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Innamoriamoci della Sacra Scrittura! Essa ha per Autore Dio che, con la potenza dello Spirito Santo solo, è resa comprensibile (cf. Dei Verbum 12) attraverso coloro che Dio ha chiamato nella Chiesa Cattolica, nella Comunione dei Santi. Predisponi tutto perché lo Spirito scenda (invoca il Veni, Creator Spiritus!) in te e con la sua forza, tolga il velo dai tuoi occhi e dal tuo cuore affinché tu possa, con umiltà, ascoltare e vedere il Signore (Salmo 119,18 e 2 Corinzi 3,12-16). È lo Spirito che dà vita, mentre la lettera da sola, e da soli interpretata, uccide! Questo forum è CONSACRATO ALLO SPIRITO SANTO e sottolineamo che questo spazio non pretende essere la Voce della Chiesa, ma che a Lei si affida, tutto il materiale ivi contenuto è da noi minuziosamente studiato perchè rientri integralmente nell'insegnamento della nostra Santa Madre Chiesa pertanto, se si dovessero riscontrare testi, libri o citazioni, non in sintonia con la Dottrina della Chiesa, fateci una segnalazione e provvederemo alle eventuali correzioni o chiarimenti!
 
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Il Sacro Cuore di Gesù e il Sacerdozio (da regalare ai Sacerdoti)

Ultimo Aggiornamento: 07/09/2009 15:17
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07/09/2009 15:11

CAPITOLO VI


L'umiltà


Un'altezza infinita che si abbassa; una maestà sovrana che discen­de; una autorità, una potenza senza limiti che si inchinano e si rendono deboli: ecco quello che vediamo in Gesù.

Vediamo un Dio umiliato fino alla condizione miserabile del­l'uomo, fino alla carne corruttibile e mortale. Ma non sono queste le umiliazioni del Verbo che vogliamo prendere in considerazione: sono gli abbassamenti della sua natura umana. È l'umiltà che appare dagli anni della sua vita pubblica, che si presenta oggi alla nostra meditazione e soprattutto alla nostra imitazione.

Inizia la vita apostolica con una umiliazione: mischiandosi ai peccatori, riceve il battesimo di penitenza. Nel deserto, dove lo Spirito lo ha condotto, scende volontariamente fino al gradino più basso delle nostre miserie: la tentazione. Permette allo spirito del male di rivolgersi alle inclinazioni naturali della sua umanità. Per­mette a satana di toccarlo.

La tentazione è spesso per l'uomo una umiliazione necessaria. Gli fa scoprire la sua debolezza; lo mette in guardia contro le occa­sioni di pericolo; gli fa volgere il cuore agitato e tremante verso colui che solo può sostenerlo e salvarlo.

Anche per il prete la tentazione è necessaria. Potrebbe credere che il suo sacerdozio lo metta al di sopra delle miserie dell'uma­nità. Potrebbe inorgoglirsi dei doni che ha ricevuto da Dio. E poi, « chi non è tentato, che cosa sa? ». Il prete, che è chiamato a gui­dare e istruire le anime, deve aver sperimentato, se non tutte, al­meno una parte delle loro debolezze.

Quando Gesù predica, lo vediamo talvolta nelle ricche sinago­ghe di Cafarnao o di Gerico; lo ascoltiamo parlare al Tempio di Gerusalemme, sotto il magnifico portico di Salomone; lo vediamo rivolgersi ai grandi sacerdoti e ai brillanti cortigiani di Erode. Ma molto più spesso lo vediamo circondato dalla gente parlare sulle spiagge ai pescatori, o nutrire con un pane miracoloso, nel deserto, la folla stracciata e affamata che lo segue. Vuole salvare molti uomini, e sa che i potenti e i ricchi sono un piccolo numero, e che i pic­coli e i poveri sono la maggioranza. Per questo va verso i poveri: la mietitura sarà più abbondante.

Sarebbe ben lontano da Cristo quel prete che, sdegnando l'apo­stolato dei semplici e degli ignoranti, si rivolgesse solo a scelti intel­lettuali, o a chi è baciato in fronte dalla fortuna; che trovandosi allo stretto nelle povere chiesette di campagna o in quelle di peri­feria, si sentisse a suo agio solo sulle grandi cattedre delle basili­che; o che giudicasse indegno di lui il catechismo ai bambini o la visita ai poveri. Il sacerdote di Cristo, al contrario, pensando come lui, non vede nulla di troppo basso per sé. Sa quello che vale un uomo, sa che vale tutto il sangue di Cristo; e per salvarne uno solo offre senza calcolo tutto il suo tempo, le sue forze, la sua vita. Per offrire una briciola di gloria a Cristo, accetta volentieri di es­sere annientato e dimenticato.

L'umiltà di Gesù si vede anche nella cura che mette a nascon­dere il suo operato sotto l'azione del Padre, e a far scomparire, per quanto può, la propria personalità. Molte volte ripete parole di questo genere: « Il Figlio non fa nulla da se stesso »; «Tutto ciò che ho udito dal Padre mio, ve l'ho detto »; « Il Padre mio opera sempre, e anch'io opero ».

Cerca in ogni modo di velare lo splendore dei miracoli. Ai ciechi che ha appena guarito dice: « Badate che nessuno venga a saperlo ». « Va' - dice a un lebbroso - e non dirlo a nessuno ». Proibisce espressamente ai demoni che proclamano come per forza la sua divinità, di dire che lui è il Cristo, il Figlio di Dio e non chiama se stesso che Figlio dell'Uomo.

Ma è soprattutto nella sua dipendenza, nello spirito di sotto­missione che dimostra in ogni circostanza, che Gesù ci fa scoprire la sua profonda umiltà. I primi trent'anni della sua vita si pos­sono riassumere così: « Era loro sottomesso ». Durante gli ultimi tre, non ha cambiato stile. Si è dimostrato, in tutto e sempre, sot­tomesso. Uguale al Padre nell'essere Dio, non fa nulla senza ricor­rere a lui nella preghiera; è felice di fare sempre ciò che piace al Padre del cielo. Sembra quasi dimenticare le grandezze, i doni, i privilegi della sua natura divina per ricordarsi soltanto dell'im­potenza e della debolezza della sua natura umana. « Padre mio, dice nell'orto degli Ulivi, non la mia volontà, ma la tua, sia fatta ».

Così è sempre obbediente alla Legge di Mosè, ai suoi ordini, alle molteplici osservanze del culto. Non obbedisce solo alle leggi reli­giose, ma anche a quelle civili. Raccomanda di pagare il tributo, paga le tasse per sé e per i discepoli. Ogni legittima autorità lo trova sottomesso e rispettoso. Ma va più lontano: vuole dipendere da tutti, dalle folle che lo circondano, da quelli che lo fermano ad ogni passo per chiedergli un favore. Il centurione lo informa della malattia del suo servo: « Andrò - dice subito - e lo guarirò ». Appena Giairo lo informa della morte della sua bambina, si mette in cammino verso la sua casa. « Non è venuto per essere servito, ma per servire ». La sua umiltà lo porta a comportarsi come se fosse debitore verso tutti.

È obbediente anche ai suoi carnefici. Si lascia spogliare, flagel­lare, rivestire di un manto beffardo, coronare di spine. Prende in mano la canna che gli viene data come scettro. Porta la croce, sten­de le braccia per agevolare il compito a quelli che devono croci­figgerlo, spreme con le sue labbra la spugna imbevuta di fiele e di aceto che gli viene offerta. Muore quando tutto è compiuto, quando, fino alla fine, ha portato a compimento le Scritture e le profezie.

Questa sottomissione di Gesù è una lezione per l'uomo. L'uomo, quest'essere debole e miserabile, obbligato dalla sua natura a di­pendere da molti altri esseri e da molte altre cose, cerca continua­mente di liberarsi da questo stato di dipendenza, fuori del quale non può che sbagliare.

Gesù si distoglie, per così dire, dalla coscienza della propria onnipotenza e sapienza per non vedere in se stesso altro che il nulla del suo stato di creatura; e l'uomo, per vanità e orgoglio, dimen­tica al contrario la propria inferiorità, e il corteo di miserie che si porta appresso, ricordandosi soltanto di quelle che pensa essere le sue meraviglie e di ciò che può, nella cecità del suo giudizio, ele­varlo ai propri occhi e a quelli dei suoi fratelli. Preferisce sempre ciò che fa lui a ciò che fanno gli altri. La stima che ha dei propri pensieri, l'appoggio che trova in se stesso, la fiducia che nutre nella sicurezza dei suoi giudizi e nella saldezza del suo spirito, malgrado gli scacchi e gli insuccessi, gli fanno disprezzare i consigli dell'espe­rienza e le caritatevoli messe in guardia dei prudenti.

Il sacerdote di Cristo è diverso. Mite e umile di cuore come il suo maestro, riconosce la propria debolezza, confessa la propria im­potenza, diffida delle proprie vedute. Inchina volentieri la sua intel­ligenza, le illuminazioni del suo spirito, le sue aspirazioni di fronte all'autorità sovrana di Dio. E vede splendere su molte fronti questa aureola dell'autorità di Dio.

Figlio docile della Chiesa, vede, nel suo capo il rappresentante infallibile di Cristo. Si appoggia volentieri alla cattedra di Pietro. La pienezza del sacerdozio di cui è rivestito il suo vescovo gli ispira rispetto. Gli obbedisce come al successore degli apostoli, lo venera e lo ha caro come un padre.

Nella sua attività, nei differenti ministeri che gli sono affidati, agisce con una umile diffidenza di se stesso. Spinto a cercare lumi presso quelli che l'età, un lungo ministero sacerdotale, una vita esem­plare o una virtù riconosciuta segnalano come maestri, è ben lon­tano dall'agire per se stesso, o di preferire i propri consigli a quelli che può ricevere.

Non considera di più la propria attività di quella che vede fio­rire nei suoi vicini. Non desidera successi maggiori, o opere più grandi di quelle di chi lavora con lui per la gloria di Dio. La sua sola ambizione è questa gloria, la piena diffusione del regno di Dio. E’ dimentico di sé, e, purché il bene si compia, purché Cristo sia più amato e meglio servito, è soddisfatto, e si rallegra altrettanto dei successi dei suoi fratelli che dei propri.

Loda volentieri i loro talenti e le loro attività; imita le loro virtù. Se vede qualcuno fra loro in difficoltà, o commettere qual­che errore, cerca di riportarlo al bene, se non con il suo consiglio, almeno con l'esempio. Prega per lui, soffre per lui, e teme per sé di cadere negli errori che condanna.

Il prete mite ed umile che cammina per le strade del mondo non è soltanto il sacerdote di Cristo: è Gesù-sacerdote. È Gesù stesso, quel Gesù la cui altezza si è abbassata per amore, la cui santità risplende tanto quanto è circondata dall'ombra dell'umiltà. Forse è stata l'umiltà il fascino profondo dell'umanità di Cristo. Essa offre all'azione del prete e alla sua parola un fascino simile: lo rive­ste completamente di Cristo.



CAPITOLO VII

La purezza


Nessuno ha mai dubitato della purezza di Gesù. Poteva sfidare i suoi contemporanei: « Chi tra voi mi convincerà di peccato? », senza paura di essere smentito. I suoi nemici, furenti, lo insulta­vano, lo chiamavano indemoniato e blasfemo; non hanno mai osato sospettare della sua virtù. La folla, entusiasta delle grandi opere di Gesù e rispettosa della sua vita santa e pura, lo riconosceva, se non come Messia, almeno come un profeta, un inviato di Dio, nella verità, nella giustizia, nella santità. Noi che sappiamo che è Dio, lo adoriamo nella sua purezza che nessuna macchia, nessuna ombra ha mai oscurato.

È il puro, il santo per eccellenza. Verbo di Dio, splendore del­l'eterno, rivela, nella sua natura di Dio, degli splendori, delle tra­sparenze, dei candori di cui nulla può offrirci un'idea anche imperfetta. Era un uomo perfettamente puro. La sua anima era splendida di innocenza. Il suo cuore, tabernacolo dell'Amore Infinito, batteva soltanto per la gloria del Padre e la salvezza dell'uomo, essendo in­sieme altare e vittima del sacrificio più puro. Il suo corpo, formato dallo Spirito Santo dal sangue puro di una Vergine, di una Vergine immacolata che la nascita del suo frutto benedetto ha reso più ver­gine ancora; la sua carne che doveva essere immolata per il peccato e diventare l'antidoto per il veleno dell'impurità iniettato nel san­gue dell'uomo dal peccato originale; questa carne di Gesù è la più pura, la più idealmente candida che possiamo immaginare.

Nulla può darci un'idea di questa purezza. Il raggio del sole, nell'istante in cui prorompe, prima ancora di aver trapassato le nubi del cielo e le pesanti nebbie della terra, è meno puro di Cristo. Il fiocco di neve che scende dalle regioni ghiacciate dell'aria, che non ha toccato nulla, sballottato dal vento nello spazio, è meno puro di Cristo. Il giglio appena sbocciato, in fondo a una valle solitaria, che nulla di impuro ha contaminato, che nessuno sguardo ha sfio­rato, nel cui calice neppure un'ape si è ancora posata, è meno puro di Cristo.

Tutto ciò che è in Gesù e che emana da lui respira purezza. La più piccola delle sue parole, il suo minimo gesto, tutta la sua persona ispira purezza e la spande come un profumo. È quello che ci sembra dire Giovanni a Patmos quando, volendo dipingerci Gesù, ce lo fa vedere con un abito lungo, cinto con una cintura d'oro, il capo e i capelli di un bianco abbagliante, bianchi come la lana e come la neve?

Sembra superfluo cercare le prove di questa purezza. Ma ci è d'aiuto considerare la stima e l'amore di Gesù per la purezza, e conoscere le precauzioni che ha voluto prendere, non per preser­vare se stesso (non aveva nulla da temere), ma per insegnarci, con l'esempio, la prudenza che deve accompagnare il nostro cammino. La visione di Dio, che colma ogni nostro desiderio, placa ogni nostro bisogno, è promessa da Gesù a chi è puro di cuore. La pu­rezza del cuore contiene tutte le altre. Se il cuore è puro, lo sono i pensieri, gli affetti, le parole, i gesti.

Nel corso della sua vita pubblica Gesù parlerà molte volte della castità alle folle assetate dei suoi insegnamenti. Ma quello che la gente, ancora troppo grossolana, non avrebbe saputo comprendere, lo dirà soltanto ai suoi discepoli più cari. Si rivolge ad anime elette che possono fissare il loro sguardo sull'altezza luminosa di una vita più perfetta: « Chi ha orecchi per intendere, intenda ».

Sono soprattutto gli esempi di Gesù che debbono aiutarci. Cristo ha abbracciato volontariamente una vita austera e mortificata. Ha scelto la povertà con le sue privazioni e il lavoro con il suo sudore. Digiuna, si impone delle lunghe veglie, sopporta le fatiche continue della vita apostolica. Dorme sulla nuda terra, avvolto nel mantello; concede al suo corpo soltanto lo stretto necessario. Sa che a noi è utile tenere sotto il giogo e ridurre in schiavitù la nostra natura così incline al male, e i nostri sensi, pronti a ribellarsi.

Il Vangelo ci mostra Gesù, qualche volta, prendere parte alle feste e alle nozze; ma in mezzo a queste gioie Gesù non perde di vista la sua missione, e si unisce alle gioie dell'uomo soltanto per benedirle e santificarle. Sempre solenne, calmo e dignitoso, non pren­de parte alle conversazioni se non quando può, con la sua parola, istruire, illuminare, edificare e consolare.

Una sola parola del Vangelo basta a rivelarci la riservatezza di Gesù nei suoi rapporti con le donne. Stanco per un lungo viaggio, si era seduto accanto al pozzo di Giacobbe ed aveva iniziato con la Samaritana quel colloquio che avrebbe fatto della peccatrice un apostolo. Alcuni discepoli ritornarono da lui e, dice il Vangelo, « si meravigliarono che parlasse con una donna ». Si meraviglia­rono: doveva essere ben poco un'abitudine di Gesù, una faccenda strana che gli apostoli non avevano mai visto.

Tuttavia, sappiamo che Gesù parlava talvolta con donne. Parla all'emorroissa dopo la sua guarigione, a Maddalena per rassicurarla del suo perdono, a Marta per calmare la sua ansia, alla moglie di Zebedeo spinta ai suoi piedi da un cieco amore materno. Ma non parlava loro da solo. Era in mezzo alla gente, circondato dai disce­poli, generalmente in presenza di qualcuno che potesse testimoniare delle sue parole e dell'onestà del suo comportamento. Anche dopo la risurrezione, conserva questa riservatezza. Permette alle donne che incontra lungo la strada di baciargli i piedi; ma a Maddalena, la sua prediletta, che lo vede solo nel giardino, dice « Non toccarmi ».

Quando il profeta Eliseo aveva cercato di rendere la vita al bambino della donna che lo ospitava, si era steso sul piccolo corpo. Aveva posato i suoi occhi sui suoi occhi, la sua bocca sulla sua bocca, il suo cuore sul suo cuore; l'aveva riscaldato con il suo respiro e vivificato con il proprio contatto. Quando Gesù opera i miracoli, evita di toccare i corpi. Senza dubbio, vuole mostrare l'onnipotenza della sua parola; ma vuole anche metterci in guardia contro familiarità pericolose.

Gesù è sempre attento a predicare con l'esempio una purezza assoluta. La vuole vedere splendere in tutti i suoi discepoli. Ne traccia regole per tutti. Ma ai suoi apostoli chiede di più.

Deve essere grande la purezza dei sacerdoti di Cristo, ministri dell'Altissimo, díspensatori dei misteri di Dio. Il Padre li ha messi sopra gli stessi angeli. Ha comunicato loro una potenza, dei pri­vilegi che ha negato a quelle intelligenze pure. Li ha chiamati a rendere, al corpo eucaristico di Cristo, gli stessi onori che la Ver­gine rendeva al suo bambino. Lo teneva fra le sue mani; lo fasciava; lo presentava perché fosse adorato; asciugava il suo sangue che co­lava sotto il coltello della circoncisione; gli dava dei baci materni; lo offriva al Padre dei cieli e si sacrificava con lui.

Le mani del prete che toccano il corpo consacrato di Cristo de­vono essere pure, alzandolo verso il cielo di fronte ai fedeli ingi­nocchiati. Pure le labbra che gli danno ogni giorno il bacio della comunione. Puri gli sguardi che lo contemplano, così spesso e così da vicino, sotto il velo del sacramento.

Il prete dovrebbe, se fosse possibile, essere più puro di un an­gelo e casto come Maria. Ma il prete è un uomo, e la sua carne, come un mantello pesante, lo piega verso la terra e lo stringe dolo­rosamente. Per rimanere sulle vette a cui lo chiama la grazia, deve camminare sulle orme di Gesù e costruire la sua vita sull'esempio della sua. Se Dio non gli fa il dono inestimabile della sofferenza e della malattia, supplisce affaticando il suo corpo con l'attività in­cessante di un ministero di dedizione e sacrificio. Abbraccia una vita spoglia delle soddisfazioni della carne e dei sensi, e si sforza di sviluppare in sé, con lo studio, con la preghiera, con la ricerca costante dei beni superiori, la vita della sua anima e le proprie energie intellettuali.

Il prete è sacrificatore con Gesù; ma è anche vittima. Le vit­time devono essere pure, sante, senza macchia per essere gradite a Dio: una vittima macchiata è respinta da Dio, è un orrore davanti a lui. Il sacerdote di Cristo si sforzi dunque di purificarsi sempre più da ogni attaccamento umano, da ogni soddisfazione volgare, da ogni piacere dei sensi. Non è un uomo qualunque: è un Cristo, un consacrato, un benedetto, un separato. E’ grande, degno di rispetto e di amore in mezzo ai suoi fratelli, puro, distaccato dalle passioni grossolane, al di sopra di tutto ciò che è terreno e soltanto umano. Chi ogni mattina placa la sua sete al calice dell'altare; chi beve quel vino che fa germogliare i vergini, non può essere assetato dei piaceri della terra.

Chi conosce l'ebbrezza dell'amore di Cristo non può cercare altre delizie. Se vuole, il prete troverà nell'amore di Dio, nel cuore di Cristo il suo amico, con cui soddisfare i legittimi bisogni del suo cuore, le aspirazioni della sua anima, per quanto tenera ed amante possa essere.



CAPITOLO VIII

La misericordia


Il cuore di Cristo racchiude in sé tutte le virtù di Dio. Da lì si irraggiano tutte le bellezze morali, ogni dono naturale e sopranna­turale che possiamo sognare.

Tra tutto questo, c'è una virtù particolare che sembra essere più specificamente propria del Sacro Cuore, la sua virtù, la sua disposizione: la misericordia. La misericordia è autenticamente l'at­tributo del cuore di Cristo.

La Scrittura, e soprattutto i Salmi, fanno risuonare le lodi della misericordia di Dio, la esaltano e la cantano in mille modi. Tuttavia è stato soltanto con l'Incarnazione che la misericordia di Dio ci è apparsa sotto una forma sensibile, palpabile per così dire dall'in­telligenza e dall'amore dell'uomo. Sotto la legge del timore, la mise­ricordia si intravedeva; sotto quella della grazia, si vede e si tocca.

L'Amore era Dio e l'Amore era in Dio, ed è venuto nel mondo. Coprendosi con il velo della condizione umana, scendendo sulla terra è rimasto l'Amore, ma ha preso un nome e una forma nuovi. Ha preso il nome e la forma della misericordia: è diventato Gesù o la Misericordia. La Misericordia o Gesù: è la stessa forma del­l'Amore.

Ogni parola, ogni azione, ogni gesto di questo Amore umaniz­zato portano il sigillo della misericordia. Essa esce da lui con natu­ralezza, come l'acqua dalla sorgente, come il calore dal focolare:

« Io voglio la misericordia, e non i rigori della giustizia ». La sua volontà, è di essere misericordioso. « Il Figlio dell'uomo è venuto a cercare e a salvare quello che era perduto »? E’ venuto a portare alla creazione decaduta la grazia di risollevarsi e il perdono di Dio. È per salvare, e non per giudicare, che ci è stato mandato. Così lo ascoltiamo dire agli apostoli, pronti a chiedere giustizia: « Non sapete di quale spirito siete! ».

Questa misericordia infinita del cuore di Cristo traspare con molta evidenza da due brani del Vangelo. Maria, la peccatrice di Magdala, pentita e con autentica umiltà, offre, nella casa del fari­seo, a Gesù l'omaggio del suo amore e della sua adorazione. Cristo, che in genere rifiuta questo tipo di testimonianza, accetta volen­tieri in questo momento, le manifestazioni dell'amore di lei: la vuole così riabilitare pubblicamente. E con delicatezza e tatto fa vedere a Simone come la sua opinione su di lei sia falsa. Gesù ama chi è pentito, e dice a Maddalena che « molti peccati le sono perdonati perché molto ha amato ».

Un'altra volta, gli viene condotta una donna sorpresa in adul­terio. La Legge ordina la lapidazione: Gesù non dice sempre che bisogna obbedire alla legge? Non si mantiene egli stesso fedele alle sue prescrizioni? Ma la sua misericordia gli suggerisce il sistema per far prevalere la bontà sulla giustizia: « chi fra voi è senza peccato scagli la prima pietra! » Tutti, uno dopo l'altro, abbandonano la piazza, e Gesù rimane solo con la peccatrice: una grande miseria e una misericordia più grande ancora: « Donna, qualcuno ti ha con­dannata? - No, Signore. - Neanch'io ti condanno; va', e non pec­care più ».

Ma nulla riesce a farci vedere l'inesauribilità della misericordia di Gesù più delle due parabole, due perle d'amore, della pecorella smarrita e del figlio prodigo. L'amore misericordioso di Gesù si rivela qui completamente, con delicatezze tenere e soavi, tanto che nessuno può non rimanere toccato.

Gesù, il Pastore, va in cerca della pecorella smarrita, la ritrova e la perdona. La riporta all'ovile. La fatica e le sofferenze del ri­torno sarebbero certo un castigo giusto, anche se leggero, dei suoi errori passati; ma il Pastore non vuole che la pecora soffra più, non vuole che si stanchi nel cammino. Se ci dovrà essere qualche sof­ferenza, qualche fatica per espiare, le sopporterà lui. Prende la fug­gitiva in braccio, la stringe al petto, le offre privilegi e carezze che non aveva conosciuto nei giorni della sua innocenza.

E quando il figlio prodigo ritorna alla casa di suo padre, il per­dono è abbondante. Il padre non solo lo accoglie, non solo lo rein­tegra nei suoi diritti per il futuro, ma vuole ancora che, nella gioia della festa e delle musiche, dimentichi le amarezze del suo passato. Basta poco per toccare il cuore di Gesù e provocare la sua mi­sericordia. Una confidenza, un'invocazione del ladro crocifisso ac­canto a lui è abbastanza perché tutto gli sia perdonato e gli siano aperte le porte del cielo. Davvero la misericordia è lo spirito di Gesù, è Gesù stesso.

La grande missione del prete è rivelare agli uomini la miseri­cordia di Dio. Tutti hanno, più o meno, peccato. Tutti avvertono, fra la santità infinita di Dio e la propria miseria, un abisso che sem­bra loro incolmabile e che li spaventa. In fondo ad ogni uomo, anche quando è avvolto dalle tenebre, rimane una traccia di verità che gli fa vedere Dio infinitamente santo e sovranamente puro. Per questo, quando si vede colpevole, cerca di allontanarsi da Dio, si sforza di dimenticarlo e, non potendo annullare realmente que­sto Dio che lo condannerà, cerca almeno di cancellarlo dai propri ricordi e di distruggerlo nella sua mente. Allora, continua ad andare sempre più lontano sulla strada del male, e precipita negli abissi.

Ma quando gli si fa vedere l'amore misericordioso di Dio, per poco che abbia di sincerità, il timore scompare, il pentimento nasce, e la grazia della riconciliazione porta a compimento l'opera che la misericordia aveva iniziato.

Far conoscere Gesù nel suo aspetto più amabile e attraente; far penetrare nel profondo dell'uomo la conoscenza della misericordia, aprire i cuori alla confidenza e all'amore: è il compito del prete. Ma le sue parole non potranno nulla se non sarà, lui stesso, discepolo di Cristo nella compassione per i peccatori. Bisogna che lo si veda, preoccupato per la salvezza dei suoi fratelli, andare alla ricerca delle pecore smarrite sulle tracce di Gesù, senza lasciarsi scorag­giare dalla lunghezza del cammino o dalle asperità della strada. E quando avrà ritrovato questi uomini coperti dalle piaghe del pec­cato, abbia pietà di loro, si chini e versi olio e vino sulle loro ferite, li prenda fra le braccia e li riporti al Signore.

È una gioia, per il prete, essere il ministro del Dio della mise­ricordia. Dovrebbe fonderglisi d'amore il cuore in petto, quando dice, in nome di Cristo, a un peccatore: « Io ti assolvo ». Mai Dio è più grande che nel perdono. Mai il prete è più rivestito di Dio e più autenticamente Gesù che quando perdona e assolve.



CAPITOLO IX

L'amore


La Bibbia ci dice che il Paradiso terrestre era stato ornato dal Creatore di ogni sorta di delizie. Dio si incontrava con l'uomo e si intratteneva con lui, e le bellezze della natura, in quest'aurora del mondo, erano lo scenario meraviglioso di questi incontri. Là, il cielo era sempre mite, la terra sempre feconda. L'albero della vita, crescendo al centro del giardino, dava i suoi frutti immortali; e quattro fiumi, nascendo da lui e scorrendo fuori del giardino por­tavano lontano la vita e la fertilità.

Il cuore di Cristo è simile a questo paradiso, dato come dimora ai primi rappresentanti della nostra umanità. È un giardino di deli­zie, spalancato da Dio di fronte a uomini con un desiderio insa­ziabile di luce, di verità e di amore.

Colmo dei doni più grandi, ornato dalla bellezza, sede delle gioie di Dio, è il luogo dell'incontro dell'uomo con Dio. Dio abbas­satosi per amore vi scende fino alla miseria dell'uomo; e l'uomo, reso pesante dal peccato, vi trova dei sentieri misteriosi per salire fino a Dio. L'albero della carità si innalza al centro, carico dei frutti più squisiti, e quattro fiumi lo bagnano e si spandono, portando fuori le onde di vita dell'amore di Dio.

L'Amore Infinito vi risiede in pienezza. Tutti i sentimenti di Dio sono gli stessi sentimenti di Cristo; tutti i sentimenti di verità dell'uomo, sono gli stessi di Cristo. Il suo amore abbraccia e som­merge l'immensità dei mondi e la moltitudine degli esseri: è l'Amore Infinito, senza limiti e senza misura.

Ci sembra tuttavia che in Cristo l'amore abbia rivestito quattro forme diverse, portandosi su quattro oggetti diversi; si è, per così dire, diviso in quattro fiumi d'amore: Gesù ha amato il Pa­dre di un amore di figlio e di creatura, pieno di rispetto e di pietà; ha amato la Vergine sua madre con un amore di fanciullo, tutto con­fidenza e dolcezza; ha amato la Chiesa, formata come una nuova Eva dal suo costato, di un amore di sposo, tutto tenerezza e fedeltà; ha amato gli uomini con l'amore di un padre, tenero, previdente, pieno di dedizione.

Il cuore di Cristo si è rivelato a noi come un luogo di deli­zie; ma anche l'amore del prete è oggetto del compiacimento di Dio. Anche questo cuore di uomo, puro, distaccato dalle brutture della terra, libero da legami umani, è uno spettacolo di gioia agli occhi di Dio. Senza dubbio, il Padre dei cieli vi discende, quando lo vede in tutto simile a quello del suo Figlio. La preoccupazione costante del prete deve allora essere quella di modellarsi sul cuore di Cristo, di imprimere nel suo cuore le sue stesse virtù, la stessa purezza, la stessa dolcezza: soprattutto lo stesso amore. È nell'amore che i cuori si assomigliano.

Il cuore del prete è un vaso in cui Dio instilla il suo amore. Deve essere ben pulito e capace. Dev'essere vasto come un oceano e profondo come un abisso, perché il torrente dell'Amore Infi­nito deve passarvi per raggiungere gli uomini.

Il prete è un cuore solo e un'anima sola con Cristo. Le stesse virtù, le stesse altezze, lo stesso amore per il Padre, per Maria, per la Chiesa e per gli uomini. « Chi ha sete venga a me e beva ». Avviciniamoci a questa sorgente di vita e di amore; a queste fonti del Salvatore sempre straripanti; inebriamoci a questo calice ricolmo dell'Amore Infinito.



L'amore di Cristo per il Padre

Gesù ha amato il Padre. Una sua frase ci rivela il suo amore ardente e filiale: « Io faccio sempre ciò che piace al Padre mio ».

Il segno più sicuro dell'amore è proprio questa inclinazione del­l'anima a fare sempre ciò che piace all'amato, questa attenzione a spiare i suoi desideri, ad abbracciare la sua volontà, a compiacerlo in tutto. I pensieri di Gesù sono stati costantemente fissi nella volontà del Padre, gli sguardi interiori della sua anima sempre cen­trati su di lui. Ha gioito nel contemplare le sue perfezioni, ha ab­bassato se stesso per esaltare ancor più la grandezza del suo Padre dei cieli. Per riparare l'oltraggio che il peccato aveva fatto alla sua gloria, si è sacrificato; per dilatare questa gloria, per aumentarla non ha risparmiato nulla: ha immolato se stesso.

L'amore del Padre ha dominato tutta la vita di Gesù. La sera della Cena, quando appena poche ore lo separavano dalla Passione, ha lasciato uscire dal suo cuore quegli slanci d'amore, di adorazione, di fiducia filiale che non si possono leggere senza cadere in ginoc­chio e piangere. Ama il Padre, e si sa amato da lui; e questo amore infinito, che va dall'uno all'altro in un flusso e riflusso divino, ha profondità, ardori, splendori, slanci inesprimibili: « Padre, è giunta l'ora. Perché il Figlio ti glorifichi, glorificalo tu. La vita eterna, è conoscerti. Tu, solo vero Dio... Padre Giusto, il mondo non ti ha conosciuto; ma io ti ho conosciuto... Che siano uno, come tu, Pa­dre, sei in me e io in te, perché il mondo creda che tu mi hai mandato... ».

Quando Gesù avrà tutto compiuto, quando avrà fino alla fine fatto la volontà del Padre, sarà ancora verso il Padre che si vol­gerà per dirgli nell'abbandono dell'amore: « Padre, nelle tue mani affido il mio spirito ».

L'amore verso Dio deve dominare anche la vita del prete. L'amo­re per il Padre dei cieli che ha fatto di lui una creatura benedetta fra tutte, che l'ha segnato da tutta l'eternità per farlo partecipare all'unzione del suo Cristo; l'amore soprattutto a Cristo, che l'ha colmato dei suoi doni più splendidi, che lo ha sollevato alle dignità più grandi, che l'ha reso un altro se stesso; l'amore a Cristo, un amore profondo, intimo, vivo, deve essere il motore delle azioni, dei pensieri, della vita del prete. Se conosce bene Gesù, se gli ri­mane unito nell'amore, agirà come lui, avrà in sé la Vita.

« Chi mi ama, il Padre mio lo amerà, e verremo in lui e faremo in lui la nostra dimora ». Queste parole sono dette per tutti, ma particolarmente per i preti. Gesù vive, nel prete, in modo tutto speciale: all'altare, sulla cattedra della verità, nel confessionale non è un uomo qualunque, è Gesù, Gesù che insegna e illumina, Gesù che perdona e assolve, Gesù che offre e che sacrifica.

E quando Cristo ha così investito il prete, lo ha riempito di se stesso, quando ha vissuto in lui le tre grandi azioni del sacerdozio, non si ritira. Finché il peccato non lo scaccia, Gesù continua a vi­vere nel suo sacerdote. Ci vive a tal punto che vuole che il prete dica, parlando del suo corpo e del suo sangue: « Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue ». Se il prete pensasse a questa ina­bitazione di Cristo in lui, sarebbe felice di ritirarsi in se stesso, chiudere la porta dietro di sé per intrattenersi con questo ospite divino.

Gesù vive in lui, tutto intero, Dio e Uomo, nel suo splendore e nella sua potenza, nella gloria e nella sapienza di Dio, con la dol­cezza e la tenerezza di un fratello, l'amabilità di un amico.

Tutto Cristo vive nel prete. Sono uno: l'intelligenza di Cristo si unisce a quella del prete e la illumina; il cuore di Cristo batte al­l'unisono con quello del prete e lo accende di amore per gli uomi­ni; il corpo di Cristo si unisce a quello del prete e vi imprime la grazia della castità. È un grande amore che lega questi due esseri. Scambio di pensieri e sentimenti, unione di volontà, conformità di vita, armonia dei cuori, intimità dell'anima.



L'amore di Cristo per Maria

Gesù ha amato la Vergine, sua madre. Fin dall'inizio della sua vita pubblica, ha voluto dare le prove del suo amore di figlio. Erano a Cana, in Galilea. Gesù e sua madre partecipavano a una festa di nozze; il vino era finito, e i servi vennero a dare la notizia a Maria.

Subito lei si volse verso suo Figlio e disse: « Non hanno più vino ». E Gesù, di risposta: « Donna - disse (donna per eccellenza, l'uni­ca, la sola fra tutte senza peccato) - che cosa c'è di comune fra noi? La mia ora non è ancora venuta ». Non ho ancora iniziato a compiere i miracoli che debbo fare. Ma, parlandomi in questa circostanza, mi hai certo voluto ricordare cosa c'è di comune fra noi: il legame del sangue che ci unisce, la comunione di vita, di pensieri, di desideri, d'amore che regna fra noi. Come potrei resi­stere alla tua preghiera, e non anticipare l'ora che avevo fissato? E Maria, comprendendo il suo pensiero, sicura del suo cuore di Figlio, si volge verso i servitori: « Fate tutto quello che vi dirà ». E, riempite le anfore fino all'orlo, Gesù compì il suo primo prodigio.

Queste parole del Salvatore sono state, lo sappiamo, interpre­tate in modi diversi. Ma, per chi ha una qualche conoscenza del cuore di Cristo, possono confermare una delicata, affettuosa allusione a quell'unione così stretta con cui la natura lega madre e figlio. Gesù ha voluto che tutto fosse in comune, tra sé e sua Madre. L'ha associata alla sua grandezza, l'ha unita alle sue gioie, le ha fatto parte dei suoi dolori, l'ha resa vittima con lui, partecipe in qualche modo del suo sacerdozio e corredentrice con lui. L'amore vuole questa unione completa di sentimenti e di stati.

I primi sguardi di Gesù, che vagiva nella culla, erano stati per sua madre. Il primo miracolo della sua vita pubblica è stato fatto per intercessione di Maria; gli ultimi pensieri di Gesù in croce e i suoi ultimi sguardi saranno ancora per lei. Vedendo la Vergine in piedi presso il suo patibolo, in agonia, si china su di lei e, in punto di morte, getta fra le sue braccia ciò che dopo di lei ha di più caro: gli uomini. È la sua eredità, il suo ultimo dono d'amore. Nella persona di Giovanni, che egli amava, le affida tutti i suoi figli. La rende madre feconda fra tutte le madri, regina dell'universo, dispensatrice delle sue grazie.

Tra i sentimenti dell'uomo, il più profondo, forse, è l'amore per sua madre. È una composizione squisita di forza e tenerezza, di sottomissione rispettosa e di fanciullesca familiarità. Quando il figlio riposa sul petto materno che lo ha nutrito, si crede ancora bambino, debole ma molto amato; quando stringe sua madre sul suo cuore, si sente forte, coraggioso per difenderla, potente per proteggerla. È, con lei, docile come un bambino, semplice e pieno di confidenza. Le parla dei suoi desideri, le confida le sue debo­lezze, le rivela i suoi progetti, ci tiene ai suoi consigli, vorrebbe sempre obbedirle.

L'amore per la madre è il primo che nasce nel cuore dell'uomo. E’ anche l'ultimo che vi rimane. È un amore che copre, protegge, purifica, consola, sostiene. È un amore, forse l'unico, al quale ci si può abbandonare con tutto il cuore, senza temere di sciuparlo o di pentirsi.

Per l'uomo, per il prete, la madre è un dono di Dio. Trova in lei, nel suo amore così discreto e fedele, tutto ciò che il suo cuore può desiderare; il suo appoggio, la sua dolcezza, la sua salvezza.

Se il prete deve amare sua madre, se la ama sempre, ancora più deve amare la Madre incomparabile, la Madre di Cristo, Maria. Abbiamo ripetuto spesso che il prete è un altro Gesù. Quello che Maria era per Gesù, lo è anche per il prete. È madre, amorevole, soccorrevole, fedele. Lo circonda con le sue cure, lo guarda con amore, lo ispira, lo istruisce, lo difende, lo benedice.

Quello che Gesù era per Maria, lo deve essere anche il prete: un figlio obbediente, rispettoso, pieno d'amore. Sia sempre con Maria come con sua madre: un bambino. Si nasconda fra le sue braccia nella sofferenza, vada a lei nella gioia; la interroghi quando vuole sapere; ricorra a lei per i minimi bisogni; le confidi ogni suo desiderio, le riveli ogni sua debolezza. Non parli mai, non agisca mai, mai si fermi anche solo a pensare senza che la figura divina­mente pura della Vergine proietti su di lui la sua ombra protettiva.

L'amore di Maria è, nel cuore del prete, un elemento neces­sario. È il raggio di sole e la rugiada che fanno sbocciare in lui il fiore della castità. E’ principio di vita, seme di virtù. Il prete che ama Maria come sua madre, che si confida con lei, che dipende da lei, non uscirà dal giusto cammino; resterà umile, puro, fervente: farà vivere Cristo in lui.



L'amore di Cristo per la Chiesa

L'amore di Cristo per la Chiesa è stato un amore sponsale. Cri­sto ha abbandonato, per unirsi a lei, la gloria del cielo; le si è donato completamente. Le ha offerto la sua vita, consacrandovi, senza alcun limite, la sua intelligenza, la sua volontà, la sua me­moria e tutte le operazioni del suo spirito. Le ha donato il suo cuore, votandosi a un amore ardente, fedele, unico, eterno. Le ha dato il suo corpo. L'ha ornata con le gemme più preziose. L'ha cir­condata delle sue cure più tenere e più vigili. L'ha resa grande, nobile, onorata. L'ha resa feconda. Le ha conservato una fedeltà inviolabile.

Nessuna unione è mai stata più stretta e indissolubile dell'unione di Cristo con la Chiesa. Nessun amore è mai stato così ardente e forte, nessuna dedizione più totale è mai regnata fra due sposi. Sulla croce, come in un letto nuziale, la loro unione mistica si è consu­mata. Da allora, da queste nozze, sono stati per sempre l'uno per l'altra. Nella prosperità e nella sventura, nelle persecuzioni e negli onori, nella gioia e nell'angoscia non sono mai stati separati. Quan­do Cristo è stato disprezzato, la Chiesa è stata disprezzata; quando Cristo è stato abbandonato, la Chiesa, sua sposa, ha conosciuto l'ab­bandono. Quando Cristo è stato amato e lodato, la Chiesa è stata nella gioia.

Così, ogni offesa fatta alla Chiesa ha colpito il suo sposo di­vino; tutte le prove che essa ha attraversato, le ha condivise con lui. Essi sono così strettamente uniti e legati, che i colpi diretti a Cristo, dall'empietà di ogni tempo, hanno sempre ferito la Chiesa, e il fango gettato sulla veste della Chiesa ha sempre macchiato la veste di Cristo.

La prima lacrima di Cristo, versata nella culla, era sufficiente a riscattare il mondo; il primo battito del suo cuore, nascendo, sarebbe stato un riscatto abbondante. Le fatiche, le sofferenze, le lacrime e il sangue versato che sono seguiti, sono l'amore di Cristo per la Chiesa. Egli la voleva arricchire con i tesori di Dio. Voleva rivestirla di porpora, e per tingere il suo mantello ha dato il suo sangue; voleva offrirle una collana di perle, e ha sparso le sue lacrime; voleva coronarla di gloria e di onore, e ha offerto la sua vita e la sua gloria per formare la sua corona.

L'amore non sembra poter andare più lontano, estendersi oltre la morte. Quando lo sposo ha dato la vita per la sua sposa, sem­bra non poterle offrire di più. Ma Cristo si è spinto più avanti. Quella vita che aveva sacrificato, se l'è ripresa. L'ha trasformata e, costringendosi con questa vita nuova in un tabernacolo angusto, rimane, per l'amore della sua Chiesa, fino alla fine dei tempi, in uno stato perpetuo di sacrificio.

E quando ogni giorno si immola per lei, continua a colmarla di doni. La illumina della luce di Dio. La riscalda con il suo amore, la nutre di un cibo delizioso che è il suo corpo divino.

Nelle lotte che essa deve sostenere, perché vive sulla terra, la fortifica, le fornisce le armi. Nelle angosce la consola e le prepara, per il giorno che non avrà fine, un trionfo definitivo, una completa glorificazione.

Se la Chiesa è la sposa di Cristo, è anche la sposa del prete. È la compagna che ha scelto. Nell'ora in cui doveva offrire il suo cuore e consacrare la sua vita, il chiamato da Cristo ha riflettuto sulla direzione in cui orientare il suo destino e, mosso dalla grazia, illuminato dall'Amore Infinito, ha scelto. Senza guardare la bontà che passa, la gioia che perisce e quelle felicità incerte che il tempo offre e che la morte finisce comunque per distruggere, andando ol­tre tutto questo, con un atto libero ha scelto la Chiesa come sua unica sposa; l'ha presa come sua eredità e si è donato totalmente a lei. Il diaconato è stato il giorno del fidanzamento, l'ordinazione sacerdote quello dell'unione completa. Ora, camminano insieme nella vita; divideranno le stesse gioie, soffriranno e si rallegreranno insieme; la gloria dell'uno sarà la gloria dell'altra: non potranno più essere separati.

È bella la Chiesa, con la sua giovinezza sempre nuova che sfida lo scorrere dei secoli. $ ricca dei tesori di Dio. Figlia di Dio, im­bevuta del sangue del Figlio, è nobile e grande. Il prete deve amarla con un amore che non mette confini; deve conservarla gelo­samente nella sua integrità, deve difenderla con ardore dai nemici che sempre la attaccano. La Chiesa deve essere la grande passione del prete. Per renderla libera, felice; per vederla risplendere dal centro della sua splendida unità su tutti gli uomini, il prete deve essere pronto ad ogni fatica, ad ogni sacrificio.

La Chiesa, nei suoi dogmi, nei suoi insegnamenti, nella sua gerarchia; le meraviglie di virtù, di purezza, di donazione, di genio che in venti secoli ha generato, meritano bene che ci si doni a lei, nella pienezza della propria anima e con tutto lo slancio del pro­prio cuore. La Chiesa rende ciò che le si dona, e lo rende migliore. Allarga le intelligenze, innalza gli spiriti, riscalda i cuori. Quando prende un uomo, lo trasforma, perfeziona le sue facoltà, allarga i suoi orizzonti, sviluppa le sue possibilità di essere e di conoscere. La Chiesa è, con Dio, la grande riformatrice dell'umanità; è la me­ravigliosa trasformatrice degli uomini, delle società, dei popoli.

Il prete deve amare questa sposa come l'ha amata Gesù: nelle fatiche, nelle persecuzioni, fino alla follia del sacrificio e della croce.



L'amore di Cristo per gli uomini

È stato la sua vita, la sua ragion d'essere. Insieme al desiderio appassionato della gloria del Padre, è stato l'aspirazione costante della sua anima, il battito del suo cuore, il principio e il fine delle sue azioni, delle sue parole, di ogni suo pensiero. Cristo è nato per gli uomini. E’ morto per loro e, nei trentatré anni che ha tra­scorso sulla terra fra la culla e il sepolcro, questo amore, come un fuoco divorante, non ha smesso un istante di consumarlo.

Se volessimo citare qualche fatto della vita di Cristo che ci parlasse di questo amore per gli uomini, dovremmo trascrivere tutto il Vangelo. Il Vangelo è il poema dell'amore. Nelle sue pagine ve­diamo il Verbo di Dio, disceso volontariamente dal trono della glo­ria, esiliato dal cielo che gli appartiene, umiliato, avvilito, nascosto sotto il velo della condizione umana, passare come un mendicante sulle strade del mondo. Lo vediamo disponibile alle fatiche più umili sopportare le sofferenze più grandi e, alla fine, offrirsi alla morte. E tutto questo, per conquistare l'uomo, per unirsi a lui in un abbraccio d'amore.

Se ci avviciniamo alla croce, se cogliamo dai suoi rami il frutto di sangue che vi è sospeso, se spremiamo questo frutto maturato al sole del dolore, l'amore ne esce a fiotti: non c'è altro che amore. È impossibile contemplare Cristo in croce senza essere convinti del suo amore per gli uomini.

Cristo ha detto che non ci può essere amore più grande di quello di chi offre la sua vita per i suoi fratelli. E questo amore grande, egli lo ha avuto per gli uomini. Prima, ha offerto la sua vita goc­cia a goccia, con preghiere incessanti, lunghe fatiche, con tre anni di viaggi apostolici, di predicazione, di privazione, di prove; con il dolore continuo che la moltitudine dei peccati dell'uomo segnava in lui. Infine, ha offerto questa vita pura e santa, con l'effusione totale del sangue, iniziata all'orto degli ulivi negli spasimi dell'ago­nia, proseguita al pretorio sotto i colpi della flagellazione e le spine di cui è stato incoronato, compiuta sul Calvario con i chiodi della crocifissione, ultimata sulla croce con il colpo di lancia che ci ha aperto il suo cuore.

Se non possiamo guardare la croce senza credere all'amore, non possiamo avvicinarci al tabernacolo senza sentirci immersi nelle sue onde di vita. L'amore tende invincibilmente all'unione. Il desiderio di unirsi agli uomini è stato continuo, pressante, in Gesù. Questo bisogno di unione è stato, forse, il grande tormento di Cristo e, per soddisfarlo, ha inventato mezzi sempre nuovi. Ha scavalcato ogni ostacolo, ha utilizzato tutta la sua potenza di Dio.

Dopo essersi unito all'uomo nella conformità della natura, ha rafforzato questa unione con una somiglianza perfetta di vita, di attività, di sentimenti e di stati. Ha voluto vivere nell'uomo per mezzo della grazia; ma non era ancora un'unione sufficiente. Nella sua sapienza e potenza ha costituito un'unione intima, reale, fino allora inaudita; una unione per mezzo della quale viene a vivere in noi spiritualmente, nella quale colma di vita ogni parte della nostra persona: l'unione dell'Eucaristia.

È il capolavoro dell'amore. Con più amore e dedizione di un padre che nutre i suoi figli con i frutti del suo lavoro, più tenero di una madre che dà il suo latte, Cristo si fa pane per nutrire lui stesso la sua creatura più amata. Penetra in noi e ci compenetra di sé. Vivifica, con la sua sostanza divina, la nostra sostanza. Si incorpora a noi. Diviene noi e noi diveniamo lui. Per ogni uomo Cristo si sacrifica e si dona, si consuma e si annienta.

L'amore degli uomini regna nel cuore del prete come in quello di Cristo, perché questi due cuori, uniti nello stesso amore, sono una cosa sola. Prima di tutto, il prete ama gli uomini perché Cristo li ha amati. Vuole sacrificarsi per loro, perché Cristo si è offerto in sacrificio per la loro salvezza. Il bisogno che ha di imitare in tutto il Signore lo porta con un'attrazione irresistibile verso gli uomini, amati a tal punto da Gesù.

Altri motivi ancora lo spingono ad amarli: è stato creato per amore, è stato creato per gli uomini. Dio è Amore: tutto ciò che viene da lui è amore, tutti gli esseri che crea sono creazioni del­l'amore. Ma particolarmente il prete è una creazione dell'amore. Dio ha tanto amato gli uomini che ha donato loro il suo Figlio unico; il Verbo ha tanto amato che si è incarnato e immolato per loro. E quando Cristo è stato nuovamente innalzato nella gloria, Dio, nel suo amore, ha creato il prete per gli uomini perché vi siano sem­pre con loro altri Gesù per istruirli, consolarli, assolverli e amarli.

Ecco perché il prete deve amare gli uomini: perché è ciò che è, un privilegiato da Dio, un altro Gesù, soltanto a causa loro e per loro. Il prete è stato donato agli uomini, gli uomini sono donati al prete. Da questa doppia oblazione devono nascere, nel cuore del prete, una dedizione, uno zelo, una tenerezza infiniti. È la creatura di Dio, che egli ama negli uomini; è l'oggetto dell'amore appassio­nato di Cristo, è il dono speciale della chiamata di Dio. Gli uomini sono la ragione delle grazie e dei privilegi che sono concessi al prete. Sono la causa della sua grandezza.

Gli uomini sono di Dio e il prete è degli uomini. A loro offre la sua fatica, i suoi sudori, le sue lacrime e il suo sangue. A loro l'opera della sua intelligenza, gli slanci della sua volontà; a loro la sua parola, il suo pensiero, la sua vita; a loro gli slanci della sua giovinezza, la forza della sua maturità, le ultime fatiche e gli ultimi sforzi della vecchiaia.

Cristo ha amato gli uomini e ha dato le prove del suo amore soffrendo per loro e unendosi ad essi a tal punto da farsi loro nutri­mento. Il prete segue il suo esempio, entra nelle sue disposizioni d'amore, fa propri i suoi sentimenti.

Soffre per gli uomini, e qualche volta con molto dolore; ma, nelle angosce del parto spirituale, si rallegra, perché sa che in que­sto modo offre a Dio dei figli nuovi. Si unisce a loro donandosi completamente, vivendo soltanto per essi, utilizzando ogni sua dote per renderli felici, per salvarli.

Questa salvezza degli uomini è la grande, l'unica preoccupazione del prete; conquistarne uno solo all'amore di Cristo è la sua gioia più grande. Questa passione per gli uomini si impadronisce di lui a tal punto che dimentica completamente se stesso. La sua felicità, la sua consolazione, è deporre ai piedi di Cristo il frutto delle sue fatiche, il trofeo d'amore delle sue vittorie di pace. Aprire il seno della misericordia a un peccatore; lavare il fango che copre le im­magini di Dio e, con un lavoro continuo, con ritocchi successivi, ricostruire la rassomiglianza divina; vedere dei capolavori di san­tità formarsi sotto le sue mani, ecco le gioie, le ebbrezze divine che l'amore degli uomini riserva al sacerdote di Gesù.

Bossuet dice in qualche luogo, parlando di Maria: « Maria è un Cristo iniziato ». Il prete, è un Cristo continuato. La sua vita è come un prolungamento, nei secoli, della vita terrena di Gesù. La sua parola non è solo un'eco, più o meno sonora, della parola di Cristo: è la parola stessa di Gesù che passa nella sua voce, perché il nostro Salvatore ha detto ai suoi sacerdoti: « Chi ascolta voi, ascolta me ». Se è così, se il prete è un Cristo, deve essere circondato di ri­spetto. Questo rispetto, questo onore dovuti al sigillo che lo segna, li incontra ancora in coloro che conservano una retta coscienza e l'ideale delle grandi cose. È anche spesso insultato, ed è per lui un onore e una gioia d'essere in questo simile al suo Maestro.

Ma il prete, rispetta abbastanza se stesso? Ha una idea com­pleta della sua dignità e della sua grandezza? Sa quanto deve a Dio di adorazione e di riconoscenza, quanto deve a Cristo di amore e di imitazione, quanto deve ai suoi fratelli di edificazione e di­sponibilità? È il desiderio di Cristo, vedere i suoi preti, consci della grandezza del loro ministero e insieme della propria debo­lezza, venire al suo Cuore e ricevervi la luce che rischiara e il calore che dà la vita.

Andate allora, sacerdoti di Cristo, alle sorgenti del Salvatore. Andate ad accostare le vostre labbra a quella piaga di amore da cui sgorga il sangue dei vostri calici. Andate a questo fuoco del­l'Amore Infinito: infiammate il vostro cuore, riempitevi di amore e spargetelo sul mondo. Cristo ha portato il fuoco sulla terra: vuole che accenda e bruci, ed è compito vostro, sacerdoti del Signore, attizzare queste fiamme e accendere il mondo di amore.



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