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IL CELIBATO ECCLESIASTICO

Ultimo Aggiornamento: 23/09/2009 11:36
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23/09/2009 11:32

Dopo questi presupposti necessari, cioè di concetto e di metodo di ricerca e di esposizione, seguiamo in primo luogo lo sviluppo della continenza degli ecclesiastici nella Chiesa Latina.

1. Il Concilio di Elvira

Delle testimonianze di vario genere che riguardano questo tema si deve invocare per prima quella del Concilio di Elvira. Nel primo decennio del secolo IV dopo Cristo si sono radunati vescovi e sacerdoti della Chiesa di Spagna nel centro diocesano di Elvira presso Granada per sottoporre ad una regolamentazione comune le condizioni ecclesiastiche della Spagna appartenente alla parte occidentale dell'Impero Romano, la quale sotto il Cesare Costanzo godeva di una pace religiosa relativamente buona. Nel periodo precedente, durante le persecuzioni dei cristiani, si erano verificati degli abusi in più di un settore della vita cristiana che aveva subito dei danni seri nell'osservanza della disciplina ecclesiastica. In 81 canoni conciliari si emanarono dei provvedimenti riguardo a tutti i campi più importanti della vita ecclesiastica che richiedevano dei chiarimenti e dei rinnovamenti, allo scopo di riaffermare la disciplina antica e di sancire le nuove norme resesi necessarie.



Il can. 33 di questo Concilio contiene dunque la, già nota, prima legge sul celibato. Sotto la rubrica: " Sui vescovi e i ministri (dell'altare) che devono cioè essere continenti dalle loro consorti " sta il testo dispositivo seguente: " Si è d'accordo sul divieto completo che vale per i vescovi, i sacerdoti e i diaconi, ossia per tutti i chierici che sono impegnati nel servizio dell'altare, che devono astenersi dalle loro mogli e non generare figli; chi ha fatto questo deve essere escluso dallo stato clericale ". Già il canone 27 aveva insistito sulla proibizione che donne estranee abitassero insieme con i vescovi ed altri ecclesiastici. Essi potevano tenere con sé solo una sorella o una figlia consacrata vergine, ma per nessun motivo una donna estranea.

Da questi primi importanti testi legali si deve dedurre quanto segue: molti, se non la maggior parte, dei chierici maggiori della Chiesa spagnola di allora erano viri probati vale a dire uomini sposati prima della loro ordinazione a diaconi, sacerdoti, vescovi. Essi pero erano obbligati, dopo aver ricevuto l'ordine sacro, ad una completa rinuncia di ogni ulteriore uso del matrimonio, di osservare cioè completa continenza. Alla luce delle finalità del Concilio di Elvira, del diritto e della storia del diritto nel grande Impero Romano di cultura giuridica che dominava in quell'epoca anche nella Spagna, non è possibile vedere nel canone 33 (assieme con il canone 27) una legge nuova. Esso appare invece chiaramente quale reazione contro una non-osservanza ormai largamente invalsa di un obbligo tradizionale ben noto, al quale ora si annette anche la sanzione: o osservanza dell'obbligo assunto o rinuncia all'ufficio clericale. Una novità in questo campo con una tale generale retroattività della sanzione contro diritti già ben acquisiti dal tempo dell'ordinazione avrebbe causato una tempesta di proteste contro una tale evidente violazione di un diritto in un mondo tutt'altro che digiuno di diritto. Ciò ha percepito chiaramente già Pio XI quando, nella sua Enciclica sul sacerdozio, ha affermato che questa legge scritta suppone una prassi precedente.

2. La coscienza della tradizione del celibato nei concili africani

Dopo questa legge importante di Elvira dobbiamo considerarne subito un'altra, ancora più importante per la nostra questione e che incontreremo ancora più tardi quale punto di riferimento cruciale. Si tratta di una dichiarazione vincolante, che è stata fatta nel secondo Concilio Africano dell'anno 390 e ripetuta nei successivi per essere poi inserita nel Codice dei canoni della Chiesa Africana (e nei canoni in causa Apiarii), formalizzato nell'importante Concilio dell'anno 419. Sotto la rubrica: "Che la castità dei Leviti e sacerdoti deve essere custodita" il testo recita: "Il vescovo Epigonio disse: Siccome nel concilio precedente è stato trattato della continenza e castità, i tre gradi i quali per motivo dell'ordinazione sono legati ad un certo obbligo di castità - vale a dire il vescovo, il sacerdote e il diacono - devono essere più completamente istruiti sulla conservazione della castità. Il vescovo Genetlio continuo: "Come è stato detto sopra, conviene che i sacri presuli, i sacerdoti di Dio e i Leviti, ossia tutti coloro che servono ai divini sacramenti, siano continenti in tutto per cui possano senza difficoltà ottenere ciò che chiedono dal Signore; affinché così anche noi custodiamo ciò che hanno insegnato gli apostoli e che tutto il passato ha conservato ". " A ciò i vescovi risposero unanimemente: Noi tutti siamo d'accordo che vescovi, sacerdoti e diaconi, custodi della castità, si astengano anch'essi stessi dalle loro mogli, affinché in tutto e da tutti coloro che servono all'altare sia conservata la castità".

Da questa dichiarazione dei Concili di Cartagine risulta che anche nella Chiesa Africana una gran parte, se non la maggioranza, del clero superiore era sposato prima dell'ordinazione e che dopo di essa tutti dovevano vivere in continenza. Qui un tale obbligo viene attribuito espressamente all'ordine sacro ricevuto ed al servizio dell'altare. Inoltre lo si riporta esplicitamente ad un insegnamento degli apostoli e all'osservanza praticata in tutto il passato (antiquitas) e la si inculca con la conferma decisa unanimemente da tutto l'episcopato Africano.

Da una controversia con Roma, che fu trattata anche in queste assemblee conciliari Africane, si può ora conoscere quanto cosciente e viva fosse in questa Chiesa la tradizione della Chiesa antica. Il sacerdote Apiario era stato scomunicato dal suo vescovo.

Egli appellò a Roma, ove si accetto questo ricorso riferendosi ad un canone di Nicea il quale avrebbe autorizzato tali appelli. I vescovi Africani si dichiararono solidali con il loro collega affermando di non conoscere un tale canone niceno. In varie adunanze di questi vescovi, alle quali parteciparono anche i delegati di Roma, si discusse questa questione di cui ci sono ancora conservati i canoni in causa Apiarii. Gli Africani asserirono di non avere nella loro lista dei canoni niceni una siffatta disposizione e inviarono legati ad Alessandria, Antiochia e Costantinopoli per avere delle informazioni a tale scopo. Ma anche in questi centri orientali non si sapeva nulla di un tale canone niceno. L'errore da parte di Roma si spiego poi con il fatto che là ai canoni di Nicea erano stati aggiunti quelli del Concilio di Sardica, tenutosi nell'anno 342, di nuovo sulla questione Ariana e sotto lo stesso presidente che aveva presieduto anche il Concilio di Nicea, Hosio di Cordoba. Per questo motivo nell'archivio di Roma i canoni disciplinari di Sardica erano stati aggiunti a quelli di Nicea e considerati poi tutti come niceni. Ora a Sardica si era realmente deciso questo canone (can. 3). La Chiesa Africana non ebbe difficoltà di provare a Papa Zosimo questa erronea attribuzione al Concilio di Nicea.

Nella seduta principale che tratto tale questione e che si tenne il 25 maggio del 419 il vescovo Aurelio di Cartagine fungeva da Presidente. Vi partecipavano il Legato di Roma, Faustino di Fermo, con due presbiteri Romani, Filippo ed Azello, poi 240 vescovi Africani tra cui Agostino di Ippona ed Alipio di Tagaste. Il Presidente introdusse le discussioni con queste parole: "Abbiamo qui davanti a noi gli esemplari delle disposizioni che i nostri Padri hanno portato con sé da Nicea. Conserviamo la loro forma invariata e custodiamo anche le successive delibere da noi sottoscritte". Segue il simbolo della fede nella Santissima Trinità pronunciato da tutti i padri conciliari.

Al terzo posto è stato ripetuto il testo riguardante la continenza degli ecclesiastici del Concilio del 390, sopra riferito, che allora era stato recitato da Epigonio e Genetlio e che viene ora pronunciato da Aurelio. Il delegato papale, Faustino, sotto la rubrica: "Dei gradi degli ordini sacri che devono astenersi dalle loro mogli", aggiunse: "Noi siamo d'accordo che vescovo, sacerdote e diacono, vale a dire tutti coloro che toccano i sacramenti quali custodi della castità devono astenersi dalle loro spose". A ciò tutti i vescovi risposero: "Siamo d'accordo che in tutti e da tutti coloro che servono all'altare deve essere custodita la castità".

Tra le norme successive che da tutto il patrimonio tradizionale della Chiesa Africana vennero rilette o nuovamente decise si trova al 25° posto il testo detto dal presidente Aurelio: "Noi, cari fratelli, aggiungiamo qui ancora: quando è stato riferito riguardo alla incontinenza dalle proprie mogli da parte di alcuni chierici che erano solo lettori, è stato deciso ciò che anche in vari altri concili è stato confermato: i suddiaconi, che toccano i santi misteri ed i diaconi, i sacerdoti ed i vescovi devono, secondo le norme per loro vigenti, astenersi anche dalle proprie consorti, cosicché sono da tenersi come se non ne avessero; se non si attengono a questo, devono essere allontanati dal loro servizio ecclesiastico. Gli altri chierici non ne sono tenuti se non in età più matura. Dopo di ciò tutto il Concilio rispose: ciò che vostra santità ha detto in maniera giusta e ciò che è santo e che piace a Dio noi confermiamo".

Abbiamo riportato queste testimonianze della Chiesa Africana della fine del secolo IV e dell'inizio del secolo V così dettagliatamente a causa della loro importanza fondamentale. Da questi testi risulta una chiara coscienza di una tradizione che si basava non solo su una persuasione generale, che da nessuno veniva messa in dubbio, ma anche su documenti ben conservati. Si trovavano in quegli anni nell'archivio della Chiesa Africana ancora gli atti originali che i Padri avevano portato con sé dal Concilio Niceno. Norme contrastanti il celibato ecclesiastico così come risulta qui affermato sarebbero state respinte nello stesso modo come l'errore o la svista della Chiesa Romana riguardo ai canoni di Sardica attribuiti a Nicea.

Da tutto questo risulta anche la coscienza di una tradizione comune della Chiesa Universale, le varie parti della quale sono in viva comunione fra di loro. ciò che dalla Chiesa Africana veniva tanto esplicitamente e ripetutamente affermato riguardo all'origine apostolica ed all'osservanza, tramandata dall'antichità, della continenza degli ecclesiastici insieme con le sanzioni contro i contravventori, non sarebbe certamente stato accettato tanto generalmente e pacificamente se non avesse avuto l'avallo di un fatto generalmente noto. Abbiamo, anzi, per questo perfino delle testimonianze esplicite anche da parte della Chiesa Orientale, sulle quali torneremo ancora.

3. La testimonianza della Chiesa di Roma

Nel contesto di questa testimonianza Africana sul celibato abbiamo già ascoltato una voce assai autorevole da parte di Roma: il Legato Pontificio Faustino ha manifestato a Cartagine la piena concordanza di Roma su questa questione, ivi solo incidentalmente sollevata.

Roma infatti aveva già sotto Papa Siricio inviato una lettera ai vescovi dell'Africa, nella quale si rendevano loro note le decisioni del sinodo romano dell'anno 386 nelle quali si inculcavano nuovamente alcune importanti disposizioni apostoliche. Questa lettera era stata comunicata durante il Concilio di Telepte dell'anno 418. L'ultima parte di essa tratta (can. 9) precisamente della continenza degli ecclesiastici.

Con questo documento veniamo ad un secondo gruppo di testimonianze sul celibato, il quale ha senza dubbio il peso più forte non solo per la coscienza circa la tradizione osservata nella Chiesa Universale, ma anche per lo sviluppo ulteriore e l'osservanza del celibato clericale. Esse sono contenute nelle disposizioni dei Romani Pontefici a tale riguardo.

Un'affermazione generale sull'importanza della posizione di Roma per ogni questione, e perciò anche per quella sul celibato, ci viene da sant'Ireneo il quale, essendo discepolo di san Policarpo, era collegato con la tradizione giovannea, che egli tramandava, come vescovo di Lione dall'anno 178, anche alla Chiesa d'Europa. Se nella sua opera principale Contro le eresie dice che la tradizione apostolica viene conservata nella Chiesa di Roma che è stata fondata dagli apostoli Pietro e Paolo, per cui tutte le altre Chiese debbono convenire con essa, possiamo ben dire che ciò vale anche per la tradizione della continenza degli ecclesiastici.

Le prime testimonianze esplicite a questo riguardo ci sono state date dai due Papi: Siricio ed Innocenzo I.

Al predecessore del primo, Papa Damaso, il vescovo Himerio di Tarragona aveva posto alcune questioni alle quali solo il successore, cioè Siricio, ha dato la risposta. Alla domanda riguardante l'obbligo della continenza dei chierici maggiori il Papa risponde nella lettera "Directa" del 385 dicendo che i molti sacerdoti e i diaconi che anche dopo l'ordinazione generano dei bambini agiscono contro una legge irrinunciabile che lega i chierici maggiori dall'inizio della Chiesa. Il loro appello all'Antico Testamento, quando i sacerdoti e leviti potevano usare il loro matrimonio fuori del tempo del loro servizio nel Tempio, viene confutato dal Nuovo Testamento, nel quale i chierici maggiori devono prestare il loro sacro servizio ogni giorno, e pertanto dal giorno della loro ordinazione devono vivere continuamente nella continenza.

Una seconda lettera dello stesso Pontefice riguardante la stessa questione è quella già menzionata sopra, inviata ai vescovi Africani nel 386, nella quale vengono comunicate le deliberazioni di un sinodo romano. Questa lettera è particolarmente illuminante per il celibato. Il Papa dice, anzitutto, che i punti trattati nel sinodo non riguardano obblighi nuovi ma sono piuttosto punti della fede e della disciplina che, a causa della pigrizia e dell'inerzia di alcuni, sono stati trascurati. Essi devono essere riattivati, trattandosi di disposizioni dei padri apostolici secondo le parole della Sacra Scrittura: "State saldi e osservate le nostre tradizioni che avete ricevute sia a viva voce sia per iscritto" (2 Ts 2,15).

Il Concilio Romano è dunque ben cosciente che anche tradizioni ricevute solo per trasmissione orale sono vincolanti. Tenendo conto del giudizio divino, tutti i vescovi cattolici devono dunque osservare le seguenti nove disposizioni.

La nona viene esposta diffusamente: i sacerdoti ed i leviti non devono aver rapporti sessuali con le loro spose essendo essi occupati quotidianamente nel loro ministero sacerdotale. San Paolo ha scritto ai Corinzi di astenersi per dedicarsi alla preghiera. Se ai laici si impone la continenza affinché vengano esauditi nella loro preghiera, quanto più il sacerdote deve essere pronto in ogni momento ad offrire in castità sicura il sacrificio e ad amministrare il battesimo. Dopo alcune altre considerazioni ascetiche, dagli 80 vescovi radunati viene - qui per la prima volta per quanto io sappia - respinta in Occidente la obiezione, ancor oggi viva, che voleva provare la continuazione dell'uso del matrimonio con le parole dell'apostolo san Paolo secondo cui deve essere stato sposato una volta sola chi è candidato all'ordinazione sacra. Ciò non vuol dire, dicono i vescovi, che possa continuare a vivere nella concupiscenza di generare figli, ma ciò è stato detto a favore della continenza futura. Con ciò veniamo edotti ufficialmente - e lo si ripeterà poi continuamente - che il bisogno di risposarsi oppure il matrimonio con una vedova non danno la garanzia per una sicura continenza futura.

La lettera si conclude con una pressante esortazione di ubbidire a queste disposizioni che sono sostenute dalla tradizione.

Il successivo Romano Pontefice che si è occupato ampiamente della continenza degli ecclesiastici è Innocenzo I (401-417). Una lettera, che veniva attribuita già a Damaso e poi a Siricio, è probabilmente sua. A motivo di una domanda rivoltagli dai vescovi della Gallia, in un sinodo romano si esaminarono una serie di questioni pratiche e si comunicarono i risultati o le risposte nella lettera "Dominus inter" dell'inizio del secolo IV. La terza delle 16 domande riguarda la "castità e purezza dei sacerdoti". Nell'introduzione il Papa si rende conto che "molti vescovi in varie chiese particolari si sono affrettati in umana temerità di cambiare le tradizioni dei padri per cui sono incappati nel buio dell'eresia preferendo così l'onore presso gli uomini ai meriti presso Dio".

Siccome il richiedente cerca di avere dall'autorità della Sede Apostolica la conoscenza sia delle leggi che delle tradizioni, spinto non da curiosità ma dal desiderio di sicurezza nella fede, gli si comunica, con un linguaggio semplice ma di contenuto sicuro, ciò che deve sapere per poter correggere tutte le differenze che l'arroganza umana ha causato.

Alla terza questione proposta si dà poi il seguente responso: "In primo luogo è stato deciso riguardo ai vescovi, sacerdoti e diaconi che debbono partecipare ai sacrifici divini, attraverso le mani dei quali viene comunicata la grazia del battesimo e offerto il Corpo di Cristo, che vengono costretti non solo da noi ma dalle scritture divine alla castità: ai quali anche i padri hanno ingiunto di conservare la continenza corporale". Segue poi una motivazione ampia di tale comandamento soprattutto dalla Sacra Scrittura che oggi non è meno degna di segnalazione. Concludendo si dice che anche solo per la venerazione dovuta alla religione non si deve affidare il mistero di Dio ai disubbidienti.

Tre altre lettere dello stesso Pontefice ripetono solo i concetti del suo predecessore Siricio, ai quali egli si associa pienamente: la lettera a Victricius di Rouen del 15 febbraio 404; quella indirizzata a Exsuperius di Tolosa del 20 febbraio 405 e quella ai vescovi Massimo e Severo della Calabria di data incerta.

È importante notare che sempre si chiedono qui le sanzioni contro gli impenitenti: essi devono essere allontanati dal ministero clericale.

I Romani Pontefici si impegnarono anche in seguito a conservare la stretta osservanza della tradizionale continenza dei chierici. Ci basta ricordare le testimonianze di due tra i più importanti rappresentanti di questi secoli.

Leone Magno scrive a questo riguardo nel 456 al vescovo Rustico di Narbonne: "La legge della continenza è la stessa per i ministri dell'altare (diaconi) come per i sacerdoti e i vescovi. Quando erano ancora laici e lettori era loro permesso di sposarsi e di generare figli. Ma assurgendo ai gradi suddetti è cominciato per loro il non essere più lecito ciò che lo era prima. Affinché perciò il matrimonio carnale diventasse un matrimonio spirituale è necessario che le spose di prima non già si mandassero via ma che si avessero come se non le avessero, affinché così rimanesse salvo l'amore coniugale ma cessasse allo stesso tempo anche l'uso del matrimonio".

Con ciò, questo Papa conferma anche l'altro punto collegato con la continenza dogli sposati, che nella legislazione precedente viene anche menzionato, che cioè le spose dei chierici maggiori dopo l'ordinazione dei mariti dovevano essere mantenute dalla Chiesa. Una coabitazione ulteriore con i mariti, che ora erano tenuti alla continenza, generalmente non viene tollerata per il pericolo di venir meno all'obbligo assunto. Essa è solo permessa ove tale pericolo è escluso. Ogni testo contro l'abbandono delle spose è da intendersi in questo senso come risulta chiaramente da questo brano di Leone Magno.

Bisogna inoltre dire che già questo papa ha esteso l'obbligo di continenza dopo l'ordinazione sacra anche ai suddiaconi, cosa che finora non era chiara a causa del dubbio se l'ordine suddiaconale appartenesse o no agli ordini maggiori.

Gregorio Magno (590-604) fa capire, almeno indirettamente nelle sue lettere, che la continenza degli ecclesiastici veniva sostanzialmente osservata nella Chiesa Occidentale. Egli dispose semplicemente che anche l'ordinazione a saddiacono portasse con sé, definitivamente e per tutti, l'obbligo della continenza perfetta. Inoltre Si impegnava ripetutamente, affinché la convivenza tra chierici maggiori e donne a ciò non autorizzate rimanesse proibita a tutti i costi e venisse perciò impedita. Siccome le spose non appartenevano normalmente alla categoria delle autorizzate, egli dava con ciò una significativa interpretazione al rispettivo canone 3 del Concilio di Nicea.

Da quanto fin qui detto si può dedurre una prima constatazione assai importante: nella Chiesa Occidentale, ossia in Europa e nelle regioni dell'Africa che appartenevano al Patriarcato di Roma, l'unità di fede era e rimaneva sempre viva, insieme anche all'unità di disciplina, cosa che si manifesta attraverso una comunicazione più o meno intensa, ma mai interrotta tra le varie Chiese regionali. così rappresentanti di altre regioni erano accettati nei Concili regionali. Ad Elvira, per esempio, era presente tra gli altri il sacerdote Eutyches quale rappresentante di Cartagine e al Concilio di Cartagine del 418, che tratto la questione dei Pelagiani, erano presenti anche vescovi della Spagna.

Una tale coscienza di unità e della sostanziale uniformità la troviamo affermata espressamente negli atti conciliari del tempo. Essa era pero attuata e tradotta in pratica dal principio di unità, il primato romano, il quale divento sempre più operativo dal tempo in cui finirono le persecuzioni. Quest'opera si manifesta soprattutto nelle questioni tanto essenziali della fede per tutta la Chiesa Universale. Ma la possiamo anche costatare nelle materie della disciplina soprattutto nell'ambiente del patriarcato romano.

Una prova di prim'ordine di questa unità disciplinare è presente proprio nel problema della continenza del clero maggiore, di cui ci stiamo occupando. Accanto alla prassi conciliare, che opera sin dall'inizio efficacemente per la sua affermazione e conservazione, emerge l'opera orientatrice e la cura conservatrice universale dei Romani Pontefici, cominciando da Papa Siricio. Se il celibato ecclesiastico, rettamente inteso, si è conservato nella sua coscienza di origine e di tradizione antica in tutta la sua chiarezza e nonostante tutte le difficoltà sempre e dappertutto risorgenti, lo dobbiamo senza dubbio alla sollecitudine ininterrotta dei Papi. Un'altra prova a contrario di questa affermazione ci darà la storia del celibato nella Chiesa Orientale.

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