura, e spezzati dal peccato, si sarebbero riannodati per sempre in questo sacrificio divino.

Il Padre dei cieli e lo Spirito d'amore erano stati d'accordo alla proposta della Sapienza increata; la giustizia si era vista disarmata dalla misericordia; la potenza e la bontà si univano per preparare un capolavoro: Gesù Cristo, Sacerdote di Dio, Vittima dell'unico sacrificio degno della Maestà più alta. Ed ecco come i sacrifici im­perfetti offerti dall'uomo sulla terra erano graditi a Dio: la Trinità vedeva in loro la figura, il simbolo di quel Sacrificio del Verbo incarnato che sarebbe stato offerto un giorno e che avrebbe operato la riconciliazione definitiva tra il cielo e la terra.

L'umanità, disperdendosi, portava ovunque l'idea del sacrificio. Non vi è alcun popolo, alcuna religione che non abbia un sacrificio alla base del suo culto. Ma, per la perversione della sua intelli­genza e del suo cuore, l'uomo doveva a poco a poco perdere la conoscenza del suo Dio, ed è a miserabili idoli che, quasi ovunque, offrirà i suoi sacrifici. Solo il popolo eletto, la nazione santa chia­mata a conservare il culto del vero Dio, continuerà ad offrirgli oblazioni, fino al giorno in cui ciò che è imperfetto lascerà il posto a ciò che è perfetto, il sacerdote della nuova alleanza offrirà alla Maestà di Dio l'unica vittima che egli può gradire.

Sotto l'Antico Testamento nulla era parso perfetto e completo. Il sacerdozio levitico, che era come l'anima della Legge, era debole e impotente. Ma un altro sacerdote doveva sorgere, nell'ordine di Melchisedech, che, sacrificando una vittima santa, pura e gradita a Dio, avrebbe portato alla giustizia perfetta tutti coloro che dove­vano essere santificati.



Il sacrificio di sangue

Era venuto il tempo che la legge della grazia avrebbe abolito la legge del timore. La lunga attesa dei patriarchi, i sospiri ardenti dei profeti, i gemiti dell'uomo avevano chiamato in causa la Miseri­cordia: il Verbo si era incarnato... Nell'ombra della notte, mentre nel più alto dei cieli gli angeli cantano il gloria, sulla terra, nel­l'umiltà di una stalla, il Sacerdote della nuova alleanza fa il suo in­gresso. E’ appena nata la Vittima santa che egli deve immolare... È là, stesa in un'umile mangiatoia, circondata da animali privi di pre­gio, in attesa dell'ora, ancora lontana, della grande immolazione. La Vergine Maria, madre immacolata, prendendo in braccio il corpo fragile di suo Figlio, lo alza verso il cielo e lo offre al Padre.

Non si può dire il valore infinito di questo primo sacrificio, in cui Gesù appena nato offre se stesso, nella pienezza della sua volontà, preludio al sacrificio supremo del Calvario; e in cui la Vergine, nello slancio generoso dell'amore, malgrado lo strazio del suo cuore di madre, offre in anticipo il frutto del suo ventre all'immolazione della croce.

Durante trent'anni, nel segreto del loro cuore, il Figlio e la Madre rinnoveranno in ogni momento questa oblazione. Il giorno della circoncisione, durante la presentazione al tempio, il sacrificio sarà più solenne; ma durante gli anni dell'esilio in Egitto, nella vita calma e silenziosa di Nazareth, proseguirà: nascosto agli sguardi d'uomo, non sarà però meno efficace e sublime agli occhi di Dio. Gesù rimarrà, durante questi anni, Sacerdote e Vittima: Sacerdote, Mediatore potente tra Dio e l'uomo; Dio e Uomo insieme, l'unico quindi degno di avvicinarsi a Dio, di immolargli una vittima senza macchia, di offrirgli il sacrificio di adorazione, di lode, di ricono­scenza che Dio merita; degno di intercedere per i suoi fratelli pec­catori; degno di ottenere, con la sua preghiera, i doni dell'infinita Bontà. Vittima santa, sempre offerta, la sola capace di essere com­pletamente gradita, e il cui profumo, salendo fino al trono di Dio, pacifica la sua giustizia e ottiene misericordia.

Gli anni passeranno in questa offerta misteriosa. A poco a poco Gesù, Sacerdote e Vittima, arriverà alla pienezza dell'età e lo ve­dremo, nelle sinagoghe e sotto il portico del Tempio, fare impal­lidire con la sua sapienza l'erudizione e la falsa scienza degli scribi, dei dottori e dei sacerdoti.

Presto, questo tempio magnifico, innalzato per la gloria di Jahwè in tutta la possenza della sua architettura, sarà distrutto, e non ne resterà pietra su pietra. Non importa. Per il Sacerdote divino, la splendida costruzione di Salomone è un tempio indegno: l'uni­verso è il suo tempio, ed è in ogni luogo e in ogni tempo che vuole compiere le funzioni del suo sacerdozio e innalzare sacrifici. Se è sacerdote, è innanzitutto sacrificatone, e l'altare di bronzo utilizzato per offrire gli olocausti non era degno della Vittima che doveva offrire.

Questa Vittima, è Gesù. Appena sarà uscito dall'ombra della sua vita nascosta, appena sarà stato riconosciuto dal Precursore, che gri­derà di lui: « Ecco l'Agnello di Dio, ecco colui che cancella il pec­cato del mondo », Gesù sarà l'Agnello divino della nuova Pasqua, il cui sangue sparso preserverà dalla distruzione quelli che ne sa­ranno segnati; le sue ossa saranno consumate dal fuoco dell'amore, la sua carne sarà mangiata in un banchetto eterno.

Così, durante gli ultimi anni della sua vita mortale, Gesù ci apparirà sempre, e ogni volta, Sacerdote e Vittima. Sacerdote, quan­do lo vediamo prostrato in campagna o sulle cime dei monti, insi­stendo nella preghiera con le mani levate al cielo, intercedendo pres­so il Padre per gli uomini. Lo è nella sua predicazione, nel suo insegnamento paziente, nella consolazione che sparge sul dolore. Lo è soprattutto quando sacrifica, quando immola, per la gloria del Padre e la salvezza degli uomini, il suo corpo, con dolori di ogni genere in attesa della croce.

Vittima, lo è senza sosta: nel suo digiuno solitario di qua­ranta giorni, nelle fatiche dei suoi viaggi apostolici, nelle privazioni che si impone, negli smarrimenti del cuore, nel sudore di sangue al Getsemani, nelle torture della sua anima, nell'offerta sempre rin­novata della sua vita, nell'accettazione del supplizio.

Il giorno del grande sacrificio, Cristo, con i paramenti purpurei del suo sangue, la fronte cinta dalla corona che i soldati del pre­torio hanno costruito per lui, avanza nella maestà del suo sacer­dozio regale, seguito dal corteo della folla che, lentamente, lo ac­compagna sui pendii del Calvario. Giunto in cima, di fronte alla folla attenta, la Vittima si stende sull'altare, e il sacrificio prose­gue fino alla completa immolazione.

Gesù appeso alla croce è Sacerdote e Vittima. Sacerdote, perché si immola volontariamente, nel pieno possesso delle sue facoltà. Da poche ore ha risposto a Pilato: « Tu non hai alcun potere su di me, se non quello che ti è stato dato dall'alto » Ha appena detto, in agonia: « Padre, nelle tue mani affido il mio spirito ». Ed ora grida, nello slancio supremo del suo sacerdozio: « Tutto è com­piuto! ».

Vittima. Completamente. Le sue piaghe non si contano; è tor­mentato dai chiodi, dalla tensione dei nervi, dai dolori innumerevoli che lo torturano, dalla sete che lo brucia... E il suo cuore soffre di fronte alle lacrime e allo strazio dei suoi, all'ingratitudine di molti che ha colmato di beni, al disprezzo della folla che solo cinque giorni prima lo acclamava, all'odio dei carnefici che vogliono la sua morte.

Quasi dimenticando la propria divinità, sembra abbandonato dal Padre dei cieli, agonizza nella notte senza aiuto e senza luce: « Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? ».

Tutto è compiuto. Gesù-sacerdote ha immolato Gesù-vittima. Il cielo si è riavvicinato alla terra. Dio ha perdonato all'uomo il suo peccato. Attraverso questo sacrificio di sangue, Cristo ha lodato splen­didamente la Bontà infinita, offrendole il più grande omaggio di adorazione che essa possa ricevere. Ha reso grazie al Padre per tutti i suoi beni, per la sua generosità che si estende su tutta la crea­zione. Ha rappacificato la giustizia di Dio, che l'uomo aveva offeso con il peccato e che esigeva una riparazione completa. Ha solleci­tato, infine, e ottenuto, tutti i favori, tutti gli aiuti, ogni perdono di cui la nostra miseria ha bisogno. Tutto è compiuto.



Il sacrificio eucaristico

Gesù Cristo è morto. Il mondo è riscattato, la pace è fatta tra cielo e terra. Sull'altare della croce, la giustizia e la misericordia si sono abbracciate, e l'Amore Infinito, riversandosi sull'umanità at­traverso la Redenzione, le rende la vita divina che il peccato le aveva rubato.

Ma se Cristo ha voluto offrirsi una volta per tutte a Dio Pa­dre in dono di amore per la salvezza dell'uomo, ha voluto ancora di più. Il peccato, malgrado la grazia sovrabbondante della Reden­zione, doveva continuare a trasmettersi di generazione in generazione, tanto la natura umana era rimasta debole, e tanto sono audaci e arroganti i nemici che la circondano. L'uomo sente ogni giorno que­sto bisogno profondo di innalzarsi verso Dio per offrire un sacrifi­cio. Per questo, il sacerdozio di Cristo non è finito con la sua morte: Gesù è Sacerdote in eterno, e anche il suo sacrificio in qualche modo è permanente. L'uomo, debole e peccatore, potrà rendere al suo Dio il culto di onore e di lode che gli è dovuto: potrà sempre immolare l'unica Vittima che Dio accetta.

È un mistero della potenza, della saggezza e della bontà di Dio. Non bastava il sacrificio del Verbo incarnato? Ci vorranno altre im­molazioni dopo la Risurrezione? Lasciamo il Calvario, su cui il cor­po di Gesù, inerte e freddo nella morte, spicca livido sullo sfonda delle tenebre che lo circondano. Ritorniamo con il pensiero a quella sera in cui Gesù e gli apostoli, riuniti nel Cenacolo, celebravano la Pasqua antica, chiudendo così la catena del culto antico e dell'an­tica alleanza, alla quale stava per essere unita la nuova alleanza e il nuovo culto.

Era l'ora della Cena. Il Cristo stava per essere consegnato. Preoc­cupato di lasciare alla sua Chiesa, a questa Chiesa così cara che aveva fondato allora, un sacrificio visibile e perpetuo, il suo amore inventò l'Eucaristia. Sacerdote dell'ordine di Melchisedech, nella mae­stà del suo sacerdozio eterno, Cristo offre al Padre il suo corpo e il suo sangue sotto le apparenze del pane e del vino, e li offre ai suoi discepoli che contemporaneamente costituisce sacerdoti della nuova alleanza. « Fate questo in memoria di me » dice agli apo­stoli e ai loro successori nel sacerdozio, ordinando loro di offrire la sua carne e il suo sangue in sacrificio incruento.

Quest'ultimo doveva non soltanto rappresentare il sacrificio della croce ma anche applicare la sua realtà di salvezza alla remissione dei peccati che si sarebbero commessi durante i secoli. Già il profeta dice: « Una offerta immacolata sarà offerta in ogni luogo nel suo Nome, che sarà grande fra le nazioni ». Così, nel Cenacolo, nella stesso momento l'Amore Infinito ha operato due meravigliose crea­zioni: l'Eucaristia e il Sacerdozio.

L'Eucaristia. Gesù vivo, nella verità della sua carne e del suo sangue, con il suo cuore ardente e puro, con la sua anima, con le due nature in una sola persona. Gesù Cristo, come fu nel cammino della sua vita, e come è nella gloria alla destra del Padre, come sarà per tutta l'eternità. Gesù Cristo, Dio e uomo, il Verbo umanizzato, nella maestà sublime della potenza, della saggezza, della bontà, nello splendore della sua divinità; nell'umiltà profonda, nella dolcezza, nella misericordia della sua umanità. Gesù Cristo...

E Gesù Cristo Vittima... Offerto in oblazione volontaria, non soltanto appeso una volta per tutte alla croce, ma ogni giorno, in ogni istante, nell'ombra della chiesa, in fondo al Tabernacolo, nel ciborio in cui vuole riposare... Immolato non soltanto una volta sul Calvario da carnefici indegni, mentre grida al Padre, ma in tutto l'universo, da ciascuno dei suoi preti, sull'altare del sacrificio, nel silenzio del pane e del vino... Gesù Cristo: divenuto nutrimento dell'uomo, viatico del suo viaggio verso l'eternità, bevanda che fa germogliare in lui il fiore della verginità e i frutti delle virtù... L'Eucaristia: tutti i beni, l'unico bene, Dio; e tutte le grazie di redenzione, di salvezza, di vita eterna.

Uomo, questa è la tua gioia. Il tuo Dio è con te. È tuo. Si è fatto tuo nutrimento per purificarti, fortificarti, renderti simile a lui. Si dà a te tutto intero, si sacrifica per te. Adora, prostrato nella riconoscenza, la generosità del tuo Dio.

L'Eucaristia è per te; per te è anche il sacerdozio, attraverso il quale l'Eucaristia ti è data. Rallegrati. Cristo, il tuo sacerdote è eternamente vivo con te. Puoi trovarlo al tuo fianco in ogni ne­cessità della tua vita. Se hai sete di verità, ti istruisce con la sua luce; se hai peccato, è là per assolverti e risollevarti; se soffri, se il dolore ti tormenta, ti consola; se vuoi trovare un Mediatore che si avvicini in nome tuo alla gloria di Dio, che presenti i tuoi sacri­fici al Signore con la certezza di essere sempre accolto con favore, Cristo stesso sale i gradini dell'altare e parla per te.

Gesù Sacerdote, eternamente vivo, vive nel sacerdozio. E’ lui il Sacerdote per eccellenza, l'unico Sacerdote dell'Altissimo, senza il quale nessun sacerdozio può esistere. Il sacerdozio antico che lo aveva preceduto traeva già da lui, nella fede nella promessa e nella speranza della sua venuta, l'efficacia delle sue preghiere e dei suoi sacrifici. Il sacerdozio nuovo che Gesù forma, uscito da lui, inne­stato in lui, soltanto da lui riceve l'essere e le sue virtù. Gesù solo è sacerdote nei preti della nuova Legge. Attraverso di loro, esercita il suo sacerdozio nel tempo; con loro, lo continuerà eternamente nella gloria.

Se Cristo vive nell'Eucaristia, se vive nel sacerdozio, esistono legami ben stretti tra sacerdote ed Eucaristia. È Gesù Cristo stesso questo legame. Allora si comprende il culto fervente, il rispetto, l'amore del prete per questo Gesù nascosto nel sacramento, che si rimette alle sue mani e si fa così vittima, certo, per tutti i fedeli, ma soprattutto per i suoi preti.

Lo dice Gesù nella Cena, consacrando il calice del suo sangue: « Questo - dice agli apostoli - è il calice del mio sangue che sarà sparso per voi e per tutti ». Anche in questo momento solenne, Gesù distingue dapprima i suoi preti; gli altri fedeli si presentano solamente dopo di loro al suo pensiero.

È innanzitutto per i preti che si fa sacramento, per essere il loro compagno di strada nella ricerca degli uomini, il loro amico fedele, il loro consolatore nel giorno della prova, il nutrimento di tutta la loro vita. E’ attraverso di loro che vuol essere sempre di nuovo sacrificato, attraverso di loro che vuol essere dato a tutti. L'Eucaristia è il tesoro del prete. La custodisca con vigilanza, la distribuisca con generosità, perché quanto più vi attingerà per arric­chire i suoi fratelli, tanto più ne sarà ricco lui stesso.

Gesù Cristo è nell'Eucaristia. Il prete dunque deve avere per questo sacramento d'amore un amore profondo. Gesù Cristo è nel prete. Vivo, e vi agisce mediante il suo sacerdozio eterno. Il prete allora rispetti se stesso, e sia attento a far trasparire Gesù da ogni sua azione.

Ma Gesù è, ovunque e sempre, Sacerdote e Vittima. L'uomo scelto da lui per continuare il suo sacerdozio entra in partecipazione con questo stato divino ed è anche, insieme, sacerdote e vittima. E’ sacerdote di Dio, sacrificatore della Vittima più grande che, sola, ottiene misericordia, mediatore tra la Maestà di Dio e gli uomini suoi fratelli. Si deve vedere risplendere in lui la potenza dolce, la gravità serena, l'assiduità nella preghiera, la benevolenza del Cristo-­sacerdote. Il prete è vittima: lo si deve perciò vedere umile e dolce, sempre offerto e che sempre si offre, dato in sacrificio perpetuo come il suo Signore.

Sacrificare e sacrificare-se-stesso, questa è stata la vita di Cri­sto. Questa deve essere la vita del prete. Ma « per voi che mi avete seguito - dice Gesù - che mi avete seguito nelle mie prove e nelle mie gioie, che avete partecipato alla mia vita, che avete continuato sulla terra la mia esistenza di vittima e di prete, per voi che mi avete seguito, quando, al tempo della rigenerazione, il Figlio dell'uomo sarà assiso sul trono della gloria, anche voi siederete su dodici troni, e giudicherete le dodici tribù di Israele ».



Eterno Padre, Dio onnipotente, tu che ci hai amato fino ad offrire il tuo unico Figlio per essere insieme nostro sacerdote e nostra vittima, nostro mediatore sempre ascoltato e nostro riscatto sovrabbondante, guar­da, ti supplichiamo, con il tuo sguardo d'amore i nostri altari.

Riconosci nei preti che ti offrono il sacrificio le immagini vive del tuo Figlio. Come lui, passano facendo del bene, diffondendo la luce, spargen­do il perdono, consolando chi soffre, bevono allo stesso calice, lo seguono al Calvario e diventano insieme a lui sacrificio di soave odore. Uniti con lo stesso sacerdozio al tuo Figlio, sono con lui dispensatori della tua ca­rità infinita e dei tuo amore misericordioso.

Fa', Padre dei cielo, che i preti di Cristo siano resi, per mezzo della tua grazia onnipotente, così conformi a Colui che è loro esempio che tu possa dire vedendoli: Ecco i miei figli amatissimi, in cui mi sono com­piaciuto; ascoltateli.

Amen.



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